Narrativa Minerva collana diretta da Giacomo Battara
pusher
PUSHER di Giacomo Battara Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni Redazione: Valentina Zaffagnini Grafica e impaginazione: Alessandro Battara © 2009 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Edizione 2009 ISBN:978-88-7381-262-3
Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
Giacomo Battara
pusher Minerva Edizioni
uno Nanni era un assassino, reo confesso. Aveva bipartito il cranio del toscano, fin giù alla base del collo, con un fendente d’ascia vibrato dall’alto verso il basso con precisione millimetrica. Quando l’ascia interruppe la sua corsa omicida, Nanni, quasi estasiato, ammirò la plasticità dell’immagine che lui stesso aveva creato. Il corpo mutilato del toscano restò in piedi per qualche secondo con le braccia protese discretamente verso l’alto e le gambe in posizione di marcia – forse era alla ricerca di un luogo in cui nascondersi, o forse tentava la fuga? – quasi fosse stato sorpreso dall’accaduto, prima di crollare rovinosamente sul pavimento sconnesso e lercio della cantina sociale in cui si mesceva vino a fiumi. Il cervello era scoppiato per la violenza del colpo subìto e alcune parti di materiale cerebrale erano schizzate sulle pareti umide e scrostate dell’ampia sala, in cui erano allineati lunghi tavoli di legno scuro e sul pavimento. Materiale umano schifoso da vedersi, ampiamente striato di rosso scuro su uno sfondo grigiastro e colloso, vista la presa che aveva fatto sulle pareti intorno. Il salone della cantina, cupo, con la volta tondeggiante e non troppo alta, era una specie di bunker, dotato di un’unica porta di accesso e di due finestrelle poste ai lati della porta, da cui raramente potevano entrare i caldi raggi del sole. I vecchi del paese raccontavano che durante la seconda guerra era stato un rifugio sicuro per gli 5
Giacomo Battara abitanti, dato che li proteggeva dalle frequenti incursioni aeree, soprattutto notturne, perché s’inabissava giù di qualche metro rispetto al livello della stradina che s’inerpicava verso la cima del monte seguendo, quasi accarezzando, la sinuosità dei suoi fianchi. Quindi non c’era verso di individuarlo, specialmente dall’alto. In seguito era stato riconvertito, per l’appunto, in cantina sociale. In quel bunker, all’odore tipico del vino versato in abbondanza dentro caraffe incrostate e a terra senza troppi riguardi, si mescolava il fetore del trinciato forte consumato dalle pipe dei suoi abituali frequentatori e il fumo acre delle sigarette fatte a mano. Si potevano anche udire le voci dei soliti uomini, per lo più impegnati a giocare con carte spesse come cartoni e appiccicose, narrare di improbabili storie della loro vita e bestemmiare senza alcun ritegno per il punto perso, naturalmente addebitando la colpa al proprio compagno di gioco. Eppure la domenica non mancavano mai alla funzione delle undici, e pregavano e cantavano gli inni introdotti dal suono dell’organo dalle lunghe canne metalliche. Nonostante ciascuno di loro fosse conscio d’ascoltare le gigantesche fandonie dell’altro, fingeva di credere ad ogni parola udita, mimando nel frattempo stupore o sgomento, dipende. Insomma le medesime cose che si trascinavano accompagnate da una stanca ritualità, e non importava se fosse un giorno qualunque o festivo, se si escludeva la domenica. Ma in quel pomeriggio novembrino di mezza settimana, le cose, per una volta, andarono diversamente, ed i presenti dovettero fare i conti con quell’orrenda visione che esplose in una miriade di schizzi di mate6
pusher riale umano rintracciabili ovunque, fin su al soffitto e perfino sulle loro giacche sdrucite. I poveri testimoni dovettero cimentarsi anche con un fontanazzo di sangue che sgorgava a flutti dal corpo amputato dell’uomo e stentava a seguire il ritmo degli ultimi battiti del cuore ormai stanco di pompare. Non un urlo, non un rumore, e i testimoni si trovarono in balia di uno sgomento mai provato che annichilì ogni loro reazione. Così, restarono immobili e gelidi come statue di marmo di fronte alla scena cui avevano assistito. Anche Nanni era fermo, immobile, con l’ascia ben salda nella potente mano, la lama tagliente e insanguinata, e lo sguardo fisso su ciò che era rimasto dell’uomo con il capo tranciato