TANA LIBERA TUTTI

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Claudio BologninI

Mentre il tempo scorreva

Claudio Bolognini

lentamente, i cinni inizivano ad affacciarsi sull’uscio del mondo

TANA LIBERA TUTTI

degli adulti

Minerva Edizioni

tana libera tutti Dizionarietto dei bimbi birichini: da Ambarabaccicicoc0’ a Zoppo galletto, passando dalle Figurine dei calciatori all’Hula hoop, mentre la Mucca Carolina osservava stupita.

6, 90

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i.i .


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Claudio Bolognini

Claudio Bolognini tana libera tutti

Direzione editoriale Roberto Mugavero

tana libera tutti

Grafica e impaginazione Alessandro Battara

© Archivio Walter Breveglieri

Immagini storiche di Tutti i diritti sulle fotografie sono riservati. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright.

Walter Breveglieri

© 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, vietata. ISBN 978-88-7381-290-6 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com

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Ambarabaccicicocò... “Ambarabaccicicocò... tre civette sul comò, che facevano all’amore, con la figlia del dottore, il dottore si ammalò... am- ba-ra- ba- cici- co- cò!!!”. E al fatidico “cò”, la mano di chi faceva la conta andava a posarsi su chi doveva stare sotto. Svolazzavano tante filastrocche per scegliere chi doveva star sotto. Star sotto era la disgrazia più grande che potesse capitare. Non aveva molta importanza che il gioco fosse nascondino, strega impalata o mosca cieca, la cosa più terribile era essere il prescelto mentre gli altri scappavano e ridevano. Si faceva anche la conta con i numeri. Il più grande, con gli occhi socchiusi, contava mentalmente ruotando i pugni serrati fino a quando qualcuno diceva basta. E allora si svelava il numero: “Ventiquattro...” “Trentasei...” “Quarantuno...”, poi i partecipanti venivano contati e ricontati fino a raggiungere il numero annunciato. E chi aveva la sfortuna di essere l’ultimo doveva star sotto. Si facevano mille imbrogli per non essere selezionati. C’era chi si spostava di posto durante la conta, chi contestava la filastrocca, chi il sistema di scelta e chi proponeva il sistema della pagliuzza più corta, per aver un’altra possibilità.

Aquilone Un foglio di carta velina, un paio di forbici, una canna di bambù, un po’ di colla e un rotolo di cotone da imbastire. Nient’altro, soltanto tanta, ma tanta pazienza. 5


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Mentre i maschi andavano a procurarsi la canna di bambù, le femmine disegnavano, tagliavano, modellavano e intrecciavano code colorate e pendagli d’ogni tipo. La più grande della combriccola, vantando rigorose conoscenze di geometria, dava precise disposizioni per sagomare il rombo. La losanga, infatti, deve avere un rapporto del diametro di sette a quattro. E su questo non si può transigere, pena l’inaffidabilità nel volo. Una volta terminate tutte le operazioni di fabbricazione, la femmina più grande afferrava delicatamente l’aquilone e si dirigeva in fretta verso un punto lontano. E mentre tutte le femmine le andavano dietro strillando con eccitazione, i maschi l’anticipavano correndo più veloci del vento.

Allora, come se niente fosse, tutti riprendevano le attività tralasciate: le femmine riempivano tegamini e trastullavano bambolotti e i maschi ritornavano a trafficare con armi e munizioni.

Armi Le armi si dividevano in due ben distinte categorie: quelle giocattolo e quelle da battaglia. Alla prima appartenevano pistole a tamburo che sparavano cartucce di plastica rossa, pistole con le strisce fulminanti e piccole carabine con il tappo di sughero legato con lo spago. Generalmente era la

Arcobaleno Quando appariva l’arcobaleno tutti smettevano di giocare. Le femmine rimanevano affascinate dai colori e dalle impalpabili sfumature, mentre i maschi proponevano di cercare il punto dove andava a cadere. Dove cade l’arcobaleno brucia tutta l’erba attorno ed è molto pericoloso avvicinarsi, però leggenda vuole che in quel punto preciso si nasconda un favoloso tesoro. Nessuno sapeva dove fosse realmente quel posto, nessuno è mai riuscito a trovarlo. Forse era in qualche luogo fantastico, al di là della collina, oltre l’ultima casa abbandonata, di fianco a una vecchia quercia. Ma poi, così come era apparso, l’arcobaleno spariva in un battibaleno, senza lasciar traccia alcuna. 6 7

