ritratti Collana
Marco Rufini
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-4986 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
A Nicolò e Bernardo
«Profanare un sepolcro. Capisci, amica mia? Quei senza Dio scoperchiarono la tomba a due mesi dalla morte, tirarono fuori quella povera salma, la legarono alle caviglie con una cordaccia di canapa e la trascinarono per le vie fino in piazza! Lì, rimase esposta alle ingiurie del volgo per ben tre giorni, bersaglio di sputi, di sassi, frutta marcia. Era il padre di mio padre, Andrea Montemelini, uomo probo, stimatissimo e dotto. Per giustificare quell’atroce sacrilegio, diffusero ogni tipo di calunnia sul suo conto.» Mentre donna Giacoma si lascia andare così, qualcuno è in ascolto: dietro la spessa tenda di velluto rosso tirata sull’ingresso del salone, c’è Andrea, uno dei figli, di undici anni. Lei stessa ha voluto dargli il nome di quel Montemelini dissepolto e oltraggiato. Il ragazzino ascolta, immobile, contratto, quasi senza respiro, la piccola mano aggrappata al bordo della tenda. Nei suoi occhi grigi non ci sono lacrime né traccia d’incanto; le parole della madre li attraversano come nubi scure e veloci; occhi sgranati, in cui il pensiero vorrebbe raggelare l’emozione. È il 1380. Donna Giacoma, da tre giorni vedova di Oddo Fortebracci, si sfoga così con Berenice, un’ami5
ca venuta a portare le sue condoglianze. Nel rievocare quell’infamia, sul pallido viso trapela tutta la fierezza della famiglia d’origine, una schiatta che i governi popolari perugini hanno combattuto con ogni mezzo, un cognome costantemente annotato nel libro rosso dei nobili banditi. «Ma non bastò. Cacciarono via dalla città come cani arrabbiati anche i due figli ancora piccoli. Quindi, per completare l’opera, dettero alle fiamme e rasero al suolo il nostro amato castello di Montegualandro. Tutto per un’accusa priva di fondamento: aver tradito la parte guelfa e i concittadini per intendersela di nascosto con l’Imperatore.» Giacoma sa che l’odio arde ancora come la sterpaglia a tramontana, un odio che minaccia e contamina pure lei. Al pari dei Montemelini, anche i Fortebracci sono costretti a fare i conti con pericoli quotidiani e micidiali, nella natia Montone come a Perugia, loro patria adottiva. «La verità è che ce l’hanno con noi aristocratici, vogliono soppiantarci per tenere le mani sul potere, un potere che non sono capaci né degni d’amministrare. Beccherini, ci chiamano con disprezzo, paragonandoci ai falconi rapaci per la caccia. La verità è che disprezzano la buona educazione e la cultura, il gusto, la grandezza d’animo. Tu stessa puoi giudicare, adesso che sono al potere questi popolari, questi bottegai mercanti strozzini, gente convinta di poter comprare tutto col denaro. Sì, oggi comandano quelli del popolo grasso, i Malacoccia, gli Zeppa, i Pocciarelli. Che grandi nomi! Gentaglia che ha preso il posto dei Montesperelli e Della Corgna, delle
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grandi famiglie nobilitate dal valor militare e dal culto del diritto. Questi settari li hanno perseguitati e spogliati, non pochi ne hanno consegnati alla scure del boia, moltissimi esiliati, com’è accaduto più volte al mio povero marito.» Berenice ascolta con gli occhi sbarrati, bevendo quelle parole come una pozione. Fra sé e sé le rimastica incredula, ma tace, con prudenza. Vuol bene a Giacoma, anche se diffida del suo orgoglio troppo ardente, del desiderio di vendetta che cova in fondo a quell’anima senza pace. Fa cenni accorati col capo, si guarda intorno, la invita a controllarsi con uno sguardo implorante. Quindi posa la mano un po’ tozza su quella diafana dell’amica, che prosegue imperterrita. «A Perugia, molti nobili preferiscono tacere, lasciar fare, subire, per paura e per calcolo. Li chiamano gli accomodanti. Tra loro c’è chi ha comprato il titolo facendo il commerciante, come i Boncambi, un nome che già la dice lunga.» Giacoma sottrae la mano alla carezza della visitatrice, infastidita da quella che considera nient’altro che vigliaccheria. Sospira, occhi al cielo, e ripiglia con stizza. «Questi nuovi padroni, per giunta, opprimono anche il popolo minuto, l’autentico ceto popolare, li trattano ben peggio di quanto abbiamo mai fatto noi. Ma non è detta che gli andrà sempre bene, che i lavoranti continueranno ad abbozzare. Basta pensare a quel che hanno combinato i Ciompi a Firenze, non più di due anni fa, quando le prepotenze dei mercanti di lana hanno passato il limite della cristiana sopportazione.»