a mezzo. Eppure il toscano era stato avvisato dai suoi amici o presunti tali. Ma lui, un uomo tarchiato e piccoletto, non se ne dava cura e continuava a canzonare e a provocare come poteva chi decideva di considerare la sua prossima vittima. Due o tre mesi e poi cambiava obiettivo. Per sua disgrazia decise di prendersela con gli affetti di Nanni, uomo schivo e taciturno, generoso e forte, che viveva appartato in una casupola che in qualche modo si reggeva in piedi all’estremità del paese, al limitare del grande bosco in cui trascorreva la maggior parte del suo tempo per fare legna e piantare alberi, seguendo le indicazioni che annualmente gli venivano date dall’autorità locale, come lui amava definirla. Il toscano era un meccanico d’auto niente male, capitato in quel posto non si sa come di preciso. 7
Giacomo Battara Lui, un giorno, forse preda dei fumi dell’alcol, aveva sussurrato che era per questione di femmine. Già, perché si dava arie di impenitente incantatore di donne, preferibilmente mature e per lo più maritate e, come si diceva, con il vizio di insopportabile canzonatore. Nonostante fosse stato ripetutamente avvisato che con il mondo di Nanni era meglio lasciar perdere, non si era per niente persuaso che stesse scherzando con il fuoco, al punto che il cantiniere, un giorno in cui si trovò a tu per tu con lui, prendendolo da parte con una scusa qualsiasi, l’aveva pregato, quasi implorato di non esagerare: Ehi toscano, lasciare perdere il Nanni, non è pane per i tuoi denti, gli ha detto. Ma niente, le sue parole erano cadute nel vuoto e il cantiniere, uomo navigato e abituato a vederne di tutti i colori, in quel giorno di sangue per poco non fu preso da un colpo nel vedere ciò che era rimasto dell’uomo che aveva messo sul chi va là e tutti quei pezzetti variopinti di cervello sparsi dappertutto. Nanni, come se nulla fosse accaduto, senza provare alcun sentimento percettibile di fronte a tale orrore, con voce assai calma disse semplicemente: Scusate. Poi depose il suo attrezzo grondante sangue rosso cupo e grumoso sul bancone e si diresse deciso verso la piccola caserma dei carabinieri, situata a ridosso della strada comunale dislocata a poche centinaia di metri dalla cantina, in una bella piazzetta che dominava una parte della vallata e il campo sportivo. La porta era spalancata nonostante il freddo pungente, come sempre. Nanni la varcò deciso e disse all’appuntato che aveva urgente bisogno di parlare 8
pusher al maresciallo Alberati. In attesa del maresciallo si appoggiò alla parete, per nulla agitato, e puntò lo sguardo verso il soffitto della stanza. Non aveva voglia di sedersi perché lui preferiva la posizione eretta, soprattutto se c’erano questioni importanti da affrontare. Dopo una manciata di minuti venne raggiunto dal maresciallo Alberati. Oilà Nanni che cosa ci fai qui?, ha detto. Ho copato il toscano, là, in cantina. Per robe mie, molto personali, ha risposto. Come?!, ha detto. Sì, maresciallo, hai capito bene. Ho copato il toscano!, ha risposto. Il maresciallo lo fissò con uno sguardo inebetito a causa della notizia, ma ben presto si rese conto che aveva di fronte proprio Nanni, uno di poche parole e per giunta incapace di mentire. Allora si spaventò e prese a chiamare a perdifiato l’appuntato: Ricciotti, Ricciotti, vieni qua che è scoppiato un casino, corri per dio! L’appuntato arrivò trafelato. Era giovane, nativo del luogo, pallido e grassoccio, l’esatta copia di suo padre che Nanni conosceva bene, perennemente teso come un arco o imbarazzato, assolutamente incapace di torcere un capello a chicchessia. Nanni posava lo sguardo alternativamente ora sull’uno ora sull’altro e rimase sconcertato dalla scena dato che i due militari erano molto agitati, confabulavano, facevano qualche passo prima in avanti e poi indietro e poi si bloccavano d’improvviso, come in un balletto che lui non conosceva e che gli appariva senza senso. Dopo qualche istante riprendevano la marcia e tornavano a confabulare come se doves9
Giacomo Battara sero preparare chissà quale piano per catturare un pericoloso criminale. Invece l’assassino l’avevano di fronte. In fondo, pensò Nanni, l’unica persona che avesse titolo per agitarsi era soltanto lui, perché loro, con quella storiaccia, non c’entravano niente.