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Befana che portava i doni ai bimbi buoni. Qualcuno, però, si fabbricava da solo le armi preferite da battaglia. Le canne di alluminio dei lampadari erano la materia prima per le cerbottane. Una potenza di fuoco proporzionale alla lunghezza e al diametro della bacchetta: più lunga è la canna e più piccolo è il diametro maggiore diventa la gittata. Il proiettile: una striscia di carta arrotolata a forma di cono ed incollata con un po’ di sputo. La lunghezza della pallottola si determina infilando la punta del cono nella canna e spezzando l’estremità che fuoriesce. La forcella del ramo di un albero serviva per la fionda, poi si applicavano due robusti elastici, un piccola pezza ovale di cuoio e la fionda era pronta all’uso. Una robusta frasca era l’ideale per la spada da vero spadaccino come D’Artagnan, mentre con un asse di legno si fabbricava lo spadone dei gladiatori. Con un’asticella di legno sagomato si fabbricavano fucili a elastici. Era sufficiente inchiodarci un ciappetto da bucato come grilletto per sparare elastici a ripetizione. Più complicato era trovare il legno adatto per l’arco, perché doveva essere nello stesso tempo flessibile e resistente. Per le frecce si adoperavano dei rametti appuntiti, ma le più ricercate erano fabbricate con stecchetti di vecchi ombrelli. E poi c’era l’archibugio. Da un ramo di sambuco, spolpandolo dal midollo, si ricavava la canna dell’archibugio. Poi s’introducevano due palline di stoppa, arrotolate con la saliva, che venivano

compresse con un sottile bastoncino. Quindi con un colpo secco si faceva partire il proiettile. E la pallottola di stoppa schizzava fuori, con uno schiocco.

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Asino chi legge Ottobre arrivava sempre all’improvviso. Il primo giorno del mese la gente si soffermava ad osservare i primi alunni, accompagnandoli con lievi espressioni di compiacimento. Molti scolari erano scortati dalla mamma, anche se la maggior parte ne faceva volentieri a meno. Alcune madri, infatti, sgridavano i figli davanti a tutti anche con energiche sberle. Altre, invece, s’attardavano a sistemare i capelli del figlio con un pettine tascabile. Ecco perché tutti preferivano andare a scuola da soli. Le femmine si contemplavano a vicenda il fiocco rosa sul colletto bianco inamidato, i maschi erano eccitatati perché di lì a poco poteva avere inizio il campionato di tiro con il pennino. Sul poggiapiedi del banco di legno, veniva disegnato un bersaglio con cerchi concentrici. Ad ogni circonferenza corrispondeva un punteggio, che aumentava gradualmente verso il centro. La cannetta con il pennino veniva lanciata verso il punteggio più ambito. Quando la penna a biro soppiantò la cannetta, il pennino e il calamaio, questi campionati terminarono tristemente. Ma certi scolari birichini ne sapevano una più del diavolo e persino di tutti i provveditori scolastici.


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La biro ha un’anima dove c’è lo stecchino in plastica dell’inchiostro e la sfera con la punta. Allora basta sfilare lo stecchino e introdurre una piccolissima pallina di carta accartocciata con lo sputo. Poi con un rapido soffio bisogna lanciare la pallina con quella cerbottana improvvisata. Qualcuno arrivò ad usare persino chicchi di riso come proiettili. Ma il gesso scorreva impietoso sulla lavagna e segnava puntualmente i buoni e i cattivi. Una volta in castigo dietro la lavagna, allo scolaro birichino restava una sola possibilità di vendetta. “ASINO CHI LEGGE”, era la scritta impertinente che la maestra trovava dopo aver girato ignara la lavagna.