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Nel dire questo si fa il segno della croce con un gesto nervoso. Guarda con severità Berenice, che si segna a sua volta lentamente, con comica circospezione. Donna Giacoma è chiusa nel mantello nero del lutto vedovile. Parla a bassa voce, ma assai concitata, quasi sibilante, i grigi occhi accesi e stanchi. Siedono una di fronte all’altra, sui gradoni prospicienti la sua finestra preferita, nella grande sala a pianterreno del palazzo di Montone. Da lì ha atteso tante volte il ritorno del marito, scrutando la strada in lontananza, tendendo le orecchie al suono degli zoccoli o a quello del corno. Oddo è morto di crepacuore a meno di cinquant’anni. Un ottimo soldato e insigne giureconsulto, secondo la tradizione di famiglia. Nel 1372 è stato persino Capitano del Popolo a Firenze, città da tempo amica dei Fortebracci. Lignaggio e qualità, tuttavia, non gli hanno risparmiato i colpi della vita. Di carattere altero e impetuoso, ha sempre difeso a oltranza le proprie posizioni e le prerogative familiari, s’è battuto strenuamente per la causa dei nobili, fino a distinguersi tra i più facinorosi e ribelli. Più volte l’hanno bandito, per poi riammetterlo a condizioni pesantissime. L’ultima volta che l’hanno scacciato da Montone è stato nel 1378, un colpo fatale per il suo cuore già provato: era appena stato riammesso, ma a condizione che consolidasse a proprie spese le difese della Rocca d’Aries, un impegno da prosciugare tutto il patrimonio di famiglia. Giacoma sa che avrà vita dura, con sei figli ancora infanti o adolescenti. Le fazioni e le famiglie avverse ai
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Fortebracci non risparmieranno i colpi, ora che li sanno deboli e indifesi. Rabbrividisce e sospira. «Berenice mia, lo sai anche tu quanto si accaniscono contro di noi, qui a Montone. Non sono ancora passati cento anni da quando Faziolo dei Ranieri ordì la più infame delle congiure e fece strage degli antenati di mio marito. Raccontano che accadde nel mese d’agosto, in una notte afosa e senza luna. Entrarono nel palazzo dalle finestre aperte, come diavoli invisibili, e li sgozzarono uno a uno mentre dormivano tranquilli. Toccò a Fortebraccio, a sua moglie Platina, a Rubeo, Baldello e Gezzolo. Sparsero tanto di quel sangue da inzuppare i muri e i pavimenti, da inondare anche il lastrico della strada.» Berenice sgrana gli occhi, si porta una mano alla bocca, poi si segna. «Gesù, che orrore! Avevo sentito dire qualcosa, ma non immaginavo... Nessuno della famiglia si salvò?», chiede con una voce rotta dall’orrore. «Solo i tre figli piccoli di Rubeo: Oddo, Braccio e Griffolo. Povere creature! Qualche anima caritatevole li portò a Perugia in un carretto, nascosti sotto un carico di oliva. Furono fatti cittadini e affidati dai Priori a un tutore che dava buone garanzie. Con le sostanze che s’era riusciti in qualche modo a salvare, fu comprata una casa. Quasi cento anni da quel fatto orrendo; anni di paure, di lotte, di minacce senza interruzione. Nulla è cambiato, il tempo non ha sanato nulla; anzi, l’odio è sempre più crudo, devastante.» *** 9
Montone è inerpicata fra due colli, a mezza via tra Perugia e Città di Castello. A levante c’è il fiume Carpina, a sud il Tevere, a nord gli Appennini. Una posizione strategica, proprio sulla via che collega la Val Tiberina con la Flaminia. L’aria è temperata e secca, la campagna ben disegnata, la terra fertile. Sul Monte, il maggiore dei due colli, ci sono la Fortezza, dimora del Castellano, e la Collegiata, sede dell’Arciprete. L’altro colle è chiamato Castel Vecchio, con la chiesa di San Francesco e il convento. La piazza sta più in basso, proprio in mezzo alle due alture. A quel tempo la cittadina era divisa in tre rioni: il Monte, il Borgo e il Verziere. Tra quelli si distribuivano circa centocinquanta focolari. Proprio per la sua ottima posizione, Montone era contesa fra Città di Castello e la guelfa Perugia, che aveva il potere in quel momento, nominando sia il Castellano che il Podestà. Per i Fortebracci Perugia costituiva una seconda patria, perché ne erano cittadini da molto tempo e possedevano un bel palazzo, registrato al catasto nel quartiere di Porta Sant’Angelo, parrocchia San Donato. Anche per questa ambivalenza, venivano osteggiati da alcune famiglie di Montone legate a Città di Castello, tra le quali spiccavano gli Olivi. Quanto a Perugia, ormai da moltissimi anni era teatro di aspri scontri fra nobili e popolari, chiamati anche Raspanti dal loro animale simbolico, il gatto. Di fatto gl’interessi dell’aristocrazia erano incompatibili con quelli degli artigiani e dei mercanti, organizzati in robuste associazioni di mestiere. La Mercanzia e il Cambio preva-
