UNA NAZIONE IN COMA (di Piero Buscaroli)

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Piero Buscaroli “COMA (dal gr. Κωμα “sonno profondo”). è una condizione morbosa caratterizzata dalla perdita della coscienza, della motilità e della sensibilità. L’infermo giace (…) in un sonno patologico profondo da cui nessuna sorta di eccitamento riesce a svegliarlo…(Enciclopedia Italiana, vol. X, pag. 906).“ Nella mia vita ho divorato molti libri e sovente mi sono imbattuto nelle imprese criminali in Vandea di Jean Baptiste Carrier (1756-1794). Ho scoperto soltanto annegamenti in massa di anziani preti, bambine e bambini, di cui si riempivano sgangherati vascelli che venivano infine suggellati e affondati nella Loira. Per i suoi crimini fu ghigliottinato a soli trentotto anni. Le imprese infami compiute in Vandea sono il più adatto preambolo di ogni racconto di qualsiasi “resistenza”, così come l’esaltazione dell’eroe vandeano Charette de La Contrie, che Alexander Solgenitsin ha tratto dal pantano della Francia bastarda, segna il ritorno di un culto decente sopra due secoli di “inutili stragi”.

una nazione in coma

PIERO BUSCAROLI, nato nel 1930, dopo il Liceo classico studia organo con Ireneo Fuser, si laurea in Storia del diritto italiano con Giovanni de Vergottini. Nel 1955 Leo Longanesi lo chiama al «Borghese», vi rimane con Mario Tedeschi; appassionato di musica e guerre, corre tra festival di Bach e invasioni, tre volte in Palestina, sei in Vietnam, il Sessantotto a Praga. Dopo quattro anni alla direzione di un quotidiano di Napoli lascia il giornalismo politico. Accetta una cattedra nei Conservatori di Stato «a tempo indeterminato» e dal 1976 al 1994 insegna a Torino, Venezia e Bologna. Nel 1979 Montanelli gli offre la critica musicale del «Giornale». Pubblica La stanza della musica, Fogola 1976; La nuova immagine di Bach, Rusconi 1982; Bach, Mondadori 1985, e libri di storia politica e d’arte: Figure & figuri, Volpe 1977; La vista, l’udito, la memoria, Fogola 1987; Paesaggio con rovine, Camunia 1989; Gabriel musico maestro di simboli labirinti & terremoti (Zecchini 2007). Presso Rizzoli ha pubblicato nel 1996 La morte di Mozart e Beethoven (2004). Con Mondadori nel 2010 Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del mio Novecento.

Piero Buscaroli

Congedo all’Italia Chi ti tradì? Qual arte qual fatica O qual tanta possanza Valse a spogliarti il manto e l’auree bende? Come cadesti o quando Da tanta altezza in così basso loco?

una nazione in coma Dal 1793,

due secoli

Minerva Edizioni

Questi sono i versi da 31 a 35 dell’ode “All’Italia” di Giacomo Leopardi (1818). Il lamento sulla caduta, i secoli di sospiri e invettive, sono già negli archivi del patrio duolo. Ci staranno, credo, per sempre. Non sarà tragedia per nessuno. In settant’anni, le svariate plebi che si chiamarono “il popolo italiano”, si sono abituate a vivere senza “la Patria”, le cui funzioni sono passate al più comodo “paese”. L’assuefazione si è completata con le nuove generazioni. Le più vecchie ebbero qualche fatica a liberarsi del patetico sogno. Credettero di non poter vivere senza patria, fino a quando la poltiglia dei papponi e ladroni non si convinse e persuase gli altri che così si vive meglio. Da monarchia e fascismo l’Italia uscì ferita. Dalla repubblica comunista e democratica, esce demente e belante, eppur canta e danza senza pensieri. Settant’anni ancora, e, diranno gli esperti, l’Italia fu, e non è più.

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PIERO BUSCAROLI

Una nazione in

coma Minerva Edizioni


clessidra Collana di saggistica storica diretta da Giancarlo Mazzuca

Una nazione in coma di Piero Buscaroli

Direzione editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara Impaginazione: Paolo Tassoni Redazione: L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti iconografici senza riuscire a reperirli. Lo stesso resta a disposizione per gli eventuali aventi diritto. Le immagini di questo volume sono protette dalle leggi sui diritti di copyright internazionale. La loro riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, è vietata senza il consenso del detentore del copyright. © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Prima edizione 2013 Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN 978-88-7381-494-8 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Una nazione in