Bacchetta Tra gli strumenti di castigo la bacchetta era il più temuto. Tutti i maestri e persino alcune maestre ne possedevano una. Di solito, con sadica cura, la fabbricava il bidello, che poi la consegnava furtivamente all’insegnante. La bacchetta più diffusa consisteva in un’asticella di legno lunga circa settanta centimetri e larga tre dita. La punizione era inflitta sentenziando all’istante entità della sanzione e modalità di prescrizione. Normalmente il supplizio consisteva in due o tre bacchettate, sferrate sul palmo della mano. La pena aumentava se lo scolaro ritirava istintivamente la mano nel tentativo di evitare il colpo. Quello più impavido, però, restava impassibile e non versava nemmeno una lacrima. Soltanto la bacchettata sui 10 11

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polpastrelli delle dita faceva versare qualche lacrimuccia. Ma non ci si poteva nemmeno lamentare, perché a casa i genitori avrebbero dato il resto.

I calendarietti finirono un po’ in disparte quando sul tavolino del barbiere, nascoste nel ripiano inferiore, trovarono posto le riviste proibite dai nomi accattivanti ed esotici.

Barbiere

Berretta

La bottega del barbiere era aperta anche la domenica mattina, difatti molti clienti amavano farsi radere nel giorno di festa. Il barbiere affilava il rasoio a mano libera sulla striscia di cuoio, che stava attaccata alla poltroncina. Il cliente, tra una chiacchiera e l’altra, doveva soltanto tenere in mano la schedina della Sisal che serviva per ripulire la lama dalla schiuma. I bimbi andavano malvolentieri dal barbiere. Non sopportavano farsi tagliare i capelli con la macchinetta, che scorticava il coppino senza pietà. L’unica consolazione restava quella di poter salire sul cavallino di metallo. Man mano che i bambini crescevano, però, nella bottega del barbiere trovarono altri motivi d’interesse. L’oggetto più ricercato era il calendarietto con le donne nude. Era piccolo come un biglietto da visita, stava dentro una bustina trasparente dalla quale spuntava un cordoncino con il fiocco. Era profumato con un aroma delicato, accattivante e misterioso come quei volti che sorridevano da quelle paginette per dodici lunghi e intriganti mesi. Il barbiere allungava l’ambita strennina con un cenno malizioso, quasi conoscesse personalmente quelle signorine inarrivabili.

La berretta era una cuffia di lana che proteggeva da tutti i malanni di stagione, dagli orecchioni alla tosse cattiva, dalla semplice influenza alla terribile polmonite. Nonostante questi rigidi avvertimenti, i bambini non riuscivano a sopportare alcun tipo di copricapo; l’unico che potevano tollerare era il cappellino di tela con la visiera da portiere. Ma in agguato c’erano vari tipi di berrette di lana variopinta con il pon pon. In commercio c’erano quelle con i colori sociali dell’Inter, del Milan, della Juve o del Bologna, ma restavano pur sempre delle berrette. Dopo l’inevitabile influenza qualcuno era addirittura costretto ad indossare il passamontagna. C’era il modello con una piccola finestrella attorno agli occhi, oppure c’era l’altro con l’apertura più ampia che rendeva il viso ancor più buffo e in balia delle occhiate divertite di tutti. Il copricapo più odiato in assoluto, però, era il cappellino di panno, quello con i copriorecchie di lanetta. Il colore variava dal verdone smunto al marrone color cacca, aveva un bottoncino che lo rendeva ancora più spiacevole. Però non c‘era nulla da fare, se i genitori l’avevano acquistato andava in ogni caso indossato.

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Qualcuno, non potendo ribellarsi, cercava di nascondere i copriorecchie all’interno del copricapo, ma questo stratagemma rendeva ancora più ridicolo il poveretto, che veniva preso inevitabilmente in giro da tutti.

