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Collana ufficiale Bologna Fc 1909
Carlo F. Chiesa
SCHIAVIO Il segreto dell’Angelo
Prefazione di Marco Di Vaio
MINERVA
Collana editoriale: Inchiostro Rossoblù Direttore di collana: Carlo Caliceti Direttore Editoriale: Roberto Mugavero © 2016 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Un sentito ringraziamento a Marcella e Stefania Schiavio, Alfredo Tugnoli e Michele Tugnoli, appassionati custodi e cultori della memoria di Angelo Schiavio. Grazie anche a Maurizio Borsari, mago dell’obiettivo, maestro dell’immagine. Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Deroga a quanto sopra potrà essere fatta secondo le modalità di legge. Le immagini contenute in questo volume sono tratte da © Archivio Famiglia Schiavio ad eccezione di: © Archivio Walter Breveglieri pagg. 276, 277, 285 (in basso) Per le immagini contenute in questo volume, l’editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare. Finito di stampare nel mese di aprile 2016 per i tipi della Li.Pe., San Giovanni in Persiceto (Bo) ISBN: 978-88-7381-812-0 MINERVA edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com www.minervaedizioni.com
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Il brivido della Storia Io so quanto è difficile fare gol. In Serie A ne ho fatti 142 e ognuno me lo sono sudato, lavorato, costruito. Li ricordo tutti come se li avessi segnati ieri. Ricordo anche molti di quelli che ho sbagliato e ancora oggi vorrei ritrovarmi lì, per un attimo, e scegliere un altro angolo, colpirla di esterno e non di collo, aspettare il portiere o magari anticiparlo. Quanto lavoro e quanti ragionamenti, dietro ogni singolo gol: dietro quelli che contano, perché decidono un campionato o una finale, e dietro quelli che non contano niente, perché arrivano all’ultimo minuto di una partita già vinta o già persa. Ogni gol ha una storia. Ecco, Angelo Schiavio di queste storie ne ha scritte 251. Duecentocinquantuno gol con la maglia del Bologna ed è un peccato che spesso gli si riconoscano solo i 109 segnati nella Serie A a girone unico, dimenticando i 133 segnati nella massima categoria prima del 1929, i sette in Coppa Europa Centrale (che era la Champions dell’epoca) e i due al Torneo dell’Esposizione di Parigi che consacrò il Bologna come la squadra più forte d’Europa nel 1937. Angelo Schiavio è il Bologna ed è giusto che il nostro Club lo ricordi con questa biografia, affidata alla penna magistrale di Carlo F. Chiesa e arricchita dalle foto inedite dell’archivio di famiglia. È la storia di un uomo, di un grande campione, ma anche di una città e di un Paese intero che scoprono l’amore per il calcio: la parabola di Schiavio accompagna la crescita di un Bologna che vince tutto, in Italia e in Europa, e di una Nazionale che si avvia a dominare il calcio mondiale per un decennio. A proposito di Nazionale: il 10 giugno 1934 l’Italia gioca la sua prima finale mondiale contro la Cecoslovacchia, a Roma. 1-1 al novantesimo, si va ai supplementari. E dopo cinque minuti decide tutto lui, Anzléin, con un gol dei suoi: finta, pallone che viene lasciato sfilare e botta secca, in diagonale, sotto la traversa. I festeggiamenti? Una settimana dopo Schiavio è già in campo per gli ottavi di finale della Coppa Europa: altro gol e via verso la finale, che il Bologna vincerà il 9 settembre. Ecco: in tre mesi campione del mondo con la Nazionale e campione d’Europa col Bologna. Siamo ai livelli dei più grandi di sempre. Per questo noi non dimenticheremo mai chi è stato Angelo Schiavio e cosa ha rappresentato per il nostro Club e la nostra città. Quando giocava lui – forse non tutti lo sanno – non c’erano ancora i numeri di maglia. Eppure il nove, il numero del centravanti, è idealmente il numero di Angiolino, il numero del gol. E vorrei che chiunque avrà la fortuna e l’onore di giocare nel Bologna con quella maglia avverta un brivido prima di entrare in campo. Come è capitato a me. Marco Di Vaio 3
