Qui era tutta lasagna. Volti e storie di ristoranti nella Bologna di ieri e di oggi

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L’ETERNO VOLO DEL PAPPAGALLO La storia centenaria del ristorante bolognese più nobile e più celebre nel mondo. Gli Zurla e Bruno Tasselli, ma anche Morini e Marcattilii, Ezio Salsini e perfino Gigi e Andrea. Le 23 stelle Michelin, i momenti difficili, l’orgoglio finalmente ritrovato

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er anni, per molti anni, è stato il locale più raffinato di Bologna, il più celebre, il più prestigioso. Un mito per

tanti clienti italiani e stranieri. Un sogno proibito per qualche ristoratore che non è mai riuscito a farlo suo. Perfino l’inconfondibile insegna metallica è sempre stata un oggetto del desiderio: fu rubata almeno due volte. Prima l’originale, poi la copia. Il Pappagallo è un monumento, a sé stesso, alla storia della ristorazione e alla nostra cultura gastronomica. Ha rischiato le penne più volte, volando altissimo e perdendo quota vertiginosamente, ma è sempre lì, con un rinnovato orgoglio che promette bene. Nel palazzo trecentesco di piazza della Mercanzia, sotto gli alti soffitti a volta e i lampadari di cristallo, è passato mezzo mondo a tenere viva la fama del ristorante creato nel 1919 da Giovanni Zurla, principe dei cuochi bolognesi. Prima sede in via Pescherie Vecchie al numero 10, in un angusto bilocale CLIENTI DA OSCAR. Sophia Loren all’uscita del Pappagallo nel 1967. Dietro di lei il marito Carlo Ponti.

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presidiato da un pennuto che, tra uno squittio e l’altro, ripeteva parolacce in dialetto, pazientemente insegnate da chissà chi. Verità o leggenda, vallo a sapere. Fu Giovanni Zurla a far capire all’Italia che le lasagne potevano essere qualcosa di diverso da semplici pappardelle condite in modi più o meno fantasiosi. Quelle del Pappagallo divennero un piatto simbolo. Anzi, tanti piatti simbolo: verdi tradizionali, bianche al ragù e in estrose varianti ai funghi e al tartufo. Al 1937, subito dopo la morte del fondatore, risale il trasloco nella sede attuale, l’antica casa Bolognini, ampia e accogliente. Il successo, immediato, ricominciò a crescere a guerra finita. Negli anni Cinquanta il Pappagallo prese quota. La combinazione di raffinatezza, accoglienza e grande cucina tradizionale era perfetta e rara, grazie soprattutto ai suoi quattro indimenticati protagonisti: i tre fratelli Zurla, figli del fondatore, e il cuoco Bruno Tasselli, un diesel di ottima scuola che per quasi mezzo secolo ha lavorato agli stessi fornelli. Trent’anni prima, il prestigio e le conoscenze internazionali di Giovanni Zurla avevano aperto molte porte al figlio Vittorio che non faticò a trovare ottimi ristoranti in cui fare esperienza a Londra e soprattutto a Parigi. La cucina francese era pur sempre l’unico faro della cultura gastronomica internazionale. Con i fratelli Mario e Guido in sala, e Tasselli in cucina accanto al timido e instancabile Vittorio, il ristorante diede il meglio di sé. Uno storico capocameriere, Augusto Fava, presidiò con loro la sala per una vita. Solo uno dei quattro fratelli Zurla, il primogenito Gilberto, abbandonò lo squadrone di famiglia dopo gli anni di via Pescherie Vecchie e preferì un lavoro in banca. Al Pappagallo Gilberto entrava solo per collaudare le lasagne verdi o bianche, il pasticcio di tortellini in pasta sfogliata, la supreme di pollo alla

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Zurla, i teneri filetti di manzo proposti in fantasiose ricette che cambiavano con le stagioni. Non c’era dunque bisogno di aspettare l’uscita della prima guida Michelin in edizione italiana, nel 1956, per scoprire che in piazza della Mercanzia c’era il migliore ristorante di Bologna. Né gli Zurla né altri avevano ancora la stella (solo dal 1959 la Michelin cominciò ad assegnarle) ma un simbolo accanto al nome spiegava al lettore che il locale era “molto confortevole”. Dopo appena un anno il simbolo cambiò: “locale di lusso”.

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er la verità, l’esordio italiano della guida rossa, pubblicata in Francia fin dal 1900, non fu vissuto come un evento epo-

cale, né a Bologna né altrove. Il volumetto, molto simile a quelli più recenti, arrivò in qualche edicola e in poche librerie, ampiamente ignorato. Di quel remoto 1956, i bolognesi più stagionati ricordano semmai l’inaugurazione di un palazzo dello sport che pareva una grande astronave atterrata accanto ai lavori di copertura del canale di via Riva Reno, o il successo televisivo di Mario Soldati che dalle pianure padane iniziò i suoi meravigliosi vagabondaggi gastronomici (“Alla ricerca dei cibi genuini”). O perfino l’arrivo dei primi parcometri in piazza Re Enzo, dove si poteva continuare a lasciare la macchina, pagando però venti lire ogni mezz’ora. Pochi fecero caso alla buona pagella che Bologna ricevette nella prima “Rossa”: 16 locali citati, ovvero cinque in più rispetto a Firenze e Torino, sei più di Venezia e Genova. Era una Michelin strana. Non copriva l’intero territorio nazionale. Il testo era in italiano e la copertina in francese. “Italie du Nord, des Alpes à Sienne”, dalle Alpi a Siena. Negli anni sarebbero cambiate tante cose, compreso il rapporto spesso gelido e conflittuale tra la ristorazione bolognese e una guida che, bene

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TAGLIATELLE A VITA. Fernandel, cliente assiduo. Si faceva spedire periodicamente a casa tagliatelle e tortellini. Nelle pagine precedenti, Mario Zurla col fedele pappagallo sulla spalla. Ăˆ un’immagine del 1964.