Brusca Una semplice spazzola di saggina poteva trasformarsi in uno spietato strumento di tortura. Normalmente la brusca veniva utilizzata per togliere lo sporco più ostinato da panni e lenzuola, che venivano strofinate energicamente con il sapone da bucato. E fin qui non c’era niente di male, i guai iniziavano quando le ginocchia dei monelli si sporcavano irrimediabilmente. Non ci si poteva nemmeno ribellare: si veniva catturati e costretti a lavarsi nudi dentro la catinella di alluminio. La giornata riservata al bagno era il sabato pomeriggio, mentre negli altri giorni della settimana ci si doveva lavare a pezzi. Mani, braccia, collo, orecchie, ascelle, per finire alle dita dei piedi. Per verificare se il bimbo si era davvero lavato oppure aveva fatto il furbino, c’era la famosa rivista. Iniziava dalle orecchie, per poi passare alle unghie delle mani e arrivare alle ginocchia, dove aleggiava la minaccia della brusca. E il povero bimbo veniva spietatamente avvertito: “Se non ti sei lavato per bene, ti do lavo io per bene con la brusca...”

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Buonanno!

Bussolotti

Al mattino presto del primo gennaio, tutti i bambini si aggiravano per le strade con eccitazione. In giro si vedevano solo maschi perché le femmine portavano sfortuna solo incontrarle casualmente, invece i maschi potevano andare casa per casa a fare gli auguri di buon anno per ricevere tante monetine. Bisognava scegliere con molta cura l’orario adatto. Chi andava a suonare i campanelli troppo presto poteva essere cacciato in malo modo, se invece si aspettava troppo c’era il rischio di arrivare dopo che erano già passati tutti gli altri. I bimbi giravano sempre in coppia e l’abilità consisteva nell’individuare il campanello giusto e al momento più opportuno. “Buonanno!” dicevano in coro porgendo il palmo aperto della mano. L’inquilino, a volte, offriva anche solo una fetta di ciambella o un laconico “grazie”, richiudendo in fretta il portone. Generalmente, però, una monetina non si faceva troppa fatica ad ottenerla. Era soprattutto quella da dieci lire che veniva elargita in cambio degli auguri. Ma se si era fortunati e l’inquilino aveva terminato certi spiccioli, poteva capitare una monetina da venti o addirittura da cinquanta lire. Le monete da cento erano invece appannaggio solo dei parenti stretti, o al massimo acquisiti.

Nessuno si sognava di chiamarli barattoli, tanto meno lattine. Si potevano chiamare così solo quando svolgevano la loro originaria funzione di recipienti. Si trasformavano in bussolotti quando venivano adoperati in giochi e battaglie: trampoli rudimentali, telefoni con il filo di spago, prigioni per lombrichi di terra o contenitori di ghiaia per le sassaiole. Ma l’uso più proibito, e quindi più diffuso, era quello con il carburo. Il carburo di calcio è un minerale che a contatto con l’acqua provoca un micidiale gas incendiario: l’acetilene. Il carburo si trovava in posti segreti perché serviva ad alimentare vecchi lumi. In queste lampade l’acqua era governata da un semplice ma efficace sistema, in cui si veniva a produrre una regolare fiammella. Ma se il contatto con l’acqua non è ben disciplinato il gas può dare in escandescenze, specie se viene compresso vicino ad una fiamma.

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Carnevale Un foglio di cartoncino nero, un tratto con la matita a formare un 8 tracciato in orizzontale, un paio di forbici per ritagliare i contorni e la maschera di Zorro era pronta. Bisognava soltanto praticare i fori per gli occhi e attaccare un elastico per sorreggerla dietro alla nuca. Per il mantello poi un drappo di stoffa nera si trovava facilmente e anche per la spada non c’erano problemi. Bastava un bacchetto sottile e flessibile, un’elsa rotonda di cartone


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e si poteva disegnare nell’aria una zeta per spaventare i nemici. Per i baffetti andava bene un carboncino oppure la matita per gli occhi della mamma. A carnevale ogni scherzo vale, quindi si potevano lanciare le fialette puzzolenti. Un liquido nauseabondo al tanfo d’uovo marcio racchiuso in piccole fiale di vetro che si vendevano in botteghe proibite. I bimbi birichini le spezzavano furtivamente in ogni luogo: al cinema vicino alle coppiette, in un angolo del Caffè, sotto un sedile dell’autobus, e poi scappavano lasciando i malcapitati in balia di quella orribile puzza. Ma lo scherzo preferito era suonare i campanelli e poi scappare senza farsi vedere. C’erano tre tipi di suonatori di campanelli. Quello mordi e fuggi, che scappava immediatamente dopo il misfatto, quello che aspettava la risposta al citofono per poi fare lo scoreggino con la bocca, e infine quello con lo stuzzicadenti. Il monello infilava lo stecchino in una fessura nel pulsante del campanello, in modo tale da lasciarlo perennemente premuto. La cosa peggiore, però, era che questi temuti scherzi spesso restavano in uso anche in quaresima.

