Gardini il Corsaro

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A Valeria, Gianguido, Giovanni


RITRATTI Collana

GARDINI IL CORSARO Storia della Dynasty Ferruzzi: da Serafino alla Montedison e a Enrico Cuccia

di Alberto Mazzuca

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Maria Irene Cimmino Immagine di copertina © 2013 Ferdinando Scianna/Magnum © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Finito di stampare nel mese di Luglio 2013 per i tipi della Grafica Veneta (Pd)

ISBN: 978-88-7381-522-8 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Alberto Mazzuca

GARDINI IL CORSARO Storia della Dynasty Ferruzzi: da Serafino alla Montedison e a Enrico Cuccia Prefazione di

Marco Vitale

Minerva Edizioni



INDICE

Prefazione di Marco Vitale

pag. 7

Introduzione

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Come si crea un impero

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Ravenna? Alla periferia di Venezia

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Dal grano all’olio e allo zucchero

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Un uomo solo al comando

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Montedison, il Vietnam di Cuccia

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La Ferruzzi nella Montedison

155

“La chimica italiana sono io”

196

Dynasty insanguinata

251

Dopo il processo

310

Indice dei nomi

345

bibliogafia

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PREFAZIONE

Il bel libro di Alberto Mazzuca lo si legge come un avvincente romanzo. E se questo è certamente un complimento per l’autore, forse non lo è per i personaggi dei quali narra e soprattutto per il principale attore, Raul Gardini che, non per caso, venne liquidato da Giorgio Bocca come «un personaggio da romanzo» e quindi non importante come imprenditore e come italiano. All’inizio del libro Mazzuca elenca i giudizi fortemente contrastanti su Raul Gardini e la sua epoca che lui suscitava e ancora suscita. Tra questi io sono in sintonia con Marco Borsa che, nel suo indimenticabile libro scritto con Luca De Biase: “Capitani di sventura. Perché rischiano di farci perdere la sfida degli anni Novanta” (Mondadori, 1992) formulò, con Gardini ancora vivente, attivo e potente, un giudizio molto severo: «Gardini. Il grande bluff», supportato peraltro da un’analisi ed una riflessione approfondite, che il trascorrere del tempo rende ancora più convincenti e lungimiranti. E sono in sintonia anche con il giudizio di uno dei migliori consulenti d’azienda italiani degli ultimi 50 anni, Pietro Gennaro, che disse: «Il grande imprenditore non è stato Gardini, ma suo suocero Serafino Ferruzzi. E quello che Gardini ci mise di suo fu tutto sbagliato». Ma ad eccezione di questi commenti iniziali, necessari per capire perché è utile ripercorrere oggi quella tumultuosa storia di vent’anni fa, e di alcune brevi conclusioni finali, il grande merito di Mazzuca è quello di evitare di addentrarsi in giudizi e conclusioni politicofilosofiche, e di limitarsi a raccontare, con scrupolo, meticolosità, partecipazione, le complesse vicende personali ed economico-finanziarie che si intrecciano in questa lunga, tormentata, significativa vicenda, fornendo al lettore la conoscenza necessaria per farsi un proprio giudizio. Il libro non è, dunque, un saggio né di politica né di economia; è un racconto, di una storia vera di una famiglia imprenditoriale che, per la sua rilevanza, è però anche storia collettiva. Una storia meticolosamente documentata, seriamente ricostruita, ben raccontata. E, dunque, da un lato si tratta della lettura di una vicenda umana affascinante per tutti, dall’altro di un vero e proprio libro di storia utile per chi vuole riflettere su quei decenni 7


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cruciali per il nostro presente e il nostro futuro. In questa chiave, grazie a Mazzuca, anche il mio giudizio sul personaggio diventa più articolato. Mentre esso resta fermamente negativo su Gardini imprenditore (ma in compagnia di tutti gli altri “capitani di sventura” e dei politici tangentari che il libro ci fa toccare con mano, che ci hanno fatto perdere la sfida degli anni Novanta), diventa più sfumato sul piano umano. In alcune vicende Gardini diventa persino simpatico, pur nelle sue smargiassate e nelle sue drammatiche contraddizioni, come quando spara a zero contro il regime imperante della corruzione, sostenendo, giustamente, che un paese avanzato non può prosperare con tanta corruzione, regime peraltro che, anche lui, alimentava. Ma altri grandi imprenditori e capitani di sventura hanno alimentato il sistema della corruzione, senza soffrirne e senza tentare di sfuggire allo stesso come, sia pure velleitariamente, tentò di fare Gardini. È altresì vero che Gardini, come parecchi hanno rilevato, era uomo di grandi visioni che spesso si sono rivelate corrette ed anticipatorie. Ma le visioni senza la capacità di commisurare obiettivi e mezzi in modo equilibrato ed efficiente non fanno un buon imprenditore. Due sono i personaggi principali di questa storia: Serafino Ferruzzi e Raul Gardini. Forse solo Shakespeare poteva inventare, nello stesso dramma, due personaggi così diversi tra loro. Il primo è accumulatore di patrimoni ed evoca i grandi mercanti italiani del Trecento per la intensa capacità di lavoro, le qualità realizzatrici, l’abilità di muoversi con successo nel commercio internazionale. Il secondo è dilapidatore di patrimoni. Il primo quando muore è probabilmente l’operatore più liquido d’Italia; il secondo quando lascia è, su base consolidata con il gruppo di imprese che ha guidato, probabilmente il più indebitato del mondo. Il primo è sobrio, il secondo è smargiasso, esibizionista e scialacquatore. Il primo rifugge dai media e dai giornalisti. Il secondo si vanta di essere la persona più intervistata e fotografata d’Italia e, secondo la peggior tradizione dei capitalisti italiani, i giornali li compra. Il primo è furbo, prudente, avveduto e quando si accorge che i tempi d’oro per il commercio dei cereali stanno finendo, si avvia cautamente verso nuovi settori molto ben individuati (partecipazione in Unicem con la Fiat nel cemento e diversificazione nell’agroalimentare con Eridania). Il secondo diversifica in modo disordinato e si impegna contestualmente nella chimica, nella far8


Prefazione

maceutica, nell’agroindustria, nel cemento, nelle assicurazioni, nei giornali, nell’America’s Cup e in tante altre attività che, tutte o quasi, richiedono grande impegno e capacità manageriali oltre che finanziarie, scaricando sull’indebitamento bancario e sul mercato finanziario i costi, quasi sempre spropositati, delle sue acquisizioni, e finisce con le acque minerali anche queste comprate a carissimo prezzo. Il primo è sempre tempestivo nelle sue mosse, cioè si muove, anche grazie a un sistema di informazioni molto efficienti, al momento giusto e ciò gli permette grandi speculazioni con successo come quella sui cereali nel 1973 che, si dice, gli fruttò 200 milioni di dollari di allora; il secondo è spesso fuori tempo, o troppo in anticipo o troppo in ritardo. Il primo temeva i politici e la loro tendenza a saltare addosso alle ricchezza privata per spogliarla. Il secondo odiava i politici ed era convinto, come un novello Mattei, di poterli dominare. Il primo, nella sua sobrietà e riservatezza, cercava di essere amico di tutti e soprattutto dei potenti della finanza, come David Rockefeller; e resta leggendaria la scena di quando comparve al mercato delle merci di Chicago: quando fu riconosciuto, gli operatori arrestarono la loro attività in segno di deferenza mentre suonava la sirena in segno di saluto e rispetto per un trader così importante. Il secondo litigava con tutti e non aveva amici se non quei pochi veri amici di gioventù, che lo accompagnarono per tutta la vita con ammirevole fedeltà, come Vanni Ballestrazzi. Entrambi, però, sono accomunati da una strategia di fondo contraria alla trasparenza e al mercato. E la tendenza si accentua man mano che il gruppo è più presente, con le sue varie attività, sul mercato finanziario e borsistico. Per cui è convincente la conclusione di Marco Borsa, quando scrive: “Resta il fatto, tuttavia, che la strategia Ferruzzi vista con l’ottica di questo libro, non è altro che il tentativo di una famiglia ricca e potente di scaricare il più possibile sul mercato e sui terzi le conseguenze degli errori della loro gestione”. In sostanza Gardini non è un buon imprenditore, come l’esito delle sue imprese inequivocabilmente dimostra, ma il racconto di Mazzuca ci fa conoscere una persona umanamente affascinante, certamente molto migliore di tanti altri protagonisti o comprimari di questa storia. E la conferma di ciò si ha nella sua tragica fine e nelle parole con le quali mamma Isa, la moglie di Serafino Ferruzzi, rimpiange, al momento della morte, il prediletto genero: “Nel 9


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ricordo del marito Serafino Ferruzzi nonna Isa rimpiange con fede cristiana il prediletto genero Raul Gardini al quale era legata da reciproco amore e stima che il tempo ha accresciuto e che la morte non potrà cancellare”. Ma ritornando alla vicenda imprenditoriale di Gardini e della Gardini–Ferruzzi, per la fase successiva alla morte di Serafino, mi sono chiesto se essa potesse essere sviluppata in uno di quei casi aziendali attraverso i quali, all’università, cerchiamo di illustrare e testimoniare agli studenti principi, metodologie, responsabilità, comportamenti del buon management. Penso che questa vicenda potrebbe rappresentare solo un caso in negativo, una eloquente lezione di cosa e come non bisogna fare. Secondo la mia opinione Gardini non è «l’uomo nuovo del capitalismo italiano» come lo definì Cossiga, il politico che è stato premier e capo dello Stato, né il «primo del nuovo», perché «rifiutava il regime» politico di quegli anni basato sulla corruzione e sui ricatti, come lo definì Vanni Ballestrazzi, il fedele amico di una vita. Gardini, osannato dalla stampa nostrana anche quando faceva disastri, è piuttosto «l’espressione del volto più arretrato del capitalismo italiano» come lo definisce il Financial Times quando nel gennaio 1988 si presenta al mercato finanziario con un progetto di ristrutturazione della Montedison che incontra l’ostilità della Borsa, della stampa internazionale e, persino, di una parte della stampa nazionale. Come scrive Marco Borsa, nel 1992: “Benché uomo nuovo emerso negli anni Ottanta, Gardini appare portatore di vecchissimi vizi della borghesia speculativa italiana. Il primo dei quali è di subordinare, senza la minima esitazione, qualsiasi interesse aziendale alle sue ambizioni personali… ‘Quando viene annunciata un’operazione di ristrutturazione societaria del gruppo Ferruzzi – dice uno dei più sperimentati analisti della Borsa di Milano - io so già che cosa devo fare: comprare la capogruppo e vendere qualunque altro titolo. Perché una cosa è certa: i guadagni si concentreranno in alto vicino alla famiglia e le perdite si scaricheranno in basso, nell’oceano del risparmio’. Questo giudizio un po’ drastico e severo del mercato, rivela che l’attitudine dei Ferruzzi è rimasta quella del rapace capitalismo finanziario familiare che considera le aziende roba propria al pari degli animali nella stanza, di frutti dell’orto e della casa, di cui si può disporre esclusivamente a proprio vantaggio e godimento. Il fatto che nelle aziende siano coinvolti altri azionisti, banche creditrici, dipendenti, sindacati, appare tutto sommato irrilevante”. 10