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due Saura era una donna bella e Nanni se lo ripeteva sempre. Anche gli uomini del paese sostenevano che era davvero una femmina attraente, ma Nanni non era questo che voleva dire perché per lui Saura era soprattutto bella quando guardava e sorrideva, quando lavorava, quando camminava, quando abbracciava sua figlia. Ma a questo gli altri uomini non pensavano, limitandosi a posare lo sguardo sulle sue tette sode, sulla linea precisa dei fianchi stretti o sulle labbra carnose. Sognavano di portarsela a letto; ecco, a questo pensavano soprattutto e qualche volta s’interrogavano tra una bevuta e un tiro di pipa: Dimmi un po’, che cosa faresti a Saura se per un grande colpo di fortuna te la trovassi a letto? Saura era alta e aveva una capigliatura folta e nera. La sua pelle era bianca come la luna quando risplendeva nelle notti asciutte e serene d’agosto, in mezzo a un cielo stellato. Anche i suoi occhi erano neri, grandi e avevano una forma un poco allungata che le conferivano un che di misterioso e di esotico particolarmente affascinante. È vero, il suo seno era generoso e, come diceva Nanni, buono per nutrire creature. Si muoveva con sorprendente agilità perché le sue gambe dritte, lunghe, nervose e muscolose scattavano come molle bruciando metri, chilometri in un incessante via vai. Saura aveva una figlia, Lina, due gocce d’acqua. Nanni spesso la sognava di notte, ma quando si destava non riusciva a ricordare nulla del sogno appena concluso, mentre il suo volto, riflesso 11
Giacomo Battara sullo specchio dai bordi giallognoli appeso ad un chiodo della parete del bagno vicino al lavandino, appariva ben steso, appagato. Segno inequivocabile, diceva rassicurandosi, che il sogno era stato un buon sogno. In realtà la sognava anche di giorno, quando lavorava nel bosco mentre menava colpi tremendi sul corpo degli alberi destinati alla segheria che si trovava a qualche chilometro più giù, a valle. Avrebbe voluto immaginarsela nuda, ma ne era incapace e di questo si rattristava molto. Questo desiderio corrispondeva per lui ad un’esigenza di verità. Perché, ripeteva a se stesso e qualche volta al prete, solo quando si è nudi si è veramente veri. Che cosa volesse dire nessuno lo sa perché nessuno glielo ha mai chiesto, nemmeno il prete. Ma è certo, conoscendolo, che il suo pensiero non presentasse nulla di erotico. Se durante la giornata la sua vista incrociava la figura diritta e asciutta di Saura, anche da lontano, si bloccava sul posto e l’osservava con timida discrezione, provando quell’imbarazzo che nasce dall’emozione, come qualche volta succede di fronte a un quadro che sa incantare l’osservatore attento e particolarmente sensibile. Saura tirava avanti lavorando nella sua bottega dove vendeva un po’ di tutto: latte fresco di giornata, uova di giornata, formaggio prodotto dai casari del luogo, olio, pane ma solo se prenotato il giorno prima perché il forno era nel paese più in basso e verdura di sua produzione. Saura possedeva, accanto alla casa in cui viveva con Lina, un fazzoletto di terra in cui coltivava le verdure di stagione con grande dedizione subito dopo la prima chiusura della 12