C. O. F. Le femmine lo preferivano all’amarena, le labbra si tingevano di rosso per scimmiottare le ragazzine più grandi che si pitturavano con il rossetto. I maschi lo volevano al limone, perché si poteva intravedere sul bastoncino la dicitura C.O.F. che faceva vincere un altro ghiacciolo. 18 19

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Mangiare liberamente un ghiacciolo significava essere giunti in cima alla scala sociale dei bambini. I bimbi piccoli potevano mangiare soltanto il gelato di meringa con il cono di cialda, poi passare al gelato di panna montata e infine a quello con più gusti e la ciliegina d’amarena. I più scaltri ordinavano al gelataio i gusti prescelti con estrema lentezza, in modo da non fare organizzare per tempo la relativa quantità. “Un gelato...crema...cioccolata...fragola...e...limone...” e mentre il gelataio aveva già colmato il cestino il piccolo cliente aggiungeva furbescamente altri gusti. “Nocciola...panna...e...” Ma per mangiare un COF bisognava diventare un po’ più grandi, oppure attendere la temuta operazione delle tonsille. Tutti i bambini, prima di iniziare la scuola elementare, venivano inesorabilmente operati alle tonsille. “Oggi andiamo dal fotografo a fare una bella fotografia ...” Tanti bambini venivano abbindolati con questa promessa, ma in realtà venivano portati direttamente dal chirurgo. L’operazione avveniva all’istante e senza un’adeguata anestesia. Quindi, dopo l’operazione, il minimo che i genitori potessero fare era accontentare il piccolo mutilato permettendogli il primo sospirato COF.

Le figurine, invece, bisognava attaccarle all’album con la colla. La colla liquida era in una boccettina di vetro, che aveva un tappo di plastica con un piccolo pennello. Bisognava usare con attenzione la colla liquida altrimenti s’impastricciava dappertutto. C’era la colla solida, bianca, con un intenso e piacevole odore di mandorla. Si vendeva in piccoli contenitori cilindrici colorati, con all’interno un minuscolo incavo per la piccola spatola. La più nota era la Cocoina, una colla venduta in scatoline argentate. Quando terminava la colla, o non c’era occasione di comprarla, si faceva un composto d’acqua e farina. Bastava proporzionare le dosi fino ad ottenere una pasta molle e appiccicosa, che una volta seccata raggiungeva perfettamente lo scopo.

Colonia

Gli scudetti delle squadre di calcio erano adesivi e si potevano applicare direttamente, però tutti appiccicavano gli scudetti sulla bicicletta.

Quelli che erano stati in colonia dopo la prima volta non volevano più tornarci. Si lamentavano perché c’erano suore severissime pronte a proibire qualunque cosa, si doveva indossare il cappellino rotondo alla marinara e chi si azzardava a toglierlo non avrebbe potuto fare il bagno in mare. In spiaggia si facevano esclusivamente giochi da femmina, come le formine con la sabbia o girotondi vari. Alcuni maschi riuscivano a nascondersi per giocare con le palline dei ciclisti.

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Si prendeva il bambino più piccolo e si trascinava per i piedi in modo tale che, con il corpo, tracciasse una pista sulla sabbia. Quindi si disputavano le gare facendo rotolare le biglie con dentro le facce di ciclisti famosi. Verso le undici arrivava il sospirato momento del bagno in mare, dove i maschi cercavano sempre di fare bere le femmine. Sul più bello le suore iniziavano a far trillare il fischietto. A volte qualcuno riusciva a catturare un cavalluccio marino. Il cavalluccio marino va conservato con cura, adagiato tra due fogli di carta assorbente, poi va sistemato nella valigia accanto alla conchiglia. Alla sera le suore obbligavano tutti a fare la doccia con il sapone per togliere di dosso la salsedine. I maschi si arrampicavano sul muretto dei bagni delle femmine e tiravano palloncini pieni d’acqua fredda nelle docce. Le femmine erano terrorizzate da qualunque cosa che saltasse o strisciasse. Erano molto temuti quei pipistrelli di gomma tanto morbidi e flessibili da sembrare veri. Una volta a casa, nei lunghi mesi invernali, per ripensare a quei giorni, bastava tirare fuori dal cassetto il cavalluccio marino rinsecchito, accostare la conchiglia all’orecchio e ascoltare in silenzio il rumore del mare.

