CARLO CAVICCHI IL PIANO ERA IN APPARENZA UNA FOLLIA E GLIELO AVEVA ANTICIPATO CONSUMANDO UNA SIGARETTA DIETRO L’ALTRA. OGNI VOLTA CHE UN FIAMMIFERO PRENDEVA FUOCO I SUOI OCCHI S’ILLUMINAVANO SINISTRI E LUI FOLGORAVA STEFANO. ERA CONVINCENTE, SEMBRAVA DAVVERO UNO CHE AVEVA PIANIFICATO OGNI COSA SIN NEI MINIMI PARTICOLARI. ELENCAVA PERSONE, LUOGHI, AZIONI COME SE FOSSE TUTTO SEMPLICE, SCONTATO.
RAPIREMO NIKI LAUDA
CARLO CAVICCHI (Bologna, 1947) ha diretto giornali per trent’anni, partendo da “Autosprint” per arrivare a “Quattroruote”, e questo significa che ha mangiato pane e automobili per tutta la vita. Presidente dell’Associazione Mondiale dei Giornalisti di Rally dal 1979 al 1984, membro della giuria del Car of the Year per 23 anni e membro della giuria mondiale dell’Auto del Secolo a Las Vegas nel 1999, ha vinto numerosi premi giornalistici e scritto molti libri dedicati al mondo delle corse tra cui Senna Vero, a quattro mani con il grande asso brasiliano, che vanta ben otto ristampe, l’ultima nel 2014 in occasione dei 20 anni dalla morte del pilota. Con Minerva ha pubblicato nel 2018 il romanzo Però lo scoop è mio e nel 2019 Dentro l’Osca. Quel miracolo bolognese che seppe stupire il mondo.
CARLO CAVICCHI
RAPIREMO NIKI LAUDA UN PIANO PERFETTO CON UN UNICO BERSAGLIO: IL PILOTA MIGLIORE DEL MONDO
Romanzo
Cover design: Alessandro Battara Illustrificio Morskipas
MINERVA
Un piano perfetto messo a punto nell’arco di quasi un anno: rapire il pilota migliore del mondo, Niki Lauda, nel momento della sua massima ascesa a metà degli anni Settanta. Un blitz in grado di fruttare un grande riscatto capace di far svoltare la vita ai suoi due ideatori, un austriaco e un italiano. Una storia che nasce da lontano e si dipana fra Bologna e il Friuli Venezia Giulia, con flash veri e sorprendenti, in buona parte ben poco noti dai circuiti della Formula 1, in un anno in cui potevano capitare vicende incredibili come quella di un pilota famoso che ruba la donna a un popolarissimo attore del cinema, e quella di un altro celebrato attore del cinema che porta via la moglie a un pilota non meno illustre. Il romanzo, fra scommesse illecite, case chiuse, amori sinceri e altri traditi, muove la sua trama avvincente, come un vero giallo, da una “diceria, mai provata e mai nemmeno smentita” che girava nel sottobosco degli addetti ai lavori dell’automobilismo e del giornalismo nello scorcio di quegli anni, quando la città delle Due Torri non era Chicago, però…
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CARLO CAVICCHI
RAPIREMO NIKI LAUDA UN PIANO PERFETTO CON UN UNICO BERSAGLIO: IL PILOTA MIGLIORE DEL MONDO
MINERVA
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Incontri migliaia di persone, le tocchi e non accade niente. Poi ne incontri una che nemmeno sfiori e la tua vita cambia. Per sempre
La sveglia gracchiò, con il suo verso ostile, alle 5 del mattino. Per Pavel non era più un’abitudine, aveva smesso di usarla da quando aveva ceduto la sua attività di gommista in Dejvice, nella periferia di Praga. Era successo tre anni prima, nel 2016, si sentiva stanco seppure l’attività procedesse sempre bene. Ma a settantasette anni era il momento di dire basta e da tre anni si era isolato nel suo appartamento per vivere da vecchio. E solo, qual era. Non aveva dunque più bisogno della sveglia al mattino, lasciava che fosse il sonno avaro dell’età avanzata a dettargli i tempi del risveglio, permettendo a un prolungato dormiveglia il piacere di rallentare la discesa dal letto. Non aveva nulla da fare se non quello di tirare sera, e ringraziava la buona salute che non gli complicava la vita. Questa volta, però, la sveglia l’aveva dovuta impostare facendo anche un po’ fatica a ricordarne i comandi, come spesso succede con gli aggeggi elettronici che si usano poco. Le cinque, un orario da operai pensò mentre lambiccava con quell’affare di plastica 5
