Un tunnel chiamato giustizia

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Achille Melchionda

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Achille Melchionda un tunnel chiamato giustizia

Achille Melchionda, avvocato penalista, già docente universitario di Diritto processuale penale e di psichiatria forense e collaboratore de “Il Resto dlel Carlino” insegna Deontologia forense nelle scuole di specializzazione dell’Università di Bologna e di Parma e Nozioni di procedura penale nel corso di Giornalismo di Bologna. è autore di un volume sulla riforma del codice di procedura e di numerosi scritti giuridici. Ha pubblicato Un tunnel chiamato giustizia (Cappelli), De familia e dulcis in fundo (Pendragon), Centro studi e archivio storico Lions (in proprio), Le radici del Lionismo (Magalini Due), Francesca Alinovi. 47 coltellate (Pendragon).

un tunnel chiamato giustizia

Minerva Edizioni

1978: un giovane, Dante Forni, viene accusato di essere uno dei basisti bolognesi di Prima Linea, ma si proclama innocente e sostiene di non aver mai avuto a che fare con la lotta armata. Gli indizi sembrano smentirlo e a credergli sono solo la sua famiglia e l’avvocato difensore, l’autore di questo libro. Il legale trascorrerà gli anni successivi a dimostrare l’estraneità del suo assistito alle accuse, a demolire impianti accusatori, a dimostrare la falsità di alcuni rapporti delle forze dell’ordine e a smentire pentiti che mentono. Con la passione che lo contraddistingue Achille Melchionda ricostruisce passo dopo passo i momenti salienti di quegli avvenimenti della cronaca nazionale, affidandosi a quotidiani dell’epoca e ad estratti degli atti processuali, in questa nuova edizione aggiornata di un libro ancora oggi di straordinaria attualità .


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Achille Melchionda, avvocato penalista, già docente universitario di Diritto processuale penale e di psichiatria forense e collaboratore de “Il Resto dlel Carlino” insegna Deontologia forense nelle scuole di specializzazione dell’Università di Bologna e di Parma e Nozioni di procedura penale nel corso di Giornalismo di Bologna. è autore di un volume sulla riforma del codice di procedura e di numerosi scritti giuridici. Ha pubblicato Un tunnel chiamato giustizia (Cappelli), De familia e dulcis in fundo (Pendragon), Centro studi e archivio storico Lions (in proprio), Le radici del Lionismo (Magalini Due), Francesca Alinovi. 47 coltellate (Pendragon).

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1978: un giovane, Dante Forni, viene accusato di essere uno dei basisti bolognesi di Prima Linea, ma si proclama innocente e sostiene di non aver mai avuto a che fare con la lotta armata. Gli indizi sembrano smentirlo e a credergli sono solo la sua famiglia e l’avvocato difensore, l’autore di questo libro. Il legale trascorrerà gli anni successivi a dimostrare l’estraneità del suo assistito alle accuse, a demolire impianti accusatori, a dimostrare la falsità di alcuni rapporti delle forze dell’ordine e a smentire pentiti che mentono. Con la passione che lo contraddistingue Achille Melchionda ricostruisce passo dopo passo i momenti salienti di quegli avvenimenti della cronaca nazionale, affidandosi a quotidiani dell’epoca e ad estratti degli atti processuali, in questa nuova edizione aggiornata di un libro ancora oggi di straordinaria attualità .


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Achille Melchionda, avvocato penalista, già docente universitario di Diritto processuale penale e di psichiatria forense e collaboratore de “Il Resto dlel Carlino” insegna Deontologia forense nelle scuole di specializzazione dell’Università di Bologna e di Parma e Nozioni di procedura penale nel corso di Giornalismo di Bologna. è autore di un volume sulla riforma del codice di procedura e di numerosi scritti giuridici. Ha pubblicato Un tunnel chiamato giustizia (Cappelli), De familia e dulcis in fundo (Pendragon), Centro studi e archivio storico Lions (in proprio), Le radici del Lionismo (Magalini Due), Francesca Alinovi. 47 coltellate (Pendragon).

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1978: un giovane, Dante Forni, viene accusato di essere uno dei basisti bolognesi di Prima Linea, ma si proclama innocente e sostiene di non aver mai avuto a che fare con la lotta armata. Gli indizi sembrano smentirlo e a credergli sono solo la sua famiglia e l’avvocato difensore, l’autore di questo libro. Il legale trascorrerà gli anni successivi a dimostrare l’estraneità del suo assistito alle accuse, a demolire impianti accusatori, a dimostrare la falsità di alcuni rapporti delle forze dell’ordine e a smentire pentiti che mentono. Con la passione che lo contraddistingue Achille Melchionda ricostruisce passo dopo passo i momenti salienti di quegli avvenimenti della cronaca nazionale, affidandosi a quotidiani dell’epoca e ad estratti degli atti processuali, in questa nuova edizione aggiornata di un libro ancora oggi di straordinaria attualità .



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Ristampa aggiornata

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore Direttore editoriale: Roberto Mugavero Editor: Paolo Tassoni

Finito di stampare nel mese di aprile 2012 per i tipi

© 2011 Minerva Soluzioni Editoriali s.r.l., Bologna isbn 978-88-7381-313-2 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 – 40050 Argelato (Bologna) Tel. 051.6630557 – Fax 051.897420 info@minervaedizioni.com – www.minervaedizioni.com


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Indice Parte prima: «Spiragli di luce nel tunnel» 1. Dicembre 1978: In 5 minuti, 5 anni di reclusione

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2. Gennaio - Agosto 1979: Terrorista per lo Stato, infame per i terroristi

48

3. Settembre 1979 - Marzo 1980: Questo processo «non s’ha da fare»

121

4. Aprile - Giugno 1980: Da Corrado Alunni a Roberto Sandalo: cronaca di un processo

139

Parte seconda: «Il tunnel si richiude» 1. Giugno - Luglio 1980: Libera-prigionia in città

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2. Agosto 1980 - Novembre 1981: Sant’Ambrogio non nega un favore a San Petronio

209

Parte terza: «Fine del tunnel?» 1. Dicembre 1981 - Gennaio 1982: Non soltanto il postino «suona sempre due volte»

218

2. Gennaio - Marzo 1982: «Repetita juvant»

265

3. Aprile 1982 - Aprile 1984: «Rocco di Varese»: chi era costui?

293

4. Maggio - Novembre 1984: «In nome del popolo italiano»... si esce dal tunnel?

315

Postille Dieci anni dopo

335

Trent’anni dopo «… Tuttavia, chi è assolto non è innocente: è fortunato!» di Dante Forni

337

Un libro è come un figlio

339

Indice dei nomi

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Rassegna stampa

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Parte

I

Spiragli di luce nel tunnel



1

Spiragli di luce nel tunnel. Dicembre 1978 In 5 minuti, 5 anni di reclusione

Cap

20 dicembre La notizia mi colpisce solo per le dimensioni dei grossi titoli di giornali, specialmente sul bolognese «Il Resto del Carlino»: i Carabinieri del generale Dalla Chiesa hanno scoperto un «covo» di Prima Linea a Bologna, in via Tovaglie, a poche centinaia di metri dal Tribunale e dalla dirimpettaia Caserma «Marsili» dei Carabinieri. Sbircio i nomi dei numerosi arrestati per pura curiosità. I miei unici contatti con gli extra li ho avuti l’anno scorso, durante il famoso marzo ’77 bolognese. Fra gli studenti del corso di procedura penale, che nel ’77 conducevo per incarico, alcuni erano stati indicati come elementi di punta di quel «movimento studentesco» che si definiva «autonomo». Era stato un anno difficile: più occupazioni di aule, scioperi, assemblee, scontri e polemiche, che lezioni ed esami. Le giornate calde della prima decade di marzo erano sfociate in scontri a fuoco con polizia e carabinieri; arresti in massa; l’uccisione del giovane Lorusso da parte di un carabiniere. Poi la città aveva rapidamente ricuperato la sua fisionomia normale, almeno all’apparenza. Sembrava volesse soprattutto dimenticare. Quasi tutto il corpo docente della Facoltà di giurisprudenza aveva espresso una certa solidarietà verso gli studenti arrestati, ed i professori iscritti all’albo degli avvocati si erano dichiarati disponibili alla difesa gratuita dei loro studenti. Anche io. Non era polemica politica. Si aveva l’impressione che gli arresti in massa, necessitati o no dall’emergenza di quei giorni, non contribuissero a riportare la calma, ma al contrario potessero rinfocolare il contrasto fra le istituzioni e la popolazione studentesca. In fondo, quando quei ragazzi, nelle loro esagitate e violente assemblee, accusavano tutti (dallo Stato al Comune, dall’Università alla città) di avere creato, attraverso lo specchietto della «liberalizzazione» degli studi universitari (libero accesso a tutte le facoltà, scelta individuale dei «piani di studio», possibilità degli «esami di gruppo», ecc. ecc.) nulla più che un «parcheggio di disoccupati» dall’ambiente del lavoro a 9


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quello dello studio, senza serie future prospettive di lavoro professionale o qualificato, dicevano cose vere e giuste. Accidenti alla demagogia. Be’, era andata a finire che uno di quegli studenti arrestati, a torto od a ragione indicato come uno dei «capi», che aveva frequentato le mie lezioni, dimostrando in verità scarsa passione per il diritto, ma tanta vivace intelligenza, tanta potenzialità di apprendimento, e buona cultura politica, scorsa la lista dei docenti dichiaratisi disponibili alla difesa «di solidarietà», aveva scelto me. Era stata la mia unica esperienza di difesa in processi definibili come «politici»; con tutte le riserve che ebbi e conservo per queste aggettivazioni (per me la difesa è soltanto un fatto di applicazione corretta delle leggi vigenti). Ricordo ancora il mio disagio durante le riunioni del «collegio di difesa» al sentire alcuni colleghi, bolognesi e non, introdurre o pretendere di introdurre argomenti assurdi, permeati di polemiche storico-politiche come linea di difesa di quegli imputati. Ne presi subito le distanze, deciso, come poi feci, a considerare sempre il banco della difesa semplicemente come strumento di affermazione della giustizia. Scorro, dunque, il nome degli arrestati per il «covo» di via Tovaglie: Rossetti, Veronesi, Turicchia, Forni, Malossi, Ubaldini… non mi dicono niente. Per la verità, poco mi dice anche l’espressione Prima Linea. Terroristi, di sicuro. Quanta alle differenze rispetto alle altre etichette o sigle, Brigate Rosse, Nuclei Combattenti, e chi più ne ha più ne metta, ammetto la mia ignoranza. Basta, la notizia non mi interessa più di tanto. Sento, dentro, un po’ di compiacimento per il buon colpo messo a segno dai carabinieri, guidati dal capitano Nevio Monaco, che conosco e stimo molto: ero in commissione di laurea quando discusse la sua tesi sulla nuova legge in materia di stupefacenti. Quanto ai terroristi… se la sono voluta, fatti loro... Parto per Modena. Sono difensore di alcuni funzionari di banca, imputati di concorso in reati valutari. È questo il «penale» che mi piace ed al quale mi dedico con interesse. Niente rapine, niente violenze sessuali, niente droga, meno che mai terrorismi e roba simile. Mi dedico al penale commerciale, al penale amministrativo, o fallimentare, o tributario... insomma a quella che è di moda definire «la criminalità dei colletti bianchi». Lo confesso: preferisco avere a che fare, cioè ricevere in studio, parlare, discutere, studiare, difendere, persone col colletto bianco e la cravatta piuttosto che giovinastri con i jeans, la maglia unta e le unghie nere. Borghese? E borghese sia. La mia autodifesa è che ... conosco colpe peggiori dell’essere borghese.

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22 dicembre Mi telefona l’avv. Luigi Rinaldi: mi chiede di assumere la difesa di un certo Dante Forni, uno di quelli del «covo» di via Tovaglie. Lui non può, per motivi che non mi precisa, ma anche perché non è un «penalista» abitudinario. Gli dico che no, la cosa non mi interessa; non ho predisposizione, né simpatia, per questi processi. Eppoi, per quel poco che ho letto sui giornali in questi giorni, non vedo cosa ci sia da difendere. Dice che Dante Forni, per quanto lui lo conosce, non dovrebbe essere «uno di loro». Io insisto, la proposta non mi interessa. Comunque, lui mi ribadisce, se dovessi cambiare idea, nessun imbarazzo verso di lui perché la sua rinuncia al mandato è definitiva. Nel pomeriggio viene a trovarmi l’avv. Umberto Guerini, un giovane collega con il quale ho avuto poche occasioni di incontro, ma che considero un professionista capace, sicuramente uno dei destinati «a sfondare». Lo ricordo quand’era ancora studente, personalità prorompente e marcata, senza essere un «agitato». So infatti che è un socialista, attivo nella federazione bolognese. Guerini mi propone la stessa cosa di Rinaldi: la difesa di questo Dante Forni. Gli dico della telefonata di Rinaldi. Ne è al corrente, fra di loro si sono già parlati, proprio da Rinaldi ha avuto quel po’ di carte processuali già a disposizione delle difese (i verbali di perquisizione e di sequestro, gli interrogatori degli imputati). Mi aggiorna sommariamente: agli arrestati del 19 dicembre si contestano due gruppi di reati; per uno (detenzione di armi, esplosivi, ed altro) pare che la Procura della Repubblica sia intenzionata a disporre al più presto, come la legge impone, un processo per direttissima, subito dopo Natale; per l’altro (associazione sovversiva, banda armata, eccetera) sarà aperta una istruttoria che richiederà prevedibilmente tempi assai più lunghi. Mi chiede di affiancarlo fin da ora, per la «direttissima» sul possesso delle armi. Dice che è autorizzato a parlarmene anche dalla famiglia di Dante, il cui padre è suo compagno socialista (come del resto lo stesso Dante), persona degna e dabbene. Proprio per questi rapporti personali, che appesantiscono la responsabilità della difesa, desidera il conforto di un co-difensore più anziano. Lo capisco. Solo gli stupidi, gli incoscienti, gli irresponsabili (e fra i professionisti, avvocati compresi, ve ne sono a josa), mancano dell’umiltà indispensabile per rapportare le proprie forze alla gravità di un caso. Accade assai di peggio: tanto più un caso è difficile, tanto maggiore è il numero degli arrivisti che si agitano per farselo affidare. Non è che a loro non importi come andrà a finire; è che non si rendono

