Vita di Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone, servitore dello Stato emarginato, cittadino attivo.
RICCARDO TESSARINI «Falcone diceva sempre che la mafia non è tanto la gente che ti spara, ma soprattutto quella che ti emargina, quella che ti lascia da solo» Giuseppe Costanza
stato di abbandono
Riccardo Tessarini nasce nel 1975. È originario di Cerea ma, dal 2000, risiede a Forlì, dove si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Attivo nell’associazionismo da quindici anni, ha svolto servizio di volontariato per Amnesty International, Unicef e Pensiero e Azione. Per la società editrice CityNews, ha ideato e curato il blog Il Cittadino, focalizzato sulla partecipazione politica e l’impegno civico. Mazziniano, divora saggi su politica e società. Ama l’interculturalità, la lettura, il cinema, la musica e la lingua italiana, spagnola, francese e inglese, dall’etimologia alle loro sfumature di suoni, accenti e pronunce. E naturalmente la loro scrittura. Questa è la sua opera prima.
RICCARDO TESSARINI
STATO di abbandono
Cover di: Alessandro Battara (morskipas.it)
Il racconto di Giuseppe Costanza: uomo di fiducia di Giovanni Falcone
MINERVA
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MINERVA
L’opera è narrata in prima persona ed è il frutto di molte interviste a Giuseppe Costanza che si racconta dall’infanzia ai giorni nostri. È anzitutto il racconto della vita di un uomo, oltre che di un cittadino eccezionale, che dal 1984 subisce una svolta dovuta all’ingresso nella ristretta cerchia degli uomini di fiducia di Giovanni Falcone. Numerosi sono i riferimenti al Giudice, ma anche gli aneddoti e le esperienze personali condivise con lui. Miracolosamente sopravvissuto all’attentato del 23 maggio 1992, dopo l’esplosione dell’auto del Magistrato nella quale si trovava, da quel giorno inizia la sua vera odissea, che si protrarrà per oltre vent’anni. Vessato dalle Istituzioni che aveva servito, isolato da personaggi popolari al di sopra di ogni sospetto, e strumentalizzato dai mezzi d’informazione, Costanza si trova a dover fare i conti anche con una macchina burocratica lenta e inefficiente. Insignito della Medaglia d’oro al valore civile, Costanza in questo libro racconta la battaglia per il riconoscimento di alcuni diritti fino ad allora non previsti per il personale civile della Pubblica Amministrazione. Diritti che oggi appartengono a tutti (L. 407/1998).
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Ai giovani
RITRATTI Collana
Stato di abbandono Il racconto di Giuseppe Costanza: uomo di fiducia di Giovanni Falcone riCCarDO TeSSariNi
Direzione editoriale: Roberto Mugavero Impaginazione: Paolo Tassoni Editor: Elisa Azzimondi Grafica di copertina: Alessandro Battara (morskipas.it) Immagine di pagina 5 e 6: © Franco Lannino
© 2017 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978–88–7381–920-2
Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 http: //www.minervaedizioni.com e–mail: info@minervaedizioni.com
INDICE
Prefazione
pag. 9
Introduzione 11 CAPITOLO I:
Un uomo semplice
15
CAPITOLO II:
Nella squadra di Falcone
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CAPITOLO III:
Mafia, istituzioni e poteri forti
59
CAPITOLO IV:
L’odissea personale
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CAPITOLO V:
In stato di abbandono
133
CAPITOLO VI:
L’ultima speranza
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Aggiornamento 151 Conclusione 157 Nota dell’autore e ringraziamenti
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Appendice “Accadimento annunciato” di Stefano Sorcinelli 167 Intervista a Giovanni Paparcuri 170 Intervista a Tomax Teatro 174 Intervista a Nadia Monti 177 Glossario 182 Cronologia 185
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CAPITOLO IV L’ODISSEA PERSONALE