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1 Angelo Schiavio nacque a Bologna da genitori lombardi e si appassionò al gioco del calcio fino a diventare il più forte centravanti d’Italia e del mondo, senza che una simile iperbole fosse realmente percepita nella città e nel Paese e tantomeno nella ristretta cerchia dei suoi cari. Per questi ultimi, lo sport del pallone era solo un’attività parallela a quelle della vita “reale”, da circoscrivere istintivamente tra le futilità dell’esistenza di cui non mette gran conto occuparsi. Eppure, egli non sarebbe stato poi industriale e padre di famiglia di successo senza l’esperienza agonistica, che coltivò con predilezione sanguigna, facendovi sgorgare intero l’istinto di felice conquista così intimo della sua natura. E sulla città rimase come sospeso, fino a propagarsi all’infinito nel tempo, percettibile ancora oggi se solo vi si porga un orecchio non disattento, il margine di gioia che egli condivise con chi ne ammirava nei teatri a cielo aperto l’arte e il furore. Schiavio è stato il campione più illustre offerto da Bologna alla gloria dello sport e anche per questo il più amato, così come per il tratto nobiliare espresso nel darsi gratuitamente a una logorante attività agonistica per puro piacere di cimento. Se il Bologna per quasi vent’anni fu ai vertici del calcio italiano ed europeo, portando il nome della città al centro dell’attenzione nella complicata epoca seguita al primo conflitto mondiale, molto lo dovette a questo alfiere capace di durare nel tempo come nessun altro. Ancora oggi egli è ricordato con deferenza e affetto, a lui la città sarà eternamente debitrice come a uno degli artefici nel secolo scorso della sua storia migliore. La “Fratelli Schiavio & C.” era attiva da tempo immemorabile nell’ultimo scorcio dell’Ottocento a Gorla, frazione di Veleso, sulle boscose colline a corona del lago di Como. La ragione sociale la identificava come “manifattura di sciarpe, scialli e stoffe di chappe” (cascami di seta, questi ultimi, ricavati da bozzoli avariati o dagli scarti della seta stessa) nonché “coperte, rideaux (tendaggi) e tappeti di cascami di seta” e aveva conquistato il “Primo diploma d’onore” all’Esposizione italiana di Belle Arti a Londra nel 1888, tappa fondamentale per la diffusione del talento artistico e manifatturiero della nostra penisola fuori dai confini. Nel 1904 tuttavia l’azienda venne scossa da un drammatico evento: uno dei fratelli disertò, fuggendo con la cassa e provocando la paralisi della ditta. I suoi soci attraversarono un momento difficile e tra questi in particolare Angelo, che contando 45 anni e considerandoli ormai troppi per ricominciare da capo, cadde in uno stato di profonda prostrazione. Temendo per la famiglia, già assai numerosa, l’energica moglie, Teresa Stoppani, decise allora di prendere in mano la 5
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situazione. Veniva da un ceppo ugualmente solido, non solo economicamente, poiché gli Stoppani monopolizzavano Zelbio, località ugualmente affacciata sulle pendici dei monti attorno al lago di Como, così come gli Schiavio Veleso, e poteva pure annoverare un parente illustre, l’abate Antonio, padre della geologia italiana e dell’espressione “Bel Paese”, originata dal titolo della sua più celebre opera. Altri ne contava peraltro, meno noti ma certo a lei più contigui, a Bologna, e ciò la indusse di concerto con loro a progettare una svolta radicale per risolvere di netto la complicata e avvilente situazione. Propose dunque al marito di lasciare tutto e trasferirsi nel capoluogo emiliano, per aprirvi un’attività commerciale in linea con le tradizioni industriali della famiglia. Al disegno avrebbe contribuito impegnandovi il non esiguo patrimonio personale avuto in dote al tempo delle nozze e poi felicemente conservato. Il passo era audace e Angelo prese tempo temendo un salto nel buio, nonostante le incoraggianti prospettive offerte dal fervore di espansione allora in atto nel capoluogo emiliano, che la consorte insisteva a illustrargli. Bologna era all’epoca un paesone di poco più di centocinquantamila anime, racchiuso quasi tutto nella cerchia delle antiche mura risalenti al Trecento che proprio in quegli anni andavano soggiacendo a una epocale opera di demolizione a tappeto. Lungamente osteggiati da una minoranza di intellettuali locali, alla cui testa era l’architetto Alfonso Rubbiani, il “falsario” responsabile di gran parte del