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conto che andrà come andrà, in ogni modo non grazie alla loro incapacità. Ciò che interessa è legare il loro nome all’importante affaire, per una automatica pubblicità. Non colgono neppure l’esatta dimensione della difficoltà da affrontare; riescono a guastare definitivamente una situazione, a farla precipitare, per incoscienza, in baratri dai quali poi non si risolleverà mai più. Ch’io comprenda ed apprezzi lo scrupolo di Guerini. per l’assunzione di responsabilità nel difendere questo Dante Forni, non è però ragione sufficiente per trovarmici coinvolto. Gli dico che non sono fatto per i «processi politici»; mi obietta che proprio per questo mi vorrebbe insieme a lui. Allora, dico, non politico per non politico, a Bologna ci sono tanti altri colleghi più bravi e capaci ai quali può rivolgersi; ma mentre comincio a nominarli mi interrompe e mi confida che ci ha già pensato e provato: uno gli ha detto di no per principio, l’altro perché sta per partire per le ferie di Natale e rientrerà dopo l’Epifania, il terzo gli ha fatto dire che era già partito… Mi schermisco come posso, gli faccio capire che non ne ho nessuna voglia, me la cavo dicendogli che ci ripenserò, ne riparleremo dopo Natale; ma non ci faccia troppo affidamento. Dopo che è uscito, ci ripenso e mi trovo ad avvertire come un senso di vergogna. Mi metto nei suoi panni. Mi immagino di essere come ero vent’anni fa, e cerco di vedermi mentre busso da una porta all’altra alla ricerca di un collega piú anziano con il quale condividere la responsabilità di un caso difficile. Mi vedo rifiutato… con tutta cortesia e umana comprensione. Cerco di immaginare che cosa sta pensando di me Umberto Guerini; e mi dò una risposta che non mi piace, e mi colpevolizza. Poi reagisco, e mi scrollo di dosso queste romanticherie. Perché proprio io? Che debba essere sempre il solito debole, preoccupato per gli altri? Si arrangino, gli altri. Faccio questa libera professione proprio per essere libero di dire di sì o di no, come piú mi piace, senza doverne rispondere ad altri che non a me stesso. E se anche il «me stesso» mi dà qualche fastidio… be’, vada anche «lui» a quel paese… 23 dicembre Nel giro di poche ore, durante la mattinata, mi telefonano i big del PSI di Bologna. No, non sono iscritto al partito, sono «dell’area»; mi sento, insomma, un po’ socialista, ho votato spesso per il PSI, ho talvolta manifestato idee non dissimili; anni fa ho anche ricoperto, come «indipendente», ma proposto dai socialisti, una piccola carica amministrativa. C’è dunque una specie di dialogo aperto tra questo partito e me.

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Mi pregano di assumere Ia difesa di Forni. È un loro iscritto (l’hanno dovuto «sospendere» all’indomani dell’arresto per esigenze di tutela del partito); ma proprio non credono che possa essere un terrorista. Si rivolgono a me soprattutto a nome del padre, un compagno socialista di vecchia e provata fede, persona veramente corretta e seria che merita, anche sul piano umano, la massima solidarietà. Sono telefonate lunghe e difficili. Una schermaglia tra me, sempre intenzionato a rifiutare, ma con la dovuta delicatezza, e loro, rispettosi della mia indipendenza, ma desiderosi di farmi accettare. Chi ottiene di piú, alla fine, è l’On. Babbini: mi strappa un consenso almeno a ricevere il padre di Forni: lo ascolterò, per poi decidere, in piena libertà. Accetto, sicuro di riuscire ad esprimere anche a lui un «no» definitivo. Sto giocando, me ne rendo conto, anche sul tempo. La «direttissima» per la questione delle armi sembra fissata tra pochi giorni. Se riesco a tener duro ancora per un po’ (è prossimo l’intervallo di Natale e Santo Stefano) arriviamo a ridosso del processo, quando oramai avrò l’alibi della mancanza di tempo per preparare la difesa. Ci penserà Guerini; poi si vedrà. 24 dicembre Viene da me il padre di Dante Forni. Al partito gli hanno detto che ero disposto a riceverlo, ed eccolo di fronte a me. Gli snocciolo tutte le mie riserve; non mi sento portato a processi di questo genere (vero); conosco poco o nulla dei fatti (vero solo in parte: ho nel frattempo riletto attentamente le notizie di stampa dei giorni scorsi e ne sto seguendo con interesse l’evolversi); cerco di fargli capire che è importante, per un imputato, che il difensore abbia, prima di tutto, una carica interiore capace di spronarlo, una certa passionalità, insomma, una forza da convincimento profondo, senza di che... Ciò che taccio è che mi sento invece condizionato dalle notizie di stampa che ho letto e riletto. Titoli sempre impressionanti ed a caratteri cubitali, una sconcertante ridda di nomi e di aggettivi, una gara alle connessioni con lugubri fatti del passato recente. Si fa con insistenza il nome del brigatista Corrado Alunni, lo si dice legato al covo di via Tovaglie almeno per il tramite dell’architetto Massimo Turicchia, pure arrestato il 19 dicembre a Bologna, al cui nome Alunni aveva affittato a Milano l’appartamento nel quale si nascondeva. Tutti i giornali, di qualsiasi «colore», mettono in evidenza l’avvenuta scoperta, nel «covo bolognese», di ben tremila schede al nome di personaggi appartenenti ai più

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disparati ceti ed ambienti, compresi magistrati, carabinieri, poliziotti, giornalisti, industriali: insomma, tutte potenziali vittime del terrorismo rosso. Schede che, si dice, contengono precisi dati sulle abitudini di vita, sugli orari di lavoro, sui percorsi più consueti, sulle vetture che usano... Tremila schede! Si riparla (cioè, si riscrive) della fallita rapina di Argelato, conclusa con la barbara uccisione del brigadiere dei Carabinieri Lombardini; se ne indicano possibili collegamenti con la «banda di Prima Linea» arrestata a Bologna, anche per possibili tramiti che coinvolgono il Prof. Toni Negri di Padova. So bene che sui giornali arrivano, da palazzo di giustizia, dalla questura o dai carabinieri, soltanto le notizie «ufficiali», ed è evidente che la stampa sta riflettendo il compiacimento dell’opinione pubblica per la scoperta di questo importante covo bolognese; il Sindaco Zangheri ha espresso, insieme, soddisfazione per il riuscito blitz e preoccupazione per questa inattesa realtà cittadina, ha encomiato magistratura e Forze dell’ordine, ha evocato il marzo ’77, ha preannunciato che si recherà dal Ministro Rognoni, di lì a pochi giorni, accompagnato dai presidenti della Giunta regionale e della Provincia, per chiedere assicurazioni su future più intense operazioni di controllo e vigilanza... Queste mie sensazioni non vengono fuori davanti al sig. Forni. Sto sul generico: la mia indisponibilità è di principio. Avevo immaginato un colloquio più difficile, ma stranamente sembra comprendermi e darmi ragione. Neppure lui, comunque, affronta il merito del processo; o ne sa poco, penso, o semplicemente non ritiene di discuterne in questo primo approccio (forse, maligno dentro di me, sa che il figlio è indifendibile); si limita a dire che si fida di me, per le buone referenze che ha avuto da quanti lo hanno a me indirizzato. Non sembra voler forzare la mia libertà di scelta; comprende benissimo che se non accetto di buon grado finirei con l’essere di scarso aiuto. I giornali di oggi confermano che il processo direttissimo è stato fissato per il 29 dicembre. Tiro a cavarmela guadagnando tempo. «Del resto – aggiungo – avete già l’avvocato Guerini: è bravo, serio, molto capace; siete in ottime mani». «È vero – mi dice – Umberto mi dà ampio affidamento; ma vede, proprio lui mi ha fatto il suo nome...». «Insomma, signor Forni, non me la sento di difendere una persona che, mi scusi la franchezza, è in odore di terrorismo». «Ma mio figlio...».

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«Vede, se mai accettassi questo incarico, e poi mi accorgessi di difendere proprio un colpevole di terrorismo, so benissimo, perché mi conosco, che finirei col rinunciare al mandato; e questo potrebbe danneggiare suo figlio più che il difenderlo senza convinzione». Credo di avere così chiuso il colloquio, anche perché il mio interlocutore sembra riflettere su quanto gli ho detto. Ma riprende: «Avvocato, posso dirle solo questo: mio figlio non è un terrorista, lo sento con assoluta certezza. Proprio ieri pomeriggio mia moglie ed io siamo andati a trovarlo in carcere; prima di salutarci e abbracciarci ci ha detto “se credete che io sia un terrorista non disturbatevi a venire e ad aiutarmi”. È stato come se mi dicesse che avremmo finito di essere genitori e figlio se lui ci avesse tradito fino all’essere diventato un brigatista». Si ferma un attimo e poi, con lo stesso tono neutro prosegue: «Ecco se Dante è un terrorista, prima ancora che lei rinunci a difenderlo sarò io a cancellarlo dal mio cuore». Mi colpisce soprattutto la calma, direi la freddezza delle ultime battute, pur così pesanti. Sento benissimo dentro di me una maledetta, insinuante voce che comincia a chiedermi «e se fosse innocente?». Ci lasciamo senza sì e no. Gli strappo il consenso a farmici ancora riflettere, fino a dopo Santo Stefano. Il 27 dicembre rientrerà a Bologna l’avvocato Guerini, ne riparlerò con lui, darò a lui la risposta definitiva... Dentro di me so che sarà un «no». Forse è solo per vigliaccheria che non oso dirglielo in faccia; preferisco farglielo dire dopo le feste da Guerini. 25–26 dicembre In effetti continuo a pensarci. Che qualche cosa mi turbi se ne accorge anche mia moglie. Le spiego di che cosa si tratta: è un modo per riflettere ad alta voce e per osservare il problema con maggiore distacco. Mi ascolta come sempre, con attenzione, senza interferire; ma nel colloquio le riserve interiori, le obiezioni e le contro-obiezioni affiorano come da sole. So bene che la decisione spetta a me e che lei la rispetterà. Se un giorno dovesse rivelarsi sbagliata non mi dirà «te l’avevo detto!». Non sto parlando ad un pubblico, non sto cercando consensi forzati; e soprattutto non devo convincere nessuno. Gira e rigira, il problema è abbastanza chiaro e semplice. Mi dico che accettare può significare legare il mio nome a quello di un colpe-

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vole di fatti troppo esecrandi; a parte il parere degli altri, mi metterei nella situazione di spendere energie per aiutare un terrorista e mi troverei troppo a disagio. Meglio non incastrarsi con le proprie mani. È anche vero, però, che rifiutare può essere vile, da egoista e presuntuoso, da pavido di fronte al giudizio degli altri. Non avrei dovuto accettare l’incontro col padre, ecco il punto. Dovevo dirgli di no e basta. Avergli lasciato quel po’ di speranza era stato ipocrita. Ma il mio soliloquio non finisce; non trovo un punto fermo. Mi tormenta, anche di notte, il ricordo di quell’incontro. Mi ritorna l’immagine del signor Forni; mi è rimasto addosso il suo sguardo, non riesco a scrollarmelo dalla mente. Sempre più insistentemente (anche se vorrei non pensarci) mi impressiona il ricordo della sua... non so come dire, compostezza nella disperazione. Rivivendo quell’incontro mi rendo conto, sempre più chiaramente, che mentre mi parlava era come se mi stesse pregando in ginocchio; sentivo che mi aveva supplicato, pur non mostrandolo, anzi rispettando apertamente la mia indecisa indipendenza. Ma chi ero io, per consentire ad un pover’uomo, ad un padre, di supplicarmi disperatamente? Come potevo permettermi di ricevere tanta dignità, con un atteggiamento così mediocre di riserva e di prudenza? Cosa avrei fatto al suo posto? Per mio figlio, cosa avrei fatto pur di salvarlo? Avrei mai osato riferire ad un estraneo che sarei stato pronto anche a cancellarlo dal mio cuore? Per credere all’innocenza di un figlio è sufficiente la parola di un padre? E se era colpevole, se aveva ingannato tutti, anche suo padre e sua madre? Lo avrei abbandonato al suo destino, d’accordo; ma intanto, che dovevo fare? Più ripensavo a quel padre, alla nobiltà, al coraggio, all’amore che dai suoi occhi (e dai suoi silenzi), più che dalle parole, mi avevano colpito nel profondo, e più sentivo che dentro di me qualcosa si stava precisando, quasi senza confessarlo neppure a me stesso. Avvertivo chiaramente anche la mia ultima viltà: speravo che il 27 dicembre nessuno più me ne avrebbe parlato, cioè che si fossero nel frattempo rivolti ad altri. Allo stesso modo, da ragazzo, al ginnasio e poi al liceo, andavo incontro all’interrogazione non preparata, sperando che dalla lista dei presenti la professoressa estraesse il nome di un altro. A tratti avrei perfino insultato quel Forni; per avermi messo in quella situazione con me stesso, come non mi era mai capitato. Solo subito dopo la laurea mi ero trovato in un tormento del genere; mi aveva chiesto di difenderlo un innocuo scemo, figlio di una domestica di mia madre (quando lei era ancora una ragazza), sempre