Prefazione

Ed è proprio qui che la vicenda Ferruzzi-Gardini si intreccia con i grandi temi nazionali e diventa da “Dynasty familiare” un capitolo della crisi italiana, anche attuale. Se vogliamo capire perché oggi siamo in ginocchio, perché la chimica italiana è stata dispersa, perché l’Olivetti è morta, perché la Fiat per sopravvivere ha dovuto diventare americana, perché la Finmeccanica è affogata in scandali e mala gestione, perché la Telecom è caduta nell’irrilevanza e gioca alle ombre cinesi, perché il Monte dei Paschi, dopo oltre seicento anni di storia utile e gloriosa, è in ginocchio, perché, insomma, il capitalismo storico italiano ha registrato una Caporetto disastrosa e sulla linea del Piave resiste eroicamente solo il quarto capitalismo delle medie imprese di qualità (delle quali i Gardini-Ferruzzi avrebbero potuto essere parte ma non lo sono stati per eccesso di avidità, provincialismo e mancanza di un sistema di valori imprenditoriali solidi), non dobbiamo partire dalla crisi americana dei mutui subprime, come molti economisti fanno, ma da storie come questa che illustrano la debolezza morale, intellettuale, professionale del capitalismo storico italiano, dalle vicende dei capitani di sventura, che, insieme ai politici corrotti, ci hanno fatto perdere la sfida degli anni Novanta e ci hanno relegato in un angolo a contare fagioli, insieme all’ineffabile Mediobanca di Cuccia, supremo regista di tanti fallimenti. Marco Vitale Brescia, 14 aprile 2013

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È un bell’uomo. Alto, bruno, fisico d’atleta, solare, battuta pronta e a volte irridente. Alterna periodi di buon umore e di gioia di vivere a momenti di grande riservatezza che possono sconfinare nella timidezza; riesce facilmente ad essere simpatico ma sa sfoderare anche un caratteraccio da orso; di solito appare calmo ma è capace di improvvise arrabbiature che lo rendono arrogante come può esserlo un padrone di vecchio stampo. Una volta dirà a Biagi: «L’opinione degli altri conta poco per me». È imprevedibile, generoso, schietto, instancabile, curioso, affascinante, combattente, orgoglioso, sicuro di sé, ambizioso, quasi sempre ottimista, a volte anche freddo e calcolatore. E sbruffone, spaccone, guascone. Ha gusti semplici ma sa essere megalomane; è furbo ma capace di intuizioni a volte geniali; spesso ha uno sguardo strafottente, reso ancora più evidente dall’avere sin dalla nascita un occhio un po’ più piccolo dell’altro, ma sa essere anche pieno di riguardi. E ha un sorriso contagioso. Gli piacciono il mare, la barca, il vento sul volto, la caccia, la famiglia, la sua terra, le sfide, i sogni. E pensa in grande. Odia invece essere contraddetto, l’ultima parola deve essere la sua. E se così non è, manda l’interlocutore, chiunque esso sia, a quel paese. Come avvenne con Enrico Cuccia, il nume tutelare del capitalismo italiano. Difficilmente si scusa. Questo è Raul Gardini, un uomo decisamente non facile. Agricoltore, imprenditore, finanziere, velista di prim’ordine e armatore, ma armatore di panfili per regate, è il protagonista della storia di una importante realtà industriale del paese in un periodo in cui tra politica e affari s’intrecciano rapporti molto ambigui fino a sfociare nel malaffare e nella corruzione. E protagonista anche di una turbolenta Dynasty italiana che non ha nulla da invidiare alle famose soap opera statunitensi con scorrerie e scalate in Borsa, guerre di potere, lotte familiari, fondi neri, centri economici sfruttati da partiti, boiardi di Stato, avventurieri in un paese, dirà Mario Silvestri, «in dialisi di onestà»: è poca la trasparenza del mercato, poca la concorrenza, grande invece la voracità della partitocrazia, grande la distruzione di ricchezza. È questo il panorama in cui deve muoversi Gardini suscitando pareri contrastanti: chi lo ritiene insieme ad Agnelli, De Benedetti, Romiti, Pirelli come uno dei pochi “capitani coraggiosi” dei dorati anni Ottanta e chi invece lo considera 13


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come l’ultimo dei “capitani di sventura” di quegli stessi anni, chi lo vede rappresentare “il nuovo” in quel decrepito capitalismo italiano privo di capitali in cui i furbi comandano con i soldi degli ingenui e chi lo vede invece allineato con tutti quelli che restano a galla solo grazie all’appartenenza al cosiddetto “salotto buono” attrezzato da Mediobanca, chi lo inserisce a pieno diritto nel Pantheon dei grandi italiani come fa nel 1999 la Treccani nel suo monumentale Dizionario biografico in una nota redatta dallo storico dell’industria Franco Amatori. Opinioni completamente opposte. Giorgio Bocca, il giornalistascrittore, lo definisce «un pirata romagnolo che giocava grandi azzardi sulla sua pelle» ma lo liquida anche come «un personaggio da romanzo» che quindi non merita un posto tra i grandi italiani. Cesare Geronzi, il banchiere di sistema che per decenni ha gestito i rapporti tra affari e politica, lo considera «una forza della natura» che gli ha destato «una grande impressione”. Lucio Villari, lo storico, lo vede come «un piccolo grintoso» e basta. Marco Borsa, il giornalista economico autore del libro “Capitani di sventura”, lo ritiene «un grande bluff» il cui merito principale è stato solo quello di saper bluffare. Gianni Agnelli gli riconosce «grandi passioni» e «grandi visioni». Giuseppe Ciarrapico, l’imprenditore ciociaro notoriamente di destra e notoriamente legato a Giulio Andreotti, lo include non solo tra i migliori industriali italiani ma lo stima perché «non ha la puzza al naso». Luigi Guatri, ex rettore della Bocconi e all’epoca presidente del collegio sindacale Enimont, lo descrive «poliedrico, dinamico, coraggioso, creativo, portato al comando e alla lotta con una vasta conoscenza del mondo degli affari». Filippo Maria Pandolfi, più volte ministro e commissario europeo, rimane colpito dalla sua «grande intuizione e grande forza intellettuale» e ha incisa nella memoria una frase che gli ha detto il presidente della Comunità europea, Jacques Dèlors: «Voi avete un grandissimo personaggio in Raul Gardini ma chissà se sarete all’altezza di meritarlo…». Cesare Romiti gli attribuisce «una grande umanità, dosi di sincerità e altruismo» ma ricorda anche «la sua convinta autoesaltazione» di essere un grande imprenditore. Gae Aulenti, la designer che ha con Gardini un rapporto di lavoro poi diventato piano piano di stima e di amicizia, lo considera «una persona moderna, di cultura, di grande sensibilità, tesa al futuro e non al passato». Francesco Cossiga, il politico che è stato premier e capo dello Stato, lo reputa «l’uomo nuovo del capitalismo» 14


degli anni Ottanta. Vanni Ballestrazzi, l’amico di una vita, pensa anzi che sia «il primo del nuovo» in quanto «rifiutava il regime» politico di quegli anni basato sulla corruzione diffusa e sui ricatti. Pietro Gennaro, un guru del management, la pensa diversamente e sostiene che «il grande imprenditore non è stato Gardini, ma suo suocero Serafino Ferruzzi. E quello che Gardini ci mise di suo fu tutto sbagliato». Tutto sbagliato? Possibile? Eppure Gardini ha idee, è convinto di quel che dice, si batte per poterle realizzare, manda persino al diavolo politici ed establishment senza preoccuparsi delle conseguenze. A volte esagera come quando paragona i manager «a cani da riporto». A volte le sue idee, forse anche un po’ troppo fantasiose, possono rasentare l’utopia come quando sogna, ricorderà Sergio Zavoli, un «capitalismo solidale» o come quando, dichiarerà Gianni Agnelli, cerca di «costruire in buona fede un’industria chimica capace di competere nel mondo». All’inizio i suoi progetti sembrano, dirà Romano Prodi, «visioni solitarie» ma in seguito diventano «il programma condiviso dei paesi più sviluppati». Suscitano anche sorrisi di scherno come quando vuole collegare la chimica con l’agroindustria, due culture completamente opposte; ed invece dalla sintesi di queste due realtà può nascere qualcosa di molte forte, dichiarerà Catia Bastioli, la ricercatrice che ha portato avanti con successo «la grande intuizione» di Gardini che lo rende «un antesignano» nel campo delle bioplastiche. Certo, Gardini è talmente estroverso e impulsivo da passare talvolta per rivoluzionario, anarchico, più spesso per matto. In più di un’occasione Enrico Cuccia lo definirà proprio in questo modo, un mezzo matto, un folle. Cesare Romiti racconterà che, dopo una sera a cena a Torino, Raul lo aveva salutato dicendo che sarebbe subito ripartito ed era invece andato a dormire su una panchina del Valentino «come fanno i marinai quando la barca si ferma in qualche porto». Enzo Berlanda si sentirà rispondere da Gardini ad una domanda fatta avendo a fianco il presidente della Sec americana e il presidente della Consob Franco Piga che a quel punto comincerà a sudare più del normale: «Mille miliardi non sono niente, mi dica un titolo della Borsa italiana e domani mattina lo faccio saltare…». Una volta lo stesso Gardini userà una frase che a molti era parsa solo una battuta un po’ strampalata ma che sottintendeva invece qualcosa di molto serio: «La chimica sono io». Del resto lo ammetterà anche lui: «Quando ho avuto voglia di fare il matto nella 15


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vita, l’ho fatto, ma sapevo perfettamente quel che stavo facendo». Creandosi numerosi nemici. Di sé lui dice: «Sono come Serafino, come mio padre: gente tutta d’un pezzo». La storia di Gardini, che non può prescindere da quella imprenditoriale e bellissima di Serafino Ferruzzi e che ad un certo punto sì intreccia con quella tumultuosa della Montedison e della chimica italiana di Eugenio Cefis e Mario Schimberni, è un tassello importante della storia politica, bancaria, industriale di questo Paese in cui malaffare e corruzione hanno un peso molto forte. Un tassello nella storia di quel capitalismo all’italiana in cui molti imprenditori si comportano da padri-padroni e gestiscono le aziende, dirà Salvatore Bragantini, ex commissario della Consob, come «una tasca della loro giacca», i banchieri vanno a braccetto coi politici perché senza di loro non occuperebbero quelle poltrone, i politici pensano più ai loro interessi particolari che a quelli generali. È una storia che va quindi nuovamente raccontata. E va ri-raccontata (utilizzando carte inedite dell’archivio di Mario Schimberni e testimonianze, anche queste in parte inedite, raccolte in quasi un quarto di secolo) proprio a vent’anni dalla morte di Gardini, avvenuta a Milano il 23 luglio 1993 nel torbido clima di caccia alle streghe scatenato da Tangentopoli. Va ri-raccontata per dare a Cesare quel che è di Cesare: capire almeno quali meriti gli spettano. Ognuno potrà così farsi un proprio giudizio.