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levano sulle altre, come Lana, Taverna e Macello, condizionando la politica del Comune. Una città senza pace, di gente bellicosa e grifagna, ottimamente addestrata alle armi, che spesso vedeva il nemico più nel vicino di casa che nell’invasore. Come se non bastasse, i Perugini erano assai insofferenti nei confronti del dominio papale, nonostante le cinquantaquattro parrocchie e gl’innumerevoli conventi, Minori, Camaldolesi, Templari, Dominicani, senza contare le suore di clausura. Nel 1376 Beccherini e Raspanti s’erano alleati nella sommossa contro l’Abate di Montemaggiore, detestato rappresentante di Roma. Dopo aver buttato giù la rocca di Porta Sole, sua sede, si erano proclamati liberi e indipendenti. L’accordo, tuttavia, era durato quanto una farfalla a febbraio. Ben presto i popolari, ricchi e organizzati, s’erano impadroniti in esclusiva del governo, anche a costo di fare nuovi atti di sottomissione al Papa, e avevano mandato in esilio i maggiori rappresentanti dell’aristocrazia. In quel periodo, peraltro, tutta l’Italia vedeva gruppi e fazioni contendersi con ogni mezzo la supremazia, città per città, contrada per contrada. Qualcuno aveva tentato d’approfittare di quella frammentazione per affermare il proprio potere su tutta la penisola, ma senza successo. Persino Federico II aveva fallito nel sogno di edificare e reggere un Regno Italico. Proprio quella sconfitta, il venir meno d’una grande minaccia esterna, aveva riacceso le lotte intestine. Per non parlare dei soldatacci che, dopo lo scioglimento dell’esercito imperiale, s’aggiravano sbandati nel
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Paese in cerca d’ingaggi e prede. Ben presto iniziarono ad aggregarsi e organizzarsi, nacquero le condotte, compagnie di soldati di ventura della cui opera violenta molti s’avvalevano senza scrupolo, alimentando un vero e proprio mercato della guerra. Fossero Bretoni, Svevi, Boemi, Provenzali o Ungheresi, questi figuri s’ingrassavano coi soldi delle fazioni italiane. Qualcuno li associava alle grandi calamità, come la peste nera a Napoli, i crolli bancari di Firenze, il terribile inverno del 1339, che tutte insieme sembravano manifestare un violento malumore del cielo. Contro le “peregrine spade” ci fu una campagna spontanea e appassionata, a cui parteciparono anche Francesco Petrarca e Caterina da Siena. La Chiesa, per parte sua, passava seri guai, non certo indenne dal male del particolarismo. Erano gli anni dell’antipapa, quel Clemente V eletto dai cardinali francesi, che aveva fissato la propria residenza ad Avignone. Senza scordare che l’unità dei cattolici veniva messa a dura prova in varie parti d’Europa da movimenti eretici fitti e bellicosi come sciami di vespe. Quando muore Oddo Fortebracci i mercenari italiani un po’ alla volta stanno soppiantando gli stranieri. Questi nuovi professionisti della guerra sono cadetti di grandi famiglie, nobili esiliati o anche criminali sfuggiti alla giustizia. Uomini senza stato, votati all’avventura, figure suggestive e inquietanti, che in breve tempo accumuleranno ricchezze e credito, diventeranno il simbolo del valore e dell’avventura, eredi delle grandi tradizioni cavalleresche. *** 12
Negli occhi di donna Giacoma non ci sono lacrime, ma solo un’ombra lunga, che sembra proiettarsi verso il tempo futuro. Come ipnotizzata dalla luce opaca che entra dai vetri, senza volgere il viso, riprende quella specie di soliloquio, nel quale la presenza di Berenice è solo un pretesto. «Guardo i miei figlioli intenti al gioco e subito mi si spegne il sorriso sulle labbra. Che accadrà di loro, povere anime innocenti? Non saranno mai al sicuro. In troppi bramano i nostri beni, la nostra posizione. Qui a Montone, gli Olivi; a Perugia i più avidi e facinorosi dei Raspanti. Che può fare una madre in questa situazione? Adesso che Oddo non c’è più, dovrò temere l’agguato in ogni momento del giorno e della notte. Non so nemmeno a chi potrei chiedere protezione, e quanto mi costerebbe. Senza contare che diffido di quei soccorsi che hanno solo le sembianze della misericordia.» «Siete ancora giovane, signora.», quasi balbetta Berenice, «Una bella donna, colta, elegante. Si potrebbe pensare...». «Per l’amor del Cielo! I miei figli sono dei Fortebracci!», la interrompe la vedova come se avesse udito una bestemmia. Quando sua madre conclude quelle angoscianti dissertazioni per affidarsi con indulgenza al conforto di Berenice, Andrea si stacca dalla tenda di velluto rosso e s’allontana in punta di piedi. Gennaio, il palazzo è gelido, investito dalla tramontana. Le mura gli sembrano ostili anche da dentro, inca-