pusher bottega che avveniva intorno all’una, senza badare se fosse estate oppure inverno. Lina frequentava la terza elementare. Dopo la scuola raggiungeva la mamma in bottega e mentre le raccontava di com’era andata la giornata di studi e che cosa aveva mangiato a pranzo, l’aiutava a sistemare il banco e gli scaffali, perché di cose da sistemare ce ne erano sempre tante. Verso le sei chiudevano il negozio e, mano nella mano, si dirigevano verso casa. Molto spesso le si udivano canticchiare qualche filastrocca antica. Saura era orgogliosa di sua figlia. La scuola di Lina era nel paese di sotto che si stendeva a ridosso del lago. Alle otto di mattina i quattro bambini che abitavano nel paese di sopra si radunavano accanto all’ingresso della chiesa, in attesa di essere trasportati a scuola da Ettore che pilotava con grande prudenza uno scuolabus un po’ scalcagnato nell’aspetto, ma ancora in possesso di un cuore generoso e potente. Terminata la scuola li riportava di sopra lasciando, senza fretta, i quattro passeggeri dove li aveva imbarcati la mattina. Prima di ripartire si curava di verificare chi fosse venuto a prendere i bambini. Lui conosceva tutte le famiglie del paese che in verità contava poche centinaia di anime. Sapeva che Lina si sarebbe incamminata da sola verso la bottega della madre che distava a poca distanza dalla chiesa, per questo riusciva a seguirla con il suo occhio attento fino a che giungeva a destinazione, poi la salutava con un colpetto di clacson e lei rispondeva con un cenno rapido e quasi timoroso della mano. Madre e figlia vivevano sole. Nessun uomo si era curato di loro e Lina non aveva mai conosciuto il 13
Giacomo Battara padre. Fino a quel momento non ne aveva sentito la mancanza. Saura neppure ricordava il volto dell’uomo che un tempo aveva detto che l’avrebbe amata per tutta la vita, addirittura più della sua vita ma che poi fuggì terrorizzato alla sola idea di diventare padre. Lei, Saura, dopo il colpo ricevuto si fece carico con sincera gioia del dono che la natura le aveva offerto. Vivevano in una casa modesta e giusta per due persone, a patto che condividessero la stessa camera da letto. Il bagno era in casa e potevano scaldarsi nella grande cucina dove Lina studiava di sera, mentre la madre sbrigava le faccende. La casa era di Saura, l’aveva ricevuta in eredità da una zia che aveva cercato fortuna altrove. Stavano bene da sole anche se in qualche notte particolarmente fredda Saura avrebbe voluto essere scaldata da un corpo adulto, che sapesse tenerla tra le sue braccia spegnendo tutti i suoi brividi. Naturalmente, se soltanto l’avesse desiderato, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a trovarsi un bravo uomo per la vita che restava, e anche disponibile ad accollarsi, con sincero affetto, la cura di Lina. Un pensiero che ancora non la assillava ma, forse, se un giorno si fosse decisa a scegliere un uomo, forse avrebbe scelto Nanni, anche se per tanto tempo si erano parlati soltanto con gli occhi quando lui entrava a comperare il latte, una fetta di formaggio fresco e tre o quattro pezzi di pane comune che aveva prenotato il giorno prima. Una mattina Nanni entrò deciso nella bottega di Saura. Non doveva acquistare niente, voleva solo dirle ciò che sentiva dentro e perché gli batteva forte il cuore tutte le volte che la vedeva. Dunque era de14
pusher terminato a confessare il suo sentimento e per questo aveva preparato a dovere il suo discorso. Quando lo vide entrare lei lo accolse con un sorriso, al punto che lui arrossì e quasi si vergognò per quel rossore rivelatore. Nanni non riuscì a dire nemmeno una parola, però la guardò intensamente e lei sostenne quello sguardo con il suo, così fiero e appassionato, abbracciandolo col suo sorriso e con la luminosità quasi accecante dei suoi occhi scuri. Aveva capito. A quel punto non erano più necessarie le parole che Nanni non aveva pronunciato, nonostante tutte le prove che aveva fatto davanti allo specchio del bagno. La