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COME SI CREA UN IMPERO

Romagnolo, Raul Gardini nasce a Ravenna il 7 giugno 1933, sotto il segno dei Gemelli. Appartiene a una famiglia piuttosto ricca. I Gardini sono proprietari terrieri, possiedono centinaia di ettari nella bassa ferrarese e lungo il litorale adriatico: nonno Silvio è stato un innovatore nell’apicoltura e nella frutticoltura; papà Ivan, carattere sanguigno e fanatico per la caccia, ha allargato la proprietà bonificando terre paludose nei dintorni di Ravenna e comprandone altre: nel 1952 acquista, nella zona dove ora sorge il Lido degli Estensi, un’ampia area ricca di pinete, fagiani e beccaccini in cui sarà poi realizzato uno dei primi camping d’Italia; uno zio, Mario, è stato il podestà e il fondatore di Jesolo; un altro, Renato, è il preside del liceo scientifico di Ravenna, ha fama di grande matematico, scrive libri di testo per le scuole medie superiori ed è un grandissimo giocatore di scacchi: riesce a vincere le partite pur voltando le spalle alla scacchiera. La famiglia della madre, Bruna Piazza, è proprietaria di una fonderia di ghisa e bronzo che durante la guerra ha fabbricato bossoli di cannone per poi convertirsi alla produzione di macchine per il vino. Uno zio materno, Gianni, è morto a Guadalajara durante la guerra civile spagnola. Raul ha un fratello minore di tre anni, Franco. E insieme a lui cresce tra Ravenna e una località in cui il padre fa lavori di bonifica: Cava Zuccherina, nei dintorni di Jesolo. È di nuovo a Ravenna quando scoppia la guerra e dopo l’8 settembre tutta la famiglia si trasferisce in una tenuta agricola nei pressi dell’abbazia di Pomposa. Con loro ci sono anche lo zio Mario e quello che diventerà il suo migliore amico, Vanni Ballestrazzi, anche lui ravennate, figlio di un pilota d’aviazione ricercato contemporaneamente dai repubblichini e dai partigiani e molto amico di Mario e Ivan Gardini. Così i Ballestrazzi troveranno ospitalità proprio a Vaccolino e continueranno ad averla anche quando più tardi il fronte si avvicinerà e i Gardini si trasferiranno a Gorino, in un’altra azienda in cui la terra è stata completamente allagata dai tedeschi. Per Raul, Franco e Vanni, quello di Vaccolino è un periodo molto felice. Scorrazzano per i campi, vanno a caccia di uccelli usando la fionda come arma, catturano le rane nei fossi che poi sono servite fritte a cena. Vanno a scuola in bici e talvolta a cavallo, mettono in 17


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piedi un piccolo allevamento di conigli, si sentono liberi e autonomi. Poi i ragazzi si perdono di vista per qualche mese: Raul va in collegio a Ferrara, Franco dal nonno Silvio a Russi, Vanni dal nonno a Imola. E a guerra ultimata si rivedono a Ravenna: Vanni frequenta la seconda media al San Pier Damiano e in classe ritrova Raul, che ha un anno di meno, ma è andato a scuola con uno di anticipo. Così i due ragazzi si siedono nello stesso banco e riallacciano un’amicizia che durerà per tutta la vita. Raul frequenta poi a Cesena l’istituto d’agraria ed è ospite di una famiglia senza figli, Vanni fa il classico a Ravenna. Si vedono ogni fine settimana, soprattutto si frequentano durante l’estate a Marina di Ravenna. E in un gruppetto di amici che si muove sempre in branco, fanno il bagno e si tuffano dal molo, corteggiano le ragazzine, ascoltano divertiti i consigli sulla vita dati da un vecchio e rude pescatore con il volto tagliato nel legno, Pipino il Moro. Vanno soprattutto in barca a vela, Raul possiede già un piccolo lightning, in quegli anni una delle classi più diffuse al mondo. Un giorno, sul molo, una ragazzina resta ammirata dai suoi tuffi che definisce «ad angelo». E gli chiede: «Ne fai uno per me?». Si chiama Idina ed è la primogenita di Serafino Ferruzzi, un importatore di cereali piuttosto benestante, spesso all’estero anche se non spiccica una parola d’inglese e ne conosce a malapena quattro di francese. Idina ha 14 anni e s’innamora di quel giovanotto che ne ha due di più e che a Ravenna abita a un centinaio di metri da casa sua. Del resto le due famiglie si conoscono quasi da sempre. Quell’estate Raul, che anche lui ha un debole per quella ragazzina dalle gambe lunghe, conosce Serafino Ferruzzi. In realtà non gli è del tutto sconosciuto; lo ha visto per la prima volta quando, ancora bambino, aveva accompagnato il nonno Silvio a comprare da lui qualcosa per le api. Quell’anno Raul è stato rimandato a settembre in matematica, da sempre la sua spina nel fianco, e per andare a ripetizione percorre quasi ogni pomeriggio in bicicletta gli 11 chilometri che separano la cittadina balneare da Ravenna. All’andata, con il vento di mare che soffia alle spalle, tutto fila liscio. Qualche problema c’è invece al ritorno, con il vento in faccia: e così lui cerca ogni volta di accodarsi alla scia di qualche motociclista in modo da fare meno fatica. Un giorno capita dietro il Guzzino rosso di Serafino che, terminato il lavoro, raggiunge la famiglia che d’abitudine trascorre l’estate a Marina di Ravenna. E al mare Serafino l’invita poi a cena. I due ragazzi si frequentano sotto l’occhio benevolo del ramo femminile dei Ferruzzi, nonna Dina e mamma Elisa, ma di nascosto da 18


Come si crea un impero

papà Serafino. Si vedono di giorno in spiaggia, di sera gli incontri diventano invece più difficili. Idina preferisce allora attendere che il padre vada a letto prima di sgattaiolare fuori casa (talvolta accompagnata dalla nonna) e raggiungere Raul per poi andare al cinema o fare un salto in qualche locale da ballo. Talvolta usa anche Arturo, il fratellino, come messaggero di bigliettini d’amore. I due si vedono d’inverno anche a Ravenna, durante i fine settimana. E quando lui compie 19 anni, si fidanzano ufficialmente. Secondo le regole di una volta. Ivan Gardini, il padre di Raul, va da Serafino a chiedere la mano della figlia: «Sei contento se Raul si fidanza con l’Idina?». E una volta che Ferruzzi risponde di essere d’accordo, Idina, incollata con l’orecchio alla porta, si precipita al telefono a «raccontare tutto» a Raul. L’indomani Gardini corre a comprare in una gioielleria del centro un anello di brillanti. È una coppietta giovane e felice. E tra i ravennati c’è anche chi cerca di fare i conti in tasca alle due famiglie. I Ferruzzi sono già benestanti e hanno un patrimonio decisamente in crescita: Serafino è partito da zero, ha fatto il fattore e il rappresentante di fertilizzanti, prima di trasformarsi in mercante di cereali, ma ha idee, un grandissimo istinto e un notevole fiuto per gli affari. Ha anche il coraggio di rischiare oltre ad una spiccata flessibilità di giudizio. I Gardini sono possidenti, avevano 500 ettari di terra prima che la riforma agraria di quegli anni ne portasse via 130, economicamente stanno sempre abbastanza bene, ma sono un po’ chiusi nella loro proprietà terriera, quasi incapaci di cogliere opportunità di sviluppo diverse. Raul dirà che in quel periodo il reddito delle due famiglie poteva essere più o meno allo stesso livello. Di certo lui, che dopo il diploma s’iscrive alla facoltà di agraria di Bologna dando solo pochissimi esami, non nasconde di essere un «figlio di papà». Ha una bella bicicletta anche se non mostra una grande passione per il pedale: preferisce così sedersi sul cannone della bici e far pedalare l’amico Vanni. Appena diventa maggiorenne, prende la patente per l’auto. E subito usa la macchina del padre: una 1100 tv. Più tardi la cambia con un’Alfa coupé. E guida spericolatamente. Una mattina all’alba, mentre percorre un tratto di strada perfettamente rettilineo della Romea, si scontra frontalmente nei pressi di Ravenna con una vettura che proviene dal senso opposto. Sono le due uniche macchine in quel momento e, per quanto non si sia mai capito sino in fondo come l’incidente sia potuto succedere, l’urto è tremendo: Raul viene sbalzato fuori 19


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dalla vettura, l’altro automobilista muore sul colpo incastrato tra le lamiere. Era un mezzadro dei Ferruzzi. Ai soccorritori Raul appare come una maschera di sangue: gli sono saltati quasi tutti i denti, un braccio è rotto, ha un taglio molto profondo vicino ad un occhio. Resterà in ospedale per quasi due mesi. Si riprende molto bene. E in ricordo di quel tragico incidente gli resteranno una protesi dentaria e decine di cicatrici. Frequenta sempre Idina, di tanto in tanto si reca nell’ufficio di Ferruzzi a scambiare quattro parole con Serafino che, dopo aver comprato un’azienda agricola dei conti Rasponi, appare molto interessato ai lavori di meccanizzazione che i Gardini stanno affrontando nelle loro terre, si vede quasi ogni giorno con Vanni Ballestrazzi e inizia a leggere in maniera «quasi frenetica». Di tutto un po’. Rimpiange di non aver fatto anche lui il liceo classico, la scuola che «dà una quadratura più completa». Si confida moltissimo con Vanni così come Ballestrazzi si confida moltissimo con lui. Di solito i due s’infilano in un bar a giocare a biliardo. Vanni vince quasi sempre la prima partita, Raul la seconda e poi anche la bella dimostrando, ricorderà l’amico, «di essere un giocatore nato». Lo sarà anche nel poker e nel ramino pokerato, guadagnando, ma perdendo anche cifre importanti. Talvolta i due amici escono anche in comitiva, talvolta alla compagnia si aggrega Franca, la sorella di Idina. È una ragazza piuttosto timida e dallo sguardo dolcemente miope, che ha interrotto il liceo classico a Ravenna per studiare in Svizzera. La comitiva non passa inosservata: non solo comprende i rampolli delle famiglie più benestanti della città, ma anche Vanni è conosciutissimo nonostante la giovane età. Si è iscritto a legge a Bologna ma anche lui dà pochissimi esami. In compenso ha invece iniziato a lavorare nella redazione ravennate de Il Resto del Carlino, in quegli anni l’unico quotidiano della zona. Si tratta di una piccola redazione che in una cittadina di provincia pone però anche un giornalista alle prime armi allo stesso livello delle massime autorità. Nel 1956 Vanni ne diventa il responsabile, prendendo il posto di Tino Dalla Valle. E dal momento che spesso Raul passa a prenderlo in redazione insieme ad Idina e Franca per poi andare al cinema o da qualche altra parte, si diffonde ben presto la voce che ci sia del tenero tra il giovane giornalista e la seconda figlia dei Ferruzzi. In effetti c’è feeling ma non c’è il seguito. E Franca torna all’estero, in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Racconterà: «Papà scelse per me le migliori scuole del mondo». 20