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paci di offrire vera protezione. Freddi anche i suoni che arrivano dal cortile e dalla strada. Andrea attraversa col cuore in gola le stanze buie, nel buio dei suoi sentimenti, di pensieri ancora senza ordine, cupi e dolorosi, che lottano per conquistare un po’ di chiarezza. Va da una stanza all’altra, come se volesse perlustrare gli spazi dove i suoi cari vivono nella clausura del lutto. Monalduccia e Giovanna pregano sotto gli occhi di suor Caterina e neppure s’accorgono del fratello che passa. Carlo legge: Andrea lo scorge di spalle, nel vestibolo, isolato dal resto della famiglia. Nel salone d’onore un servo sta passando la spazzola sopra un arazzo, mentre dalle stalle arriva il suono del maniscalco che ferra a fuoco. Il fanciullo si ferma per qualche istante, non sa dove andare. Un odore inopportuno d’arrosto viene su dalle cucine. Stella e Giovanni, i fratelli più piccoli, giocano ai cavalieri, ignari del male che li sovrasta. Stella. La sua strana, ardente sorellina, che rifugge dalle bambole e gli trotterella sempre appresso. La casa è troppo chiusa, troppo triste, somiglia a una prigione. Il ragazzo esce nel sole, nel vento freddo che viene da nord-ovest. S’allontana verso un punto che non sa, senza mantello, senza espressione nel volto. Cammina veloce, non guarda nulla e nessuno, a testa china, gli occhi divenuti due lunghe fessure. Uscito dalla porta nord, si butta verso la campagna, si mette a correre, correre, correre. Corre in mezzo ai campi di grano ancora verde, verde come ogni cosa che nasce, come la maledetta speranza che vuol sempre mostrare le cose migliori
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di quanto sono. Corre fino a sfiatarsi, poi crolla in terra sotto una quercia gigantesca, le guance rosse e i capelli scarmigliati. Da lì si vede nitida la piana del Tevere, larga sotto il colle di Montone, i campi coltivati a perdita d’occhio, giù giù verso Città di Castello. Dietro, in direzione delle Marche, i monti severi dell’Appennino, ancora immobili, immersi nell’inverno. Col suo piccolo corpo, Andrea sta al centro di quello spazio enorme, ma rimane asserragliato in sé stesso, nella dimensione angusta del dolore e della rabbia, dell’inadeguatezza. Vorrebbe capire, trovare la strada, ma la testa sembra sul punto di esplodere e allora torna a correre, per allontanarsi sempre più. Si ferma davanti a una catasta di legna: quei tronchi di quercia gl’ispirano qualcosa. Inizia a costruire una specie di fantoccio, il tronco, la testa, una lancia. Raccoglie dei sassi e li raduna con calma. Con calma, con violenza e costanza, li scaglia contro quella sagoma, colpendo con una precisione quasi magnetica. Ogni volta che la grande testa cade, lui la rimette sul tronco, per un’interminabile serie di volte. Alla fine afferra un ramo pesante, lo impugna come fosse una mazza e colpisce con furia fino a piagarsi le mani, fino a cadere in terra stremato. Ansima e raspa la terra con le unghie. Ma non piange. Solo dopo aver ripreso fiato, il viso affondato nella terra smossa, Andrea alza il capo. Lo sguardo s’allarga al paesaggio che lo circonda, come se uscisse da un pozzo
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nero a riscoprire il mondo. Il sole di gennaio, il vento, ogni cosa gli appare talmente bella da risultare crudele, così consueta e cara da somigliare a un inganno. Le mura alte di Montone, il campanile, la torre, le piagge d’olivi tutte intorno, uno stormo di tordi. All’improvviso sa, conosce il suo destino, ha deciso: sua madre, i suoi fratelli, la memoria degli avi; il nome, il patrimonio, l’onore: da oggi la sua vita sarà consacrata alla loro difesa, al riscatto, alla battaglia. *** Ha smesso di piovere da poco, l’acquazzone è stato breve e intenso, un temporale di marzo. Non sono ancora le quattro. La piazza si popola di gente, come ogni sera nei giorni di festa. Per tutta la lunghezza del muretto il clan degli Olivi fa mostra di sé con risate, commenti a voce alta, arguzie grossolane. Alcuni lanciano occhiate alle ragazze, mettono in evidenza un polpaccio tornito grazie al gonnellino e a calze aderenti, decorate con disegni araldici. L’energia del temporale gli s’è accumulata dentro: sembrano tafani vogliosi di dar pizzico. Più accaniti degli altri, i cugini Carlo e Muzio, piccoli capi di quel manipolo di perdigiorno. Dalla via stretta che scende giù dal Monte sbuca a un tratto Carlo Fortebracci. Cammina spedito, diretto al Castel Vecchio, con delle carte nella mano destra. Attraversa la piazza a testa bassa, fingendo di non sentire le voci degli Olivi. Uno di loro, Carlo, coi ricci adornati di fiori, lo apostrofa.