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tanto affettuoso con mia madre, fino a quando era in vita, poi anche con me. Mi telefonava ogni tanto per dirmi che era andato apposta a Ferrara, per portare dei fiori sulla tomba di mia madre. Ne approfittavo per dirgli di passare da me qualche volta: gli regalavo vestiti e scarpe smesse, era come dargli dell’oro. Passava la sua vita dentro e fuori dal manicomio, il più delle volte per sua scelta, per suo bisogno di sbarcare il lunario. Mi pregava di telefonare al direttore perché lo accettasse; e il direttore era combattuto tra l’affetto che gli portava, un buon’uomo questo Savino (ironia del nome!), e la necessità di riservare letti e pasti ai matti veri e pericolosi. Un giorno – chissà quanti anni aveva messo assieme? Certo più di 40 – un giorno aveva toccato una minorenne sotto le gonne, nell’androne di casa. Atti osceni. Mi chiese di difenderlo. Come dirgli di no? Tutta la mia carità poteva consistere nel regalargli abiti vecchi che altrimenti avrei buttato via? Mi tormentai per giorni e giorni: Savino era destinato o al carcere o al manicomio giudiziario, questo più probabile di quello; bastava vederlo e parlargli per capire che ci sarebbe voluta una perizia psichiatrica. L’idea di vederlo finire nella fossa dei serpenti era diventato per me come tradire la memoria di mia madre. Ricordo che un giorno l’angoscia mi prese fino alle lacrime. Il buon Dio finì con l’aiutarlo, e aiutarmi, facendo «scoppiare» per tempo una delle tante amnistie… Non mi ero trovato mai più, da allora, in una angoscia simile. A cinquantuno anni suonati ero li, a trascorrere le giornate natalizie con un dilemma chiamato «difesa Forni». E non conoscevo neppure l’imputato, lo avevo appena visto nelle fotografie dei giornali. Quelle vergognose fotografie segnaletiche, formato tessera, che riprendono gli arrestati con gli occhi ancora sbarrati (per lo shock dell’arresto, non per il riflettore puntato su di loro) e che non dovrebbero uscire da questure e caserme, ma che vengono diramate ai cronisti amici. Un giorno finirò col denunciare questi abusi. Un giorno... forse... Ma intanto, che debbo fare? Ci penso e ripenso anche per tutta Ia notte fra il 26 ed il 27. Il ricordo del padre di Forni non mi abbandona. Si, a tratti lo insulterei. Ma non ce l’ho con lui. Non è colpa sua se qualcuno gli ha detto che potevo fare al caso di suo figlio, e lui se ne era convinto. Non è colpa sua se altri gli ha detto di no, e lui vede in me una specie di ultima risorsa. Non è colpa sua se si è comportato con me proprio come non mi aspettavo. Comincio a sentire per lui troppa ammirazione, troppa comprensione e cristiana carità; vedo assottigliarsi sempre di più la barriera degli argomenti che, a freddo, mi facevano dire di no. Il risultato di questi due giorni è soltanto uno: sono più incerto

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e dubbioso che mai. Rispetto al fermo «no» iniziale – Forni ancora non lo sa – è già un passo verso di lui... 27 dicembre Ho di fronte a me Umberto Guerini e Romeo Forni, il padre di Dante. Fra due giorni il processo. Non c’è verso, non posso più abusare della pazienza loro, sento che devo prendere una decisione, chiara e leale. A portarmi sulla risposta che essi attendono da me interviene una strana circostanza; se non strana, certamente singolare e non chiaramente definibile anche per me stesso. I giornali di oggi riferiscono, fra l’altro, che vi sarebbe «maretta» alla Procura della Repubblica di Bologna: già la prima coppia di Sostituti procuratori incaricati delle indagini fino alla scoperta del «covo» è stata sostituita con un’altra coppia. Ma nessuno di questi, si dice, interverrà al processo. «Ne sa qualcosa?» chiedo a Guerini. «Praticamente niente; sembra che il dissenso riguardi certi dettagli del blitz del 19 dicembre; o più probabilmente vi è disaccordo sulla spaccatura in due tronconi di questo unico processo, da una parte la direttissima per la detenzione delle armi, dall’altra l’istruttoria per i reati «associativi» (banda armata, associazione sovversiva, eccetera); ma sono chiacchiere non controllabili». «Allora – decido – voglio provare a saperne di più, direttamente alla fonte». Telefono al Procuratore Capo, Ugo Sisti. Non me lo permetterei se non sapessi di godere della sua stima, della quale non ho mai approfittato. Gli domando semplicemente se e che cosa mi può dire – al di là delle notizie di stampa di questi giorni – circa il «covo» di via Tovaglie; in particolare se può confermarmi che 1a «direttissima» avrà luogo fra due giorni. Me lo conferma senza difficoltà; poi mi chiede a sua volta: «Posso sapere perché o per chi te ne interessi?». «Dovrei assumere la difesa di Forni; non ho ancora deciso, per la verità, e volevo avere qualche notizia più precisa, pur con tutto riguardo per il segreto istruttorio che non intendo violare». «Forni, hai detto? Be’, ti posso dire solo questo: se c’è uno fra gli arrestati che in questa storia c’è dentro fino al collo, è proprio Dante Forni. Decidi come meglio credi, naturalmente, ma se posso esprimere un personale parere, ti direi di starne fuori: da una difesa di Forni credo non ti verrà nessuna soddisfazione, né di prestigio né di risultati».

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«Grazie – gli dico – mi basta questo. Ci rifletterò». Riferisco il succo della telefonata a Guerini e Forni. E di impulso aggiungo, rivolto a quest’ultimo: «Ho letto, questa mattina, l’intervista che lei ha rilasciato alla ‘Repubblica’ in difesa di suo figlio. Mi lasci dire che ammiro la sua forza ed il suo coraggio. Tanto più adesso, dopo quanto mi ha detto il dottor Sisti». «Allora, avvocato, accetta?». «Senta Forni, se dessi ascolto al mio raziocinio dovrei dirle definitivamente di no, tanto più dopo quanto riferitomi dal dottor Sisti. Ma c’è troppa differenza fra le certezze del Procuratore e le sue convinzioni che ho letto nella sua intervista. Ebbene, le dico “sì”. È come se accettassi una sfida; ormai sono coinvolto e ho addosso una curiosità tale di conoscere la verità, che non posso tirarmene fuori. E poi mi lasci aggiungere un’altra considerazione, che faccio ad alta voce, anche se riguarda soltanto quello che si definisce il “Foro interno”: con le premesse che vengono dalla telefonata del dottor Sisti, nessun avvocato dovrebbe difendere suo figlio, ma è proprio in questi casi, invece, che un avvocato non può tirarsi indietro. Dunque accetto e non parliamone più». Gli vedo gli occhi improvvisamente lucidi. «Avvocato, non ho parole per...». «Aspetti, sig. Forni, non mi ringrazi ancora, perché desidero sia chiaro, ben chiaro, che accetto a queste precise e, le assicuro, per me inderogabili condizioni: suo figlio dovrà dirmi la verità. Se è un terrorista dovrà avere il coraggio e la coerenza di ammetterlo, assumendosene ogni responsabilità. Se suo figlio ha fatto una scelta rivoluzionaria, deve avere il coraggio di ammetterla. Se non è un terrorista, mi impegno a difenderlo con tutte le mie forze, contro qualsiasi apparenza. Ma se mi convincerò che mi avrà mentito, rifiuterò immediatamente qualsiasi prosecuzione del mandato». Guerini è d’accordo con me: anche lui rinuncerà all’incarico se emergeranno compromissioni terroristiche di Dante. Romeo Forni ci esprime la sua solidarietà; la «condizione» viene accettata. «Come farà a concordare tutto questo con Dante? Può andare a parlargli, prima del processo, nel carcere di Forlì?». «Temo di non averne il tempo. Del resto, il processo di dopodomani non si concluderà tanto in fretta, perché nei processi per direttissima la difesa ha il diritto di chiedere ed ottenere un “termine”, cioè un rinvio, appunto per preparare la difesa. Ne parleremo, con Dante, durante questo rinvio. Per ora, è meglio cominciare a capire come stanno esattamente le cose». L’avvocato Guerini mi consegna le poche carte processuali. Ci lasciamo con l’intesa di rivederci domani

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sera, per qualche ultimo scambio di idee prima dell’udienza di dopodomani. Quando, nell’andarsene, mi saluta stringendomi la mano ed ancora fissandomi con gli occhi lucidi di gratitudine, Romeo Forni certamente non sa che mi sta dando molto, molto più che una gratificazione professionale. Vi sono attimi, nella vita di un penalista, che non sono traducibili in parole: vanno vissuti e compresi. Mi dedico subito alle carte lasciatemi da Guerini, con la consueta emozione della prima lettura. Per me è così da anni, da sempre, dalla prima volta che ho toccato fogli di un processo del quale dovevo interessarmi. Mi appassiona, questo sfogliare, coordinare, confrontare, leggere, tornare indietro a rivedere un passo che, alla luce di successive nozioni, merita una rilettura; mi prende, mi sollecita, mi stuzzica, mi coinvolge. Qualche anno fa, prima e subito dopo l’intervento di colecistectomia, avevo smesso di fumare. Una vera conquista, per me fumatore sui ritmi delle 40, 50 giornaliere; una vittoria confermata dalla singolarità di una sigaretta accesa e subito buttata via per autentico fastidio pochi giorni dopo l’operazione. In realtà, una «vittoria» durata soltanto fino al giorno in cui, ancora in convalescenza in clinica, mi feci portare il fascicolo di un processo che mi attendeva subito dopo la dimissione. Cominciai a sfogliarlo e studiarlo con la voracità di sempre. Di avere acceso e fumato tre sigarette, l’una dietro l’altra, durante la lettura di quel fascicolo, mi resi conto soltanto quando la lettura dell’ultima pagina coincise con lo spegnimento dell’ultima cicca. Durante la prima lettura di un fascicolo processuale si coinvolgono apparentemente le sfere dell’«io» cosciente; ma non rimangono inerti neppure quelle del subconscio. A lettura completata spesso, se non sempre, si scatena il conflitto: da un lato la inconscia percezione di un qualche cosa che ti dice quale sarà il risultato, e te lo dice soprattutto quando è spiacevole; dall’altro il ragionamento, la critica, la costruzione tecnica e metodologica che rifiuta quella «sensazione» e ti impegna a prepararti al meglio. Solo dopo, a processo finito, si è costretti a riconoscere che era giusta la «sensazione» intuìta. Ed è così tutte le volte che ci si accosta per la prima volta alle carte di un processo. Anche per queste ragioni la prima lettura continua a dare emozioni affascinanti e «nuove», pur nel loro conforme ripetersi. Le «carte» del processo Forni sono poche: un sintetico rapporto dei Carabinieri, qualche ordine di sequestro e relativo verbale di perquisizione e reperimento di «corpi di reato», gli interrogatori, a caldo, degli arrestati.

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In breve: --il 5 dicembre scorso la Procura della Repubblica di Bologna, a richiesta del Nucleo Operativo dei CC., ha autorizzato urgenti perquisizioni, se del caso anche in ore notturne, presso alcuni giovani bolognesi, in qualsiasi luogo di loro pertinenza (abitazione personale o presso familiari, luoghi di lavoro, eccetera); si sospetta che appartengano a bande armate ed associazioni sovversive; --il 19 dicembre, prima dell’alba, scatta l’operazione congiunta presso tutti questi luoghi; - scoperto il «covo» di via Tovaglie, seguono arresti ed interrogatori: tutti gli accusati negano qualsiasi responsabilità; --la Procura della Repubblica convalida gli arresti, e decide la separazione processuale: per il possesso delle armi rinvenute in via Tovaglie, processo per direttissima; per l’appartenenza alle associazioni, istruttoria formale. Dante Forni sembra in effetti al centro di questa operazione. Riferiscono i carabinieri, in uno schematico rapporto a firma del Cap. Nevio Monaco, che da tempo si nutrivano sospetti (per informazioni pervenute da «fonti confidenziali») che in alcuni locali di via Tovaglie 9, in affitto a Dante Forni e Giuseppe Rossetti, si dessero convegno appartenenti alle banda chiamata Prima Linea, e che in quei locali si potessero nascondere armi ed altro materiale dell’associazione. Tra i frequentatori vi sarebbe stato anche il famoso Corrado Alunni; e con lui l’architetto bolognese Massimo Turicchia, al cui nome Alunni aveva in affitto a Milano l’appartamento in cui abitava; vero che Turicchia aveva denunciato, nel luglio scorso, il furto del suo borsello contenente anche la carta d’identità usata da Alunni, ma la circostanza era egualmente sospetta. La mattina del 19 dicembre erano state fatte perquisizioni contemporanee, quanto a Dante Forni, nella sua abitazione di via S. Margherita (qui infatti era stato trovato verso le sei del mattino, insieme alla sua convivente Daniela Ubaldini) nell’abitazione dei suoi genitori, in via Martucci, nei locali di via Tovaglie, dove Forni “fingeva”, come copertura del «covo», di svolgere saltuaria attività di corniciaio, ed infine anche nel suo ufficio, presso il Comune di Bologna. Dante Forni, infatti, è un geometra alle dipendenze dell’Ufficio Tecnico del Comune (lo stesso Ufficio, sottolineano i Carabinieri, nel quale lavorano l’architetto Turicchia ed il terrorista latitante Maurice Bignami); è però anche socio, con il padre e con altri, di una galleria d’arte in via Tovaglie 5; di pomeriggio frequenta l’appartamen-

