Narrativa Minerva collana diretta da Giacomo Battara
SIRO
Siro di Francesco Vidotto Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2012 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Seconda edizione 2012 ISBN: 978-88-7381-368-2 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com
Francesco Vidotto
SIRO Minerva Edizioni
un particolare pensiero a papà , mamma e a mio fratello Alberto a Laura perchÊ se non ci fosse stata non sarebbe esistito nemmeno Siro al monte Antelao che mi ha insegnato che nella vita le salite non finiscono mai‌ ‌e nemmeno i bei panorami.
Premessa
Inizio a scrivere questo romanzo che è il mese di ottobre dell’anno 2009. Prima di ora ho scritto altri cinque romanzi di cui un paio pubblicati. Ho l’inizio del libro in mano e il resto racchiuso tra le pagine di un paio di diari di trent’anni fa. Ero indeciso se cominciare oppure no. Ci sono racconti che forse dovrebbero rimanere sepolti nella terra e dimenticati. Io in questa storia ci sono inciampato per caso e ho deciso di raccontarla. Non so se a torto o a ragione. Spero di essere stato abbastanza bravo da tradurre in un buon italiano il dialetto stretto di queste pagine ingiallite scritte a mano. Lo spero davvero. Intanto andiamo a cominciare. è notte ora. Un buon momento. Accendo le luci su un fatto che non ho scordato mai.
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Io Giovedì 3 febbraio 2005 Questa storia inizia alle dieci del mattino di quel giorno Faceva freddo a Tai di Cadore, lo ricordo bene. Il cielo era di ghiaccio e il vento fischiava e piegava gli abeti. Tutto il bosco mormorava. Io stavo diritto con le mani giunte e gli occhi gonfi di lacrime proprio di fronte al sepolcro di mio nonno. Era una buca scura e gelida di terra nera. Tutto attorno mucchi di neve sporca spostata dai becchini per lavorare agevolmente. Quassù le tombe si scavano ancora a braccia, con badile e piccone. La cassa di mogano venne calata lì dentro, centimetro dopo centimetro, fino in fondo; poi le prime badilate di terra iniziarono a nasconderne il legno, poi più nulla. Solo il ricordo di un viso, delle mani, delle parole. Solo il ricordo e il sapore arido della perdita eterna, così difficile da digerire. Eravamo noi parenti e la gente del paese. Tutti stretti nei cappotti. I vecchi tenevano il cappello con la mano perché non volasse via e la testa inclinata nel vento. Il parroco, che conosceva mio nonno da una vita intera, disse le ultime parole commosso e poi toccò alla processione delle condoglianze. Noi nipoti stringevamo mani e abbracciavamo persone. Gli amici, i conoscenti, ciascuno ci era sinceramente vicino nel dolore ma questo naturalmente non bastava. Personalmente avrei voluto essere solo. Non mi piace soffrire in compagnia e non mi aiuta. Io devo vivermelo tutto il dolore e poi rinascere, se ci riesco. Decisi di aspettare. Attesi che i primi lasciassero il cimitero. Fu poi il turno del 9
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prete e dei miei genitori e di mia nonna che, dopo sessant’anni di matrimonio, abbandonava il nonno. Arrivò un uomo: un anziano con cascate di rughe che scendevano dagli occhi. Sì avvicinò al tumulo di terra, ci appoggiò sopra un bossolo di cartuccia di fucile della seconda guerra mondiale, probabilmente riportato a casa dalla Russia, e rimase immobile. “sani Leon, se ciaton presto”, disse d’un tratto, che in cadorino significa: “ciao Leone, ci incontriamo presto” e se ne andò. Io rimasi lì senza più nessuno. Guardai le cime bianche immobili, il verde dei pini, le poche nuvole, il sole sbiadito dell’inverno inoltrato. Il passato venne a galla con prepotente intensità e mi commossi. Le lacrime non la smettevano di scendere e singhiozzavo e non c’era la paura di essere ascoltato. Per calmarmi iniziai a camminare tra le lapidi. Il ghiaino scricchiolava sotto il peso dei miei passi. Guardavo le fotografie dei defunti: alcune a colori, altre in bianco e nero. Cercai di immaginare