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«Ehi tu, messer Fortebracci, non saluti gli amici? Eppure io sono così fortunato da chiamarmi col tuo stesso nome, e vengo reputato un cittadino degno, come degnissimi risultano i miei parenti e i compagni qui presenti.» L’altro fa un cenno severo col capo; per un istante sembra volersi fermare, ma poi riprende a camminare. «Dove scappi, nobile Fortebracci, dove vai sgattaiolando? Non avrai mica fifa? Dovremmo essere noi, a temere, stando alle tradizioni gloriose della tua stirpe guerriera! Ma mi sa tanto che tu non sei all’altezza, della tua gran casata. Che ne dite, eh, amici? D’altronde, ho constatato io stesso che, quando non può evitare di rivolger la parola a un qualche uomo degno di questo nome, assai spesso tartaglia, il nostro Fortebraccino. E a forza di tartagliare tutte le volte che qualcuno lo mette in soggezione, infine si presenta come Ca-carlo. Che sia nome o sostanza, lo lascio decidere a voi!» Risate sgangherate, sguardi puntati sul bersaglio di quei pesantissimi lazzi. Carlo Fortebracci ha poco più di vent’anni. Immobile al centro della piazza, tace, ansima e serra i pugni. Si guarda intorno. Poi si volta lento verso gli Olivi, la bocca appena distorta e un pallore evidente. Parla con studiata, tremante soavità. «Vedo che il numero t’aiuta a farti animo, mio noo... bilissimo omonimo. Chissà se saresti così audace quando dovessimo incontrarci da Carlo a Carlo? Comunque sia, non vado in cee...rca di risse, né con te né con altri.
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Penso ai casi miei e non m’importa granché di ciò che dici o sei.» L’Olivi fa cenni teatrali con la testa riccioluta. Poi si stacca dal gruppo, le mani sui fianchi, e gli si va a piazzare davanti, tanto vicino da fargli sentire l’aglio che ha mangiato per pranzo. Il giovane Fortebracci è interdetto, lo guarda di traverso. L’altro alza un braccio di scatto, come per colpirlo, e invece s’accomoda uno dei fiori che porta fra i capelli con un morbido gesto. Carlo c’è cascato, ha accennato una goffa schivata. Tutta la piazza ride. L’Olivi sputa in terra e gira i tacchi. Il Fortebracci lascia cadere le carte in terra e porta la mano all’impugnatura dello spadino. Ma resta fermo dov’è, mentre il sudore imperla la sua fronte spaziosa. Adesso è Muzio Olivi a farsi sotto, imitando il passo d’uno storpio. «Fate la carità, buon uomo, voi che sapete bene quanto sia ardua la vita dei miseri! Mostratemi un segno della vostra benevolenza. Abbiate pietà di me, voi che tanta ne fate agl’altri...» Carlo estrae l’arma senza aggiungere parola. Sulla piazza è calato il silenzio. A sua volta, Muzio tira fuori la spada e s’arrotola il mantello intorno al braccio; il cugino lo affianca con una daga in pugno; a breve distanza li seguono altri tre. Nessuno osa parlare; molti si buttano nei vicoli, altri invece rimangono lì, vinti dalla curiosità. Siamo alla resa dei conti fra i due clan? Gli Olivi avanzano lentamente, sul viso ferocia e cautela. Carlo Fortebracci comincia ad arretrare, pronto a
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lanciare la stoccata non appena un avversario s’avvicini oltre il limite di guardia. Forse medita di fuggire su per la scalinata e colpire in successione chi lo insegue, proprio come l’Orazio superstite coi tre Curiazi. Oppure spera in qualche santo che arrivi in suo soccorso. Ormai sotto la torre campanaria, inizia a salire a ritroso la rampa che porta a San Francesco. Gli Olivi paiono cani da cinghiale che aspettano solo il momento buono per azzannare. Ci sono dei testimoni e non possono attaccarlo tutti insieme, in barba a ogni regola d’onore. Il tempo sembra essersi fermato; suoni lontani, qualche voce ignara da dentro una casa, un verso di gallina, rendono l’atmosfera ancora più irreale. Ma a un tratto una sagoma scura squarcia lo spazio fra i contendenti e si blocca con