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tino di via Tovaglie 9, che ha in parte attrezzato a laboratorio di corniciaio (insieme ad altro collega d’ufficio, il geom. Enzo Aldrovandi, costruisce le cornici dei quadri destinati alla Galleria). È stata eseguita, sia pure senza esito alcuno, una perquisizione anche a Tropea, nella casa di proprietà del padre di Dante, perché le «fonti confidenziali» avevano riferito che nell’estate Dante e Corrado Alunni si erano incontrati e frequentati, durante le vacanze, proprio a Tropea. I reperti più significativi e compromettenti per Forni sono rappresentati dalle circa 3.000 schede (oltre 2.200 solo nella sua camera presso l’abitazione del padre) «con indicazione dei nominativi di magistrati – politici – industriali – funzionari di P.S. e dell’Arma dei Carabinieri – Forze di Polizia – Guardie carcerarie e di Finanza ecc. ecc.». Gli è stata sequestrata anche una «pistola cal. 6 marca IGI tipo Derringer». Impressionante, comunque, spaventoso il contenuto di un baule rinvenuto in via Tovaglie 9: 5 rivoltelle di vario calibro, ma tutte «da guerra», con matrici abrase, alcune coi silenziatore, e centinaia di proiettili; divise dei Vigili Urbani; altre schede e ritagli di giornali su personaggi vari; parrucche, “baffi” e materiale vario per trucco; banconote per oltre 4.500.000; tre permessi di parcheggio nel cortile del Palazzo comunale di Bologna; scarpe, vestiti, carte; matrici per ciclostile già intestate a «Formazioni Combattenti Comuniste Prima Linea». Come può difendersi Dante Forni? Penso che avesse proprio ragione il Procuratore della Repubblica... 28 dicembre Dopo un’altra notte agitata, con dentro il rimorso di essermi cacciato in un’avventura che non fa per me, ma senza più via di uscita, riprendo l’analisi delle carte. Devo capire meglio. E non c’è che un sistema: leggere, leggere, confrontare, meditare, rileggere il poco materiale. Mi tranquillizza la previsione che, in ogni caso, domani il processo non si farà. Sono sempre più deciso ad avvalermi del diritto di chiedere «termine», per apprestare una difesa così difficile: dovrò incontrarmi con Dante Forni, studiarlo, sentire dalla sua voce come e perché intende negare le sue responsabilità; sono ancora in tempo per poi rinunciare e non ripresentarmi all’udienza (certamente verso i primi giorni dei prossimo anno), cui sarà rinviato il dibattimento. Oggi la stampa tace. Nei giorni scorsi ha dato fondo a tutto quanto di clamoroso poteva scrivere su questa vicenda. Ha riferito dell’incontro romano dei massimi esponenti politico-amministrativi di Bologna col Ministro Rognoni; ampie assicurazioni

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da parte del Ministro; del resto, la felice operazione di via Tovaglie ha dimostrato l’efficienza della Procura della Repubblica e delle Forze dell’ordine di questa città. Che gran buffonata è il «segreto istruttorio»! Da chi, se non dagli uffici (o dai corridoi) della Procura e dei Carabinieri e della Questura, i cronisti hanno saputo tutto quello che, con dovizia di particolari «segreti», hanno pubblicato nei giorni scorsi? Le «istituzioni» sanno come orchestrare una campagna di stampa che orienti nel senso voluto la cosiddetta «opinione pubblica». Umanamente è comprensibile questo atteggiamento. Anche il magistrato, anche il poliziotto partecipano della collettività, il loro bisogno di sentirsi attorno una completa solidarietà è ragionevole. L’incondizionata condanna degli imputati di questa brutta storia del «covo» di via Tovaglie è stata, nella stampa dei giorni scorsi, coralmente espressa. Per fortuna siamo in un paese civile che ammette il diritto di difesa, almeno in tribunale se non sugli organi di informazione. Si deve continuare a credere, si ha bisogno di credere, che i magistrati che devono giudicare non si fanno influenzare dalle prese di posizione della stampa. Sarà vero? Rileggo per l’ennesima volta il verbale che descrive il rinvenimento del baule in via Tovaglie 9. È chiaro, preciso, abbastanza dettagliato. Lo ha redatto un certo Capitano dei Carabinieri Ernesto Grossi, che conosco solo di vista. In chiusura ha addirittura questa scrupolosa (ed alquanto inconsueta) annotazione: «La dattiloscrittura di questo verbale è iniziata alle ore 12,30 del 19 dicembre 1978, nell’Ufficio del Comandante la Compagnia di Bologna Centro, ed ha avuto termine alle ore 14.45 successive». La perquisizione di via Tovaglie invece si è svolta, di fatto, dalle 8,20 di quel mattino alle l0,15. C’è qualcosa, in questo verbale, che mi sfugge. È come se contenesse un criptico messaggio. Vedremo al processo, se possibile. Intanto, però, anche fra le cose scritte vi sono particolari interessanti e stimolanti. «Processo verbale – così è intitolato – di perquisizione e sequestro eseguiti presso il laboratorio del sig. Forni Dante...». Seguono i dettagli: «... abbiamo proceduto alla perquisizione domiciliare del laboratorio medesimo, in esecuzione del provvedimento n. 1867/C/78 emesso in data 5 dicembre 1978 dal Sostituto Procuratore della Repubblica di Bologna Dott. G. Costa, alla presenza del signor Forni Dante...». «Laboratorio»? Perché il Cap. Grossi insiste a definirlo tale? Sembra voglia rimarcare che, per lui, si tratta veramente di un vero e proprio innocuo “laboratorio” da corniciaio.

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Ma poi – che strano! – Dante Forni è sempre il «signor» Forni. Confronto tutti gli altri verbali delle perquisizioni eseguite negli altri luoghi di pertinenza del Forni e degli altri imputati, verbali redatti da altri Ufficiali o Sottufficiali. Come è consuetudine nel gergo giudiziario, nessuno qui (neppure Forni) è chiamato «signore». Questo metodo in uso negli ambienti giudiziari, dal più modesto ufficio di polizia alle sentenze delle sezioni unite della Cassazione, non l’ho mai compreso, mai condiviso, mai accettato: l’indiziato, l’imputato, il condannato, spesso anche la parte lesa, il testimone, dal momento in cui entrano nella spirale della giustizia penale perdono il diritto a quel minimo di rispetto della persona umana che si esprime anche attraverso l’appellativo di «signore» (o «signora», o «signorina») o attraverso qualifiche professionali o accademiche. Puoi essere, nella vita, il sig. XX, o il dottor YY, o la prof.ssa WW; ma per la giustizia penale sei «il» o «lo» ZZ, «la» WW. È un modo espressivo che bene manifesta il nuovo rapporto di sudditanza nel quale ti vieni a trovare con chi ha un potere su di te. Quella cosa non l’ha fatta il sig. Rossi, non l’ha riferita il prof. Brambilla, non l’ha subìta il dott. Esposito: «il» Rossi ha fatto, «il» Brambilla ha detto, «all’Esposito è successo». Per contro, il magistrato che ha emesso l’ordine di cattura è il sig. Dottor, e quello che presiederà la corte di cassazione sarà Sua Eccellenza. Che cosa costa scrivere, magari anche in una sentenza di condanna, che la pena viene inflitta al sig. prof. Tizio Caio? Be’, comincia a piacermi questo Cap. Grossi che ha perquisito il «laboratorio» del «signor» Forni Dante. È un verbalizzante rispettoso anche di colui che, in quel momento, ha tutte le ragioni di considerare un volgare e pericoloso terrorista. E poi è chiaro, preciso, comincia col ricordare che esegue un ordine impartito dalla Procura della Repubblica il 5 dicembre... 5 dicembre? Già. Rileggo quell’ordine di perquisizione. È datato 5 dicembre 1978 ed è «urgente». 5 dicembre – 19 dicembre: 14 giorni. Perché? E l’“urgenza” dove è andata a finire? Nell’ordine di perquisizione si legge chiaramente che Forni Dante (con altri) è indiziato dei reati di associazione sovversiva e banda armata e che occorre «procedere a perquisizione alla ricerca di armi o documenti a comprova dell’ipotesi delittuosa sopra prospettata»; per cui «data la particolare urgenza, può consentirsi che la perquisizione avvenga anche di notte...». 14 giorni fra l’ordine «urgente» e la perquisizione? Qualcosa non va. Il processo servirà a capire. Ma nel verbale del Cap. Grossi c’è dell’altro: «Si dà atto che nel

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corso della perquisizione veniva rinvenuto nell’ambiente attiguo al gabinetto un baule di grosse dimensioni, chiuso a chiave e munito di lucchetto. Si dà atto che il sig. Forni dichiara verbalmente che il baule in argomento non è di sua proprietà, ma che probabilmente è di un suo amico, certo Klun Paolo. Si dà atto che il sig. Forni si è offerto spontaneamente di forzare mediante una raspa di legno le serrature ed il lucchetto del baule, avendo noi verbalizzanti fatto esplicita richiesta di verificarne il contenuto». Segue la descrizione: prima tutto ciò che è stato trovato «fuori» del baule e sequestrato perché ritenuto «interessante» ai fini dell’indagine (compresa una macchina da scrivere Olivetti) poi il contenuto del baule. Di questo vi è ancora più analitica e puntigliosa descrizione in un successivo verbale redatto dal Cap. Nevio Monaco, su richiesta ed alla presenza dei Sostituti Procuratori dott. G. Costa e C. Nunziata. In quel «Forni si è offerto spontaneamente di forzare...» vi è qualcosa di abbastanza inconsueto; perché il Cap. Grassi, non essendone tenuto (in fondo, doveva solo descrivere le «cose» rinvenute, non il «comportamento» di Forni), perché ha verbalizzato questo dettaglio? E poi: che significato ha un baule nel «laboratorio» di Forni, ma chiuso sia a chiave che con lucchetto, tanto che per essere aperto deve essere forzato con una raspa? Dante è già stato interrogato due volte. La sera del 19 dicembre ha detto, in sostanza, che: -- conosce da tempo, ma solo per motivi di lavoro e di amicizia, l’architetto Turicchia; -- i locali di via Tovaglie 9 li aveva affittati, anni fa, con Giuseppe Rossetti, per usarli come garçonnière; -- da almeno un anno erano «in società» con lui, per lo stesso riservato uso di quei locali, i suoi amici Claudio Veronesi, Mario Malossi, Gabriele Cazzola; tutti costoro quindi avevano le chiavi dell’appartamentino; -- nel 1971, quando militava in Potere Operaio, aveva conosciuto anche un certo Paolo Klun; uscito nel 1973 dal movimento lo aveva perso di vista; fino a circa un mese prima, quando Klun, dicendogli di essere stato sfrattato, gli aveva chiesto ospitalità in via Tovaglie in attesa di migliore sistemazione; -- poiché da qualche mese i locali di via Tovaglie gli servivano solo come laboratorio di corniciaio, aveva consentito al Klun di passarci la notte, appunto in attesa di trovare una nuova abitazione; per questo gli aveva dato le chiavi dell’appartamento; -- solo pochi giorni prima, intorno al 12 dicembre, si era accorto della presenza di

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quel baule, chiuso a chiave e con lucchetto; convinto che contenesse gli effetti personali di Klun non vi aveva dato importanza. Il secondo interrogatorio di Dante è avvenuto in piena notte, esattamente all’una, del 21 dicembre; non è presente nessun difensore; nel relativo verbale si legge questa premessa: «Preliminarmente premetto che ho richiesto spontaneamente la presenza del Cap. Monaco al quale intendo rilasciare di mia spontanea volontà e per libera scelta le seguenti affermazioni». Forni modifica in parte le sue precedenti dichiarazioni, precisando che: -- anche Turicchia l’ha conosciuto quando era in Potere Operaio, del quale faceva parte l’architetto; -- quindi, Turicchia e Klun a loro volta si conoscono da parecchi anni; -- anche a Turicchia Dante aveva dato la chiave di via Tovaglie, sia pure sempre per incontri amorosi; gliel’aveva restituita verso il settembre; era la stessa chiave passata poi, nei primi giorni del dicembre, o giù di lì, al Klun; -- era di Turicchia l’Olivetti trovata in via Tovaglie; ce l’aveva portata Turicchia e non l’aveva ripresa quando gli aveva restituito la chiave; -- sia lui, Dante, che il suo socio Enzo Aldrovandi, da un po’ di tempo si erano accorti che durante la notte i locali erano frequentati da più persone, non certamente per incontri amorosi: il letto era intatto, ma cicche di sigarette, cenere, altre tracce facevano pensare a presenze di più persone; -- suoi, sì, i barattoli di vernice e gesso trovati in via Tovaglie; gli erano serviti quando aveva risistemato i locali per adattarli a laboratorio. Infine, nella tarda mattinata dello stesso 21 dicembre, il terzo interrogatorio reso al Sostituto dott. Costa: nulla di nuovo, se non qualche specificazione dei suoi trascorsi politici (da Potere Operaio si era spontaneamente allontanato fin dal 1973, passando poi e definitivamente al partito socialista); la conferma che Giuseppe Rossetti non aveva più nulla a che fare con l’appartamentino di via Tovaglie 9 da oltre un anno, e che per quanto a sua conoscenza nelle ultime settimane non vi erano stati gli altri «soci», se non forse il Veronesi, una volta sola. Tutte cose note e confermabili anche dal geom. Enzo Aldrovandi. Insomma, Dante Forni non conosceva il contenuto di quel baule, assai probabilmente portato in via Tovaglie da Paolo Klun; non sua né di Klun, ma «avanzo» di Turicchia la macchina da scrivere; certamente estranei a tutto gli altri suoi amici. Rossetti, Veronesi, Malossi, Cazzola, avevano sostanzialmente detto le medesime cose; ma anche qualche circostanza in più. Claudio Veronesi è stato di recente in via Tovaglie, la mattina di do-