L’ultima volta insieme Quel 23 maggio, era un sabato, andai a prendere la Croma bianca in via Lo Jacono, posteggiata come al solito dietro casa del Giudice e sorvegliata da agenti della Polizia. L’appuntamento con la scorta era alle 17.45 nell’aeroporto di Punta Raisi (oggi intitolato a Falcone e Borsellino). Lungo la strada non notai nulla di sospetto, o quasi: una Fiat 131 blu posteggiata fuori della galleria di Isola delle Femmine, sull’altro lato dell’autostrada. Dentro non c’era nessuno. Arrivai alle 17.30 ed entrai con l’auto nella pista di atterraggio, dove erano appena arrivati anche gli agenti Antonio Montinaro (capo scorta), Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello, Angelo Corbo e Paolo Capuzza, con altre due Croma (una marrone e l’altra azzurra). Falcone e sua moglie atterrarono puntuali con un piccolo aereo, un Falcon 10 del Sisde, al che ci avvicinammo con le auto all’aereo. Non avevano valigie, perché dovevano restare solo un giorno. Lui teneva due borse, che ripose nel bagagliaio, ma notai che non aveva con sé il suo inseparabile computer. Ci salutammo con un cenno, dato che non amava i convenevoli. La moglie mi sorrise. Dato che lei soffriva di mal d’auto, salì davanti, al posto del passeggero. Falcone comunicò la direzione a Montinaro e si mise alla guida, com’era già accaduto altre volte. Quindi io mi sedetti dietro, al centro. Loro non allacciarono le cinture di sicurezza. Non lo facevano mai, anche per evitare ritardi in caso di fuga dall’abitacolo. Erano di buon umore. Per strada si parlava del più e del meno e del fatto che non c’erano stati segnali d’allarme in città. Lei guardava fuori, in silenzio. «Dottore, le ho comprato quella cosa», esclamai. «Eccole il resto». E presi dalla tasca 60.000 lire. La settimana prima, a
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Palermo, mi aveva chiesto di comprargli un cric per l’auto della moglie e mi aveva dato addirittura 90.000 lire. Prese i soldi, li infilò nella tasca della giacca e disse sorridendo: «Aveva un pensiero? Non poteva aspettare più?», come per voler dire che glieli avrei potuti restituire tempo dopo. Poi mi spiegò che la gita che avevamo in programma di fare insieme a Favignana, in occasione della mattanza dei tonni, era stata rinviata. La guida del Giudice era quella di un comune automobilista: andava ai 120/130 chilometri orari e non “copriva” la carreggiata, nel senso che non adottava la tecnica abituale di noi conducenti, quella cioè di tallonarsi lateralmente. La tecnica di occupare tutte le corsie dell’autostrada, compresa quella di emergenza, impedisce ad altri di intromettersi tra un’auto e l’altra; per cui, se quel giorno avessimo proceduto come di consueto, chi azionò la bomba avrebbe visto tre auto avanzare l’una accanto all’altra, e di certo saremmo stati tutti investiti in pieno dall’esplosione. Falcone, invece, guidava normalmente e si teneva a distanza di sicurezza dalla prima Croma, quella marrone, mentre quella azzurra, a sua volta, stava più lontana perché la sua guida, fondamentalmente, era imprevedibile. Poi ci fu il “fatto” delle chiavi. Mi disse che, appena arrivato a casa, aveva un incontro con dei colleghi riguardante la Direzione nazionale, per cui mi chiese di accompagnare la moglie su a casa e che lui avrebbe continuato da solo, con la scorta. «Mi venga a prendere lunedì mattina a casa alle sette», concluse. Non che ci fossero motivi particolari, semplicemente ebbe la cortesia di lasciarmi il tempo per organizzare il ricevimento per la comunione di mio figlio Alessandro, che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Dato che i mazzi di chiavi erano due (una copia la teneva lui e l’altra io) e che le mie in quel momento erano attaccate al cruscotto, dissi: «Allora, quando arriviamo a casa, mi dia il mio mazzo di chiavi, così lunedì posso riprendermi la macchina». Non so perché, forse era soprappensiero, fatto sta che, in un attimo, sfilò il mazzo di chiavi dal cruscotto, mise la mano nell’altra tasca della giacca, prese il suo mazzo, lo infilò nel cruscotto e riaccese l’auto, ancora in trazione. In quell’istante, l’auto si spense e rallentò la corsa perché la marcia inserita era la quarta. «Ma che fa?», urlai, «così