un balzo davanti a Carlo Fortebracci: è suo fratello Andrea, con la spada già in mano. *** Gli anni dopo la morte di Oddo erano stati duri e insidiosi proprio come aveva previsto donna Giacoma. Gli Olivi, forti dell’appoggio dei potentissimi Ubaldini di Città di Castello, erano diventati sempre più influenti a Montone, mirando con decisione e senza scrupoli a prendersi i beni e i privilegi dei Fortebracci. Per questo non vedevano di buon occhio i giovani della famiglia, che ben presto avrebbero potuto difendere le loro antiche prerogative. Non passava giorno senza una qualche provocazione, senza insulti o dileggi: per i Fortebracci
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attraversare la piazza o andare a messa la domenica era diventata una tortura. Carlo, il figlio più grande, anche se ben ammaestrato all’uso delle armi, era di temperamento prudente, compreso della sua responsabilità verso la madre e i fratelli. Giovanni, l’altro fratello, era del tutto incurante dell’onore, almeno inteso nel senso attribuitogli dal codice cavalleresco. Preferiva gli studi e i giochi, si trovava a suo agio soprattutto in casa, in compagnia delle sorelle. Quanto alle ragazze, subivano gl’insulti con cristiana rassegnazione, abituate a guardare in terra e non rispondere. Solo Stella mostrava i segni d’una fierezza quasi marziale. Gli occhi di fuoco e il rossore delle gote rivelavano il furore che montava dentro di lei ogni volta che un Olivi l’apostrofava in pubblico. Non di rado la sua lingua restituiva i colpi con rischiosa insolenza. La madre taceva, evitava commenti, limitandosi ad ascoltare le lamentele dei figli, a tamponare e sdrammatizzare. Che non fosse serena, lo rivelava lo sguardo glaciale, il volto emaciato, tirato. Il suo orgoglio alimentava una rabbia impotente, che la rodeva dentro giorno e notte. Anche Andrea adottava l’espediente del silenzio. Un silenzio enigmatico, accompagnato dal contegno grave, di persona adulta e consapevole. Dalla morte del padre aveva abbandonato definitivamente i giochi infantili, e solo raramente si poteva vedere un sorriso sulle sue labbra sottili, pallida stella nella foschia. Ogni giorno si sottoponeva a un addestramento accanito e instancabile; cavalcava a pelo come un diavolo, cacciava,
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correva per ore nelle selve; con l’aiuto d’un bravo maestro d’armi, aveva fatto tesoro di tutti i segreti della spada, della lancia e di ogni altro strumento d’offesa. Nessuno dei coetanei poteva competere con lui, tanto che, dopo gl’innumerevoli tornei in cui era risultato vincitore, presero a chiamarlo Braccio, certo giocando anche sul suo cognome. Stella amava più di ogni cosa guardarlo combattere, sempre pronta a offrirgli da bere, a detergere il sudore. Le piaceva spiarlo mentre si lavava. Nonostante fosse poco incline alle faccende domestiche, curava personalmente il suo corredo, lucidava le armi, stirava i panni. Andrea era la sua speranza, il suo idolo. Donna Giacoma sapeva, vedeva. Come ogni madre si sentiva combattuta fra fierezza e timore. Temeva che prima o poi quel ragazzo avrebbe intrapreso qualcosa d’eccessivo per le sue giovani spalle. Accettava che si formasse come soldato, ma cercava d’insegnargli molto più. La sera leggevano insieme i classici e lei stessa lo faceva esercitare nella traduzione scritta del latino. Un precettore curava gli altri campi, con particolare riguardo al diritto. Il ragazzo studiava con la stessa costanza, la stessa serietà, che applicava alle arti marziali. Per lui anche la cultura, la scienza, erano armi. Braccio non faceva niente per il puro gusto di farlo. E intanto cresceva, insieme al proprio sdegno, al rancore, all’ambizione, alimenti amari ma ricchi della sua anima. Nel petto che s’allargava giorno dopo giorno, ardeva la fiamma della violenza, mantenuta viva dalle raffiche maligne delle ingiurie e dei torti.