Come si crea un impero

Nel 1957 Raul e Idina si sposano nella chiesa di San Francesco. Lui ha 24 anni. Testimone per Raul sono Vanni Ballestrazzi e lo zio Mario, per lei lo zio Francesco e il professor Luigi Perdisa, un grande amico del padre e un nome importante nel settore agricolo: ravennate, è preside della facoltà di agraria all’università di Bologna e scrive anche manuali per i docenti e prontuari pratici per gli agricoltori. Un grande personaggio al quale Ravenna dedicherà anni dopo l’istituto tecnico agrario. Qualche settimana prima del matrimonio Serafino, che Raul chiama con gli amici “Seraf”, porta il futuro genero e la figlia a vedere la costruzione del suo primo silos in cemento nel porto di Ravenna. E i tre rimangono lì a parlare fino alle 4 del mattino. Ricorderà Gardini: «Ci spiegava cosa avrebbe fatto e come l’avrebbe fatto. Un panorama nitido di quel che poi sarebbe effettivamente successo. Vedeva due anni più avanti di tutti gli altri perché aveva in mano tutti i ferri del mestiere». E qualche settimana dopo il matrimonio Serafino propone al genero di entrare con una quota nel cementificio che sta costruendo. Il padre di Raul non sembra entusiasta ma lo lascia libero di decidere, lo zio Mario ne parla invece come di un’occasione da non perdere. E alla fine Raul accetta comprando una quota del 10%. I 40 milioni di lire necessari li sborsa il padre. Poco tempo dopo il primo attrito tra Raul e il suocero. Gardini ha il compito di seguire i lavori di costruzione del cementificio. E dal momento che si è perduto già molto tempo per un blocco nei finanziamenti, la costruzione procede di giorno e di notte. Ma nel cantiere Raul c’è e non c’è. Quando ha voglia di andare a caccia o di uscire con la barca a vela, non ci pensa due volte. E per Ferruzzi, il quale vorrebbe invece che il genero seguisse i lavori persino di notte, si tratta di un affronto imperdonabile. Così una mattina scoppia in escandescenze quando scopre che Raul è assente. E riesplode nuovamente quando se lo trova di fronte 24 ore più tardi con il suo sorriso strafottente. «Una bella litigata», ricorderà uno dei primi dipendenti di Ferruzzi, Renzo Strocchi. Ad un certo punto Gardini, che ha un altro carattere tutto pepe, manda il suocero a quel paese e se ne va esclamando: «Nella vita ho sempre fatto quello che ho voluto e continuerò a farlo». Non mette più piede nello stabilimento in costruzione per un certo periodo, lo trascorre quasi sempre a giocare a poker. Poi, grazie anche alle pressioni di Idina, Ferruzzi gli scrive due righe: “Caro Raul, faccio appello ai tuoi sentimenti, riavvicinati a me”. E lui ritorna. Sarà la prima di tante altre lettere di riappacificazione dopo tanti altri litigi. Dirà Idina: «Un vero epistolario». 21


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Le intuizioni di Serafino Ferruzzi Per buona parte degli anni Cinquanta Serafino Ferruzzi, che è del 1908, non è il più importante commerciante di granaglie. Non è nemmeno il maggiore importatore. Il più noto è un padovano, Romano Pagnan, il quale si è fatto nel settore la fama di persona molto dura e molto furba. E poi a Napoli opera Giuseppe Rocco, in Emilia è abbastanza forte Italo Orlandi di Carpi, la zona di Verona è considerata una specie di feudo in mano ad Otello Mantovani, ad Ancona c’è Angelini, a Genova Profumo, a Milano Rusconi. E ancora: Poggioli a Bologna, Carapelli a Firenze, Gibertoni a Reggio Emilia, persino nella stessa Ravenna si muove un altro temibile concorrente di nome Edo Miserocchi. C’è soprattutto la Federconsorzi, la capillare e poderosa organizzazione dei consorzi agrari. È dotata di un’esperienza molto vasta nel settore, ha spalle finanziarie all’apparenza molto solide, dispone anche di agganci stretti con il mondo politico democristiano e quindi con il potere forte di quegli anni. Ma proprio perché le spinte clientelari sono numerose e manca una precisa strategia imprenditoriale, la Federconsorzi si è di fatto trasformata in un baraccone burocratizzato e inefficiente. Accade l’incredibile: per quanto abbia come concessione statale il monopolio del commercio estero granario (e lo manterrà sino al 1962), la Federconsorzi abbandona paradossalmente qualsiasi tentativo di essere il principale importatore nazionale nel settore agroalimentare. E lascia campo libero a chi vuole emergere. Così nel 1948 Serafino, che ha solo 40 anni, si butta in questa nuova avventura. Non è del resto la prima. Ravenna è una provincia prevalentemente agricola che solo nel secondo dopoguerra si apre con decisione alla meccanizzazione. Si produce in particolare frutta, nell’industria prevalgono le imprese di trasformazione, dagli zuccherifici agli stabilimenti conservieri. Ferruzzi nasce povero. La sua è una famiglia di piccoli agricoltori, mangiapreti e repubblicani in una terra in cui sotto il regime di Mussolini fascisti e socialcomunisti se le davano di santa ragione. Perde la madre quando ha ancora i calzoncini corti e insieme al fratello Francesco, di un paio d’anni più grande, deve dare una mano al padre Aldo, che possiede e lavora (Raul lo definirà «un modesto contadino») tre ettari di terra tutti attorno a casa, in via Faentina, poco al di là delle mura di Ravenna. E poi costruisce anche canestri di giunco che vende in particolare durante la vendemmia. Serafino, chiamato semplicemente Fino, si diploma nel 22


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1927 all’istituto d’agraria di Imola (con levatacce mattutine per non perdere il treno che lo porta a scuola) e trova subito un posto di aiuto fattore nelle aziende agricole del marchese Cavalli mentre Francesco, familiarmente Cecco, diventa geometra e va a lavorare all’ufficio del catasto. Sono molto diversi i due fratelli. Francesco, l’impiegato, è un po’ l’elegantone della famiglia: gli piace indossare abiti e cravatte all’ultima moda al punto che Serafino lo prende a volte anche in giro: «Cecco, vuoi che ti porti il cambio d’abito sino al passaggio a livello?». Politicamente è anticomunista, conosce Ettore Muti che a Ravenna è una testa matta, ma è anche uno dei capi dello squadrismo fascista e sarà poi soprannominato da D’Annunzio “Gim dagli occhi verdi”, ha parecchi amici tra cui due ravennati che diventeranno molto conosciuti, Attilio Monti, il futuro petroliere ed editore, e Giacomo Cirri, il futuro presidente del Credito Romagnolo. Trova noioso il lavoro al catasto, prende privatamente anche il diploma di ragioniere per poi potersi laureare a Bologna in economia e commercio e con quella laurea in tasca entra alla Cassa di Risparmio di Ravenna: sarà a lungo l’unico laureato della banca. Si sposa con la figlia di una famiglia benestante ma parte ugualmente per la guerra d’Abissinia come capo manipolo dell’ottantunesimo battaglione Ravenna delle camicie nere, volontario in un battaglione di volontari. «Un bel pataca», gli dice Serafino, proprio un bel fesso. Serafino è invece un tipo di poche parole, quasi un musone. Ha pochi amici, raramente entra in una sala da ballo, ma ha una memoria formidabile e la capacità di andare subito al cuore del problema. E poi questo innato senso per gli affari. Dopo l’esperienza dal marchese Cavalli, inizia a commerciare in concimi e mangimi in società con un coetaneo, Lorenzo Benini, un perito agrario che tutti si ostinano a chiamare Sante, biondo, figlio di un proprietario terriero che ha sei poderi attorno a Ravenna coltivati a frumento, vigna, erba medica e noto nella zona con il soprannome di Pipino della Monaldina in quanto la famiglia gestisce da tempo anche la terra dei conti Monaldi. E grazie proprio ad un prestito di 50 mila lire dato dal padre di Sante Benini, Serafino prende un capannone lungo la via Faentina da utilizzare come magazzino. Serafino fa tutto lui: visita col motorino del padre (ma poi ne compra uno suo) le fattorie e i poderi della zona finendo per diventare un esperto di prodotti agricoli, non perde uno dei mercati dei dintorni nemmeno se il tempo fa le bizze, il venerdì comincia ad anda23


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re anche alla Borsa granaria di Bologna. Mettendo anche a segno qualche fruttuosa speculazione. Ma contemporaneamente acquisisce un’ottima conoscenza dei meccanismi alla base del trading: i tipi di rischi, le variabili legate alla qualità delle merci, ai tempi di trasporto, all’organizzazione, col tempo anche alle valute. Capisce come nella vita occorra saper rischiare, ma mai alla cieca, riprende a studiare e nel 1932 assume la rappresentanza per la Romagna dei concimi della Montecatini, un colosso della chimica italiana con il monopolio nel settore dei fertilizzanti. Apre allora a Ravenna un ufficio di sole due stanze in via Mariani, a fianco del teatro comunale, e sposta il magazzino in via Renato Serra, nei pressi del macello. Nella prima delle due stanze, quella che s’affaccia sulla strada, mette un bancone e i campioni dei fertilizzanti in vendita; nella seconda un paio di scrivanie. Assume anche un impiegato, Teseo Subini, successivamente lo sostituisce con Mario Cicognani e Widmer Brunetti. Sono questi i primi impiegati di quella che allora si chiama “Agenzia agricola Ferruzzi-Benini”. Trova anche il tempo per innamorarsi e sposarsi. Conosce una bella ragazza di nome Elisa Fusconi, figlia del proprietario di una fornace lungo via Ravegnana e molto cattolica. Il matrimonio viene celebrato nel 1934 nella chiesa di San Rocco e due anni dopo nasce la prima figlia che, in ricordo della madre, Serafino vuole chiamare Ida ma sarà invece per tutti Idina. E per lei Serafino costruisce con le sue mani una culla di giunco. Poi Ferruzzi cambia casa, si trasferisce in una villetta a tre piani in via Ravegnana, di proprietà della moglie e molto vicina alla fornace del suocero. E la famigliola aumenta anche di numero: nel 1938 è la volta di Franca, nel 1940 di Arturo. Alessandra, l’ultima, arriverà solo nel 1954. Allo scoppio della guerra Serafino è chiamato alle armi e finisce a Bologna in una caserma di autieri. E da lì non si muove, continuando bene o male a seguire i propri interessi. Va regolarmente al mercato del grano di Bologna a trattare mangimi, anche se la vendita dei fertilizzanti si è molto ridotta, e nel 1942, quando il vento della guerra soffia a favore degli Alleati e la moglie è sfollata con i figli ancora piccoli nella casa del padre di Serafino, al di fuori di Ravenna, riesce a prendere la laurea in agraria grazie anche alle facilitazioni concesse a chi indossa la divisa militare. Ma dimenticherà ben presto di essere un “laureato di guerra”. Ricorderà Lella Pantoli, una coetanea di Serafino: «Si mostrava orgoglioso di quella laurea, diceva che era la prima cosa ottenuta con le sue sole forze». 24