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o male, continua a essere la più diffusa nel mondo e la più temuta dai cuochi. Per oltre vent’anni fu anche l’unica. Solo nel 1978 uscì la prima Guida dei ristoranti dell’Espresso che aveva come punti di forza il direttore Federico D’Amato, un giovane Edoardo Raspelli e i guru della Nouvelle cuisine Henri Gault e Christian Millau, giornalisti francesi divenuti critici gastronomici.

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hi avesse la pazienza di sfogliare l’intera collezione della Rossa italiana scoprirebbe che nella sua storia il

Pappagallo ha ricevuto la stella per 23 volte (mai due stelle) nonostante alcune stagioni di appannamento. Nessun altro ristorante bolognese ha un medagliere del genere. Ma le medaglie, al locale degli Zurla, arrivarono fin dalle origini. Non si contano gli innamorati illustri. Il primo grande testimonial del locale fu Augusto Murri. Un aneddoto, raccontato tante volte, vale la pena di essere ricordato. Nel 1927 il celebre medico scrisse un consiglio a un paziente: «Caro signore, più che di medicine ella ha bisogno di cibi sani e ben cotti, purtroppo infrequenti nelle comuni trattorie, ma se vuole conoscere una cucina impareggiabile per cibi delicati e deliziosi, vero sanctuaire de la gourmandise e della salute, vada al Pappagallo di Zurla attiguo a San Petronio». Nel 1960 un libro di Leslie Bransby, affermato scrittore di guide turistiche e cronache di viaggi, indicò il ristorante fra i tre migliori d’Europa, insieme all’Epaule de Mouton di Bruxelles e alla Pyramide di Vienne, a sud di Lione. Bransby veniva spesso citato da Dario Zanasi, grande firma del “Carlino” negli anni Cinquanta e Sessanta, raffinato gourmet e presenzialista delle interminabili notti dei giornalisti bolognesi ai tavoli del Pappagallo, di Rodrigo, del Diana. Naturalmente

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Zanasi conosceva sia il ristorante belga («Rammento il potage Madelon, piuttosto grasso, di un gusto decisamente fiammingo che lascia perplessi noi italiani») sia quello francese («Un paradiso nel Delfinato, i cui tartufi non sono meno lodati di quelli del Perigord»). In un bel libro, scritto nel 1965 con Renzo Renzi, spiegava così la sua preferenza nella terna europea di Bransby: Del ristorante bolognese, posto accanto alle due Torri, ho una lunga, ammirata esperienza che m’ha fatto convinto della legittimità dei suoi titoli, fatti di nobiltà, di probità, di finezza. La tipica cucina bolognese (come le popolarissime lasagne, tanto per citare un caso) grazie a geniali interpretazioni e variazioni diventa un piatto di alta cucina, di quelli che piacciono ai sapienti: per esempio a Buonassisi e Veronelli. In tanti altri paesi, a cominciare dalla Francia, si dà scarsa importanza alle minestre, ai potages. Invece i cuochi del Pappagallo sostengono che le minestre, sia in brodo sia asciutte, sono il fondamento, il sabato del villaggio di ogni buon pranzo. Grazie al suo ricchissimo album internazionale, pieno di firme e di aneddoti, il Pappagallo ha non pochi punti di rassomiglianza col viennese Hotel Sacher, che era il luogo di ritrovo dell’aristocrazia asburgica. Volti di attori, attrici, scrittori, uomini di sport, gente in vista e cantanti lirici mi guardano da fotografie leggermente ingiallite dal tempo, con un sorriso da vita facile commentata dagli applausi temporaleschi delle platee e dei loggioni, ma in fondo non mi turbano, non mi impediscono di dare il meritato valore al filetto di tacchino alla cardinale, che è la spada di Toledo dei fratelli Zurla.

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GIOCO DI SQUADRA. Sopra, Bruno Tasselli, Vittorio Zurla e il cuoco Perugini nel 1964. Sotto, i tre fratelli Zurla nel 1950.

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Lo so, è una citazione troppo lunga e l’ho pure tagliata. Ma l’eleganza di Zanasi, il suo amore per la nostra città e la nostra cucina mi hanno sempre emozionato e continuano a farlo. Le centinaia di foto autografate di cui parla Zanasi sono una rara galleria della memoria, apparsa e scomparsa più volte dalle pareti del ristorante nel corso dei decenni, Tyrone Power e Arturo Toscanini, la Loren e la Lollo, Tognazzi e Sharon Stone. L’elenco potrebbe continuare per tre o quattro pagine. Alfred Hitchcock trascorse qualche giorno a Bologna nel 1960. Il regista inglese, che da poco aveva finito di girare Intrigo internazionale, cenò al Pappagallo divertendo i commensali con la sua mimica surreale, l’ironia, l’appetito spaventoso e il vago progetto di girare un giallo a Bologna, magari con un cuoco nel ruolo di assassino. Film mai nato, naturalmente. Fernandel si innamorò dei tortellini al punto da farseli spedire a casa, ogni anno a Natale. Molti anni prima, entrando al Pappagallo, Albert Einstein buttò l’occhio su una frase incorniciata al muro: “A un piatto di tortellini o di lasagne e a una bella donna non si dice mai di no”. Prima di andarsene, il grande fisico tedesco lasciò un foglietto in cui aveva ricopiato quella frase aggiungendo un breve commento: “A saying of superior wisdom, un detto di superiore saggezza”. Scarseggiano invece le testimonianze sull’immancabile visita di Ernest Hemingway, forse il recordman mondiale tra i frequentatori di tavole d’eccellenza, al punto che un ristorante di Madrid espose una scritta divenuta celebre: “Qui Hemingway non ha mai messo piede”. RADICI MEDIEVALI. A fianco, la sala del Pappagallo, al piano terreno di un palazzo di origini trecentesche. Sullo sfondo, la parete coperta di foto autografate da clienti celebri.