finto medievale del centro cittadino, i lavori erano stati avviati all’inizio del 1902 e nel giro di quattro anni avrebbero lasciato in piedi dell’imponente cinta muraria solo dieci delle dodici porte. Lo scopo era migliorare la salubrità dell’aria cittadina facilitandone la circolazione, ma anche incoraggiare l’ampliamento urbano e demografico previsto dal rivoluzionario piano regolatore del 1889. Favorita dalla collocazione geografica di snodo viario centrale del giovane Regno d’Italia e dal carattere universale elargitole dalla millenaria e cosmopolita Università, Bologna prometteva un interessante sviluppo sul piano commerciale. Millenaria era pure la tradizione della calata in città di famiglie lombarde, attestata dalla sopravvivenza in epoca moderna di una sola tra le antiche Compagnie delle Armi, che costituivano il braccio armato della borghesia commerciale della Bologna comunale: quella per l’appunto intitolata agli originari della Lombardia e nata dal vincolo di solidarietà tra quanti di essi risiedevano in città nel Medioevo. Abbandonato da tempo immemore ogni carattere militare, la Compagnia dei Lombardi continuava ad attestare con le sue suggestive tradizioni la presenza di un forte contingente di quella regione a Bologna. Teresa, di otto anni più giovane del capofamiglia Angelo, da poco era di nuovo incinta e tale argomento non era l’ultimo per importanza tra quelli opposti dal marito al trasferimento. La prole era già numerosa: morte quasi subito le gemelle Primina e 6
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Secondina, ad allietare la famiglia a Veleso erano arrivati sette figli: dal 1888 al 1901, nell’ordine Ercole, Giustina, Raffaele, Marcello, Giuseppina, Venanzio e Giovannino, a cadenza quasi costante di un paio d’anni l’uno dall’altro. Tanti rami verdi dell’antico ceppo, obiettava lei, meritavano a maggior ragione l’apertura per tempo di nuove prospettive. Oppresso da problemi esistenziali ben più profondi del dubbio che la novità sollevava, afflitto da un esaurimento nervoso che gli rendeva faticoso ogni gesto, proibitiva ogni idea stessa di azione, Angelo continuò per giorni a ribadire la propria opposizione, finché Teresa si risolse a mettere senz’altro in atto il proposito. A spingerla, dopo tanti infruttuosi confronti, fu la convinzione che solo il fatto compiuto avrebbe potuto restituire al consorte la serenità perduta, inducendolo all’azione che la depressione frenava. I parenti in Emilia le avevano già trovato una dimora, vicina alla propria e sufficientemente spaziosa e adatta alla numerosa prole. Si trovava appena fuori porta Santo Stefano, in via Toscana, come sinteticamente era detta la “via Maestra di Toscana”, che attraverso il passo della Raticosa uscendo da Bologna scavalcava l’Appennino e conduceva a Firenze. La loro casa sorgeva invece all’interno della prima traversa della strada, che inerpicandosi verso la collina la collegava a via Santa Chiara, nei pressi dei Giardini Margherita, il parco pubblico realizzato nel 1880 e intitolato alla Regina d’Italia. Ricchi di vegetazione, con eleganti luoghi di ritrovo e un laghetto alimentato dal canale di Savena, i giardini costituivano l’attrazione dell’area pedecollinare che da lì si estendeva fino a Chiesanuova, piccolo borgo così chiamato da un tempo assai remoto in quanto dominato da una parrocchia edificatavi oltre tre secoli prima. Borghesi benestanti e nobili di antico casato avevano posseduto in zona ville per le vacanze quando ancora era considerata “campagna”, fuori dalla cinta muraria di Bologna. Dopo l’Unità d’Italia e a maggior ragione nella prospettiva dell’abbattimento delle mura, la città vi si andava rapidamente estendendo fino pressappoco agli uffici del dazio, i quali – preposti al controllo delle merci e alla riscossione della tassa per il relativo ingresso a Bologna – erano ospitati in un largo spiazzo di fronte alla chiesa. Fin qui era da qualche anno attiva una linea di tram, prima a cavalli e poi elettrificata, che, una volta raggiunta la palazzina amministrativa, con una curva a “U” riprendeva a ritroso per tornare nel centro cittadino. La via Toscana era stata frequentata anticamente soprattutto da viandanti, come attestava la locanda del “Pellegrino”, citata nelle sue memorie da Byron, quasi di fronte alla dimora dei parenti Stoppani. Teresa si stabilì coi figli non molto più avanti, in una casa signorile dotata di un boscoso giardino. Dopo una breve ricerca, investì i denari di famiglia nell’acquisto di un locale con vetrina in via Clavature, nel cuore del centro storico sempre affollato dal passeggio 7