i sogni di quella gente, le vite, le famiglie. Giunsi così ad una croce di larice. Una croce semplice con una foto nel centro, piantata nella terra, proprio all’angolo estremo del camposanto. Non era adorna di fiori nè di lumi: solo la terra, la croce, la foto e una scritta incisa nel legno. Asciugai le lacrime con il dorso della mano e misi a fuoco. “siro, x, 2003” e più sotto “pastore” “Siro…” sussurrai… e intanto la memoria corse ad una ventina d’anni prima. Guardai la foto con attenzione. Era il volto di un vecchio simpatico con un sorriso sdentato e la barba lunga di qualche giorno. “Siro… caspita…” dissi ancora sottovoce. 10
due Siro Conobbi Siro in estate. Era amico di gioventù del nonno. Amico per la pelle! Capitava spesso che nella bella stagione io e il nonno facessimo lunghe camminate. Quel giorno aveva deciso di portarmi al rifugio Padova, poco sopra Domegge di Cadore. Era uno spasso camminare con lui. Mi raccontava storie d’alta montagna, mi parlava di quando cacciava nei boschi, delle nevi alte dell’inverno, di quando non c’erano automobili ma solamente cavalli e a volte anche della guerra. Io intanto correvo avanti e indietro sul sentiero con la destrezza che solamente un paio di gambe di dieci anni d’età possono regalare. Poco oltre ad una stretta curva scorgemmo ad un tratto un uomo anziano, senza maglietta, scuro come l’ebano, con un paio di pantaloncini corti, un bastone stretto in una mano e nell’altra due scarponi nuovi di zecca. Li teneva per i lacci, annodati tra di loro, mentre camminava scalzo sui sassi. Poco distante da lui procedeva un gregge di non so quante pecore. “Siro” lo chiamò il nonno. “Oi Leone”, rispose lui in Cadorino stretto voltandosi, “e questo bambino chi è? Tuo nipote?” “Sì, è Francesco”. I due si strinsero la mano e si abbracciarono mentre io guardavo imbambolato tutte quelle pecore. “Saluta il signore” disse il nonno. “ciao”, quasi sussurrai, “ma perché sei senza scarpe?” chiesi. “Perché le suole si consumano… i piedi invece no!” rispose quel tale sorridendo furbescamente. Aveva pochi denti e quei pochi erano marci e malandati e puzzava. Dio solo sa 11
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se puzzava. Lo ricordo quell’odore di stalla. Si sentiva solo a stargli vicino. Riprendemmo a camminare tutti e tre insieme fino al rifugio. Io li precedevo e mi divertivo a rincorrere gli animali mentre il nonno e Siro chiacchieravano. Di tanto in tanto lui fischiava ad una coppia di cani che non la smettevano di correre attorno al gregge recuperando le pecore che si allontanavano oppure mi diceva: “stai attento che non ti prendano a testate… hanno la zucca dura come il legno”. Capitava che mi avvicinassi al nonno. Siro allora mi accarezzava sulla testa con una mano che pareva di carta vetrata. Aveva il dito indice tutto storto e bitorzoluto. Questo particolare lo ricordo bene perché mi impressionò parecchio. Dopo un po’ giungemmo ad una biforcazione del sentiero e Siro ci salutò. Lui saliva più in alto di noi, verso forcella Montanaia e poi giù in Val Cimoliana. Accompagnava le greggi ad una malga da quelle parti e poi rientrava in Cadore da solo e sempre scalzo credo. Di ritorno, quel giorno, il nonno mi disse che Siro conosceva quelle montagne come le proprie tasche e che era anche un personaggio un po’ strano perché faceva sì il pastore ma amava leggere e scrivere, tanto che regalava spesso suoi racconti e poesie agli amici. Non c’era osteria di Tai che non avesse un suo scritto appeso dietro il bancone o giusto sopra la cassa. Siro scendeva in paese a bere, scalzo e abbronzato, senza denti e, tra un sorriso e l’altro, regalava parole e le persone gli volevano bene. Credevano fosse matto, ma gli volevano bene. Non ho più sentito parlare di lui fin quando, pochi anni fa, mio nonno mi disse che era morto. L’avevano trovato in malga sopra Auronzo, disteso su una 12