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In mezzo alla natura, a contatto con la campagna, a volte si lasciava un po’ andare, a patto che fosse completamente solo, insieme al suo cavallo e al falcone. Ma la terra, la natura, pur mostrandogli i segni d’una perfezione superiore, ben presto tornavano a essere nient’altro che l’oggetto della conquista, beni materiali su cui misurare la signoria di un uomo sopra gli altri uomini. Con la madre evitava di aprirsi, preferiva non rivelarle apertamente i suoi intenti, ma esisteva tra loro un intenso colloquio interiore, a volte quasi lacerante. Trattava i fratelli con distacco, come se un’eccessiva confidenza, mettere a nudo l’attaccamento, potesse indebolire il suo ruolo di custode. Rispettava Carlo in quanto primogenito, ma sapeva che prima o poi ne avrebbe dovuto usurpare il ruolo. Solo con Stella a volte cedeva alla tenerezza; accettava la sua complicità clandestina, sapeva leggere quei verdi occhi irrequieti, nascosti sotto i riccioli neri; amava ascoltare le sue chiacchiere allegre, guardarla, così esile e scattante, priva delle moine tipiche delle ragazze. A diciott’anni Braccio era di corporatura già molto robusta, un uomo formato, seppure di statura non eccelsa. A vederlo camminare, sempre assorto, l’espressione insondabile, dava l’idea di una macchina carica in attesa di scattare, un ariete pronto all’attacco come quello ritratto nello stemma di famiglia. Con due dita poteva schiacciare una noce come fosse un ovetto di quaglia. Parlava poco, ma con estrema proprietà, e la sua voce aveva una minacciosa dolcezza, una misteriosa profondità. Sapeva sempre trovare la parola giusta per esprimere un pensiero nel
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modo più sintetico; metteva insieme le poche parole che si degnava d’usare come se fossero fiori d’una corolla. Il suo viso scavato era simile a quello d’un asceta. Il naso leggermente aquilino, gli occhi grigi come un cielo d’inverno, i tratti inconfondibili della nobiltà e dell’alterigia. Quel volto formava uno strano contrasto con la potenza raccolta del corpo. Appariva bizzarra anche la sua gestualità, morbida ed elegante, contenuta, ma possente. Non aveva amici, ma solo qualche alleato o seguace. Vestiva in modo semplice, tradizionale, sdegnoso della moda. Considerava una forma di depravazione il fatto che i maschi andassero in giro così ornati, vanitosi come femmine. Indossava quasi sempre un farsetto grigio di fustagno imbottito con la bambagia, buono per ripararlo dal freddo ma non certo per modellare il corpo, che non aveva alcun bisogno d’essere esaltato artificiosamente. Era del segno del cancro, nato il primo di luglio del 1368. Quel giorno gli astrologi avevano predetto che sarebbe diventato uno dei più grandi e valorosi condottieri della sua epoca. *** Qualcuno ha avvertito Andrea che suo fratello è stato aggredito dagli Olivi; lui non ci ha pensato un secondo, a volare giù verso la piazza. Ora è lì davanti, un baluardo di muscoli tesi e furia controllata; fissa gli avversari senza mostrare segni d’emozione, in silenzio, come suo costume; il corpo è raccolto, le ginocchia leggermente piegate, la spada in mano, impugnata con to-
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tale padronanza; getta un’occhiata verso il fratello per saggiarne le intenzioni. Trascorso quel lungo istante, Muzio, mal consigliato dalla collera, muove all’attacco; veloce e morbido come una pantera, Braccio para il colpo e, di contrattacco, gli affonda la lama proprio all’altezza del cuore. Approfittando dello sconcerto, subito s’ingaggia in duello con Carlo Olivi, che fatica a riprendersi dal vedere il cugino esanime, stramazzato in terra con un unico lamento soffocato. Alcuni dei compari se la danno a gambe, altri li tiene a bada Carlo Fortebracci. Il duello prosegue. Braccio incalza fino al centro della piazza, fingendo più volte l’affondo, menando fendenti intimidatori; malgrado la giovane età e l’odio che lo accende, nonostante che abbia ucciso per la prima volta, mantiene una lucidità totale; evita di scoprirsi e conserva il vantaggio. Poi si ferma, guarda l’Olivi dentro agli occhi, quasi lo invita, lo irride; è come se volesse far durare di più il duello, giocare col panico del suo avversario. Lascia che quello assuma l’iniziativa, che tiri fuori una baldanza tremebonda, poi lo para secco e finge di lanciarsi in una stoccata; quando l’altro, dopo una precipitosa e maldestra parata, tenta di ricambiargli l’affondo, Braccio fa una piroetta e lo infilza di misura dentro l’occhio sinistro trapassando il cervello. In un baleno la piazza si svuota del tutto. Dietro le persiane c’è chi guarda con orrore quella scena. Due macchie di sangue s’allargano cupe e dense, smisurate, sul selciato. I corpi giacciono senza alcun segno di vita. I