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dei bolognesi, di fronte a via de’ Toschi. Lo ribattezzò “Il Ventaglio”, una merceria che offriva oltre ad articoli minuti relativi al vestiario anche tessuti e, una volta avviata, capi di abbigliamento. L’iniziativa attecchì subito. Bologna, crocevia dei commerci d’Italia in quelle ultime propaggini di Belle Epoque già ricche dei fermenti del progresso tecnico e dell’industrializzazione, offriva terreno fertile alla nuova attività. Le classi medie, non solo gli aristocratici, apprezzavano l’offerta di manufatti di stoffa frutto dell’abilità di Teresa nel precorrere il gusto e le tendenze nonché del suo attivismo, che la dolce attesa non rallentava. Fu proprio l’avvicinarsi del lieto evento a convincere finalmente Angelo a scrollarsi di dosso l’apatia e lasciarsi alle spalle il vuoto della grande casa di Gorla. Quando dopo il lungo viaggio in treno da Como si presentò al cancello di via Toscana per riabbracciare moglie e figli, questi non poterono non notare quanto la breve assenza l’avesse precocemente invecchiato. Una lunga barba grigia gli incorniciava e allungava il volto, a testimonianza della durezza dei mesi trascorsi da solo. Lo spirito però era ancora giovane. Unendo le forze, i coniugi acquistarono i due ampi locali all’angolo con via de’ Toschi situati di fronte al piccolo negozio originario, già diventato insufficiente, e vi trasferirono l’attività. La nuova ditta si chiamò “Angelo Schiavio” con un raggio d’azione che richiamava l’azienda lombarda: “Mercerie Coperte – Rideaux – Tappeti in Cascami di Seta – Sciarpe, Scialli e foulards – Stoffe in Chappe – Merceria e Tessuti – Mode e Novità”. Poche settimane dopo, il 15 ottobre 1905, nasceva l’ultimo della covata, cui fu imposto, a suggello della ritrovata unità della famiglia, il nome di papà, Angelo, subito diminuito in Angiolino e presto abbreviato in Lino. Il nuovo arrivato, complice la differenza d’età, fu presto il cocco dei fratelli più grandi, affezionandosi in particolare a Ercole, il primogenito e il gigante di famiglia che, sulla scia della mole di nonna Marcellina Stoppani, avrebbe finito col soverchiare in statura di una spanna il resto della tribù. Questi aveva 17 anni quando gli strilli di Lino presero a strepitare per casa e fargli da secondo padre fu per lui quasi naturale. In breve, quando ormai papà Angelo ebbe piantato radici a Bologna e ripreso a respirare in negozio l’aria familiare, Teresa provvide ad ampliare l’emporio dotandolo di una ulteriore vetrina, dedicata alla vendita di articoli di cartoleria, e aggiungendo alla ditta il proprio cognome. Nacque così la “Coniugi Schiavio Stoppani”, importatrice delle novità “dal Nord”, polo d’attrazione per le signore e le madri di famiglia della città. L’unità tra le pendici di Veleso e Zelbio si era ricostituita in Emilia, a certificare che ormai un passo impervio della vita era stato brillantemente superato e nuove prosperità si annunciavano. 8
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2 La via Toscana correva stretta in direzione dell’Appennino, ombreggiata in quel primo tratto da due file di alberi a proteggere il riserbo delle ville residenziali. Il suo accesso, provenendo dal centro cittadino, consisteva in una larga spianata oltre la porta, ove sorgeva da un lato la lunga villa Monti, a fianco dei Giardini Margherita, e dirimpetto villa Zucchini. Oltre quest’ultima, un tratto più avanti, al numero 20, sorgeva la palazzina a due piani della famiglia Schiavio, seminascosta dalle alberature dell’ampio giardino. Di notte, la zona cadeva in una generale oscurità, ben poco attenuata dai radi lampioni innalzati dopo l’abbattimento di porta Santo Stefano. Da qualche anno, grazie alla centrale costruita accanto alla chiusa del Battiferro sul canale Navile, la luce elettrica aveva