con i numeri rossi luminosi che lo aveva inquietato per almeno vent’anni, quando bisognava essere in strada a tirare su le due serrande del locale e accendere la targa luminosa “Formule 1 – Servisní a prodejní pneumatiky”. Il vestito, quello buono e scuro che non indossava da chissà quando, era già pronto sulla sedia in camera, e così la camicia e la cravatta. Si era sbarbato prima di dormire per non dover perdere tempo la mattina e non rischiare di fare tardi con il taxi che sarebbe stato ad attenderlo alle cinque e mezza giù di sotto, anche questo prenotato con grande anticipo. Non c’era tanta fretta perché il treno per Vienna partiva alle 6:44 e a quell’ora le strade sarebbero state presumibilmente deserte, ma l’appuntamento era troppo importante per correre il rischio di perderlo e lui non poteva mancare. Glielo doveva. A dispetto degli 80 da poco compiuti, Pavel Marek aveva ancora un portamento fiero che non denunciava le fatiche di una vita, anche se l’idea di un viaggio di quattro ore lo preoccupava un po’. Nell’atrio d’ingresso della stazione, un ambiente sempre pieno di fascino per la sua architettura Art Nouveau, c’era tutto il tempo per una veloce colazione, così si accomodò sulle poltroncine marroni a sinistra dell’entrata e si godette una volta di più la lunga sequenza di statue e di stemmi sulla cupola. Era il 29 maggio, ma a quell’ora non faceva molto caldo e si rallegrò per aver preso con sé il suo spolverino blu, leggero quanto bastava per non dare fastidio ma pur sempre capace di proteggerlo dal 6
maltempo. Si era portato dietro anche un ombrello perché aveva guardato le previsioni e aveva visto che a Vienna era annunciata pioggia. Il viaggio sembrò durare ben più delle 4 ore programmate per coprire i 260 chilometri che separavano le due capitali, e meno male che questo era un treno ad alta velocità che oltretutto costava anche parecchio, ma ai vecchi pensionati qualsiasi cosa sembra sempre costare parecchio. Durante il viaggio ogni tanto il cuore aveva fatto le bizze, con palpitazioni fastidiose di cui andava un po’ soggetto anche se i medici lo avevano in un certo qual modo tranquillizzato sostenendo che la fibrillazione atriale è molto diffusa tra le persone anziane quando si agitano un po’. E lui agitato lo era perché si stava portando all’ultimo saluto di una persona cara, che gli aveva svoltato la vita. Fuori dalla maestosa cattedrale di Santo Stefano c’era già molta gente anche se mancavano ancora due ore alla cerimonia funebre di Niki Lauda, la prima di sempre concessa a un campione dello sport. Forte del fatto che quando si è vecchi si diventa anche più spudorati, perché tanto a una certa età fare un po’ i finti tonti è sempre concesso, si era infilato in una porta con scritto sopra “Reservierter Zugang”. Era un ingresso riservato, e in fondo allo stretto corridoio c’era l’accesso alla navata di sinistra, peraltro un punto non troppo lontano dall’altare. Una posizione a suo modo privilegiata perché più tardi gli avrebbe permesso di vedere distintamente la bara in legno chiaro portata a spalla da sei addetti con un elegante 7
soprabito scuro e poi distinguere il casco rosso posato sopra e messo in bella vista da Birgit, la seconda moglie di Niki. Senza bisogno di occhiali aveva passato in parata tutti gli ospiti importanti, almeno quelli a lui conosciuti. Il presidente della Repubblica austriaca Alexander Van der Bellen, l’attore Arnold Schwarzenegger, lo sciatore Franz Klammer, il tennista Boris Becker. E poi quelli del mondo auto dei vecchi tempi, Jackie Stewart e Arturo Merzario, e tutti quelli che era riuscito a individuare, Hamilton, Prost, Berger, Alesi, Mansell, Bottas, Rosberg, Wurz, ben sapendo che molti altri ancora erano sicuramente presenti, mescolati tra tante autorità come mai ricordava d’aver visto nemmeno nelle grandi cerimonie in televisione. E a maggior ragione era contento di essere riuscito a entrare perché nel frattempo aveva sentito da uno al suo fianco che fuori c’era una marea di persone assiepate dietro un lunghissimo cordone, a dispetto della pioggia che cadeva fastidiosa. Pavel non era ovviamente sistemato tra le autorità più in vista, ma si era accomodato poco dietro la metà della chiesa, mescolato a gente che comunque doveva essere molto vicina al grande campione scomparso visto che era riuscita a sistemarsi nei posti a sedere, considerando che almeno altre tremila persone in piedi assistevano, dentro la cattedrale, alla cerimonia. Sotto le navate aleggiava una tristezza diffusa, disturbata comunque da troppe persone che scattavano foto con il loro telefonino, forse per tenersi un ricordo, ma più probabilmente per provare che erano lì. 8