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panca in legno proprio fuori del portone della stalla. Era supino con le mani dietro la testa e un fiasco di vino rosso mezzo pieno poggiato per terra. Era morto guardando il cielo. Siro, per quanto strano possa sembrare, aveva anche fatto testamento e aveva lasciato ogni suo avere al vecchio amico Leone, che poi era il nonno. Di fronte a quella croce in larice mi ritornò alla mente la vecchia faccia di Siro, le sue rughe e perfino il suo odore. Mi ritornò alla mente anche il nonno che ritornava dal funerale con uno scatolone in mano, e mi venne voglia di metterci il naso tra quei ricordi. Volevo rivivere un po’ di passato. Ne avevo bisogno. Lasciai il cimitero deserto. Prima di socchiudere il cancello guardai ancora il tumulo di terra e la corona di fiori. “Ci sei?”, domandai ad alta voce, “Sei qui attorno? Mi vedi? Spero di sì. Ciao nonno”. Andai a casa e iniziai a rovistare in soffitta in cerca di una scatola simile a quella che ricordavo. Non la trovai. Scesi in garage e misi a soqquadro scaffali e armadi ma niente, così tentai in camera del nonno. L’armadio era aperto: dentro un sacco di abiti grigi, qualche maglione, calze, camicie, coperte, fazzoletti. Su di una mensola in alto c’erano quattro cappelli, un berretto di lana e una sciarpa spessa e pungente. Dietro la sciarpa una scatola di cartone chiusa con lo scotch. “Eccola” pensai. La presi, la posi sul letto e la aprii con il cuore che batteva. Nella scatola trovai tutta quanta l’eredità di Siro. Una pipa di quercia annerita dal fumo e odorante di tabacco bruciato, un paio di scarponi ancora nuovi di zecca, due quaderni con una copertina di pelle nera sgualcita e logora. 13
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Iniziai a leggere quelle pagine ingiallite, scritte con una calligrafia tutta inclinata.
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tre 2 dicembre 1982 – oggi scrivo qui in stalla perché fuori si gela Ho imparato a pascolare le greggi ancora prima di dire mamma. Mio padre, il Nane, ha voluto così e io e i miei fratelli abbiamo seguito la sua volontà. Ora lui non c’è più e lo ricordo con astio e rancore e… basta. Solo questo. A sentitr dire frasi del genere certo si può pensare: “ma guarda che ingrato questo figlio!, come si possono solo immaginare cose simili”. A dirla tutta io non so come posso ma le penso eccome. Le penso e basta. Sentite qua, ve ne racconto una. estate 1928 Correva l’anno 1928, era inizio estate e io insieme con i miei due fratelli Gino e Bareta, eravamo dalle parti di Auronzo di Cadore alle prese con un gregge di almeno trecento pecore. Solo noi. Noi tre, Flik e Flok, i nostri cani di allora. Nella bella stagione è preferibile alzarsi di quota dove l’erba è più grassa e umida. All’epoca avevo dieci anni spaccati e mai messo un piede a scuola. Il Nane diceva che, cito testualmente: “l’ignoranza fa bene alla testa, al cuore e alla panza”. I miei fratelli erano già maggiorenni e quando scendevamo in paese, io con il mio basco tutto sgualcito, me ne stavo a guardare con gli occhi lucidi i bambini con i libri in mano e i grembiuli neri. Ricordo come allora gli schiamazzi nei cortili delle scuole, il vociare, le risa. Desideravo imparare a leggere. Non ricordo bene il motivo. Se me lo chiedessero ora direi forse per evadere dalla solitudine 15
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di lunghi mesi vissuti in alta montagna. Fatto sta che lo volevo davvero. Fu quell’estate che conobbi Roberta, una signora graziosa e maestra. La incontrai per caso mentre guardavo un paio di scarpe nuove in una bottega nel centro di Auronzo. Mi si avvicinò incuriosita dal frugoletto che ero. “ciao” disse. “oi” risposi io. “guardi le scarpe?” “si, le mie oramai inzuppano”. “inzuppano?” “sì… hanno i buchi… entra l’acqua”. “ah… capito”, rise lei, “sei di qua?” “no. Sono pastore. Sto qui l’estate”. “e tuo padre?” “sto con i miei fratelli”. Roberta, che era in vacanza lassù, da allora venne per un mese intero a trovarci in malga. A lei piaceva il posto e il formaggio e a me piaceva lei. Gino e Bareta andavano per pascoli e io custodivo la stalla. Una mattina come un’altra eccola di nuovo. Era domenica. “ciao Siro. Ho una cosa per te”. “cosa?” domandai correndo fuori dalla stalla dove stavo finendo di sistemare gli agnelli. “ecco” rispose porgendomi un libro. “cos’è?” “è un abbecedario”. “un abbecedario?” “sì… per imparare a scrivere e leggere”. “ma a me mica interessa scrivere… tanto gli amici non sanno leggere… a chi scrivo? Io voglio leggere”. “è uguale”. 16