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menica 17 dicembre, per riprendersi un giradischi lasciatovi tempo addietro; sì, ha visto quel voluminoso baule, ma non vi ha prestato attenzione. Mario Malossi vi è stato la sera del mercoledì 13 dicembre con la sua ragazza (nome, cognome, indirizzo); non ricorda di avere notato né il baule né un portapacchi da automobile. Le dichiarazioni di Forni trovano nette smentite, invece, da parte di Turicchia e di Klun: il primo ammette avere frequentato più volte via Tovaglie, ma tempo addietro e solo per andarci con delle donne (essendo sposate, non intende farne il nome); non si occupa di politica da anni; non è assolutamente sua l’Olivetti trovata in via Tovaglie. Klun dapprima nega tutto, non sa neppure che Forni disponga dei locali di via Tovaglie; poi ammette che per un incontro di una sera si era fatto prestare le chiavi di via Tovaglie da Forni; chiavi che non ha restituito, che forse ha perduto perché non se le ritrova più. Ovviamente, mai visto un baule in quei locali. Dicessi che ho le idee chiare mentirei. L’unico punto fermo dovrebbe essere questo: Forni nega non solo la proprietà, ma la stessa conoscenza del contenuto di quel baule. Attorno a questo nodo centrale si accavallano soltanto delle domande: -- quante chiavi di via Tovaglie 9 circolano per Bologna? -- quanti di coloro che ammettono averle avute, o averle tuttora, possono averne fatto delle copie e distribuite ad altri amici e conoscenti? -- quando e chi ha portato il baule in via Tovaglie? Lo strano è che il decreto di perquisizione è del 5 dicembre, il baule sarebbe arrivato in via Tovaglie verso il 12 dicembre, e vi sarebbe stato trovato il 19 dicembre; perché? -- da dove proviene quel baule che pare sia nuovo? -- è stato trasportato sul tetto di una macchina; certamente (si è trovato nei locali il portapacchi; dentro al baule vi erano anche gli appositi elastici per fermarlo al portapacchi); ma già pieno? Si direbbe di no, tanto doveva essere pesante; allora, prima il baule poi, pian piano, a più riprese, tutto il contenuto? -- possibile che dal 5 al 19 dicembre i Carabinieri non abbiano notato tutto questo viavai? Perché non hanno fermato con le «mani nel sacco» chi continuava a trasportare merce tanto scottante in via Tovaglie? Comincio a credere all’innocenza di Dante Forni; sarà tutt’altro che facile dimostrarla, ma «sento» che nelle risposte che si daranno a queste ed altre domande vi è la sua estraneità rispetto alle accuse. Verso sera ci scambiamo per telefono qualche impressione con l’avv. Guerini e con il padre di Dante; a questo chiedo solo se conosce il geom. Enzo Aldrovandi e se

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può pregarlo di trovarsi domattina in aula. Intendo farne assumere la testimonianza. Potrebbe essere la chiave di volta per Dante. A domani, dunque. Poi, durante l’immancabile rinvio, si vedrà... 29 dicembre Palazzo di giustizia è letteralmente assediato: non ho mai visto tanti carabinieri e poliziotti tutti in una volta; sono armati fino ai denti; sulla piazza ci sono autoblindo con mitragliere puntate; nel cortile autoradio, cani-poliziotto; un’“iraddiddio”. Rigorosissimi controlli all’ingresso, per chiunque, anche magistrati e funzionari. Davanti all’aula altri controlli, anche con il metal-detector; chi vuole entrare deve esibire un documento di identità, che viene accuratamente registrato. Tutti i giornali, questa mattina, con vistosi titoli, preannunciano l’odierno processo «contro i 9 terroristi» del covo di via Tovaglie; «il Resto del Carlino» ha questo eloquente sottotitolo: «Una delle pistole trovate potrebbe essere stata usata nell’attentato al capo del personale della Menarini». È il più grave fatto di sangue verificatosi a Bologna tempo fa e accreditato a terroristi «rossi» (Brigate Rosse? Prima Linea?). No, non è facile accingersi ad una difesa con questa atmosfera... Mi informo subito sulla composizione del Tribunale: presidente il dott. Paolo Poli, un magistrato del tutto apolitico, gran lavoratore, ma dal temperamento forte, spesso anche troppo deciso; ho avuto con lui parecchi «scontri» d’udienza. Al suo fianco la dott.ssa Franca Viviani e il dott. Adriano Guidoboni, magistrati anche questi sicuramente apolitici e quindi affidabili in processi di questo genere. Sul banco del pubblico ministero il dottor Pasquale Sibilia; perché non uno dei primi sostituti, Costa e Nunziata, che avevano emesso gli ordini di perquisizione e convalidato i vari arresti? Perché non il dott. Lucio D’Orazi, al quale il Procuratore Capo Ugo Sisti aveva affidato le indagini dopo la revoca dei primi due sostituti (revoca mascherata da una «avocazione» a sé, quale responsabile dell’Ufficio)? Qualche collega della difesa mi dice che la «maretta» alla Procura della Repubblica è stata di notevoli proporzioni, non solo per come sono state condotte le indagini che hanno preceduto ed accompagnato gli arresti, ma soprattutto per la fretta di questa “direttissima” e per 1a spaccatura in due tronconi di un processo che sotto ogni aspetto sarebbe stato più saggio proseguire unitariamente. Ma non sono che «voci», come quella che attribuisce al dottor Sisti la decisione della «spaccatura», addirittura in contrasto con le stesse forze dell’ordine, per esigenze di «immagine esterna» in

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relazione alla recente visita al Ministro Rognoni del Sindaco, del presidente della Giunta regionale e della Provincia... voci... Certo è che avventurarsi in un processo come quello odierno, nel quale la maggior parte del materiale probatorio è coperto dal segreto istruttorio, perché inserito nel separato troncone della istruttoria formale sui reati associativi, è per la difesa una autentica castrazione. Ne accenno al dott. Sibilia, conoscendolo come assai equilibrato e obiettivo magistrato della Procura di Bologna, anche per informarlo che, da solo due giorni avendo assunto il mandato per Forni, ho assoluta necessità di un «termine» a difesa. Non farà ovviamente nessuna difficoltà per la concessione del «termine»; mi pare di capire che non sarebbe neppure contrario ad un rinvio di tutti gli atti al giudice istruttore per riportare ad unità l’intero processo. Scambio qualche idea al riguardo con gli altri difensori. Mi rendo subito conto che non siamo e non saremo un «collegio» di difesa; nulla praticamente ci unisce, anzi le singole posizioni sono tali da lasciar prevedere una sorda o dichiarata lotta intestina. Non può essere diversamente: a parte il conflitto oramai già palese fra le posizioni di Forni, di Turicchia, di Klun, tutti gli altri arrestati mirano ad uscire al più presto, subito. Le nostre spaccature faranno gioco all’accusa, ma non vi è nulla da fare. In aula, nella folla dei curiosi, dei parenti, degli amici, dei carabinieri e poliziotti in borghese, individuo subito Romeo Forni. Vado a salutarlo, mi presenta a suo fratello, ad altro suo figlio, a sua moglie. La mamma di Dante mi commuove: ha occhi di una dolcezza e bontà indescrivibili, che si fanno subito lucidi appena mi stringe la mano; non mi dice niente, o se parla non la sento; mi stringe la mano con entrambe le sue, piena di emozioni che non riesce a contenere... Scorgo qualcuno dei ragazzi che ebbero parte nei «fatti del marzo ’77»; ne chiamo in disparte un paio, uno alla volta. «Sono qui per Dante Forni – gli dico – che ancora neppure conosco. Senta, mi dica una cosa sola, e le dò la mia parola d’onore che a nessuno, per nessun motivo, riferirò la sua risposta: c’entra o no, Dante, in questa storia?». So bene cosa rischio, per me stesso: che farò se, in tutta confidenza, mi dovessero dire che Dante c’è dentro fino alla radice dei capelli? Ma ho bisogno di sapere, ho bisogno di verità, a qualsiasi costo...: «No, avvocato, vada tranquillo: Dante ne è fuori, almeno per quanto ne sappiamo noi e per quanto si dice in giro». Tiro un grosso sospiro, mi ricarico. «E il baule, allora?».

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«Mah! Bisognerebbe chiederlo a Klun...». Ne so abbastanza. Adesso posso darci dentro... L’attesa in aula si sta prolungando. Forse perché non tutti gli imputati sono detenuti a Bologna, quindi bisogna attendere che li trasportino dalle rispettive carceri. È gremito anche il palco riservato alla stampa: più di una dozzina i cronisti e corrispondenti presenti; ne conosco bene un paio, non di più. Ci salutiamo, mi chiedono chi difendo; quando sentono «Dante Forni» evitano commenti, ma i loro sguardi sono eloquenti. Pare si chiedano chi me lo fa fare, o «un bel guaio», o qualcosa di simile. Forse, se non avessi già avuto quelle confidenze dai «ragazzi del ’77», questi sguardi mi darebbero molto fastidio, mi raggelerebbero. Per il momento non dico nulla, mi limito a pensare «aspettate, giudicherete dopo...». Finalmente – sono già passate le 9,30 – preceduti da un nugolo di Carabinieri entrano nella gabbia gli imputati. Facile individuare subito la ragazza di Dante, la Daniela Ubaldini: è l’unica donna del gruppo. Mi tornano alla mente le parole dettate da Dante nell’interrogatorio reso al Sostituto dott. Costa: «Qualunque cosa si pensi della mia partecipazione ad organizzazioni terroristiche, vorrei precisare l’assoluta estraneità della Ubaldini». Era come avesse detto: “fate di me quel che volete, ma lasciate in pace lei, non c’entra per niente”. Mi aveva colpito, mi era piaciuta quella frase: c’era dentro non la lucidità dell’autodifesa, ma l’amore di un uomo per la sua donna. Non dovrebbe essere molto difficile difendere comunque un ragazzo che, colpevole o innocente, è capace di preoccuparsi soprattutto per un’altra persona. Umberto ed io [abbiamo deciso di darci del «tu»; è strano come io sia restio al «tu», quasi una intimità che desidero riservare a chi stimo veramente; poi so benissimo che uso dei «tu» che rimangono dentro di me dei «lei», a distanze personali chilometriche, e dei «lei» che sono di rispetto, sì, ma anche di affetto pieno, più che un qualsiasi «tu». Non ho mai avuto difficoltà a conservare il «lei» a persone di riguardo, o più anziane di me, pur sapendo che c’era dentro il massimo degli affetti; è stato così con mio suocero, ad esempio, benché fin dal primo giorno mi abbia accolto come il figlio maschio che non ha mai avuto; si andava a caccia insieme, ci si confidava, ci si voleva veramente bene, ci si capiva tanto quanto è possibile fra persone amiche che possono stare anche qualche ora insieme scambiandosi poche parole perché sanno già, e condividono già tutto, l’una dell’altra] Umberto ed io ci avviciniamo alla gabbia, mi presento a Dante, ho appena il tempo di dirgli che dovrà nominare anche me, insieme a Guerini, quando sarà fatto l’appello, e che fra di

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noi ci parleremo dopo, perché «chiederò termine» ed il processo sarà sicuramente rinviato di qualche giorno. Entra già il Tribunale. Il presidente è visibilmente teso; avverte l’elettricità che permea l’atmosfera; sente sicuramente la responsabilità di questo processo. Comincia l’appello: Forni Dante (avvocati Guerini e Melchionda); Klun Paolo (avvocato Giancarlo Ghidoni); guardo Klun: è molto basso di statura, calmissimo, sorridente, sicuro di sé; Ubaldini Daniela (avvocati Gaetano Insolera e Luigi Stortoni, due ottimi, preparatissimi colleghi, giovani e battaglieri; e coraggiosi: hanno già denunciato il Cap. Monaco per arresto illegale dell’Ubaldini, a quanto pare arrestata solo perché «convivente» del Forni); la Daniela è una bella figliola, suscita commozione vederla seduta lì, nella pancaccia degli imputati, e in odore di «terrorismo». Seguono gli altri: Rossetti Giuseppe (emozionato fino alle lacrime, smarrito, intontito); Veronesi Claudio, Malossi Mario, Cazzola Gabriele, un certo Ventura Alberto (non ha nulla a che vedere con via Tovaglie, ma nel corso di una perquisizione ha consegnato lui stesso ai Carabinieri due vecchie rivoltelle, una di sua padre, l’altra addirittura di suo nonno, un pistolone a tamburo vecchio e arrugginito, mai denunciati come vuole la legge), infine Turicchia Massimo (avvocati Giuliano Artelli e Ugo Lenzi), sguardo gelido, distaccato, perfetto selfcontrol. Ciascuno di noi avverte (e subisce) istintive o epidermiche simpatie ed antipatie, talvolta superate da una conoscenza personale più approfondita, ma quasi sempre confermate nonostante tutto. In questo momento sono certamente condizionato dal mio ruolo; so benissimo che l’atteggiamento processuale di Klun e Turicchia nei confronti di Forni (intendo, il loro secco negare tutto ciò che Forni ha dichiarato) me li fa apparire, per così dire, degli «avversari». Comunque sia, condizionamento o no, processo o no, Turicchia decisamente non mi piace; al confronto preferisco lo sfacciato e tranquillo sorriso di Klun. E Dante? Riporto gli occhi su di lui, per cominciare a conoscerlo e studiarlo. Ma non ci riesco. Non mi guarda, non guarda nessuno, tranne la «sua Daniela»; se la coccola con gli occhi, le sussurra qualche cosa; a modo suo, e solo con gli occhi, la sta proteggendo, consolando, rincuorando. Quasi mi irrito. Mi verrebbe da dirgli «ma le sembra il luogo ed il momento di pensare alla sua ragazza?». Ma mi tornano alla mente quelle sue parole «qualsiasi cosa possiate pensare di me, la Daniela Ubaldini non c’entra». Se non è amore romantico questo...