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ove andava a pranzo la domenica, prima delle partite casalinghe, il Bologna di Fulvio Bernardini nell’indimen-

ticabile stagione 1963-64? Al Pappagallo, naturalmente. Lo racconta nei dettagli un bel film di Cristiano Governa, Emilio Marrese e Paolo Muran, uscito cinquant’anni dopo l’ultimo scudetto rossoblù e intitolato Il cielo capovolto. La squadra arrivava al ristorante alle 10:45, direttamente dal ritiro di Riolo Terme. Un risino al burro, un filetto con spinaci, un bicchiere di sangiovese e poi una passeggiata in gruppo per via Rizzoli e via Ugo Bassi, tra i cori di qualche drappello di tifosi, fino al bar pasticceria Gamberini dove Bulgarelli e compagni prendevano il caffè. Qualcuno corretto al Fernet, qualcuno con un Ramazzotti a seguire. Si fumavano una sigaretta (quasi tutti) e si incamminavano verso la sede della società che era proprio di fianco, al numero 5 di via Testoni. Un riposino o una partitina a tresette, se i tempi lo consentivano, poi tutti in pullman verso lo stadio. Portarono bene, quell’anno, i pranzi al Pappagallo.

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l periodo più glorioso del ristorante è legato a filo doppio alla passione e all’abilità di Bruno Tasselli. Era un uomo ri-

flessivo, tranquillo come le pianure mantovane in cui era nato. In cucina non lanciava padelle addosso ai collaboratori, non li insultava, raramente alzava la voce. Nulla a che vedere, insomma, con certi cuochi mannari alla Gordon Ramsey, tanto di moda oggi in tv e tanto numerosi nelle cucine bolognesi di allora. Tasselli riceveva premi e attestati con frequenti inviti, anche dall’estero, che spesso rifiutava. Fece un’eccezione per recarsi in Belgio, a Enghien, per ricevere la nomina di Cordon Bleu, un’onorificenza che per un cuoco valeva quanto un oscar. A Marsiglia sbaragliò i colleghi francesi in una gara di

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bouillebaisse. Ogni tanto i giornalisti lo stuzzicavano con polemiche artificiose e inutili. Un bel giorno si venne a sapere che nel ripieno dei tortellini del Pappagallo (udite udite) non c’era il sale. Agli stravaganti sospetti di oltraggio alla tradizione, Tasselli rispose col consueto aplomb: «Io metto lombo, prosciutto, mortadella e parmigiano reggiano, il sale non serve». Difficile dargli torto. Il Pappagallo fu per decenni una tappa obbligata per il bel mondo di passaggio a Bologna. Alla sorella della regina Elisabetta, Tasselli dedicò elegantemente un piatto: il filetto di tacchino alla Margaret Rose. Ricetta complessa, nello stile del tempo (il soggiorno bolognese della principessa risale al maggio 1949). Il tacchino veniva cotto nel burro e nel Marsala, condito con una fonduta e con tartufo, infine presentato fra due strati di pasta sfoglia salata.

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eonida Mirri è un anziano signore che ha gestito per 35 anni la trattoria che tuttora porta il suo nome in vicolo

Alemagna, a poche centinaia di metri da piazza della Mercanzia. I suoi quasi cent’anni non tolgono lucidità al ricordo di Tasselli: «Aprimmo la trattoria nel 1946. Nei primi anni Bruno veniva spesso a trovarci il lunedì, quando il Pappagallo era chiuso. In cucina salutava mia madre Maria che non perdeva occasione per chiedergli qualche suggerimento. A differenza di altri, non sembrava geloso dei suoi segreti. Rispondeva con precisione e spesso concludeva con una frase gentile: signora, dovrei essere io a chiederle consigli. Gli volevamo bene». A Bologna Tasselli divenne il padre nobile dei cucinieri. Cavaliere del lavoro, nome di spicco nella Federazione naBELLISSIME RIVALI. Nelle pagine successive, Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Entrambe le attrici si sono viste più volte al Pappagallo. Mai insieme.