sera stessa Nanni l’attese all’uscita della bottega. Erano le sei passate da pochi minuti. C’era anche Lina. Lui prese lo zaino della ragazzina e la sporta di tela di Saura e si diresse verso la casa delle donne senza dire una parola. Loro lo guardarono un po’ sorprese ma anche contente. Era la prima volta che un uomo le aiutava ed erano sicure che non avrebbe chiesto nulla in cambio. Tirava un vento forte e prese a cadere una pioggia intensa e gelata che rendeva la strada insidiosa. La temperatura si era abbassata e lui si era persuaso che la notte sarebbe stata imbiancata. Madre e figlia procedevano unite strette l’una all’altra, al punto che si potevano confondere in un tutt’uno di eternamente inscindibile. Un poco alla volta Nanni calibrò il suo passo a quello delle donne. Rallentò e si dispose al loro fianco. Era accanto a Lina e le si accostò fin tanto che la sfiorò. Quel contatto così discreto l’appagò e sentì un calore insolito attraversargli tutto il corpo. 15
Giacomo Battara Si emozionò e prese a canticchiare una litania che spesso l’accompagnava la domenica mattina quando, felice, restava a letto un po’ più a lungo in attesa che l’acqua venisse riscaldata al fuoco della cucina economica con la quale si sarebbe lavato a pezzi e poi sbarbato prima di andare alla funzione delle undici. Quando giunsero a destinazione Nanni depose zaino e sporta accanto all’uscio di casa. Lina lo salutò con un sorriso candido e Saura, alzandosi sulla punta dei piedi, gli diede un bacio riconoscente sulla guancia gelata. Da quel pomeriggio Nanni non mancò mai all’appuntamento delle sei. Nanni aveva instaurato con Lina un rapporto speciale, fatto di confidenze fanciullesche e di canti appena intonati. Una sera, durante il tragitto verso casa, Lina gli chiese che mestiere facesse. Lui, orgoglioso, le rispose che curava gli alberi. Toglieva quelli ammalati e dopo averli abbattuti li ripuliva per bene, poi li riuniva in un luogo prestabilito perché il furgone della segheria potesse caricarli facilmente per essere trasportati più sotto, dove gli uomini li attendevano per trasformarli in sedie e tavoli. Nel periodo giusto piantava nuovi alberelli così, diceva, il monte e la natura non avrebbero patito e neanche le persone che potevano continuare a respirare aria buona. Questo era il suo lavoro, certo faticoso ma anche molto bello perché lo svolgeva a contatto con la montagna che lui amava molto. Molto spesso le raccontava delle sue passeggiate solitarie in mezzo ai fiori, dove poteva vedere l’incessante lavorio delle api e le descriveva i ruscelli che guadava, dall’acqua limpida, gelata anche in piena estate, buona da bere, 16
pusher e gli squarci di cielo luminosi e colorati di un azzurro da lasciare senza fiato. Lina era affascinata dai suoi racconti e lo guardava con gli occhi spalancati e spesso chiedeva alla mamma se avesse sentito anche lei le storie di Nanni, come se avesse la necessità di essere rassicurata, di essere certa che quello aveva udito corrispondesse veramente a ciò che Nanni aveva detto. Certo che ho sentito, le rispondeva sua madre mentre le sfiorava la fronte con le sue labbra morbide. In effetti Nanni parlava abbastanza forte proprio perché anche Saura potesse ascoltare, così provava meno imbarazzo mentre marciavano insieme, anche se si era reso conto che, prima o poi, qualche parola avrebbe dovuto scambiarla anche con lei. Con il trascorrere del tempo l’urgenza di incontrare le due donne si faceva sempre più impellente, e quindi decise che l’appuntamento, peraltro mai fissato da nessuno, dovesse essere anticipato di