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fiori freschi che Carlo Olivi portava sul capo sono sparsi intorno al suo corpo raggomitolato. Sembra molto più piccolo, adesso, e le calze alla moda, una rossa e una arancione, appaiono un’atroce stonatura al cospetto della morte. La notizia è già arrivata a casa Fortebracci. Appena Braccio e Carlo rientrano, i portoni vengono sbarrati di gran fretta. Carlo siede in cortile, la testa fra le mani, bofonchiando frasi sconnesse; inveisce contro il fratello. Braccio s’allontana senza commenti. Incrocia Stella, ma evita di guardarla negli occhi; la ragazza lo segue con lo sguardo: sa che la loro vicenda è arrivata a una svolta. Donna Giacoma è stata informata da un’ancella. Sembra di pietra, seduta sulla grande sedia a pozzetto, sotto il baldacchino verde e giallo. Per quello che è accaduto non esiste commento o rimedio, il destino ha preso il suo corso. La madre già prefigura con freddezza e senso pratico le conseguenze del fatto per coloro che resteranno a Montone. Sa bene che il figlio prediletto dovrà sparire dalla circolazione. Non può che ripercorre mentalmente il piano per la fuga, un piano tante volte pensato, tante volte ritoccato, messo a punto in ogni piccolo particolare. Braccio rifiuta qualsiasi contatto; cammina in cerchio nella sua stanza. Solo al vecchio servitore Biagio concede qualche risposta attraverso la porta chiusa. Dopo un’ora, in prossimità del crepuscolo, esce da una porta segreta e si dirige verso la strada che viene da Perugia, ben coperto dal mantello nero col cappuccio,
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evitando i punti più affollati. Qualcuno l’ha informato che il fratello maggiore di Muzio Olivi, Ottaviano, abile spadaccino, sta tornando di corsa da Perugia. Braccio si ferma a mezzo miglio dalla porta principale di Montone. Siede calmo su un tronco, come per godersi il passaggio dei carri e dei cavalli al tramonto. Dopo la tempesta, nel cielo ancora umido si disegna un tenue arcobaleno; l’odore dolce della terra bagnata e del fieno stride con la tragedia. Lo vede arrivare di lontano, al trotto accelerato, accompagnato dal servitore sopra una mula. Braccio si alza con solenne lentezza, attende a braccia incrociate nel centro esatto della strada. L’Olivi porta un copricapo alla moda, un cappuccio di leggero velluto blu che scende sulle spalle e gira due volte intorno al collo; una vanità del tutto inadatta alla situazione, che Braccio registra con disprezzo. Non servono parole. Ottaviano smonta da cavallo e sguaina la spada. Una breve fase di studio e poi sono le lame a parlare con le loro voci di metallo. Dopo non più di cinque minuti il terzo cadavere giace in terra, buttato a bocca in avanti fra le prime margherite che costeggiano la strada. La notte umida già sta calando a coprirlo. *** Braccio mangia un cosciotto d’agnello arrosto, addenta un pezzo di pane, mentre donna Giacoma e Stella gli fanno mille raccomandazioni. Partirà questa notte stessa,
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alla volta delle Marche, con una lettera di raccomandazione per il Conte di Montefeltro, perché lo arruoli nel suo esercito in guerra contro Rimini. Nelle bisacce gli mettono quei pochi oggetti che possono essere utili e anche fargli sentire la presenza di casa. Di tanto in tanto, la madre lo accarezza, faticando a trattenere le lacrime. La sorella vorrebbe partire con lui. Gli dona un amuleto di lunga vita da portare al collo, una pietra nera e misteriosa appesa a una stringa di cuoio. Donna Giacoma gli consegna invece il libro delle ore con l’immagine del santo prediletto, Francesco d’Assisi, ma anche l’Iliade e l’Odissea rilegate in marocchino rosso e una rara edizione della Repubblica di Platone. Gli affida inoltre il vessillo della famiglia Fortebracci, ben ripiegato e avvolto in un panno grezzo. La governante ha scelto con cura mele, carne insaccata, un po’ di pagnotte e indumenti di lana. Il vecchio servitore che gli è sempre stato accanto ha pensato a preparare le armi: tre lance di tiglio lunghe venticinque piedi, la spada lucente e la potente mazza ferrata. Quanto allo stalliere, ha già preparato il cavallo da battaglia, Baiardo, che attende scalpitante e nevrile, sorpreso per l’ora insolita e la strana atmosfera. Un normanno assai robusto lo affianca già bardato: servirà a risparmiare il corsiero, sopportando il carico del cavaliere e dell’armatura durante il lungo percorso. Adesso ha ripreso a piovere forte. Nel paese, silenzio greve e poca luce. Nelle case degli Olivi solo il pianto delle donne, ceri accesi e pensieri di vendetta.
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