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Nel 1943, dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia, la caduta del fascismo e l’8 settembre con l’esercito italiano che si sfascia al grido di “tutti a casa”, Serafino è a Ravenna. Si riunisce alla famiglia, sempre sfollata nella casa del padre, e dal momento che si vendono sempre meno fertilizzanti, ha un’idea: lavorare industrialmente la canapa macerata e venderla alla Montecatini. Si mette d’accordo con il solito Benini e in più associa all’iniziativa un altro coetaneo, Leo Manetti, un omone robusto e alto più di un metro e ottanta, stempiato e con gli occhi incredibilmente azzurri. È l’ultimo di una famiglia di sette fratelli che hanno delle terre, ma si occupano in particolare di trasporti, inizialmente coi carri e i cavalli, in seguito con i camioncini. E per questa loro attività continuano ad essere etichettati in Romagna come “birocciai” anche quando il calesse è da tempo relegato in soffitta. Manetti non ha grandi studi alle spalle, ma è un lavoratore instancabile, a soli 15 anni ha avuto il coraggio di andare in bicicletta sino ad Ancona pur di realizzare un affare. Inoltre possiede anche un camion, per quanto ancora nascosto da qualche parte per evitare che venga requisito dai tedeschi, e ha fama di essere un buon organizzatore. Grazie ai soldi di Benini e al camion di Manetti nasce così la società “Gruppo produttori canapa” di Manetti, Fusconi e Blatti. Dove Fusconi e Blatti sono i nomi delle mogli di Ferruzzi e Benini. Ma un anno dopo il magazzino è distrutto dalle fiamme, c’è chi racconta che ad appiccare il fuoco siano stati per qualche motivo i partigiani. E con le fiamme vanno in fumo anche i risparmi di Benini e Manetti. A Benini poi, già padre di due figli, muore anche la moglie Bianca, uccisa da una pallottola vagante mentre si trovava affacciata a una finestra lungo la strada che porta a Marina di Ravenna. Sono insomma momenti molto difficili a cui cerca di far fronte, con il suo inguaribile ottimismo, la moglie di Manetti, Libera: «Siamo giovani e dobbiamo andare avanti». È ancora Serafino ad avere l’idea buona. Viene a sapere che sull’Appennino toscano, nei pressi di Rufina, c’è un bosco in vendita. Un affare. E allora lo compra insieme con i due soci perché, dice, con la fine della guerra ci sarà bisogno del legno per la ricostruzione. Ogni giorno si alza alle 4 di mattina per essere all’alba tra i boschi: fa il viaggio con Bruno Mazzini, uno dei tanti trasportatori della zona coinvolti nell’iniziativa, dal momento che il camion salvato da Manetti dalle grinfie dei tedeschi in fuga non è sufficiente. E poi c’è bisogno anche di altre braccia per segare gli abeti, caricare 25


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i tronchi sui mezzi di trasporto e lasciarli nei cantieri disseminati lungo il viaggio di ritorno. Un lavoro sfibrante, tanto è vero che per renderlo più agevole viene creata una specie di teleferica, grazie alla bravura di Renzo Cotignoli, un fabbro che lavora in un’officina vicino alla casa di Serafino. E con la prospettiva della grande fame di case che ci sarà nel dopoguerra, Ferruzzi riapre anche la fornace del suocero, da qualche tempo in disuso, trasformandola in una fabbrichetta di calce. Dalle fame di nuove abitazioni alla fame della gente. E in un paese che ha abbracciato per una manciata di voti la repubblica, buttandosi alle spalle la monarchia, e si avvia faticosamente sulla strada della democrazia, Ferruzzi riprende a vendere concimi e mangimi della Montecatini. Nello stesso tempo allarga il campo anche a qualche prodotto agricolo. Così quando fiuta che la Montecatini è in trattativa per trasferire alla Federconsorzi l’intera distribuzione di concimi e mangimi, Ferruzzi è pronto nel giocare la sua carta: fornirà materie prime agricole ad un’Italia che ne ha enormemente bisogno. Insieme agli altri due soci crea nel 1948, con il capitale diviso in tre parti, una società a responsabilità limitata, la “Ferruzzi, Benini e C.”. Acquista la prima partita di grano, cinquemila quintali, dalla Sardegna, ed è Manetti che va a ritirarla. Poi l’importa anche dall’Est, quindi compra orzo dall’Algeria e dal Marocco. E quasi subito costruisce nel porto di Ravenna un magazzino per il carico e lo scarico delle merci. Responsabile del magazzino, due stanzoni dove viene anche effettuata la selezione del grano da semina, diventa Renzo Strocchi, un giovane di 18 anni che già da qualche tempo frequenta l’ufficio di Ferruzzi per dare una mano a Brunetti. E a lui viene attribuito, pur sotto la supervisione di Manetti, anche l’incarico della pesa. Solo più tardi gli organici aumentano con l’ingresso di un nuovo amministratore, Luciano Bendandi, figlio di un capo officina della Callegari ma con tanto di laurea in scienze economiche, e di un ragazzino tuttofare di 14 anni, Giuliano Melandri, figlio del barbiere di cui Serafino è cliente abituale. Ferruzzi fa il mediatore e il commerciante. Indossa spesso lo stesso abito scuro piuttosto sgualcito, usa il treno per andare a Bologna e si muove nei dintorni di Ravenna a bordo di un Mosquito, una bicicletta col motore. E dal momento che il motorino fa quasi sempre le bizze, Giuliano Melandri si offre spesso di pulirgli le candele in cambio di un giretto; solo più tardi Serafino abbandona il Mo26


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squito per utilizzare una Balilla a tre marce di proprietà di Manetti. Diventando sempre più mercante intuisce, sin dall’inizio, che per crescere ci vuole una buona organizzazione. E che occorre essere anche puntuali nelle consegne. Talvolta, comunque, non si fa tanti scrupoli, come quando riesce a mettere le mani su decine di tonnellate di farina contenute in sacchi di juta su cui è stampigliata una frase in inglese. E al porto di Ravenna le mette in vendita facendosele pagare profumatamente. Pone anche una condizione oltre al pagamento in contanti: nessuno deve portarsi via i sacchi di juta con la misteriosa scritta in una lingua straniera che da quelle parti pochi ancora conoscono. Ma un commerciante piuttosto curioso dribbla il divieto: si prende la farina e anche uno dei sacchi; poi, una volta a casa, si fa tradurre il significato della frase in inglese. C’era scritto: “Dono del popolo americano al popolo italiano”. Dall’estero navi cariche di cereali Di Serafino Ferruzzi, “il dottore”, piace il piglio semplice e cordiale. E la grande umanità. Un giorno si trova all’ingresso della Borsa cerealicola di Bologna. È da solo, indossa un golfino sotto la giacca e tiene entrambi le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. Ed è in piedi, con le spalle appoggiate al muro dall’intonaco bianco, guardando chi entra e chi esce. Ad un certo punto dice: «Burdel, ragazzo, vieni un po’ qui…». Edmeo Tumidei si avvicina affrettando il passo e Ferruzzi gli pone una mano sulla spalla. Nel 1951 Tumidei ha solo 18 anni e da pochi mesi, dopo la morte del padre, ha preso in mano le redini del negozio di cereali che la famiglia conduce sin dal 1922 a San Varano, alla periferia di Forlì. Guardandolo negli occhi, Serafino dice: «Ascolta, burdel, se acquisti anche solo 50 quintali di fertilizzanti, stai tranquillo che li paghi allo stesso prezzo di chi ne compra 5 mila quintali. E quando hai bisogno di un camion intero, tu lo mandi a prendere e poi mi pagherai quando avrai i soldi». Tumidei si sente un nodo in gola, a stento riesce a trattenere le lacrime. E Ferruzzi: «Tuo padre era un galantuomo, penso che lo sarai anche tu». Da allora non ci sarà mai tra i due nemmeno l’ombra di uno screzio. In quel periodo Ferruzzi sta già affinando la strategia che lo porterà ad essere il numero uno nell’import di cereali e mangimi. Dice, partendo da una considerazione piuttosto banale: «La gente smet27


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terà di mangiare la bistecca solo una volta alla settimana come fa adesso; prima la vorrà due volte ogni sette giorni, quindi un giorno sì e un giorno no. Ma per avere la bistecca ci vogliono prima i cereali e poi sarà l’industria mangimistica ad avere una crescita molto forte». Serafino ne è talmente convinto da iniziare a importare dall’estero in gran quantità anche mais, orzo, segale, avena, vale a dire quei cereali considerati in gran parte minori, ma utilizzati invece alla grande nell’allevamento zootecnico. E li importa sulla base del principio che per avere successo è meglio, racconta, essere «i primi che i secondi». Si mette anche in testa l’idea di dover affiancare all’attività di importatore di cereali quella di industriale nella mangimistica. E di avere bisogno di collaboratori validi. Strappa così dalla Federconsorzi l’uomo che sarà a lungo il suo primo e unico dirigente, Carlo Kolletzek. È un bolognese di 40 anni con gli occhiali e i baffetti neri, vanta un bisnonno boemo di Praga e un padre socialista piuttosto noto per essere stato non solo assessore al Comune di Bologna con Zanardi e Dozza ma anche per aver fondato l’università popolare ed essere un acceso anticlericale. Kolletzek ha un’esperienza di 18 anni alla Federconsorzi: vi è entrato come ragioniere, è stato volontario in guerra ma è riuscito anche a laurearsi in scienze economiche e alla Federconsorzi si occupa solo di cereali. È uno dei pochi ad essere operativo in una struttura già pesantemente burocratizzata e ha fama di essere un buon trader. Ha rapporti di lavoro anche con Ferruzzi da quando Serafino importa granoturco dall’Ungheria e lo offre proprio alla Federconsorzi. E poi la conoscenza si approfondisce quando anche Ferruzzi decide che non può essere più assente il mercoledì dalla Borsa granaria di Milano, l’unica a determinare il prezzo per tutta l’Italia. I due s’incontrano così alla stazione di Bologna, prendono il treno delle 7.40 e fanno insieme il viaggio sino a Milano. Per poi riprendere il treno del ritorno nel pomeriggio. Durante il tragitto Ferruzzi, sempre accompagnato da un collaboratore, Aldo Mariani, parla spesso di lavoro, affinando quella che poi è stata la sua intuizione di base: aver capito prima degli altri l’enorme sviluppo che avrebbe avuto in Italia la zootecnia. Così quando Mariani preferisce andare a lavorare da un’altra parte, Serafino lo sostituisce assumendo Kolletzek proprio con l’incarico di mettere in piedi alcuni mangimifici. Carlo Kolletzek arriva a Ravenna nell’aprile 1956. E, dirà, si spaventa. Trova una struttura organizzativa ridotta all’osso. La par28


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te amministrativa viene seguita da Mario Casadio, un maestro repubblicano con una lunga esperienza nel mondo cooperativo; dell’estero si occupa Clio Foschini, laureato, molto vivace e dotato di una grande facilità nell’apprendere le lingue al punto da voler studiare persino il cinese; Giancarlo Graziani, un giovane ragioniere, segue invece il mercato interno, ma soprattutto segue Serafino nei suoi spostamenti; Strocchi fa sempre il capo-magazziniere al silos, mentre Melandri, il figlio del barbiere, aiuta un po’ tutti in ufficio. Di segretarie nemmeno l’ombra, tanto è vero che il contratto di Kolletzek viene battuto a macchina con due dita e una lentezza esasperante da Raul Gardini che all’epoca è ancora solo fidanzato con Idina ma sta già mettendo il naso nel business del futuro suocero. Soprattutto la contabilità non è in ordine: non si stipulano contratti scritti ma ogni affare si basa sulla parola. Una stretta di mano, sostiene Ferruzzi, ha molto più valore di un pezzo di carta. Inoltre Serafino, grande accentratore, prende pochissimi appunti preferendo ricordare tutto a memoria, anche se la memoria fa ogni tanto cilecca. Così in otto mesi Kolletzek provvede a mettere un po’ d’ordine introducendo anche nella Ferruzzi gli “stabiliti”, i contratti-base già preparati dall’Associazione granaria a secondo dei vari tipi di scambi. Riesce invece in un tempo ancora più breve a far cambiare idea a Ferruzzi a proposito dei mangimifici. Un giorno gli dice: «Scusi, dottore, ma qui bisogna fare una scelta. Se lei vuol fare l’importatore, non può iniziare in parallelo un’attività mangimistica dal momento che il mangimista la vedrà come concorrente e quindi si rivolgerà ad un altro». Ferruzzi risponde: «Non posso sottovalutare il suo pensiero…». Poi aggiunge: «Ha ragione, non ne parliamo più». Ed eccolo sfornare subito un’altra idea: «Senta, Kolletzek, perché non prova ad acquistare un po’ di farina di soia?». In Italia non l’importa ancora nessuno. Fino ad allora si acquistavano in Sicilia le carrube e le fave che, una volta macinate, venivano messe nei mangimi. Ma ora gli americani scoprono che è molto meglio utilizzare la farina di soia. E dalle mille tonnellate iniziali che poi, ricorderà Kolletzek, arriveranno a «vapori interi», Ferruzzi ne diventa uno dei maggiori importatori. L’arrivo di Kolletzek nella Ferruzzi coincide anche con l’acquisto della prima auto. Serafino compra un’Alfa Romeo 1900, la vettura conosciuta comunemente come l’”Alfona”. Non guida più da tempo la macchina, da quando ha avuto, anni prima, un incidente con 29