un’ora. In questo modo avrebbe goduto maggiormente della loro compagnia e si sarebbe reso utile in caso di necessità. Davvero Nanni si rendeva utile, perché nella bottega c’erano molte cose da sistemare e lui iniziò a fare ciò che sapeva. Aggiustò gli infissi, la porta d’ingresso, il pavimento di legno e diede una sistemata anche al banco. Una domenica, il pomeriggio era appena iniziato, si armò di pennelli, teli, tempera bianca e secchi. Passò a casa di Saura perché lo seguisse per aprire la bottega, e poi invitò la donna a tornarsene dalla figlia. Coprì il banco, il modesto frigorifero di vetri e tutto ciò che c’era, poi iniziò a rinfrescare le pareti e il soffitto a cui arrivava bene salendo sul17
Giacomo Battara la sedia. Terminò il lavoro prima che giungessero le ombre della sera. Alla fine si dichiarò soddisfatto. Saura, prima di lasciarlo, l’aveva invitato a casa per la cena. Alle sette in punto Nanni bussò alla porta. Lina lo accolse. Aveva i capelli raccolti indietro e sostenuti da un cerchietto variopinto. Indossava il vestito buono delle occasioni importanti. Sua mamma stava armeggiando con il tegame dove aveva iniziato a bollire la polenta. L’avrebbero mangiata con il formaggio tenero. Nanni aveva portato una bottiglia di vino rosso. La serata trascorse serena. Alle nove decise di tornare a casa, ma prima aiutò le donne a sgombrare la tavola. Dopo si infilò il suo giubbone e all’uscita, guardando Saura disse: Vi voglio bene. E se ne andò. Aveva il cuore che batteva forte e nonostante la serata gelida, addosso si sentiva un gran caldo. Forse era emozione. Le persone del paese erano convinte che tra i due fosse nata una segreta storia d’amore. Non c’era nessun motivo per poterlo affermare, e tuttavia di questo, di tanto in tanto, parlavano nella farmacia e più spesso nella cantina, ma mai nelle case. Gli uomini, per lo più invidiosi, non si capacitavano della presunta conquista di quell’uomo che giudicavano un poveraccio, ma che temevano per la forza fisica e per quel suo starsene lontano dalla cantina, evitando così di misurarsi con loro a chi ne sparava più grosse e dalle sagre. Le donne, invece, erano più indulgenti. Dopo tutto Saura aveva bisogno dell’aiuto di un uomo per via della bambina, e nel contempo si sentivano più rassicurate, ben sapendo che i loro mariti avrebbero fatto follie per trascorrere una notte insieme a quella donna. 18
pusher Il più acido di tutti era il toscano. A sentire quella storia, più volte aveva detto che avrebbe voluto esserci lui al posto di quell’uomo che ancora viveva tagliando alberi. Non sopportava, avendoci provato un paio di volte durante una festa di paese, di non aver fatto breccia nel cuore di Saura, nonostante avesse un lavoro che fruttava bene, una bella casa con due camere da letto, una cucina grande, un bagno con tutto l’occorrente, un garage e qualche centinaia di metri di bosco. Invece Saura aveva preferito buttarsi tra le braccia di Nanni che faticava perfino a parlare un italiano decente. Insomma stava vivendo tutta la questione quasi come un affronto personale. Una sera, dopo aver bevuto più di quanto fosse capace di sopportare, disse ai suoi compagni di bagordi che prima o poi avrebbe dato una bella lezione a quella donna: Chi si crede di essere, aveva urlato. Si dice che probabilmente fu in quell’occasione che l’oste, una specie di confessore di debolezze umane e sproloqui ricorrenti, intervenne mettendolo in guardia. Per tutta risposta il toscano lo mandò a quel paese intimandogli di badare agli affari suoi.
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