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zionale di categoria. Fu lui, nel dicembre 1972 al Baglioni, il grande cerimoniere del sontuoso centenario dell’Unione cuochi bolognesi, della quale fu presidente dal 1968 al 1980. A fine carriera, affidò allo scrittore Giancarlo Roversi un amaro sfogo: «I tempi della vera cucina bolognese sono finiti, e io finisco con loro». Tanti celebri chef sono passati dai fornelli del Pappagallo nell’era Tasselli e subito dopo: Ermes Landuzzi, che poi trascorse una vita alla Camst, il primatista dei cuochi-giramondo Giuliano Tassinari, il bravo Romano Visani, che nel 1970 fu chef e socio fondatore del San Domenico di Imola e poi ricomparve in altri indirizzi prestigiosi, compreso il Baglioni. Sono personaggi che andrebbero raccontati uno per uno. Di molti di loro riparleremo. Fu proprio Visani a sostituire Tasselli quando gli Zurla, nel 1978, presero l’ormai inevitabile decisione di ritirarsi e cedere il Pappagallo. Entrò in scena un altro protagonista della ristorazione bolognese, Franco Bolini. In città Bolini era sinonimo di Nello, il ristorante che i figli Ezio e Riccardo continuano a gestire con successo nel trecentesco palazzo Vignoli, in via Montegrappa. Quel locale fu rilevato da Bolini nel 1974. L’aveva aperto nel 1948 Nello Malaguti, in società con l’ex cuoco del Diana Carlo Fornari e con Umberto Lambertini, forse l’imprenditore più brillante della ristorazione cittadina nell’immediato Dopoguerra, vedremo perché. Primo nome “Al Montegrappa” e poi, ben presto, Nello. Bolini aveva passione, ambizione e una grande esperienza, maturata anche con “I Franco” che in via della Grada ebbe un certo successo soprattutto a metà degli anni Settanta. Era abituato ai grandi numeri e ai grandi clienti. Gli autografi di premi Nobel, presidenti, stelle del rock e divi immortali alle pareti di

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Nello se la giocavano e se la giocano, per bellezza e ricchezza, con la formidabile collezione del ristorante dei suoi sogni. Che stava diventando suo. A fine 1981 fu firmato il contratto di acquisizione. Nove mesi di ristrutturazione e poi, nell’autunno del 1982, il Pappagallo riaprì. Piovvero recensioni, a volte positive. Il severo Edoardo Raspelli, attirato dall’arrivo di Visani, non apprezzò particolarmente la cucina, ma elogiò «il raffinato tovagliato, le posaterie di argento Sambonet dal taglio maschio», la luminosa piacevolezza finalmente restituita «a un ambiente che era stato lasciato andare alla gastronomica malora». Le materie prime erano scelte con cura, i piatti evitavano voli di fantasia, gli incassi non erano disastrosi. I costi però si rivelarono pesanti, molto più pesanti rispetto alle previsioni. L’avventura durò meno di un anno. A fine agosto del 1983 il ristorante aveva già cambiato proprietario. Bolini e la sua famiglia se ne tornarono in fretta nel quartier generale di via Montegrappa, dove plotoni di turisti e di bolognesi continuavano a divorare lasagne e cacciagione sotto le volte dell’antica sala interrata. Nello non ha mai smesso di essere il loro formidabile punto di forza.

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l nuovo corso del Pappagallo fu un evento, perché se il San Domenico di Imola compra il più blasonato ristorante di

Bologna, è naturale che arrivino giornalisti da mezza Italia. Morini e soci sapevano bene che il ristorante dei mitici Zurla poteva essere un rischio. Una gallina dalle uova d’oro, o una trappola in grado di inghiottire centinaia di milioni di lire. Si può investire male in diamanti, oppure bene in rottami, e viceversa. Ci pensarono a lungo. Decisero di affrontare l’impresa con grande impegno, portando a Bologna il loro stile fatto di raffinatezza e tradizione, fantasia e glamour internazionale.

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Valentino Marcattilii, da mezzo secolo protagonista del leggendario ristorante imolese, racconta così quel passaggio per nulla facile. «Prendemmo il Pappagallo, in società con Morini e altri sei o sette della squadra del San Domenico, dopo molte perplessità». L’assetto del locale, che tanto era piaciuto a Raspelli, non convinceva affatto Valentino: «La ristrutturazione era stata devastante: vetrate liberty colorate, via le foto autografate dalle pareti. Sembrava di essere in una chiesa triste e buia. Terrificante. E poi quei soffitti altissimi, quel rimbombo fastidioso per i clienti a tavola, quella cucina angusta, con due ingombranti travi di legno che avrei tolto con le mie mani, ma che naturalmente non si potevano toccare. C’erano interi scatoloni di cristalli di Boemia, certamente preziosi ma del tutto fuori luogo in un locale di tradizione bolognese. Ce lo facemmo andare bene, per non dover investire altri quattrini. Ma anni dopo, quando prese in gestione il locale, Ezio Salsini ebbe l’ottima idea di cancellare tutto e riportare ogni cosa a com’era». Tasselli non fece mancare una signorile collaborazione con i nuovi arrivati. «Conoscevo Bruno dai primi anni Settanta», ricorda Marcattilii. «Veniva al San Domenico per salutare il suo amico Visani. Lo contattammo per chiedergli di spiegarci come cucinare perfettamente alcuni piatti storici del Pappagallo: i tortellini, serviti anche in una salsa di uova embrionali e midollo, l’eccelsa cotoletta petroniana passata in forno, il ragù tradizionale e quello bianco, fatto solo con carne suina e senza pomodoro. Tasselli aveva un sacro rispetto per il mio maestro Nino Bergese e, di conseguenza, per il San Domenico. Sembrò molto gratificato dall’idea di poterci BRIVIDI E IRONIA. A fianco, Alfred Hitchcock all’ingresso del Pappagallo, braccato dal fotografo Cesari. Il regista arrivò al ristorante nel 1960, durante un breve soggiorno in città. A tavola fu un vulcano di battute e gag surreali.

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LA SIGNORA DE LAURENTIIS. Silvana Mangano davanti al ristorante di piazza della Mercanzia. A sinistra Ezio Radaelli, amico dell’attrice romana e organizzatore del Cantagiro.