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l’auto di Manetti finendo in un fosso a causa della strada sdrucciolevole per la pioggia. Lui non si era fatto niente, ma uno dei passeggeri, una cugina, si era rotta una gamba. E da allora non ha più toccato un volante. Serafino, sempre in giro per la Romagna e per mezza Italia, ha quindi bisogno di uno che gli faccia in pratica da autista. Un giorno va l’uno, un giorno va l’altro. Solo il mercoledì, quando deve recarsi a Milano alla Borsa granaria, Serafino organizza una staffetta in piena regola: da Ravenna fino a Imola mette al volante Giancarlo Graziani, da Imola sino a Milano lascia la guida ad un suo ex commilitone dei tempi di guerra, Sergio Costa. Questo Costa ha un’attività commerciale a Imola, si occupa anche lui di granaglie, ma ogni mercoledì si mette al servizio di Serafino. E la staffetta andrà avanti così per anni, cambieranno solo i modelli e le marche delle auto: dalle Alfa si passerà col tempo alle Mercedes. In quegli anni Ferruzzi quasi triplica il giro d’affari. Importa 7 milioni di quintali all’anno di cereali con un fatturato sui 35 miliardi di lire, più o meno 18 milioni di euro. E i margini di guadagno sono piuttosto buoni: per quanto non esista una documentazione precisa secondo la migliore tradizione delle società di trading, una stima effettuata trent’anni dopo da esperti calcola in 10 miliardi, circa 5 milioni di euro, il margine operativo lordo dell’azienda. E lo stesso Kolletzek ricorderà: «Già allora Ferruzzi guadagnava bene; speculando anche, ma sempre a ragion veduta e sempre a breve termine». Serafino arriva prima degli altri basandosi soprattutto sulle previsioni: rivolge continue domande ai contadini, è attento a cosa si semina e se il seminato aumenta o diminuisce, a volte vuole controllare di persona. Fa allora bloccare la macchina anche se si trova in aperta campagna, va nei campi arrotolandosi a volte i pantaloni fino a mezza gamba e calcola a occhio le pannocchie di granoturco; e in base alle previsioni di un raccolto abbondante o scarso, fa gli acquisti tenendo conto dei soldi che ci vogliono, degli ammortamenti necessari, della grandezza del mercato. È anche convinto che sia buona regola seguire l’andamento dei consumi perché, dice, è «la richiesta di un prodotto a far salire il prezzo del prodotto stesso». Gardini racconterà come Serafino maturasse le sue scelte «in tempi lunghissimi, anche se dava l’impressione di prendere le decisioni in un attimo, quasi si affidasse unicamente all’istinto». Serafino ha anche una serie di principi a cui tiene moltissimo. Si rifiuta di vendere allo scoperto, senza cioè avere materialmente il prodotto, come invece fanno alcuni suoi concorrenti. Pretende poi 30


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la puntualità nelle consegne, sostiene che la parola data sulla base di una semplice stretta di mano vale molto di più di una firma su un pezzo di carta bollata, è dell’idea che «i soldi non si fanno rubando, ma con la testa». E ha un enorme rispetto per i clienti. Dice spesso: «C’è una sola maniera per fregarli alla lunga: trattarli sempre bene. Solo in quel modo potrai anche chiedere cento lire in più di quanto stabilito». Il suo insomma è un gioco del poker controllato, con tutti i rischi legati a qualsiasi attività commerciale ma senza ricorrere a troppi eccessi. Importa sempre più dagli Stati Uniti e dall’Argentina; comincia ad acquistare non più Cif (Cost, Insurance, Freight, cioè franco arrivo) ma Fob (Free on board, vale a dire direttamente ai porti di partenza); noleggia le navi che caricano nei porti americani e argentini per eliminare qualsiasi incertezza sui tempi d’arrivo dei prodotti; inizia anche a stringere rapporti con la Bunge, la Cargill e in misura minore la Continental Grain per garantirsi un approvvigionamento maggiore e in tempi più rapidi. Si tratta di tre multinazionali che fanno parte di un sistema che domina il mercato mondiale del trading cerealicolo e che, per analogia a quanto avviene nel mondo petrolifero dove si parla delle “sette sorelle”, viene qui chiamato delle “cinque sorelle”. La più potente è la Cargill, americana di Minneapolis, di proprietà della famiglia McMillan e con filiali non solo in Europa ma anche in Asia e Australia; poi la Continental Grain di New York, la Dreyfus di Standford e Parigi, la Bunge di Buenos Aires, infine la Garnac di Chicago e Losanna. Serafino trova il modo anche di far attraccare le navi, che a quei tempi viaggiano sui tredici nodi e hanno uno stivaggio di 15-20 mila tonnellate, alle banchine del porto di Ravenna. Che è ancora un porto molto modesto e con fondali piuttosto bassi: diciassette piedi quando le navi che trasportano le granaglie della Ferruzzi ne hanno bisogno di almeno il doppio. Sono così costrette a fermarsi in altri porti prima di arrivare a Ravenna in maniera da alleggerirsi scaricando parte della merce stivata. Ma in questo modo causano una notevole perdita di tempo. E quindi perdita di denaro. Serafino ha allora un’idea geniale che poi sarà copiata anche da altri. Scopre in Gran Bretagna, lungo il Tamigi, un barcone malandato utilizzato in passato per la navigazione sul fiume. Lo compra, lo fa portare a Ravenna e lo affida a Cotignoli, il fabbro della teleferica. E Cotignoli, soprannominato “Napoleone” per la sua aria burbera, lo riadatta in base alle idee di Serafino. 31


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Il barcone, ribattezzato Candiano dal nome del canale che conduce al mare, cambia completamente aspetto. Sono tolte le vecchie strutture, vengono costruite stive molto capaci, sulla coperta sono installati una torre di sbarco e un impianto di distribuzione di cereali, entrambi alimentati da un generatore di energia elettrica. E quando arrivano le navi con le stive piene di granaglie, il barcone è rimorchiato fuori dal porto con un equipaggio di poche persone. Poi, in mare aperto, avviene l’operazione di alleggerimento fino a quando il pescaggio della nave è tale da poter attraccare senza problemi nel porto. Il Candiano naufragherà nel novembre 1966 ma da lì a poco saranno ultimati i lavori per la costruzione del nuovo porto ravennate che permetterà l’attracco anche a navi fino a 50 mila tonnellate. Un monumento al debito Serafino si comporta come gran parte degli imprenditori italiani che in quegli anni evadono il fisco, ma reinvestono tutti i profitti nelle loro aziende e permettono che si realizzi così il primo boom economico del dopoguerra. Paga quindi pochissime tasse, è convinto che il denaro «frutti solo se circola» e fa affari chiedendo soldi in prestito alle banche. È quindi molto attento ai tassi di interesse praticati. Inizialmente lavora con il Banco di Roma e il Credito Romagnolo, dove il suo amico Cirri sta facendo carriera all’interno della filiale di Ravenna. Poi, quando comincia ad operare particolarmente con l’estero, si rivolge alla filiale ravennate della Banca Commerciale Italiana. È di fatto la più internazionale delle banche italiane e quindi è anche l’unica che permette di operare con tranquillità oltre frontiera. E lui è abilissimo a mettere l’uno contro l’altro i responsabili dei vari istituti di credito in modo da poter spuntare un tasso sempre migliore. È solito dire quando si reca a far visita a qualche bancario: «Vado a mettere un po’ di zizzania». Investe molto. Prende due piccoli uffici all’interno della Borsa granaria di Milano. Acquista un antico palazzo a Ravenna in via XIII giugno e ci va ad abitare dopo averlo ristrutturato in modo da sistemare al pianterreno i nuovi uffici della società. L’edificio ha un grande giardino interno, così Serafino vi costruisce sul fondo una palazzina di tre piani in cui sono sistemati gli appartamenti destinati non solo a Raul e Idina ma anche agli altri figli. Segue poi con attenzione maniacale la costruzione del cementificio, quello che 32


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causa il primo screzio con Gardini, al punto che, quando sorge il problema del forno da installare, vuole andare a vederne uno appena terminato a Lugano; ma allorché giunge a destinazione insieme a Kolletzek con l’auto guidata da Costa, si è fatto piuttosto tardi, è già buio e tutto è chiuso. Serafino non ci pensa allora due volte e, ricorderà Kolletzek, «forza l’ingresso incustodito» pur di vedere come sono fatti i forni di ultima generazione. E poi parte alla grande con l’idea della costruzione dei silos. La sua strategia è abbastanza semplice: il flusso dei cereali, dice, è a senso unico, dagli Stati Uniti e dall’Argentina verso l’Europa e l’Italia. Ma una volta che la merce viene sbarcata nei porti, ci vuole, aggiunge, quello che ancora nessuno ha pensato di fare: una rete efficiente per smaltire il prodotto. Occorre quindi dotarsi di strutture di smistamento nei più importanti porti commerciali italiani e poi anche di magazzini all’interno del paese, riforniti ricorrendo a trasporti ferroviari. In questo modo si anticipa la concorrenza nazionale, si blocca anche l’arrivo delle multinazionali americane che proprio in quel periodo iniziano ad aprire agenzie nel mercato italiano e si legano i clienti alla propria azienda fornendo un servizio e un prodotto costanti. Costruisce così il primo silos in cemento sul porto di Ravenna, praticamente accanto a quello vecchio, e ne inaugura poi altri due ad Ancona e Napoli. Per costruzioni di questo genere lo Stato concede sussidi a fondo perduto ponendo come unica condizione che, dopo 99 anni, i silos diventino di proprietà statale. Ma tra la domanda e l’effettiva erogazione dei quattrini possono passare anche degli anni. E così Serafino lascia perdere questa opportunità e sceglie di indebitarsi ancora di più con il sistema bancario. S’indebita di solito nel breve termine con una speculazione molto ragionata e controllata. Dice: «Gli interessi che pago alle banche sono inferiori ai guadagni che farò grazie ai silos». E in garanzia offre la terra. Quando in passato compra la tenuta agricola dei conti Rasponi, la sua prima battuta è: «Le banche vogliono garanzie; cosa c’è di meglio della terra?». Questo modo di ragionare si trasformerà in una sua regola precisa: mai mettere all’inizio di qualsiasi nuova attività più del 10% del capitale proprio. E il resto prenderlo a prestito dalle banche. Un giorno, molti anni dopo, quando il Comune di Ravenna vorrà costruire un monumento e discuterà a lungo se dedicarlo a Dante o a qualcun altro, Ferruzzi dirà: «Se mi interpellassero, suggerirei di fare un monumento al debito». 33