per gareggiare sui marciapiedi. Per fare le gare bastava un colpo deciso con il dito indice rilasciato con forza misurata dal pollice, il cricco insomma. Una striscia di gesso a delimitare i bordi della pista sul marciapiede e l’arrivo in un punto lontano erano gli altri presupposti per iniziare a gareggiare. Per distinguere il proprio coperchino, veniva appiccicato nella parte incavata un tondino di carta con la faccia dei ciclisti. Nella foga di raggiungere il traguardo, c’era chi lanciava in modo maldestro il coperchino fuori dalle righe di gesso e doveva quindi ritornare al punto di partenza. Con i coperchini si confezionavano anche le medaglie. Alcuni colpi forti e precisi con un sasso lo riportavano nella sua forma piatta originaria. Il vincitore si poteva fregiare con queste singolari onorificenze. Non era difficile scorgere il primo classificato con il distintivo di una certa marca di birra al petto, il secondo con quello di una nota aranciata, mentre gli altri si beccavano quelli di fruttini o gazzose. Le femmine con i coperchini grattugiavano i muri delle case fino a scorticare il mattone rosso e ricavarne una polverina. Una tinta che veniva poi usata per colorare i disegni sul foglio bianco o per tingersi le guance.

Cortile

Coperchini Il cricco venne appositamente concepito per giocare con i coperchini, tappi di latta a corona che venivano utilizzati

I giochi da cortile non erano molto amati dai maschi perché lo spazio circoscritto ne limitava le potenzialità. In cortile, infatti, si finiva quasi sempre a fare i giochi da femmina.

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Ruba bandiera, palla avvelenata, su e giù per le vie di Roma, amsalam, luna, la settimana, gessetti, madama Dorè, strega impalata, tutti giochi in cui le femmine eccellevano. E poi c’era mestieri muti. I maschi generalmente erano infastiditi del dover mimare un po’ scioccamente i mestieri nell’attesa che qualcun indovinasse. E poi c’era sempre la femmina più puntigliosa che disquisiva con fare supponente: “... ma quello non è mica un mestiere...” In cortile non si poteva fare baccano, non si poteva giocare con il pallone e si dovevano rispettare e sopportare tantissime regole condominiali. Un gioco che ai maschi, in fondo, non dispiaceva era quattro cantoni. Una chiave, un anellino, un po’ di cenere e dell’acqua si dovevano nascondere per bene nei quattro punti. Chi trovava l’acqua avrebbe avuto solo lacrime, chi rinveniva la cenere poteva avere lutti, a chi capitava l’anello si sarebbe sposata e chi invece scopriva la chiave sarebbe rimasta chiusa in casa come una vecchia zitella. Allora i maschi potevano urlarle in coro: “Zitella! Zitella!” che per una femmina era l’offesa peggiore dopo quella di “Cicciona”.

non sempre era la scelta migliore. Anzi, a volte, proprio la peggiore. Poteva capitare di dover baciare una bimba con i brufoli, una vecchia zitella di passaggio o un omino con l’alito al Campari. Le più esperte erano le femmine. In questi giochi con penitenze e filastrocche varie, bisognava lasciarle stare o farsele amiche per ottenere condoni e sconti di pena. Quella che dirigeva le operazioni, di solito, era la femmina più grande che allevava uno stuolo di bimbette urlanti ed ossequiose ad ogni sua richiesta.

Dire fare baciare lettera testamento “Penitenza-penitenza-penitenza!” Quando ci scappava una penitenza i maschi cercavano di scegliere il dito medio che simboleggiava “baciare”, ma 26 27

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