Le parole recitate dal capitolo 25 del libro di Isaia, lette da Alain Prost, erano state ascoltate da tutti i presenti in un silenzio suggestivo. Poi era toccato ad alcuni presenti raccontare qualcosa riguardo il pilota scomparso, e non furono discorsi di circostanza. A Pavel piacque molto il presidente austriaco quando disse, tra le altre cose, che «Lauda aveva capito come connettere un cuore enorme con una mente cristallina», ma due grossi lacrimoni gli rigarono il viso quando sentì l’ex pilota Gerhard Berger salutare la bara con un sentito e commosso «Niki, preferirei parlare con te piuttosto che di te». Poi ci furono le tante canzoni amate dal pilota scomparso che riempirono di musica il duomo, a cominciare dalla toccante Baby can I hold you cantata dal vivo da Tracy Chapman per finire con Imagine dei Beatles. Un’atmosfera irreale per una funzione religiosa. E fu lì che, notandolo molto commosso, un signore dal portamento elegante gli domandò se fosse un parente di Niki. «No, ma gli sono assai legato e gli devo tanto. Ma ci vorrebbe troppo tempo per spiegarle perché: è una storia che parte da molto lontano.»
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Un uomo senza speranze appisolato in una chiazza d’ombra
Si fissarono a lungo senza vedersi mai, gli occhi dell’uno e dell’altro persi nel vuoto. Quelli di “Reno II”, il vecchio e stanco leone dei Giardini Margherita, si proiettavano verso l’infinito, che poi per l’animale era soltanto un chilometro più avanti, in quanto fin dalla nascita era sempre stato rinchiuso in quella gabbia. Dove arrivava il suo sguardo finiva il suo mondo, una terra sicuramente piatta, di sicuro piccola e senza dubbi misteriosa, perché tutta al di là delle sbarre che non aveva mai potuto attraversare. Stefano Pirazzoli era invece stravaccato sulla panchina di fronte e non si dava pace perché era lì a perdere tempo anziché al lavoro come tutti i suoi coetanei e come faceva lui fino a un anno prima. Non guardava il leone, gli passava attraverso e vedeva soltanto un grande buio. Tra le mani teneva il “Resto del Carlino” aperto sulla pagina degli annunci e con una penna aveva segnato con cerchi decisi qualche possibile opportunità di impiego, una porta a cui andare a bussare seppure fosse tremendamente difficile ottenere qualcosa nella 11
Bologna di metà anni Sessanta per via di quel maledetto intoppo che gli aveva svoltato l’esistenza. Pensava e parlava da solo, si chiedeva se la vita fosse semplicemente una disgustosa parola per sintetizzare una situazione spiacevole. «Così è la vita, ci vuole tanta pazienza», gli diceva qualcuno, ma anche «la vita non fa sconti», oppure «passare a miglior vita… il costo della vita… su con la vita… fare la vita…», o ancora: «pancia affamata, vita disperata.» Insomma, la vita s’identificava soltanto con i problemi. In piena estate, e già verso mezzogiorno, attorno a lui non c’era più nessuno: sparite le nonne con i bambini, e già rientrati a casa i pochi vecchi col quotidiano sgualcito sotto il braccio. Si trovava in un grande parco a misura di disperati con tutte le panchine al sole, quasi che chi a suo tempo le aveva sistemate lungo i vialetti avesse scelto le posizioni meno felici perché destinate a chi poteva oziare, al contrario di lui che era lì soltanto per collocarle. Aveva 26 anni e nell’Italia del boom economico significava essere un adulto fatto e compiuto. Diplomato con ottimi voti in ragioneria al Pier Crescenzi, s’era imbucato subito presso lo studio da commercialista del dottor Bortolotti, uno dei migliori della città. Un colpo di fortuna perché in due anni aveva imparato tanto, soprattutto sul come accontentare i facoltosi clienti e pure le aziende più spregiudicate nel “far fruttare meglio i loro i quattrini” come si diceva nel gergo corrente dell’ufficio. Erano anni in cui il Paese aveva fame di tutto. Il mercato chiedeva e l’importante era essere in grado 12