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Ma una volta costruito il terzo silos, quello di Napoli, i piani di crescita di Ferruzzi devono improvvisamente bloccarsi: il canale di Suez procura infatti falle piuttosto serie nei conti dell’azienda creando per la prima volta a Serafino grosse difficoltà finanziarie. Nel luglio 1956 il canale di Suez, poco più di 160 chilometri che mettono in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, viene nazionalizzato dall’Egitto. E poi rimane chiuso al traffico per molti mesi in seguito al conflitto tra Egitto e Israele. La chiusura porta il nolo delle navi alle stelle. E determina ritardi notevoli nelle consegne dei prodotti, causando perdite anche alla Ferruzzi. L’anno chiude così per la prima volta con i bilanci in rosso. Una «salassata», ricorderà Kolletzek, assimilabile in altri tempi senza gravi contraccolpi se non fosse abbinata in quel periodo ai pesanti investimenti destinati alla costruzione dei silos e del cementificio che avrebbe iniziato l’attività da lì a non molto. La tensione finanziaria è così forte da costringere per la prima volta Serafino a non distribuire a Natale nemmeno uno straccio di gratifica ai suoi dipendenti. Ma i guai non vengono mai da soli. Alcuni concorrenti spediscono alle banche lettere, naturalmente anonime, raccontando come Ferruzzi abbia il respiro corto. Il tam tam è immediato e gli istituti di credito con cui Serafino è indebitato chiedono non solo spiegazioni, ma anche di dare un’occhiata ai bilanci. Compresa la Comit, la Banca Commerciale. Serafino prende allora cappello e dopo essersi assicurato con alcune telefonate l’appoggio finanziario di un paio di amici-concorrenti, Orlandi e Gibertoni, si presenta alla Comit di Ravenna. E gioca quello che sa tanto di bluff: annuncia al direttore di voler chiudere tutti i conti e di voler pagare tutti i debiti. Il funzionario prende tempo scaricando ogni decisione su Milano. Ma Ferruzzi si muove come un panzer: chiude i conti con la Comit utilizzando ancora di più il Banco di Roma. La notizia della perdita di un cliente importante approda a Milano direttamente sul tavolo di Raffaele Mattioli, il banchiere che ha prima salvato la Comit dal crollo in cui la banca stava precipitando negli anni Trenta e poi l’ha fatta diventare internazionale nel dopoguerra. È un personaggio interessantissimo che ironicamente fornisce questo autoritratto a chi lo definisce semplicemente un intellettuale: «Non sono né filosofo né storico ma uomo di negozi e di affari». Un mercante di denaro, insomma. In realtà Mattioli è un banchiere internazionale, amicissimo di Piero Sraffa, ma è anche un uomo di cultura, cresciuto nel culto di Benedetto Croce, 34


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innamorato pazzo di Manzoni, abilissimo nel tradurre i sonetti di Shakespeare o nello scrivere poesie anche in francese e inglese. È lui che nel 1937 nasconde nella cassaforte della banca i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci e li custodisce per un anno prima di farli arrivare a Mosca, secondo la volontà stessa di Gramsci, alla moglie Giulia. E nel dopoguerra molte pagine de “Il mulino del Po” nascono in seguito alle lunghe conversazioni che il banchiere ha con Riccardo Bacchelli, considerato quasi uno di famiglia. Come più o meno sono di famiglia anche gli amici che, senza farsi annunciare, entrano nel suo studio, al secondo piano del palazzo Comit di piazza della Scala, quando le ombre della sera sono già scese fitte: Sergio Solmi, Adolfo Tino, Antonello Gerbi, Innocenzo Monti, Federico Chabod. A Mattioli piace conversare con le persone di spirito, essere attorniato da una corte di amici non banali, costellare la giornata di citazioni in latino e greco e lasciarsi andare anche a qualche aneddoto un tantino sboccato, saper tirar fuori il meglio da chi gli sta vicino. E quindi, oltre al banchiere e all’intellettuale, finisce di volta in volta per indossare anche i panni dell’attore, dello psicologo, dell’uomo di gusto con una spiccata fiducia nell’istinto. Elena Croce, una delle figlie del filosofo, lo ricorda come «una persona vitale, radiosa». E capace anche, con il «suo charme di bell’uomo elegante», di conquistare. Vittorio Valletta, il manager che ha fatto grande la Fiat, sostiene che le parole di Mattioli sono «sacre». E Palmiro Togliatti, che lo ha conosciuto attraverso Franco Rodano, si rammarica di non poterlo chiamare «compagno». Nel maggio 1947, quando la sinistra sta per essere estromessa dal governo, Mattioli scrive a Togliatti una lettera che rappresenta una manifesto di politica economica a favore dei ceti più deboli della società, una grande lezione di economia politica. Ma nello stesso tempo rifiuta l’offerta di Giorgio Amendola di candidarsi nelle liste del Fronte popolare. Politicamente Mattioli dice di sé: «Sono un liberale con tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico. Sono un conservatore, con tale dose di senso storico, che mi consente di non essere necessariamente anticomunista». E Giovanni Malagodi, che prima di dedicarsi alla politica ha fatto parte della segreteria della Comit, in un certo senso lo conferma: «È un liberale anarchico, un banchiere di area, di sinistra rosata, salvo che nella guida della Comit». La figlia Letizia lo definisce «un gattopardo» per essere passato indenne prima sotto il regime fascista e 35


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poi sotto quello dei democristiani e dei socialisti. Carlo Bombieri, considerato il suo delfino alla Comit, lo paragona a Lorenzo il Magnifico e a Socrate: «Del primo aveva il rispetto per le cose pratiche, l’intelligenza, la bellezza; del secondo la dote di cavare il meglio da quelli che lo avvicinavano, che restavano influenzati dalla sua personalità». Di sé Bombieri invece dice: «Sono l’ultimo dei mohicani». Mattioli non ha una grande opinione dei maggiori rappresentanti del capitalismo italiano, Agnelli e Pirelli. Tiene invece in grandissima considerazione i piccoli e medi imprenditori e nutre molta simpatia per le iniziative di Enrico Mattei. Così come ha, ricorderà Bombieri, «un’ottima opinione» anche di Ferruzzi che va a trovarlo di tanto in tanto per chiedere consigli. Appena qualche scambio di opinioni ma sufficienti perché entrambi capiscano di che stoffa sono fatti. E poi Ferruzzi ha un altro merito agli occhi di Mattioli: è entrato anche nelle simpatie di Enrico Mattei da quando il potente numero uno dell’Eni sta costruendo a Ravenna con l’Anic uno stabilimento chimico e sta progettando il potenziamento del porto. Ferruzzi insomma non è un cliente che si possa perdere con noncuranza. Mattioli telefona così direttamente al responsabile della filiale ravennate della banca invitandolo a far cambiare nuovamente idea a Ferruzzi. Serafino farà finta di resistere per un paio di mesi, poi riaprirà i conti alla Comit. Le lettere anonime avranno uno strascico anche con il Credito Romagnolo: la domanda di finanziamenti per la costruzione del nuovo cementificio viene infatti bloccata. Serafino si mostra piuttosto preoccupato e non lo nasconde. Gli viene in aiuto Raul Gardini: va in banca da Cirri e gli chiede un affidamento per finanziare il cementificio. Cirri risponde che avrebbe dovuto portargli in garanzia la firma del padre. Cosa che Gardini fa. Solo allora la costruzione può essere ultimata. La vicenda dei silos e del cementificio sarà anche la causa che porterà alla separazione, «molto sofferta» ricorderà Kolletzek, tra Serafino e Sante Benini. I due sono sempre stati amici, hanno avuto qualche screzio di poco conto come possono averlo due soci con le stesse idee di fondo ma ora non riescono più a capirsi: Ferruzzi pensa in grande, vuole diversificarsi anche in altri settori sulla base di una vecchia idea che non si stanca mai di ripetere e cioè «che la gente ha bisogno di riempirsi lo stomaco ma anche di case»; Benini, il quale riconosce di essere un tantino all’antica e da sempre è molto attento alle spese, sostiene invece che è troppo rischioso e che già l’agricoltura da sola procura sufficienti grattacapi. Così 36


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quando Serafino insiste sul cementificio, Benini preferisce tirarsi fuori da tutto. Tanto più, aggiunge, che non gli va nemmeno bene il fatto che ora Serafino acquisti vapori interi di grano per specularci sopra. E così i due si separano. La divisione dei beni si trascina per un paio di mesi, ma nessuno dei due si affida a un professionista esterno. Invitano solo un comune amico di Bologna che è tra l’altro nipote di un cardinale napoletano, certo Mimmi, a svolgere il ruolo di arbitro. Serafino incarica poi il fratello Cecco di rappresentarlo nella trattativa, Benini preferisce invece seguirla in prima persona. E alla fine si trovano d’accordo: Benini si prende gran parte della terra, soprattutto nella zona di Lido Adriano; Serafino ha i terreni agricoli attorno a Ravenna e rileva la quota dell’ex socio nella società che muta l’oggetto sociale in “Ferruzzi e C.”. Il controllo è ora per i due terzi nelle mani di Serafino, il resto è sempre di Leo Manetti il quale condivide interamente le scelte del socio per quanto spesso le conosca solo a cose fatte. Manetti, anzi, non ha nessun imbarazzo nel definirlo anche in pubblico come «il principale» e ha un tale rispetto da dargli all’inizio persino del lei. Sovente gli dice: «Le cose che fa lei, dottor Ferruzzi, vanno sempre bene». E sarà proprio Fino a voler dare un taglio a questo tipo di formalismo. Nonostante la separazione, Ferruzzi e Benini continueranno a stimarsi. Tanto è vero che il fratello di Benini verrà assunto come dirigente proprio nel cementificio che è stata la causa della loro rottura. I due avranno un buon ricordo l’uno dell’altro anche quando, col passare degli anni, s’incontreranno molto di rado. Benini morirà nel gennaio 1972 in un incidente lungo la circonvallazione interna di Ravenna, nei pressi delle carceri: mentre è in sella a una bicicletta, sarà investito ad un incrocio da un’auto che passa con il semaforo rosso ed è guidata da un drogato, senza un occhio e senza assicurazione. Serafino vorrà partecipare ai funerali e dirà ad un figlio di Benini, Gianni: «Mi dispiace non averlo potuto riabbracciare». La guerra dei trent’anni nella chimica Serafino Ferruzzi conosce Enrico Mattei in occasione della nascita della Sapir, la società che si occupa del potenziamento del porto di Ravenna, il più importante nell’Adriatico per i prodotti petroliferi in quanto i giacimenti si trovano solo a pochi chilometri di distanza dalla terraferma, e non hanno quindi bisogno di lunghi e 37