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insegnare qualcosa. Il suo ragù bianco lo cucino ancora a casa mia. Per me, non per il ristorante.» Non fu facile, per lo squadrone imolese, gestire contemporaneamente due locali così importanti. «Mi dividevo tra San Domenico e Pappagallo – spiega lo chef – Tre giorni da una parte, tre dall’altra. Morini riceveva i clienti la sera a Imola, poi verso le nove prendeva la sua scalcinata 127 azzurra e arrivava in piazza della Mercanzia. Tanta fatica e poche soddisfazioni, anche perché troppi clienti ci chiedevano i piatti del San Domenico e non quelli del Pappagallo. Dopo due o tre anni ci stancammo.»

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n quel periodo un attore comico sempre più celebre si stava però innamorando della ristorazione (oltre che di Moana

Pozzi e di tanto altro). Così, alla fine di un complicato giro di quote e partecipazioni, il Pappagallo passò ad Andrea Roncato, in società col suo amico Gigi Sammarchi e qualcun altro. Era un momento d’oro per il duo bolognese, strano caso di comici laureati all’Alma Mater. Film, programmi tv e qualche robusto contratto pubblicitario stavano facendo rapidamente dimenticare la loro lunga gavetta degli anni Settanta, quando conducevano un simpaticissimo programma a Teleradio Bologna, in via Caduti di Cefalonia, costantemente assediati da ragazzine sognanti. Andrea ci si mette d’impegno e ripensa il Pappagallo da cima a fondo, menù compreso. Sono anni di sfide e di eccessi. Bologna è viva. Nell’estate 1988 sul palco di Vota la voce, in una piazza Maggiore stracolma, sfilano Eros Ramazzotti, Jovanotti, Gianna Nannini e tanti altri. Alla fine, tutti a cena da Gigi e Andrea. Arriva anche Nick Kamen, l’ex modello inglese pupillo di Madonna. Quando si siede alla tavola del Pappagallo ha ancora in testa il bianco e il rosso di un

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uovo lanciato dalle prime file. Il direttore di sala, che non fa una piega e raccoglie le ordinazioni, è Dante Casari, un maestro assoluto che, per dolorose vicende familiari, aveva da poco ceduto il suo stratosferico ristorante di via Belvedere. Quella sera in cucina c’erano ragazzi che oggi sono più conosciuti di allora: Vincenzo Vottero, ottimo chef di Vivo, Dino Baldini, esuberante cuoco del Centro Storico di Budrio, Giuseppe Garofalo e qualche altro. Bella squadra. Fino a quando in piazza della Mercanzia non spuntarono i baffoni più celebri della Bologna di allora, quelli di Ezio Salsini. Anno 1989. Salsini era uno dei personaggi più estroversi e brillanti della ristorazione bolognese. Conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Cominciò da ragazzino come cameriere, nel 1955, al Diana come decine di suoi colleghi. Inquieto, vulcanico, intraprendente. Ben presto se ne andò a lavorare al San Marco, un hotel con ristorante all’angolo di via Indipendenza con via dei Mille, prima di avventurarsi nel 1957 in qualche bella incursione in Francia. In un elegante locale storico di Parigi, sui Grand Boulevards, seguì Paolo Sarti, successivamente gestore di una trattoria che pareva un meraviglioso clone del Diana, in piazza dell’Unità. Quando Ezio decise di tornare a Bologna, passò da un locale all’altro, crescendo, maturando una solida esperienza di organizzatore e uomo di sala: ancora al Diana fino al 1965, alla Trattoria Lino fino al 1971 quando assume la direzione alla Cesarina, tempio di quella celebre signora che aveva abbandonato Bologna per portare a Roma la gloria dei suoi tortellini. Il successo di Salsini, in via Santo Stefano, fu enorme. D’estate i tavoli del dehors si allungavano lungo il portico come tentacoli di un’estensione imbarazzante, eppure non era mai facile trovare posto. Subito dopo vennero la gestione di Jagus in strada Maggiore (nel 1976), il Quattro

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REGISTA DI PRESTIGIO. Hitchcock a tavola al Pappagallo. Intrattenne i commensali con gag e battute continue.

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Stagioni e poi l’approdo nei caldi e suggestivi locali del Tre Frecce, sotto uno dei portici più alti e più antichi di Bologna. «Lo ricordo soprattutto alla Cesarina», racconta Antonio Amura, elegante napoletano che da una vita gestisce l’Osteria Romagnola di via Rialto: «Sapeva cucinare molto bene, ma il suo regno era la sala. La attraversava a passi lunghi ed eleganti, con l’occhio attento al minimo dettaglio, a ogni piccola necessità. Aveva una predilezione per il suo cagnolino che, non a caso, si chiamava Krug. Per Ezio il calice era quasi un prolungamento naturale della mano. Sapeva scegliere che cosa bere, mentre intratteneva i clienti con ironie e infinite storielle. Sempre con garbo e misura. La migliore cotoletta orecchio d’elefante di tutta la mia vita la ricordo al suo Pappagallo». Dai tempi del Diana a quelli di piazza della Mercanzia, Salsini ha conosciuto tutta Bologna e non solo. E ne ha viste di tutti i colori. Un giorno, all’uscita delle Tre Frecce, un gruppo di giovani fischia e contesta il presidente Bettino Craxi. Un ministro socialista ha la geniale idea di allungare centomila lire verso di loro. Li invita ad andare a bere qualcosa altrove. Quelli, furiosi, gli stracciano le banconote sotto il naso. Volarono schiaffi e insulti. L’intervento degli agenti riuscì a evitare il peggio. Sulle Tre Frecce calò il sipario quasi all’improvviso. Non fu un bel momento per Salsini, quando i facoltosi fratelli Francesco e Gualtiero Cavazza Isolani (famiglia di antica nobiltà, radici a Minerbio, secolo tredici) gli annunciarono il progetto di realizzare, nella loro ampia proprietà di palazzo Isolani, una galleria commerciale che avrebbe collegato strada Maggiore a piazza Santo Stefano. Galleria Isolani, tuttora animata BAFFI LEGGENDARI. Nella pagina a fianco, Ezio Salsini, un grande protagonista della ristorazione bolognese, prima alla Cesarina, poi alle Tre Frecce e al Pappagallo.