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Il Presidente dà lettura delle imputazioni: a) detenzione di esplosivi ed armi da guerra (solo questo reato prevede una pena da 1 a 8 anni di reclusione...); b) alterazione di una pistola per avervi applicato il silenziatore; c) detenzione di armi «clandestine» perché prive della matricola che è stata abrasa (da 6 mesi e 5 anni...). È il momento delle «questioni processuali preliminari». Mi alzo subito, chiedo il «termine a difesa», riservandomi anche la indicazione di eventuali prove a discarico dopo avere avuto almeno un primo colloquio con l’imputato. Con mia somma sorpresa (e nonostante li avessi avvertiti che avrei avanzato quella richiesta) quasi tutti gli altri avvocati si oppongono alla mia richiesta, o comunque suggeriscono che mi si conceda un termine brevissimo. Hanno dimenticato che tutti costoro sono detenuti perché hanno a carico anche il separato ordine di cattura per i reati associativi? Che cosa sposterà, per loro, un rinvio di qualche giorno? La libertà? Nemmeno per sogno! Mi innervosisco. Intervengo di nuovo, abbastanza «carico». Sottolineo la necessità di proporre anche prove a difesa; chiedo l’esibizione di tutti i «corpi di reato». Il P.M. Sibilia si dice d’accordo sul mio diritto al rinvio; quanto ai «corpi di reato», potranno essere esibiti in aula solo le armi e le munizioni; non le famose «schede», non il baule, non altro, perché materiale coperto dal segreto istruttorio nel separato processo. E come ci si potrà difendere in questa sede? Che situazione assurda! Il Tribunale si ritira per decidere. Ne approfitto per un vivacissimo scambio di idee con alcuni colleghi riottosi; si convincono che la loro opposizione non aveva ragione di essere. Ma oramai il bastone tra le ruote me lo hanno già messo. Anche qualche giornalista mi chiede perché ho chiesto di esaminare il baule e l’altro materiale: dico che vorrei poter scoprire la provenienza, che vorrei andare a fondo di tutta la vicenda. Mi guardano increduli; è come stiano pensando che ho preso la via diretta per affossare senza pietà il mio assistito... E mentre, quanto al rinvio, sto spiegando che è un nostro preciso diritto e che certamente il Tribunale me lo concederà nell’ordine di qualche giorno, il campanello ci interrompe. Rientra il Tribunale. Il presidente legge l’ordinanza: «accorda all’imputato Forni il termine richiesto dalla difesa, e rinvia l’udienza alle ore 14 odierne». Fatico a credere, me lo faccio ripetere. Sì, fino alle 14. E sono già le l0.40! Poco più di quattro ore, in un processo di tanta gravità? Inutile illudersi: è già un chiarissimo sintomo dell’atteggiamento del Tribunale. Tira una brutta aria!

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A Umberto e me non rimane che correre in carcere per incontrarci con Forni. E mentre ci allontaniamo, cogliamo il commento di qualche giornalista: dicono che un rinvio di poche ore è scandaloso ed iniquo, non se ne può trarre che infausta prognosi. Be’, è il primo momento di simpatia, se non di solidarietà, da parte della stampa. È già qualcosa... Alle 11 Umberto ed io siamo in carcere. Aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo. Non abbiamo che poche ore a disposizione, possibile che dobbiamo sprecarle per gli ingorghi della burocrazia carceraria? Ci vuole tanto a chiamare Dante Forni? Sono già passate le 12 quando perdo la pazienza. Come sempre non serve a nulla, se non ad essere maltrattati, comportarsi da persone civili, che chiedono e attendono; è così, ovunque, sempre, con chiunque, perché non anche in prigione? Alzo la voce, chiedo del direttore, e dico chiaramente che se entro 5 minuti non mi portano Dante Forni, pretenderò mi si metta per iscritto a quale ora esatta ho potuto incontrarmi con lui. E Dante Forni è subito accompagnato nella saletta dei colloqui... Mi faccio forza e mi placo. Lo scontro, in aula, con i colleghi, la sferzata del «termine» di poche ore, la spossante attesa del colloquio, la consapevolezza che fra poco si tornerà in aula (dunque, i detenuti ripartiranno dal carcere almeno alle 13,30; oramai posso contare a minuti la durata dell’incontro con Forni!) tutto questo devo riuscire a dimenticare e superare. Ciò che mi attende, l’incontro con Dante Forni nella riservatezza e nella confidenza di questo atteso colloquio, può essere il momento della verità e della mia definitiva scelta. Se Forni non mi persuade, posso ancora abbandonarlo al suo destino... Siamo di fronte. Per qualche attimo ignoro la presenza di Umberto, come ne annullassi la materialità fisica per pochi, intensi, decisivi minuti. Siamo di fronte, Dante Forni ed io. Stiamo per stringere un patto, dal più profondo di un uomo al più profondo dell’altro. Stiamo per sfiorarci, una volta sola e forse per sempre, nelle nostre vite: ciascuno di noi due potrebbe proseguire la propria all’insaputa dell’altro, come è stato fino a questo momento. O potrebbe, potrà ciascuno di noi legare in qualche modo la sua sorte a quella dell’altro. Siamo di fronte, forse con reciproca diffidenza, certo per studiarci e comprenderci. Non soltanto io devo assicurarmi di lui, ma lui di me; anzi, soprattutto lui di me. Da una scelta sbagliata io rischio solo, sì e no, un insuccesso professionale; lui rischia tutto, perché per un qualsiasi essere umano la libertà, gli affetti, il buon nome, sono tutto.

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Non c’è che un modo per sciogliere il nodo di questo momento: essere sé stessi, come ciascuno è, semplicemente, autenticamente. Ci osserviamo. Tocca a me la prima mossa. Gli dico con naturalezza, ma senza staccare per un attimo i miei occhi dai suoi: «Dante, lei non mi conosce, e non ho il tempo per farmi conoscere. Sto per farle molte domande, ma mi preme prima di tutte una sola risposta. Devo avvertirla però, con la massima franchezza: non le sto parlando da avvocato, ma da uomo; è disposto a rispondermi da uomo, con la massima franchezza?» «Sì, non ho nulla da nasconderle». «Allora mi dica: fa parte o no di “Prima Linea” o di qualsiasi altro gruppo eversivo? Ho bisogno di saperlo per questa ragione: se mi dirà di sì, dovrà dirlo anche in Tribunale, se desidera che sia io a difenderla; se mi dirà di no, farò del mio meglio per superare questo difficile processo. Ma se prima o poi mi accorgerò che mi ha mentito, rinuncerò al mandato, a costo di danneggiarla. Le chiedo, in sostanza, di non coinvolgermi in falsità e menzogne, non le accetterei, nel suo interesse. Un ultimo avvertimento: se dovesse mentirmi, farebbe del male solo a sé stesso, perché mi porterebbe ad iniziative al fondo delle quali la verità verrebbe comunque a galla. Senta, si dice che un avvocato sia come un confessore, io dico più modestamente che è come un medico: se lei va da un medico, avendo male alla pancia, e gli riferisce invece che le fa male la testa, il medico le curerà la testa, ma intanto la sua pancia andrà al diavolo. E adesso mi dica la verità: c’entra o no?». Non ho staccato i miei occhi dai suoi. E lui non stacca i suoi dai miei mentre mi dice: «Glielo giuro su quanto ho di più caro al mondo: non sono un terrorista, non lo sono mai stato». «Mi scusi se le ripeto ancora: se lei sta mentendo danneggia solo sé stesso, perché mi costringe a fare tutto il possibile perché la verità, qualsiasi verità, venga prima o poi a galla» «Faccia tutto quello che riterrà di fare. Non sono un terrorista». Lo osservo, e insieme mi ascolto: qualcosa, dentro, mi dice che mi sta dicendo la verità. Basta così. Da questo momento lo difenderò con tutte le mie energie. Tiro un sospiro, non so bene se di sollievo (sono un egoista fino a questo punto?) o di riposo (questo tentare di comunicare fra anime, non con parole soltanto, sento che mi ha affaticato). Ora con maggiore serenità, e senza più toni perentori, sia Umberto che io gli ripetiamo il nostro «patto»: saremo al suo fianco fino a quando non ci convinceremo che ci avrà «tradito». Non abbiamo però tanto tempo per parlare di dettagli. Ci ripete in sostanza le cose che ha detto durante gli interrogatori, ci ricorda qualche particolare che gli raccomandiamo di riferire più tardi in aula.

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Gli chiediamo, prima di lasciarci, spiegazioni sull’elemento che più fortemente gli è contro: le tremila schede. Semplice, ci racconta: quando era in Potere Operaio gli passarono una accurata schedatura di personaggi bolognesi, fatta da altri; lui ne curò qualche aggiornamento; quando lasciò il movimento, perché non ne condivideva certi spunti estremistici, quel materiale era rimasto a lui. Lo aggiornò ancora, per qualche anno, perché voleva scrivere un libro sui «fascisti» bolognesi. Soprattutto vi si dedicò nel 1974, quando a seguito di un incidente stradale rimase ingessato per qualche mese a casa. Per ammazzare il tempo faceva «schede», avvalendosi solo di notizie tratte dai giornali. Poi, ritrovata la sua «Lela» Ubaldini (un amore giovanile, interrotto dal matrimonio di lei, che poi, separatasi dal marito, era ritornata a lui) si era dedicato solo al lavoro in Comune, alle cornici per la Galleria, alla sua Lela. Via Tovaglie era per lui solo un laboratorio, e non più un «trappolone» (garçonniére) da quando, appunto, si era «rimesso» con la Lela, andando con lei a vivere in via Santa Margherita, dove era stato trovato e arrestato la mattina del 19 dicembre. Mi guarda sorridendo e mi dice: «Lo sa che c’è anche una mia scheda che la riguarda?». «Io? E perché mai?». «Lei è stato il difensore di D.L. e di D.G. (mi dice nomi e cognomi) industriali e forse dell’area fascista». «Ma che storia è questa? Erano imputati, in processi del tutto diversi, semplicemente di reati societari, falsità in bilancio delle rispettive società e roba simile». «Sì, ma negli anni passati erano stati...». «Senta, sono tutte così le sue famose schede?». «Be’, circa, cioè le ultime, fino al 1974 o poco più, sono solo ritagli di giornale...». «Allora si faccia coraggio. Mi sa proprio che prima o poi ce la faremo...». Lo salutiamo, arrivederci a fra poco in aula. Il tempo di un panino ed un caffè, ed Umberto ed io siamo di nuovo in Tribunale. Alle 14 riprende l’udienza. Altre richieste preliminari, soprattutto per l’ammissione di testi a difesa. Anche Umberto ed io chiediamo ammettersi qualche teste, in particolare il geom. Enzo Aldrovandi. Ma insistiamo ancora per vedere tutto il materiale sequestrato, baule in testa. Il Tribunale non si compromette troppo: si riserva ogni pronuncia al prosieguo del processo. Intanto ha fretta di cominciare gli interrogatori degli imputati. Ammette comun-

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que, fino da ora, l’esibizione delle armi e degli esplosivi oggetto di questo processo. Ed il processo vero e proprio comincia. Il presidente chiama il primo imputato: Dante Forni. Dante è abbastanza calmo e fiducioso, quanto basta almeno per narrare con chiarezza ciò che sa. Ripete che in estate il Turicchia gli restituì le chiavi di via Tovaglie, ma non si portò via la macchina da scrivere trovata dai Carabinieri; che quelle stesse chiavi le prestò poi a Klun; che della presenza del baule si accorsero insieme, verso il 12 o 13 scorso, lui ed il suo «socio» Aldrovandi; anzi lo spostarono, mettendolo sull’apertura fra i due locali, per impedire che il cucciolo che Dante portava con sé passasse nel «laboratorio» e disturbasse il loro lavoro; non fecero nessuna fatica, non usarono nessuna precauzione; a giudicare dallo scarso peso, il baule è stato certamente riempito (così come fu poi trovato dai Carabinieri) nei giorni successivi. Umberto ed io gli facciamo parecchie domande; il Presidente ne è chiaramente infastidito, è come se gli facessimo perdere tempo prezioso; ma non osa interromperci, c’è troppa gente in aula, troppi giornalisti, per troncare queste insistenze dei difensori. Dante, sollecitato dalle nostre domande, aggiunge anche qualche interessante nuovo dettaglio: sia lui che Aldrovandi, pur senza annettervi molta importanza, avevano notato qualche cosa di nuovo nelle ultime settimane, come segni di presenze più numerose e durature del consueto breve uso dei locali quale garçonnière: mozziconi di sigarette, un rasoio ed un sapone per barba, una stufetta elettrica nuova (vi era ancora l’involucro di cartone) e quando videro il baule vi era anche un portapacchi da macchina. Si spinge ancora oltre, Dante, fedele all’impegno preso con noi di dire assolutamente tutta la verità, a qualsiasi costo: dice che il giorno prima della perquisizione Aldrovandi e lui avevano inutilmente cercato un paio di loro attrezzi da lavoro (martello, tenaglie), finendo col rinunciarvi perché pressati da un lavoro urgente; ebbene quando, a richiesta dei carabinieri, lui forzò il baule, vi trovò dentro quegli attrezzi e non nascose al Cap. Grossi che erano suoi. Una dichiarazione del genere può essere suicida, lo sappiamo bene Umberto ed io, lo comprende facilmente anche Dante; ma fa parte dei nostri «accordi»: o la verità o niente. Infine, altro dettaglio inedito: la mattina di venerdì 15 dicembre, per una consegna urgente di cornici appena fatte la sera prima, Dante aveva fatto una scappata in via Tovaglie: aperta la porta di legno, aveva trovato invece chiusa quella a cancellata, e dentro aveva visto la luce elettrica accesa. Immaginando vi fosse qualcuno degli