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costosi metanodotti. È anche il porto più economico nell’inoltro dell’export verso quei mercati del Medio Oriente e dell’Africa che interessano in particolare l’Eni. Negli anni Cinquanta Ravenna viene infatti profondamente toccata da quella rivoluzione che, apripista le aziende statunitensi, sconvolge il mondo della chimica, da sempre dominato dalle imprese europee. Si tratta di una rivoluzione tecnologica che stabilisce il passaggio da quella che gli esperti chiamano “chimica dell’acetilene” alla “chimica dell’etilene”. E quindi il passaggio dalla tecnologia basata sul carbone alla tecnologia del petrolio. Con una conseguenza fondamentale: grazie all’innovazione nella raffinazione del greggio, i costi di gestione risultano decisamente inferiori. C’è infatti bisogno di minore manodopera e il petrolio è disponibile (lo sarà ancora per altri vent’anni, sino alla guerra del Kippur nell’ottobre 1973) a un prezzo stabile e molto basso, nemmeno due dollari al gallone. La chimica quindi che ne deriva è estremamente competitiva, cosa che suscita ovunque grandi reazioni con le aziende tedesche – Basf, Bayer, Hoechst, tre società formalmente separate ma sostanzialmente unite perché alla fine delle loro scelte strategiche hanno un comitato di coordinamento per impedire la sovrapposizione di produzioni – che conquistano nuovamente la leadership mondiale. Questo terremoto suscita anche enormi appetiti, come avviene in Italia dove da mezzo secolo opera la Montecatini in situazione di quasi monopolio. Significa infatti l’80% della chimica italiana, è una specie di public company con un azionariato molto diffuso e con alla guida Carlo Faina, un personaggio alquanto sbiadito ma discendente da una famiglia di proprietari terrieri e deputati del Regno, molto signorile nei modi, vicino al mondo cattolico e in buoni rapporti con il capitalismo che conta in Italia, da Agnelli a Pirelli e Pesenti, ma così pieno di boria da essere liquidato da Eugenio Scalfari come «un cretino estroverso». La società ha il monopolio nella produzione di fertilizzanti, vende le sue tecnologie anche all’estero per merito delle ricerche di uno straordinario inventore di nome Giacomo Fauser, dispone di un genio come Alessandro Natta, titolare della cattedra di chimica industriale del Politecnico di Milano e nel 1963 premio Nobel per le ricerche sulle grandi molecole, quelle delle materie plastiche. Ma pur sviluppando nella ricerca la chimica che sfrutta i derivati dal petrolio, pur avendo una storia chimica e culturale di primo piano, industrialmente la Montecatini si allonta38


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na in maniera incredibile dal mercato. Si arrocca. E proprio a causa della sua posizione di monopolio non capisce che l’Italia non è più solo un paese agricolo ma che si sta sviluppando l’industria manifatturiera. La chimica quindi non può essere centrata esclusivamente sulle tecnologie per l’agricoltura. Avviene così uno scollamento tra il management che gestisce l’azienda e la ricerca che la stessa Montecatini sviluppa al Politecnico. Il risultato è che la società rimane nostalgicamente legata ai processi che si basano sulla chimica dei minerali, quindi su una tecnologia considerata ormai di retroguardia. E lascia ampio spazio per le incursioni della concorrenza sulla base del tipico ragionamento di un management arrogante: la linea dell’etilene non è stata sviluppata da noi, quindi è sbagliata. Gli appetiti che si scatenano sono così forti da dare vita a una “guerra” che durerà trent’anni, butterà via migliaia di miliardi e imprimerà una caratteristica dominante alla chimica italiana: essere “contro”. Tutti contro tutti. È una guerra che, oltre alla Montecatini, vede in campo anche l’Eni di Enrico Mattei e la Edison di Giorgio Valerio. Mattei è un democristiano, marchigiano di nascita, ossessionato dalla crescita economica del paese in campo energetico, ma non solo in quello. Alla guida dell’Eni, la società che ha per simbolo il cane a sei zampe, Mattei si muove contro le “sette sorelle”, le grosse società petrolifere angloamericane che detengono il monopolio del petrolio, potendo disporre nella valle padana di una cassaforte zeppa d’oro, ovvero la rendita metanifera ottenuta con il gas naturale: l’Eni, una società pubblica, vende il metano a una tariffa stabilita dallo Stato ma abbastanza alta da consentire riserve piuttosto cospicue. Affida inoltre all’Anic, nata ancora nel 1936 per raffinare petrolio da grezzi scadenti, il compito di far saltare il monopolio nei fertilizzanti della Montecatini, una società privata: l’agricoltura italiana non può svilupparsi, sostiene, fino a quando non c’è concorrenza nel settore. Segue anche con grande interesse i possibili sviluppi nella produzione di gomma sintetica, avviata già durante la guerra a Ferrara su licenza tedesca, naufragata quasi subito e comunque rilevata dalla Montecatini ma ora caldeggiata con forza anche dall’Anic. È infine Mattei a inaugurare uno stile e un metodo che in seguito saranno perfezionati dai suoi successori: usa spregiudicatamente i soldi dello Stato, foraggiando i partiti e le correnti, comprando parlamentari tanto da far dire a Indro Montanelli come il Senato sia in quel periodo «quasi interamente eniz39


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zato», fondando a Milano nella seconda metà degli anni Cinquanta il quotidiano Il Giorno anche se per mesi continuerà a giurare che con quel giornale l’Eni non c’entra. Dirà: «Mi servo dei partiti come un taxi». Facendo dell’Eni, ricorderà Montanelli, «la grande matrice della commistione tra politica e affari e la fonte della corruzione che avvelena la vita pubblica». Don Luigi Sturzo, che in Senato e dalle colonne del Giornale d’Italia condurrà una battaglia a tutto campo contro le «tre mali bestie» del sistema italiano (la partitocrazia, lo statalismo, l’abuso del pubblico denaro), definirà Mattei come «il nuovo duce», ottenendo l’unico risultato di essere considerato un reazionario. Nella sua abitazione romana presso le suore Canossiane in via don Orione, don Sturzo, il fondatore del Partito popolare, si confiderà con un economista che sarà poi il suo esecutore testamentario, Giuseppe Palladino. In uno studiolo con le imposte perennemente chiuse, don Sturzo dirà continuando a coprirsi le gambe con uno scialle anche nei giorni di caldo torrido: «È il rischio che contribuisce all’allenamento delle forze, all’affinamento del cervello, al superamento degli ostacoli. Oggi si pensa invece in altro modo, si tende a una concezione paternalista dello Stato che si occupa di tutti, provvede a tutti, agisce per tutti. Se si diffonde la convinzione che, per intervento dei politici o dei sindacati, per qualche protezione dei partiti, tutto è garantito, il lavoratore renderà meno e l’impresa andrà male». E con «l’elefantiasi degli enti e delle relative burocrazie, si crea una classe dirigente non più libera ma legata al parassitismo statale, al parassitismo politico, partitico, economico, fino a toccare o superare i margini del profitto illecito e della malversazione». Leonardo Di Donna, a lungo custode dei segreti dell’Eni e inventore del finanziamento occulto ai partiti, racconterà ad Alberto Statera come ai tempi di Mattei la corruzione fosse ancora molto «semplice», quasi «artigianale». Ne è testimone anche Franco Briatico, uno degli antichi collaboratori del presidente dell’Eni: le banconote sono consegnate «affastellate nelle scatole di scarpe». Poi tutto verrà reso più sofisticato. E attraverso le plusvalenze realizzate nelle finanziarie estere con una serie di operazioni in cambi, i soldi arrivano alle macchine dei partiti in borse diplomatiche. E arrivano, dirà Florio Fiorini, altro faccendiere che sarà direttore finanziario dell’Eni per poi sopravvivere agli anni della P2 e della bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, «puntualmente ogni mese». 40


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Valerio è un ingegnere elettrico dall’aspetto severo e dall’altezza non comune: oltre un metro e novanta. Gode dell’appoggio di Alberto Pirelli che della Edison è un importante azionista, ha una profonda conoscenza della materia fiscale, ma capisce molto poco di chimica tanto da definirla in maniera sprezzante «usine de merde», è un liberale conservatore, corrompe anche lui il mondo politico che proprio per questo motivo disprezza, non sopporta nemmeno Enrico Mattei che bolla come una specie di «paranoico». La Edison è una società privata cresciuta sfruttando l’energia elettrica e molto ricca finanziariamente al punto che in Borsa il titolo viene definito “la rendita ambrosiana”. I profitti sono così alti da costringerla nel 1950 a diversificare. Invece di entrare nell’industria dei trasporti dove avrebbe dato fastidio agli Agnelli e alla Fiat, la Edison si butta nella chimica affidando il settore a un geniale, abile e furbo ingegnere di origine veneta, Carlo Ciriello, ex segretario particolare di Ferruccio Parri quando il fondatore del Partito d’azione era stato nel 1945 il primo capo di governo dell’Italia liberata. E Ciriello, un ottimo organizzatore che riesce a far respirare in azienda il clima della nuova frontiera, si attornia di validi collaboratori, portandoli via anche dalla Montecatini. La filosofia della Edison è: fare presto e, se possibile, anche bene, valorizzando la ricerca della grande chimica internazionale. Acquista negli Stati Uniti e in Germania le licenze dei processi chimici e a volte i progetti dei relativi impianti; cerca all’estero anche alleanze illudendosi di internazionalizzarsi quando in realtà offre solo alle imprese estere, dalla Monsanto alla Unione Carbide, la possibilità di penetrare nel mercato italiano in cambio della tecnologia e della rottura del monopolio della Montecatini. La strategia dell’Eni non è sostanzialmente molto diversa, con l’eccezione di utilizzare solo tecnologie Usa perché Mattei vuole smentire con quella scelta chi lo accusa di «pregiudiziale ostilità» verso l’industria americana. Ma di fatto Mattei crea una industria chimica parallela e concorrente alla Edison e in grado di togliere quote di mercato alla Montecatini che a lungo non sa rispondere agli attacchi. Quando in Italia cominciano a sorgere un po’ dovunque gli impianti chimici della concorrenza, il management Montecatini sa solo dire: «Lasciamoli fare, poi ci compreremo quegli stabilimenti per quattro soldi». In seguito cambierà strategia. Risponderà prima all’affondo dell’Anic con il centro petrolchimico di Ferrara e cercherà di togliersi il fiato sul collo della Edison con il centro 41


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petrolchimico di Brindisi. Rischiando di finire finanziariamente a gambe all’aria. Questo vento di guerra cambia comunque anche l’industria ravennate, fino ad allora essenzialmente legata all’agricoltura. A Ravenna la Sarom di Attilio Monti, che già dal 1939 ha la licenza per importare direttamente petrolio e dispone lungo la riva destra del Candiano di un deposito costiero capace di 12 mila tonnellate di greggio, costruisce una raffineria con l’appoggio finanziario della Montecatini, arroccata ancora nel gioco di difesa, mentre l’Eni di Enrico Mattei costruisce con l’Anic il primo centro petrolchimico utilizzando il gas naturale della valle padana. Oltre alla creazione di una zona industriale, diventa quindi primario il potenziamento del porto che viene deciso tra le polemiche con la nascita nel 1957, lo stesso anno in cui sorge la Comunità economica europea e in Italia ha un successo incredibile la “500” della Fiat, di una società di nome Sapir. L’iniziativa è di Mattei, che sarà anche presidente della Sapir, mentre il Comune di Ravenna non è molto d’accordo, gli industriali si mostrano perplessi e Attilio Monti vuole avere la metà del capitale. Un braccio di ferro che termina quando la Camera di Commercio decide di affidare la maggioranza delle azioni Sapir (il 51%) all’Anic: a quel punto la Sarom di Monti si tira indietro. Le quote destinate al petroliere sono allora dirottate su Serafino Ferruzzi, schierato tra coloro che vedono favorevolmente l’allargamento del porto commerciale. Non gli interessa la chimica ma lo sviluppo dell’import di cereali e mangimi.

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