fatto sparire come nel resto di Bologna i lampionai incaricati a ogni imbrunire di accendere i fanali a gas. Il raro passaggio di una carrozza a cavalli o l’insolito rombo di una delle prime automobili in circolazione infrangeva qua e là il silenzio, tipico più della campagna che della città. Un silenzio più grave e mesto si era tuttavia posato sulla famiglia nei primi mesi del 1906, quando un banale raffreddore trascurato aveva trascinato il penultimo dei figli, Giovannino, in una febbre pesante, che degenerata in polmonite fulminante se l’era portato via a soli cinque anni. Il caso, non infrequente in un’epoca di diffusa mortalità infantile, aveva prostrato mamma Teresa e papà Angelo e sconvolto i fratelli. Quando la primavera di quell’anno prese a risvegliare i platani del viale addolcendo il clima, il dramma bussò ancora alla porta di casa. Sin dalla nascita, Lino dormiva nella grande camera dei genitori al primo piano, in un’ampia culla in ferro battuto, e dopo i primi mesi il suo sonno aveva preso un ritmo sufficientemente regolare da non costringere più mamma Teresa a destarsi a intervalli costanti per tranquillizzarlo e nutrirlo nelle ore più scomode. Una notte di aprile, tuttavia, a destarla di soprassalto fu qualcosa di diverso dai classici strilli dei neonati. Le era parso di udire come un rantolo prolungato, ma quando riuscì a sciogliersi dal sonno e a porgere l’orecchio alla culla, si accorse che ne proveniva solo un flebile, disperato sibilo. Il cuore le salì in gola, provò sottovoce a chiamare Lino, poi, alzatasi, avvicinò l’esile lume a olio che teneva sul comodino al viso del piccolo e non riuscì a trattenere un grido: il bimbo appariva cianotico, il respiro si sgretolava faticoso nella bocca spalancata trasformandosi in un acuto fischio, gli occhi erano fissi su di lei come a implorare silenziosamente aiuto. La voce della moglie aveva nel frattempo svegliato anche papà Angelo. Illuminò la stanza azionando l’interruttore dell’energia elettrica da poco impiantata in casa e 9
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lo sguardo atterrito che gli rivolse Teresa bastò a fargli comprendere che una nuova tragedia incombeva sulla famiglia. Si levò dal letto, osservò il figlioletto ed emise un gemito. Lino annaspava. Lino stava morendo. L’uomo riuscì a mantenere la mente lucida. «Il professore!» disse in un soffio e così com’era, in camicia da notte, si precipitò fuori dalla stanza e poi giù per le scale. Un’idea gli era balenata in testa. La tragedia di Giovannino gli aveva offerto l’occasione di conoscere Bartolo Nigrisoli, il medico più famoso della città e forse d’Italia, anche se nella circostanza nulla questi aveva potuto contro il male subdolo e repentino. Dimorava anch’egli in via Toscana, poco lontano: se lo avesse trovato in casa forse questa volta sarebbe arrivato in tempo. Originario di Ravenna, Nigrisoli era fumantino, impulsivo, passionale come la tradizione vuole la gente della sua terra. Soprattutto, però, era un genio. Aveva conosciuto Bologna, e se n’era fatto conoscere, sin dai tempi ormai lontani in cui, non ancora ventenne, vi aveva cominciato a seguire i corsi universitari di matematica e poi, superato l’ostacolo di un esame di greco mancato ai tempi della licenza liceale, quelli di medicina e chirurgia. Intelligenza vivace e ribelle, aveva aderito alle idee socialiste distinguendosi con l’agitatore Andrea Costa e il letterato Giovanni Pascoli nelle manifestazioni degli attivisti della causa operaia. Laureatosi a 25 anni, era stato subito cooptato come assistente interno in clinica chirurgica per poi abbandonare la città all’epoca del servizio militare. Aveva studiato a Torino e a Parigi, aveva girato l’Europa, frequentando i più celebri chirurghi di Germania, Inghilterra, Russia, Finlandia, Svezia e Danimarca, aveva lavorato sul campo all’ospedale di Castiglion Fiorentino e poi a Ravenna, maturandovi una solida esperienza. Alla fine del secolo, era tornato a Bologna chiamatovi dalla sua Università, e da alcuni mesi era chirurgo primario dell’ospedale Maggiore, in via Riva di Reno. Branca relativamente giovane della medicina, la chirurgia andava progredendo in quegli anni a larghi passi grazie all’introduzione