coma



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Memoria e memorie

Le memorie. Perché, per chi si scrivono. Per vanità, suggerì Giuseppe Prezzolini che a 94 anni se ne sentiva crescere delusi rimorsi; mi aveva mandato nel 1976 l’appena suo stampato carteggio con don Giuseppe De Luca: «L’autobiografia è l’ultimo dei generi letterari, sorge quando si finisce per pensare a se stessi, l’egoismo dei vecchi non è un vizio, è un’autodifesa come l’incoscienza dei bambini. Ora, tu lo vedi, mi piace parlare di me». La dedica di Prezzolini insisteva: «Carissimo amico, autore, ancoratore», la parola desueta mi rammentava il ruolo di rammentatore del suo passato che tante volte avevo tenuto con lui, «d’uno che fissa il vascello perché presenti una fiancata al vento e si possa cannonare meglio», e ora ribatteva il dovere che m’ero assunto, ventenne, di strappare dalla spoglia del latinista mio padre, che intanto era morto a Venezia il 15 Febbraio 1949, la condanna per “concorso morale in omicidio” che una corte d’assise di partigiani bolognesi aveva emesso nel 1946. Questa sozzura era stata, come allora si diceva, cassata, ossia buttata nel pattume, molti anni più tardi, con le sozzure compagne. Il suo grado di professore di “latino e greco” era già stato restituito al Babbo nel licei classici, anzi, nel virgiliano sommo, di Mantova. Ma erano favole e progetti nati nel ministero amico, non vendicativo, ma privo di forze e di mezzi. La famiglia si sgretolava, un pezzo dopo l’altro; il Babbo, rinchiuso in uno dopo l’altro di carceri diversi. A Bologna, erano in dodici in una sola cella fatta per cinque; col Babbo erano pigiati tre generali dell’Esercito repubblicano e della GNR, un colonnello tedesco e poi questori, prefetti; l’ex direttore del “Carlino” Giorgio Pini, che presto rivelò d’essersi distaccato dai compagni vinti e incline ad un passaggio coi “vincitori” del PSI. La mamma, valentissima insegnante d’inglese, era “epurata”: guadagnava in decine di lezioni la vita per tutti noi, liberi e carcerati. La casa che lei e il Babbo avevano eretto nel


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1936, ci era stata tolta per metà, la mamma costretta a lavare le stoviglie in una stanza qualunque, donne di servizio non ne avemmo più, non si poteva permettere che la sposa di un carcerato avesse aiuti dal popolo lavoratore. Rimase sola con la Paola, la mia sorella dolce e fragile, nel mezzo appartamento che la “Commissione degli alloggi” ci aveva lasciato. *** La Roma “liberata” in cui lo zio Mario De Bernardi mi condusse alla fine del Maggio 1945 era uno spettacolo sguaiato e insieme affascinante, una fetta di cattivo partitismo variante, rissoso, trafficone. E lui tentava di cavare fuori da quel ch’era ridotta l’aviazione italiana qualche rottame, si esibiva nella sua bravura di progettista acrobata e collaudatore; riuscì a progettare e a far volare una coppia di monoplani da turismo, sognava di rimettere nel cielo una nuova modesta Italia. Fu ucciso di gioia, molti anni più tardi, il giorno di presentare a una piccola folla la sua conquista: che rimase intatta, a terra il motore ben avviato mentre l’aviatore, dopo anni di fatica, chinava la testa ucciso dall’infarto su comandi ormai inutili. Mi portò in volo, negli anni che seguirono, con sua figlia Fiorenza, tuttora vivente, che aveva guadagnato i gradi di “comandante”. *** I De Bernardi abitavano dove la via Panama, confinaria del quartiere ch’era detto di Villa Savoia, raccoglieva la più breve via Lima e si slanciava verso la via Salaria nella corsa al piccolo aeroporto ch’era detto ancora “del Littorio” e ora s’intitola a lui, il mio comandante. Dalla parte opposta, da via Veneto a via Piave, alla fine di via Sicilia (non so se sia dopo sessant’anni uguale) sorgeva la mole azzurrina del liceo Tasso che aveva dovuto prendersi anche i nomi e le funzioni di quel che s’era chiamato “Regina Elena” in viale Parioli, trasformato dai liberatori americani in un loro rumoroso deposito.