di offrirgli quello che voleva. Per le imprese era indispensabile guadagnare il massimo non per fare cassa ma per ampliarsi, per crescere; e i nuovi imprenditori avevano il mestiere, la voglia di fare, ma non la propensione alla buona gestione del loro giro d’affari. Si presentavano dal commercialista con fogli e foglietti nella tasca destra con sopra segnati i crediti da riscuotere, e nella sinistra il rotolo delle fatture da pagare. Quasi sempre il libro mastro che tenevano era sommario, pieno più di appunti tirati via piuttosto che di veri numeri, e poi c’era l’Ige che era una tassa malefica che si pagava nel susseguirsi dei passaggi, così che il costo finale risultava tanto maggiore quanto più numerosi erano gli scambi intervenuti prima dell’immissione del bene al consumo. Le imprese, nel tentativo di ridurre per quanto possibile l’impatto del tributo sul compratore finale, occultavano molti trasferimenti, tanto più che la regola imperante erano i pagamenti in contanti e non dichiarati. Il bravo commercialista doveva allora sistemare con accortezza entrate e uscite, poi avere i giusti rapporti all’Ufficio delle Imposte, nel senso di conoscere le persone con cui si doveva trattare per arrivare a imponibili minimi, quindi mettere un po’ d’ordine nelle contabilità dell’azienda affinché gli agenti della Guardia di Finanza, nel caso di un controllo, fossero poco invitati ad approfondire e se ne potessero ripartire rasserenati. In ultimo, serviva avere buone conoscenze con gli addetti delle banche per avere vantaggi sul credito e un occhio misericordioso sullo scoperto. Poche regole, ma chiare. 13
Stefano era sveglio ed era una spugna quando si trattava d’imparare: aveva il senso per gli investimenti e la disinvoltura nel trattare anche operazioni contabili non troppo limpide, sempre sbilanciate nell’interesse esclusivo dei clienti piuttosto che delle casse dell’amministrazione pubblica. Così dopo appena due anni era stato consigliato dal dottor Bortolotti a un suo cliente, l’anziano Teodoro Galimberti, proprietario di un importante calzaturificio della provincia che da una decina d’anni cresceva bene in fatturato e lavoro. «È la persona giusta per lei», gli aveva suggerito. Aggiungendo: «Nel momento di grande espansione che la sua azienda sta attraversando le serve in sede uno che si sappia già muovere come si deve. Lo affianchi al ragionier Degli Esposti che è bravo ma un po’ anzianotto e troppo attaccato a vecchi modelli operativi. Vedrà che questo Pirazzoli le sarà di grande aiuto: sarà un ottimo collegamento tra la sua attività quotidiana e il mio studio. Sarà tutto più facile». Seguirono anni preziosi in fabbrica con un ruolo sempre più importante. Le cose andavano bene, i dipendenti sfioravano le 300 unità e la produzione era sempre in crescita arrivando al migliaio di paia di scarpe confezionate al giorno. Pirazzoli aveva la spinta dovuta alla giovane età e, sul piano dei quattrini, l’entusiasmo del creativo: sapeva gestirli bene senza esagerare troppo con operazioni dubbie. In più sembrava un attore di Hollywood, di quelli con la voce profonda, la mascella forte e i capelli a onde impomatati quanto basta. Per farla breve, 14
si presentava bene, era credibile e piaceva alle tante operaie che se lo mangiavano con gli occhi quando passava per i reparti, sogno proibito di quelle sposate e obiettivo inarrivabile delle nubili che lo vedevano anche come una magnifica soluzione ai loro problemi futuri. Per tutti in fabbrica era il ragionier Stefano, un bel modo di sottolineare allo stesso tempo il cameratismo e anche il grado, un po’ un amico ma anche un capo. Una posizione invidiabile con prospettive stimolanti. Dove sarebbe mai arrivato quel giovanotto di successo nel giro di un decennio? Tutto era stato ipotizzato, fuorchÊ che finisse a cercarsi un domani cerchiando gli annunci di lavoro sul quotidiano cittadino.
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