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e piacevole. Quel progetto significava la morte del Tre Frecce che Salsini gestiva dal 1980. La proprietà offrì una soluzione alternativa: trasferirsi all’interno della nascitura galleria, negli spazi che oggi continuano a ospitare il ristorante La Capriata. Salsini non ne volle sentir parlare. «Troppo costoso.» Così, una mattina di gennaio del 1993, Ezio chiamò alcuni giornalisti. «Domani sera faccio l’ultima cena.» Non con dodici apostoli, ma con una cinquantina di amici e clienti speciali. Giorgio Guazzaloca e padre Michele Casali, Concetto Pozzati, Francesco Guccini, il comico-gastronomo Vito Bicocchi. Fu un evento memorabile, quasi il film di una vita, di una smisurata passione, del gusto di scherzare e ironizzare anche in un momento sicuramente doloroso. «Organizziamo la resistenza», gridava l’architetto Pier Luigi Cervellati arrivando dalla sua casa-studio, a pochi metri da quel suo ristorante del cuore. «Sì, barrichiamoci qui», sentenziava Bonvi, seduto accanto a Gianni, il fratello di Ezio, che nel suo Tinello di via dei Giudei teneva ancora incorniciato il primo conto chiesto dal disegnatore delle Sturmtruppen: un brodo e sei whisky. Fu un’ultima cena senza tartufi o paté, senza il petto d’anatra al Calvados e le altre raffinatezze classiche che Domenico Cirigliano e altri ottimi cuochi prepararono per anni alle Tre Frecce. Pasta e fagioli e poco altro, tante chiacchiere, brindisi a non finire. Salsini salutò tutti così: «Da domani mi concentro solo sul Pappagallo». Con la moglie Lisa, con un maître impeccabile come Leopoldo Manori. Così fece, impegnandosi anche come presidente dell’Unione cuochi. Con l’avanzare dell’età, le redini del ristorante passarono gradualmente ai suoi familiari. Nessuna gestione, Zurla a parte, è mai durata così a lungo. «Gli anni d’oro di Salsini furono quelli della Cesarina e delle Tre Frecce», commenta Pierantonio Zarotti, altro grande veterano dell’alta ristorazio-

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LA DINASTIA GAZZONI. Pranzo al Pappagallo per Ferdinando Gazzoni Frascara (in piedi) presidente della Sef Virtus. Alla sua destra il figlio Giuseppe che sarebbe poi diventato presidente del Bologna di Baggio e Signori.

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ne, «ma il suo lavoro è stato a lungo apprezzato anche al Pappagallo, che è sempre stato un sogno per quelli che facevano il nostro mestiere». Nel nuovo secolo il ristorante ha cercato, con alterne fortune, di dare modernità e freschezza ai piatti della tradizione. Il tentativo più interessante fu firmato, nel 2011, da Riccardo Facchini, un giovane di talento, molto noto ai fans di Antonella Clerici e della Prova del cuoco. Durò poco.

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ol nuovo millennio l’aria era cambiata. Cinque o sei anni fa era diventata quasi una moda parlar male della vecchia

gloria di piazza della Mercanzia. A Bologna erano spuntati cuochi che, con costanza e pazienza, stavano tentando di costruire qualcosa di nuovo e di diverso: Max Poggi, Agostino Iacobucci, Alessandro Panichi, diversi altri. Alcuni templi della tradizione continuavano a cavarsela in una sonnacchiosa routine. Il Pappagallo non aveva più il passo degli anni buoni, da tempo era sparito dai radar delle guide, ma soprattutto dall’affetto di tanti clienti abituali. Anche le migliori gestioni non durano all’infinito, hanno un’ascesa e un declino. Quel ristorante restava però un marchio prezioso, una formidabile griffe, per dirla col linguaggio della moda. Proprio dal mondo della moda è partita l’idea di una cura ricostituente per il nobile pennuto. Rilancio invitante, impegnativo e ambizioso. Nel 2017 la proprietà del ristorante passa a Michele Pettinicchio e Elisabetta Valenti, una coppia con belle esperienze imprenditoriali nell’abbigliamento e nelle pubbliche relazioni, mai nella ristorazione, che però è una loro passione vera. Pettinicchio dà una prima risistemata alla sala, ringiovanisce la squadra di cucina, rivede da cima a fondo il menù. Sa bene che il 2019 sarà un anno importante: i cent’anni di vita del Pappagallo sono un’occasione da non sprecare. Col supporto di

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Giancarlo Roversi, memoria vivente della cultura gastronomica bolognese, organizza un programma di grande respiro. Cene a tema, eventi, menù storici, originali aperitivi nella medievale torre Alberici, attigua all’antica sala. Non basta. Serve una scossa, un forte segno di novità, ma senza sfregiare una tradizione che per il Pappagallo resta il valore autentico e inestimabile. Così in cucina arriva un pezzo da novanta: Marcello Leoni. Non come cuoco stabile (o resident chef, come si dice oggi nel magico mondo del food) ma nemmeno come frettoloso consulente. La sua regia ha un obiettivo preciso: svecchiare le ricette storiche con tecniche innovative, cotture più precise, freschezza, leggerezza e qualche tocco d’autore. Ai giornalisti lo chef sintetizza così il programma di lavoro: «Voglio dare profondità ai piatti». Senza cancellare lasagne, tagliatelle, tortellini in brodo o “goccia d’oro”, galantine, cotolette petroniane.