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ci andiamo ad ammazzare!». Lui, girando il capo verso la moglie, che annuiva stupita, disse: «Scusi, scusi!». Vedo il cartello autostradale dello svincolo di Capaci e poi un lampo. Dopodiché, il nulla. Escludo categoricamente che volesse farci uno scherzo, anzi sono certo che in quel momento non fosse lì con la testa, forse perché stava pensando alla riunione. Il fatto di aver sfilato le chiavi provocò lo spegnimento immediato del motore, facendo rallentare l’auto quel poco sufficiente per salvarmi la vita, perché, se non l’avesse fatto, la bomba sarebbe detonata proprio sotto di noi. Esplose, invece, sotto la prima Croma, quella che trasportava Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, scaraventandola a sessantadue metri di distanza e riducendola, sebbene fosse un mezzo blindato, in mille pezzi. Noi ci schiantammo contro un muro di terra, asfalto e cemento, e un’onda d’urto provocata da oltre cinquecento chili di tritolo23. Gli agenti Cervello, Corbo e Capuzza, invece, che ci seguivano dentro la Croma azzurra, subirono un duro colpo, ma si salvarono, tant’è che accorsero subito in nostro aiuto. La notizia sconvolse il Paese. Edizioni straordinarie di giornali e telegiornali annunciarono la strage, commettendo non pochi errori e aggravando ancor di più la situazione: sin da subito cominciò a circolare la voce che, se fossi stato io al posto di guida, Falcone sarebbe rimasto vivo, ma ciò non sarebbe accaduto per via della diversa tecnica di guida perché, se avessi guidato io, le auto avrebbero marciato parallelamente, cioè l’una accanto all’altra (come i mafiosi si aspettavano che fosse), per cui saremmo arrivati contemporaneamente nello stesso punto sopra la bomba. Contesto fermamente quanto scritto a tal riguardo da alcuni giornalisti, come ad esempio Enrico Deaglio24. Le notizie, intanto, si susseguivano freneticamente, il che causò un dramma nel dramma: tre giorni dopo la strage, un telegiornale, non ricordo bene quale, annunciò che ero morto. Mia madre, che ovviamente seguiva angosciata la cronaca Indagini esperite dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, Direzione distrettuale antimafia, N 2111/93 R.G. N.R. e N 869/94 N.R. 24 Enrico Deaglio, Il vile agguato, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 33. 23
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da casa, appena udì la notizia, ebbe un forte sbalzo di pressione, che si scaricò nell’occhio sinistro. Praticamente fu un attacco ischemico. Mia sorella, che fortunatamente era lì con lei, la portò immediatamente al Pronto soccorso. Qui le dissero che bisognava operarla, ma, dato che un mio familiare sapeva dell’esistenza di un centro oftalmico all’avanguardia in Belgio, decisero di portarla immediatamente laggiù. Presero il primo volo e si recarono in questo centro. Lì fu operata, ma l’occhio ormai era irrecuperabile, per cui furono costretti a metterle un occhio di vetro. Cosa accadde, in realtà? Accadde che in quelle ore morì in ospedale un uomo anziano, ma un giornalista riferì alla propria redazione che ero morto io. Così un telegiornale nazionale annunciò che Giuseppe Costanza era morto. Siccome però tutto ciò mi fu raccontato parecchio tempo dopo dai miei familiari, e siccome non ho le prove, non posso fare il nome di chi ha dato questa falsa notizia. In seguito, chiesi al Ministero un risarcimento per ciò che accadde a mia madre, cosa che mi fu riconosciuta, ma, alla prima occasione, il Ministero non mancò di rinfacciarmelo. Non solo, qualche funzionario del Ministero ebbe pure il coraggio di dirmi che sarei stato io il responsabile della morte del Giudice, perché lo avevo lasciato guidare, quando invece lui stesso, anni prima, mi disse di essere autorizzato. In quegli anni accadeva di tutto. Molti magistrati guidavano l’auto e sono sicuro che alcuni di essi non ce l’avessero quest’autorizzazione, ma per scrupolo personale una volta glielo chiesi e lui mi rispose di sì. Nonostante ciò, ancora oggi, molti sono convinti che, se ci fossi stato io alla guida, Falcone sarebbe sopravvissuto. Da quel giorno mi tocca fare i conti anche con questo senso di colpa. Dopo Capaci, invece, di magistrati alla guida di auto blindate non se ne videro più. Meno male che mi trovavo in auto con loro! Se, infatti, quel giorno fossi stato ammalato o avessi avuto un’indisponibilità, adesso sarei ancora in galera: come avrei potuto dimostrare di non essere coinvolto nell’attentato? Quel giorno me la sono vista brutta, ma, paradossalmente, poteva andare peggio.