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“cosa?” “scrivere e leggere”. “sul serio?” “sul serio”. Stavamo ore e ore con il sussidiario tra le mani e quei segni neri d’inchiostro prendevano vita ai miei occhi e si trasformavano in barche, mari, montagne, carrozze, cavalli e automobili. Come avevo immaginato la magia diventava realtà. Leggere era divino. Roberta ripartì per la città e io rimasi solo con il mio libro. Ci passavo le notti e i miei fratelli mi guardavano con invidia e, devo dire, con gioia… perché loro sanno che vuol dire l’ignoranza. Quella vera! Una sera di Settembre, verso la metà del mese, rientrò a casa il Nane. Non lo vedevamo da tre mesi. Spalancò la porta con una pedata, bestemmiò il Signore, e prese a tagliare una forma di formaggio. La prima cosa che disse fu: “sono morte pecore?” “due”, rispose Gino. Il Nane bestemmiò ancora sebbene sapesse benissimo che due capi morti in una stagione sono nulla. Poi guardò i miei fratelli e disse: “Siro?” “è di là, nella altra stanza. Sta leggendo”. Si rizzò in piedi d’improvviso, lo sgabello cadde pesantemente a terra e io, nella stanza accanto, me la feci addosso. “Siro” gridò. Vidi la porta di legno spalancarsi e il vecchio entrare. Io me ne stavo accovacciato sulla branda con i pantaloni bagnati della mia urina e l’abbecedario in mano. La stanza era buia. Avevo una candela accesa sul comodino sebbene fuori fos17
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se l’imbrunire. “cosa è questo?” chiese strappandomi il libro di mano. “è per questo che sono morte due pecore? Perché tu leggevi? A che mi servono tre figli se uno legge anziché pascolare le greggi?” Afferrò con forza il mio abbecedario e con le sue mani callose lo strappò in due pezzi. Guardavo la carta strapparsi e il mio sogno infrangersi. Si tolse la cintura dai pantaloni e, senza dire una sola altra parola, vibrò una saettata in aria. Ancora sento la fibbia in ferro sulla mia mano. L’indice schioccò e si ruppe. Io ritrassi il braccio nascondendomi la mano ferita con l’altra. Una seconda frustata arrivò d’un lampo. Questa volta sulla gamba. Niente di rotto ma il dolore fu lancinante. Incurante del dito spezzato il Nane si infilò nuovamente la cintura, mi afferrò per un braccio e mi strattonò fuori dalla stanza. I miei fratelli seduti al tavolo avevano la testa china. Non mi guardavano. Tacevano e basta. Io piangevo il più sommessamente possibile. Spalancò il portone della stalla. Le pecore belavano. Mi scagliò all’interno e richiuse. Non disse nulla. L’indomani mattina Bareta mi liberò. Avevo il dito che pareva una palla da tennis e tremavo quasi dal male. “si ritorna a valle”, disse, “il Nane è partito da un paio d’ore. Ci aspetta in Auronzo”. Da quel giorno per anni ho continuato a leggere facendo attenzione a nascondere i libri. Ho divorato volumi di ogni genere. Narrativa soprattutto. Mi sono innamorato delle parole altrui al punto tale da decidere di scriverne delle mie ed eccoci ai giorni nostri. Il mio dito? 18
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È rimasto rotto e si è saldato da solo. Ho trascorso notti insonni per il dolore ma alla fine si è saldato. Proprio ora mentre scrivo queste parole me lo guardo, tutto storto e bitorzoluto con l’articolazione della falange compromessa da allora. Uno dei tanti regali del Nane. Ma… la sapete una cosa? Ne è valsa la pena.
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