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così il filo rosso che dai tempi degli Zurla è arrivato ai giorni nostri, senza mai farci spostare troppo da piazza del-

la Mercanzia, ci ha portato a un altro campione della grande cucina di casa nostra. Marcello Leoni è un talento, istrionico e debordante, ma cristallino. Avremo modo di raccontare meglio i suoi anni stellati e anche quelli più duri. Senza abbandonare la sua Osteria del Mare a Forlì, Marcello ha continuato a lucidare le piume del Pappagallo. Lavori ancora in corso. Però qualche risultato Pettinicchio lo ha già ottenuto, non solo alla cassa del ristorante. Un premio ai suoi ottimi tortellini, un altro al suo impegno di ristoratore, prima che lo tsunami Coronavirus travolgesse ogni cosa: aspirazioni, idee, certezze. In tempi difficili Pettinicchio continua a investire sul ristorante più glorioso di Bologna. Merita attenzione e rispetto.

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LA CITTÀ DELLE DONNE Anno 1952: per la prima volta l’Unione cuochi apre i corsi di cucina ad allieve femmine. Ma la Nerina e la Cesarina erano già protagoniste. Dopo di loro Anna Gennari, Marcella Hazan, le sorelle Simili, Aurora Mazzucchelli. E un silenzioso esercito di grandi sfogline

“I

vostri tortellini sono ottimi, ma quelli di mia nonna sono imbattibili.” Nella classifica delle frasi che un ri-

storatore non vorrebbe mai sentire, questa è ai primissimi posti. A Bologna c’è sempre una nonna, una suocera o una mamma più brava di qualsiasi chef. È un credo inossidabile, è così e basta. Carlo Alberto Borsarini, cuoco-filosofo-musicologo della Lumira di Castelfranco Emilia, lo chiama “mianonnismo”. Può essere un sintomo di provincialismo, di una miope chiusura verso il nuovo che dalle nostre parti non è mai mancata. Ma lo si può anche prendere come un omaggio a una tradizione, al ruolo essenziale delle donne nella cucina bolognese, a una cultura femminile della gastronomia che ha radici antiche e ancora oggi è più viva che altrove. Un piccolo evento aiuta a raccontare questa storia. Anno 1952. Per la prima volta, la potente associazione dei cuochi bolognesi decide di ammettere sedici donne ai corsi CAMPIONESSA. Nella pagina a fianco, la Nerina con Fausto Coppi nella cucina del ristorante di piazza Galileo.

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PRIMEDONNE. La Nerina e la Cesarina, cuoche rivali nella Bologna anni Cinquanta. Con loro il giornalista e gastronomo Bruno Bassini.

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della sua scuola di cucina, la più prestigiosa d’Italia. Il diritto di voto femminile era stato riconosciuto appena sette anni prima. I cuochi presero una decisione sofferta e per nulla scontata. Sotto le Due Torri non avevano mai brillato per progressismo e idee liberali. Molti non nascondevano simpatie monarchiche e fasciste, quasi tutti erano gelosissimi della propria scienza. «Tirano la tendina quando cucinano», racconta un cronista dell’epoca. Non erano affatto contenti di insegnare tecniche e segreti agli uomini, figuriamoci alle donne. Sopportavano a malapena la presenza femminile in ruoli minori che non richiedevano carattere e fantasia: sfogline, lavapiatti, o al massimo cameriere. Arrivò invece una svolta che il giornalista Giorgio Vecchietti raccontò con la consueta efficacia. «Due cose – scrisse – hanno rabbonito alla fine i cuochi più conservatori: la ricorrenza del cinquantenario della società, ossia un avvenimento che può giustificare da solo un gesto magnanimo, quasi un’amnistia concessa dai re della tavola. E il fatto che le nuove aspiranti diplomate abbiano modestamente dichiarato di volersi perfezionare con lo scopo di condurre meglio le pensioni al mare e ai monti, o di variare i cibi in famiglia. Così la pace bolognese ha soddisfatto le donne e ha innalzato il prestigio degli uomini.»

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aturalmente i giornali, impegnati a raccontare le imprese sciistiche di Zeno Colò e le cruente avventure

della banda Casaroli, non diedero gran rilievo alla caduta di quel piccolo tabù. Forse anche perché i successi delle donne non erano una novità per Bologna. Due nomi su tutti: Nerina e Cesarina. Due celebri avversarie. Due grandi tavole,