dell’anestesia e di misure per rendere asettici gli ambienti di intervento, ma era per lo più ancora materia per audaci che non temessero di incidere il corpo umano per avventurarvisi quasi sempre in via sperimentale. Per praticarla occorrevano coraggio, spirito di iniziativa e talento intuitivo, tutte doti in cui Bartolo Nigrisoli primeggiava. Angelo Schiavio ne conosceva bene anche la fama di “medico dei poveri”, guadagnata mettendo in pratica le idee di sinistra col darsi senza risparmio alla causa dei malati. L’idea di convocarlo in piena notte appariva dunque temeraria, ma non disperata. Al pianterreno di casa, da qualche tempo, su un tavolino nel largo corridoio, campeggiava il telefono, l’ultima diavoleria del progresso condivisa con poche centinaia di bolognesi privilegiati. Si presentava come una pesante scatola in legno, con due campanelli di ottone, il disco combinatore poggiato sulla base coi numeri cerchiati, da un lato la manovella per attivare la corrente delle pile, dall’altro il microfono appeso al 10
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gancio. Quasi certamente anche Nigrisoli ne possedeva uno. Giunto di sotto, Angelo vi sostò solo un attimo dinanzi, poi scosse il capo: difficile pensare che a quell’ora le signorine della centrale di commutazione fossero ancora al lavoro a stabilire comunicazioni tra gli abbonati al servizio. Aprì dunque il vicino armadio attaccapanni e ne trasse un pastrano che si avvolse in fretta sopra la camicia da notte: «Faccio prima a piedi!» rispose alla muta domanda della governante, la quale, svegliata dal trambusto, era accorsa dalla sua stanza. La donna, il capo coperto da una cuffia ricamata, stava già stringendosi la cintura di una pesante veste da camera in panno. «L’accompagno» replicò, poi trasse una lanterna a olio da una delle cassapanche lungo la parete, l’accese con uno zolfanello e precedette il padrone di casa. In pochi concitati minuti, ansimando nel buio accanto alla luce che dondolava ritmicamente, i due giunsero sotto la casa del professore. Angelo tirò con forza il campanello. Trascorsero alcuni interminabili istanti, poi un paio di secchi schianti annunciarono l’apertura degli scuri di una finestra al primo piano. Nel buio vi apparve la sagoma di un uomo. Aveva in testa un copricapo chiaro e anche il pigiama biancheggiava contro il nero della stanza alle sue spalle. Scrutò in silenzio la luce accanto al cancello di casa e non fece in tempo a porre domande. «Professore!» echeggiò dalla strada un grido sottovoce «sono Angelo Schiavio, la prego, scenda, il mio figlio più piccolo sta morendo!». L’uomo alzò un braccio e senza una parola scomparve nel buio. Quando finalmente il grande portone di legno massiccio a pianterreno si aprì, il professore comparve loro nella notte al modo di un fantasma. Aveva indosso un mantello scuro, teneva in una mano una grossa borsa e nell’altra una piccola lanterna accesa: la fiamma tremolante gli illuminò per un attimo il viso mentre scendeva sul vialetto di ghiaia: nel viso lungo e scarno brillava lo sguardo accigliato degli occhi foschi, non aveva ancora cinquant’anni ma sembrava un vecchio, la figura allampanata, l’incedere malcerto forse a causa del sonno interrotto. «Cosa è successo?» «Non riesce a respirare, emette solo un rantolo…». «Andiamo». Oltrepassò il cancello e si accodò anche lui con passo spedito alla donna che faceva strada col lume acceso. «Oggi stava bene?» «Certo, nessuna avvisaglia, niente che facesse prevedere… Speriamo di arrivare in tempo!» In pochi minuti furono a destinazione. Una volta condotto al piano di sopra, il luminare estrasse il bimbo ansimante dalle coperte, lo scrutò per qualche istante esaminandone il pallore con fare assorto, poi si liberò del pastrano lasciandolo cadere 11