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amici con una ragazza, aveva infilato sotto l’uscio un biglietto: «ho bisogno di venire, torno fra un’ora, liberatemi l’appartamento». Non è notizia di poco conto: la mattina di venerdì 15 dicembre vi sono stati violenti scontri nella zona universitaria, i dimostranti hanno sparato anche qualche colpo di rivoltella, ferendo leggermente un agente dell’ordine. Ricordo che stavo facendo esami in un’aula che si affaccia proprio sulla via Zamboni (luogo degli scontri) e che vi fu fra i ragazzi notevole trambusto e preoccupazione; rimanemmo bloccati fino al primo pomeriggio. Forse che le armi usate quella mattina dai dimostranti sono le stesse trovate poi nel baule? Comunque, che altro può fare e dire Dante Forni, per dimostrare che intende riferire tutto quello che sa, appunto perché non ha motivo di coprire nulla e nessuno? Molto più brevi e superficiali gli interrogatori degli altri imputati. Klun si limita a negare di sapere alcunché circa il baule. Noi non gli facciamo domande; a parer nostro ha già «ammesso» abbastanza in istruttoria, quando ha confermato di avere avuto le chiavi di via Tovaglie ma di non trovarle più. Turicchia riconferma di non sapere nulla della macchina da scrivere. Gli altri ripetono di avere frequentato quei locali solo per incontri amorosi; per quanto riguarda Malossi, la stessa cosa dice anche la sua ragazza, che non esita a venire a testimoniare in tal senso. Il Cap. Grossi conferma il verbale di perquisizione di via Tovaglie; vorrei approfondire qualche particolare, ma il Presidente non me lo consente. Strano modo di cercare la verità… È la volta del Cap. Nevio Monaco: rende una deposizione contorta, reticente, contraddittoria; ci vuol poco a comprendere che in quanto riferisce c’è qualcosa che non va; ma né il P.M. Sibilia né il Presidente Poli consentono maggiori chiarezze. Attorno alla deposizione del Cap. Monaco si alza un velo protettivo fin troppo evidente. All’inizio della sua deposizione è costretto ad una sceneggiata plateale, che gli viene imposta dal Presidente per impressionare l’aula. Infatti il Presidente chiede al Cap. Monaco di esibire e «descrivere» i «corpi di reato». Il Cap. Monaco prende, una alla volta, le armi sequestrate, si volta verso il pubblico, le solleva sopra la testa, le mostra a semicerchio, mentre ne detta a verbale le caratteristiche. Sembra una fiera paesana, con l’imbonitore che per trovare compratori esibisce e magnifica le sue merci. Il presidente è visibilmente soddisfatto: vuole sconvolgere l’uditorio, vuole rendere evidente che quelli in gabbia sono individui pericolosissimi, componenti di una banda armata fino ai denti.

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Al momento dell’esibizione anche della piccola «Derringer» ad aria compressa sequestrata in casa Forni, Umberto ed io produciamo la regolare denuncia di acquisto vistata dalla Questura. Il P.M. si affretta a fare cancellare quest’arma dal capo di imputazione. È un punto, piccolo, forse insignificante, ma a nostro favore. Finita la performance esibizionistica, il Cap. Monaco è sottoposto ad un fuoco di fila di domande da tutti i difensori. Ne viene fuori una scena pietosa, mortificante. Lui si trincera dietro il «segreto istruttorio» con la scusa dell’altro processo ancora separato. Ma è chiaro che è reticente, insincero, imbarazzato. Non vuole ammettere che non ci fu «pedinamento» (come aveva invece scritto nel suo rapporto); non vuole ammettere che ha agito soltanto sulla base di una «confidenza». Non sa come spiegare perché non sono stati colti con le mani nel sacco i trasportatori delle armi. Anche io lo tampino. Perché, nonostante l’autorizzazione di «urgente» perquisizione del 5 dicembre, si è mosso soltanto dopo 14 giorni? «Perché decido io quando eseguire le perquisizioni; io vado a pesca quando il mare è calmo, non quando è in tempesta». Che significa? Non sa rispondere. È sempre in più palese difficoltà. Nel tentativo di dargli una mano il presidente cerca di ostacolarmi, negandomi la possibilità di altre domande e arrivando a dire «avvocato, la smetta di ciurlare nel manico». Lo aggredisco urlando a pieni polmoni che non gli permetto di definire «ciurlare nel manico» il mio dovere (e dico proprio dovere, non diritto) di svolgere la difesa di imputato di così gravi reati facendo tutte le domande che ho in animo di fare. Fa marcia indietro, conscio dell’infelicità della frase rivoltami; spiega che voleva solo invitarmi a maggiore concisione. Riprendo. Monaco è ancora in difficoltà. Dice che della responsabilità di Forni si è convinto quando ha trovato e letto le 3000 schede. Insorgo nuovamente: non è corretto invocare presunti elementi di prova che non fanno parte di questo processo e dei quali abbiamo inutilmente sollecitato l’acquisizione. Il P.M. mi dà ragione: chiede che siano cancellati dal verbale di udienza i riferimenti di Monaco a quelle «schede». Il Presidente ascolta ma nulla dispone al riguardo. Licenziato il capitano Monaco tutti i difensori insistono nelle rispettive richieste di ammissione di prove a discarico. Lo stesso dott. Sibilia, da quel galantuomo che è, si dice d’accordo; ne approfitta per far sapere (cogliendo tutti alla sprovvista) che non ha condiviso la celebrazione di questo processo separatamente dall’altro e che al riguardo vi sono stati non pochi contrasti all’interno della Procura della Repubblica; per ragioni di equità, il minimo che ora il Tribunale possa fare è consentire agli

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imputati di difendersi senza difficoltà formali. Non appena il Tribunale si è ritirato per decidere su queste richieste, i numerosi giornalisti si avvicinano al dott. Sibilia: vorrebbero saperne di più su quei contrasti interni, la circostanza è quasi senza precedenti; ma non ottengono risposte. Cercano anche noi difensori, per commentare l’infelice deposizione del Capitano Monaco. Si stanno rendendo conto, oramai, che questo processo non offre garanzie di doverosa equità. Si verifica intanto un significativo episodio. Forni mi chiama alla gabbia per riferirmi che Turicchia sembra disposto a riconoscere che la macchina da scrivere trovata in via Tovaglie era sua. Guardo interrogativamente Turicchia: tace, ma non smentisce. Ne avverto subito gli avvocati di Turicchia, per delicatezza. Parlano tra di loro, poi l’avv. Lenzi mi dice che no, Turicchia non intende fare quella dichiarazione. Non insisto. Ma dentro di me trovo la conferma della prima impressione avvertita appena visto Turicchia: decisamente, non mi piace. Rientra il Tribunale. Con enorme sorpresa di tutti, il presidente legge l’ordinanza con la quale non una delle richieste dei difensori viene accolta. L’istruttoria è conclusa. E nonostante l’ora avanzata (sono quasi le 20) il presidente dà la parola al P.M. per le richieste conclusive. Pacato, conciso, preciso, senza toni ad effetto, il dott. Sibilia propone al Tribunale: a) di condannare Forni e Klun alla pena di 5 anni di reclusione e un milione di multa ciascuno; b) di assolvere o stralciare le posizioni di tutti gli altri, rimettendo gli atti in istruttoria per i necessari approfondimenti. Sono le 21 passate quando, finita la requisitoria del P.M., il presidente rinvia l’udienza a domani mattina per ascoltare i difensori e per la sentenza. Umberto ed io ci allontaniamo in fretta, dopo avere rivolto qualche parola di circostanza a Dante. Ma la commozione fra gli occupanti della gabbia è tale che ci sembra giusto non turbarla con superflui commenti. All’indifferenza di Klun si contrappone la misurata, contenuta soddisfazione di Turicchia, e la incontenibile gioia di tutti gli altri: qualcuno sta piangendo di felicità. E Dante? Lo osservo con curiosità. Stento a credere ai miei occhi, ma non ci sono dubbi: è talmente felice e commosso per la sua Lela, che non ha tempo per riflettere sui 5 anni di reclusione invocati per lui. È vero che non ho mai conosciuto dei terroristi, e quindi ne ignoro totalmente i sentimenti; ma essendomene fatto un’idea di persone rotte a tutto, dure, coriacee, incapaci di dolcezze e smancerie, mi chiedo: può essere un terrorista questo Dante Forni? Mi avvio verso casa, tutto sommato col senso del dovere compiuto ma della sconfitta

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imminente. Le «cose» non hanno lasciato dubbi nel P.M.: potranno sollevarne, nel Tribunale, le nostre arringhe? Che cosa possiamo aspettarci da un Tribunale che ci consente poche ore per apprestare la difesa, che non vuole si facciano troppe domande al pilastro dell’accusa, che non vuole ascoltare testimoni «a discarico»? Ci attende una difesa disperata. Ma non possiamo, non dobbiamo gettare la spugna. 30 dicembre Mi è venuta un’idea, durante la notte. Mi alzo presto, per andare allo studio a realizzarla, prima di ripresentarmi in tribunale. Intanto, leggo con avidità i giornali, curioso di vedere quali impressioni hanno tratto, dell’udienza di ieri, i cronisti presenti; il loro giudizio è interessante; perché proviene da persone esperte di cose processuali e sufficientemente imparziali per riferirle così come le hanno percepite. Ne rimango tanto sorpreso quanto soddisfatto e – devo ammetterlo – ricaricato di forza e di fiducia. Tutti i giornali scrivono del processo in termini duramente negativi; tutti cominciano ad ammettere che non vi è stata, o addirittura non si è voluta avere, completa chiarezza. Parecchi riferiscono del clima di tensione creatosi in aula fra il presidente, gli avvocati, il Capitano Monaco. Claudio Santini, su «il Resto del Carlino», ha il coraggio di riferire lo scontro che ho avuto col presidente: «Il difensore Achille Melchionda fa diverse domande e si sente riprendere da chi dirige il dibattimento «non ciurliamo nel manico». Sembra che la fatica di ieri non sia stata del tutto inutile. Chi fino a ieri, e per giorni interi, ha scritto in termini durissimi contro gli imputati del «covo» di via Tovaglie, ora si sta rendendo conto che il tanto reclamizzato blitz sta assumendo contorni ridicoli. Su 9 detenuti, di 2 soli il P.M. ha chiesto la condanna. Sarebbe questa la pericolosa «banda» di via Tovaglie? In studio redigo a macchina una analitica serie di precise richieste istruttorie, che illustrerò a voce riproponendo al Tribunale la necessità di revocare le ordinanze negative di ieri. Sento che non la spunterò, ma è indispensabile, in vista dell’appello, lasciare agli atti una traccia scritta delle istanze difensive. Insisto per l’ammissione della testimonianza del geometra Aldrovandi, per l’esibizione dei vari corpi di reato, e per le urgenti indagini intese a scoprire la provenienza del baule, della stufetta elettrica, del portapacchi, ecc. ecc. Spero che il Tribunale capirà che voglio solo scoprire la verità, anche a costo di arrivare alle prove della responsabilità di Forni.

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In aula ci attende un’altra sorpresa: al banco dell’accusa non il dott. Sibilia ma il dott. Attilio Dardani. Pare che Sibilia sia partito per ferie già programmate. Si ha invece il sospetto che sia stato sostituito a causa delle dichiarazioni che ha fatto ieri in aula, prendendo le distanze dal Procuratore Capo. Dardani legge un foglietto con alcune richieste «subordinate» ad integrazione di quelle fatte ieri da Sibilia. Non aggiunge una parola di suo; si direbbe che «qualcuno» (dall’alto) gli abbia ordinato di limitarsi a leggere quel foglietto. È il turno delle difese. Si segue l’ordine crescente di gravità della posizione degli imputati. Non è sempre così: vi sono avvocati che pretendono di seguire l’ordine di loro personale «valore» (e chi la stabilisce la «graduatoria»? Allora si ripiega sull’anzianità; bizze da bambini, specie quando nel giro di poche ore intervengono praticamente tutti). Qui cominciano i difensori degli imputati per i quali lo stesso P.M. ha chiesto l’assoluzione. Ultimi, nell’ordine, Umberto Guerini, io, Giancarlo Ghidoni. Umberto è molto bravo; chiede l’assoluzione di Dante smantellando tutti gli argomenti che il P.M. aveva esposto per chiederne la condanna. Io ci metto tutto il cuore. Mi batto soprattutto per un supplemento di istruttoria; voglio solo la verità, null’altro che la verità. «Se il Tribunale condannerà un innocente farà il gioco dei veri colpevoli, ai quali darà tutto il tempo necessario per nascondere o disperdere le prove a loro carico». Non risparmio attacchi alla «conduzione schizofrenica» delle indagini sfociate in questo processo. Non sono un oratore raffinato; evito fronzoli, divagazioni, citazioni fini a sé stesse. In una arringa metto solo la profonda convinzione che ho dentro, per il rispetto che ho e che desidero conservare di me stesso e di chi mi ascolta. È con autentica commozione che concludo: «Io non vi chiedo di accogliere le richieste istruttorie che ho illustrato (la provenienza del baule, l’esame delle schede, la provenienza della stufetta elettrica...); io vi supplico di farlo; vi supplico non in nome dell’imputato, colpevole o innocente che sia, ma in nome di quella giustizia che nelle vostre coscienze sta per concretizzarsi in una decisione che non può prescindere da un connotato indispensabile: l’umiltà nella ricerca della verità...». Il presidente Poli mi guarda, mi ascolta, ma è evidente, dal suo sguardo, che non mi sente; tuttavia non mi interrompe, non mi sollecita; il chè non mi piace per niente; (è uno stereotipo infallibile per noi avvocati: se ti esortano a concludere è segno che sono già convinti della fondatezza delle tue tesi; se si atteggiano ad uditori attenti ed