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famose e apprezzate ben oltre i confini della città. Una era in piazza Galileo. L’altra è un’insegna presente ancora oggi sotto i portici di via Santo Stefano, all’altezza della piazza più emozionante della città. Due donne grintose, sospettose, estroverse, orgogliose, senza peli sulla lingua. La Nerina in grembiule nero, la Cesarina quasi sempre in bianco. Rivalità acerrima, in un’Italia e in una città che per le rivalità impazzivano: Coppi e Bartali, la Loren e la Lollo, Dozza e Dossetti. Il duello fra le signore dei tortellini tenne banco per anni, tra invidie e maldicenze, fazioni e faziosi. Parliamo comunque di due eccellenze che, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, erano le sole stelle Michelin accese a Bologna, oltre al Pappagallo, al Sampieri e ai Tre Vecchi. Rina Calori, per tutti la Nerina, arrivò per prima al successo già negli anni Quaranta, con la sua spartana trattoria quasi di fronte alla questura. Quando la aprì aveva già una certa esperienza, perché allora poteva capitare anche a una donna l’opportunità di girare l’Italia e l’Europa per imparare il mestiere. Cucina bolognese sostanziosa, popolare e succulenta. Lei appoggiava sul tavolo un piatto di minestra e si piantava lì davanti, seria seria. Ti guardava di trequarti, con i pugni sui fianchi, e aspettava un giudizio o un cenno che le facesse capire se quei tortellini o quell’arrosto fossero apprezzati come meritavano. Potevi essere Wanda Osiris, il sindaco o un turnista della Weber, il copione non cambiava. Dalla Nerina il cliente non aveva sempre ragione, ma tutti erano trattati allo stesso modo, senza smancerie o favoritismi.

ACCOGLIENZA. Nella pagina a fianco, una sorridente Nerina davanti all’ingresso del suo locale.

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NON SOLO LASAGNE. Fausto Coppi esamina con cura la cacciagione della Nerina. Da notare il perentorio cartello che vieta l’ingresso a suonatori ambulanti e accattoni.

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TORTELLINI A SPADOLINI. Il trentenne Giovanni Spadolini, appena nominato direttore del “Resto del Carlino”, all’inaugurazione del nuovo locale della Nerina, nel 1955.

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La trattoria funzionò a meraviglia per anni. Nel frattempo però Cesarina Masi, che nel 1947 era approdata in via Santo Stefano abbandonando la trattoria Cervetta di via de’ Fusari, aveva giocato un asso: i tortellini alla panna. La «celebre ostessa bolognese», come la definiva Guido Piovene, raccontò la nascita della meravigliosa creatura in un filmato girato nella sua cucina e custodito negli archivi Rai: «Posso proprio dire che i tortellini alla panna li ho inventati io, fra il ’38 e il ’40, non mi ricordo di preciso. Una sera mi venne l’idea di usare la panna vergine e non solo burro. La panna del latte, ma cruda, mica montata». La Cesarina scendeva poi nei dettagli. «I tortellini vanno tirati sul fuoco, con burro, panna e formaggio, e dopo vanno dentro una ruola e messi nel forno per cinque minuti. Allora vengono belli, lucidi, saporiti e buoni.» La Nerina accusò il colpo. Tentò di reagire puntando sui tortellini al ragù. Abbandonò il vecchio locale e ne aprì uno più elegante e ampio, quasi di fronte, sotto il moderno portico della stessa piazza. La squadra era agguerrita. Il sommelier (anzi, lo chef du vin, come lo chiamavano nel ristorante) era Luciano Draghetti che anni dopo andò a coprirsi di gloria in via Nazario Sauro con la Rosteria Luciano. I tempi migliori della Nerina erano ormai finiti e la sua fama si appannò lentamente. Quella della Cesarina continuò invece a splendere. Nel suo Viaggio in Italia del 1957, Guido Piovene racconta un pranzo nel ristorante di via Santo Stefano. La titolare gli suggerisce di prendere un brodino in attesa della minestra. Quando lo scrittore vede arrivare al tavolo un piatto di tortellini in brodo che non ha ordinato, la Cesarina gli lancia un’occhiataccia: «Il brodo bolognese è quello

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lì che lei ha davanti, non sono tortellini, ce n’è una trentina appena». I tortellini alla panna divennero la bandiera del locale. In realtà, non tutti credevano alla Cesarina quando diceva di essere stata proprio lei a inventarli. Un’altra verità, dettagliata e convincente, venne a galla molti anni dopo. In un bel libro del 1993, Sua maestà il tortellino, Giancarlo Roversi e Giorgio Maioli spiegarono che «i tortellini alla panna non furono un’invenzione della Cesarina, ma della sua amica-rivale Maria Biagi». Andò così. Un giorno le due cuoche stavano chiacchierando tranquillamente nella cucina del ristorante di Casalecchio (quello divenuto celebre per i tortellini più piccoli del mondo). Maria stava armeggiando con la panna. Non c’erano segreti fra loro, si erano sempre scambiate tante ricette in amicizia. La Cesarina rimase folgorata dai tortellini combinati in quel modo. «Capì immediatamente la potenzialità del piatto – scrivono Roversi e Maioli – e, considerando il carattere del personaggio che aggrediva prima di essere aggredita, si può comprendere con quale carica lanciò quei tortellini.» Ivano Biagi raccontò ai due autori che Maria non prese benissimo quella storia: «Per rivalsa, mia madre creò un piatto di successo, i tortellini al forno. Ma alla Cesarina non le disse mai niente». I tortellini alla panna divennero il piatto più elogiato di Bologna. Nessuno si permise di contestarli nel nome della tradizione violata e del brodo umiliato. Questo tormentone, inutile e ozioso come tanti altri dibattiti sulla cucina bolognese, esplose curiosamente molti anni dopo, quando la Cesarina era in pensione da un pezzo.

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SQUADRA ROBUSTA. L’Êquipe di cucina della Nerina. Un giovane sommelier di nome Luciano Draghetti divenne poi un grande ristoratore alla Rosteria Luciano.

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GRANDI NUMERI. Le comitive e le cerimonie affollate non spaventavano i ristoratori bolognesi. Nell’immagine, un pranzo all’aperto dalla Nerina.

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