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sopra una sedia. Indossava un pigiama chiaro, a righe verticali, sembrava lui il paziente della situazione: «Accendete le luci in cucina e conducetelo là», proferì con voce calma, «non c’è un momento da perdere». Con gli occhi lucidi, Teresa avvolse il figlio in una coperta. «Di sotto…» accennò appena e assieme al marito uscì dalla stanza. L’ambiente a piano terra era vasto, dominato al centro da un grande tavolo col piano di marmo grigio. Il professore vi fece appoggiare il bimbo, poi, dopo essersi lavato le mani nell’acquaio, lo sollevò delicatamente e gli accostò l’orecchio al petto. «Questo è un enfisema acuto», sentenziò con aria grave corrugando la fronte. «Non abbiamo tempo, bisogna inventare qualcosa». Riappoggiò il piccolo sul telo che copriva il tavolo, sostò un attimo come soprappensiero, poi affondò le mani nella borsa, da un contenitore trasse un bisturi affilato e un fascio di garze bianche. La lama scintillò per un attimo alla luce del pesante lampadario che pendeva dal soffitto. «Gli tolga tutto» mormorò a Teresa, che osservava spaventata l’attrezzo da taglio. Quando lo ebbe pronto, afferrò il corpicino nudo, lo rovesciò bocconi e ne incise la schiena sul lato destro. Uno schizzo di sangue macchiò la tela bianca, un acuto strillo strozzato lacerò l’aria, seguito da brevi singhiozzi sincopati. Teresa si era portata una mano alla bocca, Angelo osservava impietrito, dal corridoio Ercole stringeva a sé i fratellini sbirciando dalla porta socchiusa. Armatosi di una garza, il professore allargò la ferita, da cui il sangue correva copioso, inspirò profondamente e poi premette lievemente i pollici dilatando ulteriormente il taglio. Dopo un urlo soffocato, il bimbo si zittì, come svenuto. Nigrisoli infilò le dita nelle carni, tirò brevemente finché un sinistro scricchiolio spremette un nuovo gemito alla creatura. All’orrore di Angelo e Teresa il professore rispose esibendo nella mano un piccolo sanguinolento ossicino ricurvo. «Non c’era tempo per praticare un’anestesia» spiegò. «Ho strappato una costola sotto la scapola». La ferita continuava a sanguinare, la tamponò accuratamente con altre garze. «Sono convinto che schiacciasse il polmone ostacolando il respiro. Ora vediamo come reagisce». Parlava lentamente, un lieve tremito gli ingorgava le parole. Il bimbo non dava segni di vita. Nigrisoli gli prese delicatamente un polso, poi annuì: «Direi che va tutto bene». Per consentire il drenaggio, spiegò, non avrebbe chiuso per il momento la ferita, da cui continuava goccia a goccia a filtrare un po’ di sangue. Il bimbo d’un tratto riprese a gemere, con voce sempre più forte. Aprì gli occhi bagnati di lacrime e li rivolse al soffitto come a tentare di esprimere un dolore lancinante, poi li richiuse disturbato dalla luce. Nel silenzio generale, tutti si accorsero con sollievo che, sia pure a fatica, il respiro stava tornando regolare. 12
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Il professore bagnò abbondantemente la parte versandovi il liquido di una boccetta che aveva tratto dalla borsa, indi approntò una specie di fasciatura, che lasciava scoperta una piccola fessura sanguinolenta. Sarebbe tornato ogni giorno, per qualche tempo, a controllarne le condizioni. A suo parere era opportuno lasciare la ferita semiaperta, affinché si chiudesse lentamente da sola, col passare degli anni, favorita dalla crescita corporea. Se la reazione all’intervento nei giorni successivi si fosse manifestata regolare, aggiunse, Lino sarebbe sopravvissuto e sarebbe diventato un bambino normale, per quel che gli constava, anche se in gran parte quel polmone andava considerato perduto. Papà Angelo lo abbracciò, il professore si schermì agitando brevemente una mano, poi richiuse la borsa e riprese il mantello: aveva operato in pigiama. Fuori la notte cominciava a incresparsi e un lieve chiarore sbocciava oltre le sagome nereggianti degli alberi. Nei giorni successivi le visite andarono diradandosi e in breve non ci fu più bisogno di controlli. Ora il bimbo aveva un polmone solo perfettamente funzionante, da cui la raccomandazione del professore di garantirgli aria salubre, soprattutto in estate. Nei cinque anni di durata della convalescenza, nonna Marcellina avrebbe condotto regolarmente Lino a trascorrere un mese di vacanza a Zelbio, sul lago di Como e un altro a Bellaria, sulla riviera romagnola. La ferita si chiuse in via definitiva solo nel 1910, lasciando una vistosa cicatrice, una sorta di singolare “riporto” di pelle e carne, portatore di qualche periodico fastidio.
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