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interessati è sola apparente finzione: è già deciso il contrario, ma ti lasciano sfogare per manifestare l’alibi che proprio non li hai convinti, benchè ti abbiano lasciato dire tutto ciò che hai voluto). Il giudice Guidoboni mi segue con attenzione, sembra convinto, ma ho come Ia sensazione che mi stia dicendo, con gli occhi, che «non c’è niente da fare»; la dott.ssa Viviani non nasconde il suo disinteresse, è del tutto estranea, come se stesse pensando a tutt’altro, guarda spesso l’orologio (sono già trascorse le 12), si fissa e si cura le unghie; mi rendo conto che le sto infliggendo un tormento, costringendola a rimanere inchiodata a quella sedia alle 12 passate della vigilia di S. Silvestro. Sentito anche l’avv. Ghidoni il Tribunale si ritira. Io mi sento «sfogato», francamente soddisfatto ed appagato. Di aver dato, almeno, il meglio di me ne ho conferma da quanti mi si fanno intorno per complimentarmi. Sono chiaramente sinceri, lo sento dalle strette di mano, lo leggo nei loro occhi. Mi sento gratificato fino all’imbarazzo, soprattutto da due frasi: Luigi Stortoni mi dice (e mi prega di crederlo anche se la frase è un po’ enfatica) «Pagherei per essere in studio con te e per imparare a diventare come te»; Vittorio Monti, del «Corriere della Sera», mi si avvicina, mi dà la mano presentandosi e mi dice: «Ho seguito centinaia di processi e sentito centinaia di avvocati; ci tengo a dirle che poche volte ho assistito ad una arringa come la sua». Riesco, oramai imbarazzato, soltanto a ringraziarlo. Dante ha gli occhi lucidi di gratitudine; suo padre, sua madre, mi abbracciano. Mi sottraggo, non è il momento, non fino a quando non sapremo come andrà a finire... Il Tribunale si è ritirato alle ore 14. Nessuno crede alle proprie orecchie quando alle 14,45 squilla il campanello che ne preannuncia il rientro in aula. 45 minuti per una sentenza in un processo di questa fatta? Non è possibile; mi convinco che il Tribunale ci comunicherà semplicemente di avere accolto la richiesta di nuove indagini... Illusione di pochi attimi. Presidente e giudici rimangono in piedi: dunque sta per essere letto il dispositivo di una sentenza. «In nome del popolo italiano – legge il presidente, con voce che non cela l’emozione del momento – il Tribunale di Bologna ha pronunciato la seguente sentenza...». Mio Dio, questi attimi tremendi, indescrivibili, eterni! Non sono bastati trent’anni di professione per assuefarmi a questi momenti. Non riesco ad essere indifferente. Sento il cuore che batte a ritmo frenetico. Mi sforzo di apparire calmo e tranquillo, ma dentro ho una tempesta. Ed è sempre così, da

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sempre. Potrò avvertire emozioni di intensità maggiore o minore a seconda dell’importanza della posta in gioco, ma non mi sottraggo a questa tensione neppure nei casi più banali. Sono attimi, di una rapidità che... non finisce mai! Sto lì, con l’orecchio attento a cogliere i primi «numeri» che il Presidente sta per pronunciare, numeri dai quali posso cominciare a prevedere il resto, anticipando, ancora di un solo attimo, le parole che saranno più comprensibili per i profani. Se esce il numero 479 del codice di procedura penale, significa che sta per essere pronunciata una assoluzione; se si sentono gli articoli 483, 488, si tratta di condanne. E il Presidente Poli cita proprio gli articoli 483 e 488: Dante Forni e Paolo Klun sono condannati a cinque anni di reclusione ed un milione di multa, ciascuno; Rossetti e Ventura assolti; gli altri rinviati alla fase istruttoria in corso. Non se l’aspettava nessuno, francamente nemmeno io; al peggio, mi ero prefigurato una pena assai inferiore. Qualche giornalista ha già fatto un calcolo: quarantacinque minuti per questa sentenza, significa che ne sono stati dedicati cinque a testa per ciascuno dei nove imputati. Il commento, a caldo, è unanime: il Tribunale aveva già deciso quella sentenza, quando si è ritirato in camera di consiglio! Non oso fare commenti, io. Sono veramente abbattuto. Sento che questa sentenza è ingiusta, sento che questa condanna Forni non la meritava. Cerco di dirgli qualche parola di consolazione, lo assicuro che farò ancora tutto il possibile per tirarlo fuori da questo inghippo. La routine del mestiere mi aiuta, ma serve soltanto a nascondere la mia confusione. A chi mi chiede cosa penso di questa condanna, dico d’istinto la verità: non me l’aspettavo, quindi non mi resta che vedere come sarà poi motivata. Mi allontano in fretta. Malgrado la mia lunga esperienza sono veramente sconcertato: è come se una nuova dimensione della giustizia (ma quale giustizia?) mi si sia improvvisamente rivelata. Non sono un ingenuo, ho assistito a più di una sentenza palesemente errata. Ma qui era il concetto stesso di diritto e, appunto, di giustizia che vedevo sconvolto, quello che cercavo, all’università, di instillare negli studenti. Devo ammettere con me stesso che ad una situazione del genere non ero assolutamente preparato. Mi sono chiare due sole cose: non verrò meno all’impegno di difendere questo Forni

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che «sento» ingiustamente condannato a pena durissima; ma venirne fuori sarà una cosa lunga, difficile, quasi impossibile. 31 dicembre È domenica. Non posso, come vorrei, andare a trovare Dante. in carcere, per stargli po’ vicino, ma anche per avere da lui altre notizie utili alla difesa. L’abbattimento per l’esito del processo (cinque anni sono tanti!) è attenuato dalla lettura dei resoconti e dei commenti che leggo sui giornali di oggi. Ampiamente, anche aspramente, criticata la conduzione del processo; condivisa e qua e là denunciata la sensazione di una condanna prestabilita; incompresa la decisione finale di condannare solo due imputati, senza avere ammesso una sola prova richiesta dalle difese; ripresi alcuni spunti delle arringhe difensive (spiccano le mie accuse per la «conduzione schizofrenica delle indagini che hanno preceduto questo processo» e per la celebrazione di un processo «non direttissimo ma sommario»); il Carlino si chiede anche perché vi è stata una «rosa di 6 pubblici ministeri» (fino al «colpo di scena» dell’avvicendamento verificatosi fra una udienza e l’altra, con l’intervento del dott. Dardani a «completare» la requisitoria del dott. Sibilia). L’interpretazione generale è che «la montagna del blitz del 19 dicembre ha partorito un topolino di due terroristi», frettolosamente condannati «per dare una lezione», e di tanti dubbi anche per le immediate assoluzioni. Sento, insomma, di avere fatto sugli ascoltatori imparziali (anzi, caso mai essi stessi un po’ prevenuti, come nei giorni precedenti avevano dimostrato nei loro articoli) quella breccia del dubbio che il Tribunale non ha voluto recepire. Traggo nuova energia da questa inversione di atteggiamento dei rappresentanti la pubblica opinione, tanto più che non ad uno solo di loro ho chiesto una parola di appoggio. Telefono al padre di Dante pregandolo di raggiungermi in studio. Dirò a lui che sono più deciso che mai ad andare fino in fondo. Vedo che Romeo Forni è più irritato e offeso che avvilito. Ha parole durissime contro i giudici; ha visto benissimo con quale indifferenza hanno ascoltato (o meglio, lasciato parlare) i difensori; vuole fare delle denunce. Cerco di placarlo. Gli faccio presente l’importanza che annetto all’atteggiamento spontaneo della stampa. Gli dico che è il momento della calma e dell’intensa opera persuasiva, non dei gesti clamorosi. Mi assilla la convinzione che la strada verso la verità c’era e forse c’è ancora, ma che

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non è stata percorsa: in particolare l’origine del baule e della stufetta elettrica. Mi stupisce che non si sia data nessuna importanza all’episodio del 15 dicembre (quando Dante, di mattina, trovò l’appartamento occupato: proprio la mattina nella quale si sparò in via Zamboni a Bologna): qui poteva essere la risposta a tutte le nostre domande, non importa se contro o a favore di Dante. Romeo si offre di trasformarsi in detective. È pronto a girare tutta Bologna alla ricerca della provenienza di quel baule e di quella stufetta... Fatico a persuaderlo che potrebbe essere una iniziativa controproducente; qualcuno potrebbe scoprirlo ed accusarlo di volere nascondere o alterare, anziché semplicemente individuare, possibili prove. È questa, tuttavia, la strada da intraprendere, pur nella esiguità dei mezzi concessici. Se ne è parlato spesso anche all’università, con gli studenti, specialmente con quelli che palesemente stanno crescendo indottrinati dalle sinistre, parlamentari o extra: il problema della polizia giudiziaria. Neppure se e quando si realizzerà il precetto costituzionale, che vorrebbe una polizia giudiziaria sganciata dall’esecutivo ed al solo «servizio» dell’autorità giudiziaria, neppure allora cambierà la realtà, che vuole la polizia giudiziaria come organismo pilotato dallo Stato. In America, dove l’ordinamento processuale è profondamente segnato dal sistema accusatorio che, fra l’altro, impone all’accusa un rigoroso onere di prova, la difesa si avvale largamente degli investigatori privati per raccogliere le sue prove e servirsene in contrapposizione alla pubblica accusa. Da noi è impensabile una parità processuale fra accusa e difesa; da noi l’accusa si serve di tutte le polizie per raccogliere le prove che crede necessarie, secondo una visione che per quanto si sforzi di essere «imparziale» è sempre fatalmente orientata contro l’imputato. Non vi è modo, per un avvocato difensore, di rivolgersi alla polizia per farla «lavorare» su una tesi di difesa dell’imputato. Quanto ad agenzie private, le poche che non si interessano solo delle informazioni di solidità economica per affidamenti finanziari, sono al massimo attrezzate per scoprire le scappatelle o le relazioni extraconiugali (che ora, abrogato il reato di adulterio e introdotto il divorzio, non interessano più nessuno). Mi sforzo di spiegare agli studenti che la polizia opera ad iniziativa del Pubblico Ministero e dell’intero corpo giudiziario, che l’indipendenza e l’imparzialità di questi uffici consente una utilizzazione imparziale della stessa polizia; che basta chiedere alla polizia, per il tramite del magistrato, per ottenere indagini improntate a verità e

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giustizia. Sì, la teoria è questa. Ma in pratica? Il solo fatto che l’istruttoria, ossia proprio la fase di più sollecita e penetrante acquisizione delle prove, sia ancora «segreta», determinando così la insanabile contrapposizione fra inquirente, che sa e ricerca per quello che sa, e difensore che ignora e quindi rimane a rimorchio dell’inquirente, è sufficiente a creare dislivelli iniziali che quasi mai si potranno recuperare successivamente. Ecco, prendiamo questo caso di Dante Forni. Non riesco a togliermi dalla testa che una rapida soluzione del suo problema sia qui a portata di mano, nella scoperta della provenienza di quel paio di oggetti. Semplice, a mio parere: il baule sembra essere nuovo o quasi. Un baule particolare, dalle dimensioni robuste. Quanti se ne vendono, a Bologna, di bauli come questi nel giro, poniamo, di un mese? Non lo so, ma immagino non più di uno o due, comunque poco di più. E quanti negozi o magazzini li vendono? Immagino quattro o cinque, circa. Allora, cosa ci vuole a scoprire chi, quando, dove, ha comperato e trasportato questo maledetto baule? Un paio di carabinieri lo possono scoprire nel giro di poche ore, anche solo per telefono. Sarebbe sufficiente per arrivare ai «veri» terroristi che hanno nascosto nell’appartamento di Forni il baule ed il suo contenuto. E così dicasi della stufetta elettrica, tanto nuova da avere ancora l’involucro; magari un involucro con l’etichetta del negozio. Saranno qui minori le probabilità, è ovvio che in dicembre questo articolo è molto richiesto. Ma chi riuscisse a mettere insieme le notizie sul baule e quelle sulla stufetta, farebbe un lavoro incrociato, con risultati sicuri; arriverebbe a identificare chi ha trasformato il laboratorio di Dante in un «covo» di terroristi. Invece, niente, il Tribunale non ne ha voluto sapere. E la sparatoria del 15 dicembre? Le armi usate sono state prese da via Tovaglie e poi rimesse nel baule? Se è vero che Dante ha «perso» il martello e le tenaglie appena la sera del 18 dicembre, ritrovandole poi dentro il baule la mattina dopo, quando lo ha forzato alla presenza del Cap. Grossi, significa che il baule è stato in quei giorni aperto e richiuso. Perché non «lavorare» su questi elementi per scoprire la verità? Convinto di tutto questo, che posso fare io? Rivolgermi ai carabinieri e «ordinare» loro di fare queste ricerche? Che «potere» ho su di loro? Come posso persuaderli che dovrebbero darsi da fare per dimostrare che... hanno grossolanamente sbagliato a prendersela con Dante Forni ed altri estranei? Eppure, una via di uscita deve esserci. Devo trovarla...

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[Neppure il nuovo codice di procedura, varato nel 1988 ed entrato in vigore il 24/10/1989, ancorchè caratterizzato dal rifiuto del c.d. “sistema inquisitorio”, aveva affrontato il problema della scarsità di funzioni istruttorie per i difensori degli imputati. La svolta, in senso più coerentemente “accusatorio”, a seguito di intervento costruttivo della Corte Costituzionale, è intervenuta nel novembre 1999, grazie all’affermazione del principio del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 Cost. (“parità delle parti”), ma soprattutto nel dicembre 2000, con l’introduzione delle norme sulle “investigazioni difensive”, che hanno riconosciuto ai difensori essenziali poteri di acquisizione di proprie prove. - n.d.a.]

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