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La mia “prima Liceo” era un curioso e bizzarro agglomerato di quattro ragazze e una quarantina di maschi. Il più anziano era fuggito dalla Lombardia dov’era stato nella Guardia nazionale. Facevamo lunghe passeggiate a piedi, nostro ritrovo divenne il convento di San Giuseppe in via Nomentana, covo di fascisti latitanti e tedeschi, e, dall’altra parte della grande via, l’ampia casa accogliente dell’ingegner Landi, e poi di suo figlio Pietro. Preside del “Regina Elena” era un professore di greco, siciliano tutto scatti, che si chiamava Beniamino Stumpo. Benché “epurata”, la mamma volle conoscere questo mio preside che la ricevé, mi pare, in una delle feste di Natale. Il preside Stumpo risultò lettore e estimatore del Babbo, ricordò subito Il Libro di Didone e altri titoli, apprese con una costernazione, «prossima alle lagrime», disse poi la mamma, quel destino politico che aveva colpito il Babbo. Una visita ai registri della scuola, che il preside fece portare, la persuasero che nella casa degli zii non facevo proprio niente. In un raduno romano del 1996, dedicato alla spudorata persecuzione che questa repubblica infame tenne lungo quattro decenni col quasi centenario Erich Priebke, venne a conoscermi il professor Silvio Vita, figlio di una ragazza ch’era stata una delle mie quattro compagne della prima liceale di quella scuola, e mi raccontò le imprese, dall’autore dimenticate, di colui ch’era chiamato, nei dintorni di via Sicilia, “il terrore del Tasso”. *** Né al preside Stumpo, né a mia madre avrei mai potuto raccontare che cos’era stata, che cosa rappresentava per me, non ancora quindicenne, la scoperta di Roma, ché tale conoscenza era diventata la mia sola occupazione quotidiana. Il binario del “4” a Piazza Ungheria era la mia stazione dei prodigi. Viale Parioli e via Panama erano sbaragliati da un tratto di “circolare”, ora rossa, ora nera, che con trenta centesimi e tanti altri antichi e nuovi convogli saliva sui colli, lambiva i fiumi, accarezzava le guance degli antichi poeti, sfiorava le terme, rivelava prodigiose femmine e basiliche ascose. Baroni o Barone si chiamava l’insegnante di greco, Razzetto avevamo ribattezzato il velocissimo saltellante inse-


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gnante di italiano e latino; Chellini o Chellino, zoppo, coi baffoni neri e la faccia di un buon mangiafuoco, c’istruiva, quando ci riusciva, nelle matematiche; della “Bonifazi” che c’insegnava la storia dell’arte tutti mormoravano che fosse prediletta allieva di un prodigio di rivelazione chiamato Longhi; una grande scuola, insomma, che dell’animo mio s’era preso un angolo così piccolo, che l’estate del 1946 provocò nella mamma la decisione di privarmi di quel museo unico al mondo e riportarmi tra le pietre e i sassi d’Imola orribile. La decisione di ricondurmi alle aggredite e sbocconcellate dimore trovò in quei giorni una curiosa concordia del Babbo allora dimorante nelle galere di San Giovanni in Monte, con la mamma, libera disperata e forse sperante in un impossibile appoggio di famiglia. «Gaetano Pieraccini è da molto tempo Sindaco di Firenze», scrisse il Babbo in una lettera alla mamma che, chissà da quanto tempo rimuginava la tentazione di chiedere un aiuto allo zio. Già, perché il nuovo Sindaco socialista di Firenze, Gaetano Pieraccini (n. 1864), poi senatore, aveva sposato l’amatissima sorella di sua madre. Mandare me a conoscerlo in Palazzo Vecchio, in una sosta dei viaggi tra Roma e casa, non mi sembrò allora e non mi sembra neppure oggi un’idea geniale. Nulla ricordo di quanto tentai per accontentare la mamma, neppure la salita sulla stretta scala che menava allo studio del medico e sindaco famoso («Ha una testa beethoveniana», ammiravano). Fui introdotto nello studio da due dignitari con le brache corte; «E così, tu saresti Pierino, il figliuolo dell’Anna», cominciò confidenziale, quasi motteggiando; si fece confermare che il Babbo «ora è in prigione»; rievocò soddisfatto i litigi che gli avevano imposto “i fascisti”: «Oh, se n’avete fatte, se n’avete fatte...» mi guardava di sotto le lenti, di tanto in tanto, e non s’accorse a tempo che il nuovo nipote (non ricordo se avessi ancora, quel giorno, i calzoncini corti) sfilava fuori dal seggiolone dove l’avevano issato e, inseguito, invano, dalle grida degli uscieri «O che fa, o che fa, ritorni subito dal Sindaco» ecc., scendeva svelto la stretta scala, senza neppur smettere di correre in Piazza della Signoria.


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«È stato il tuo incontro con la democrazia», mi consolò mezz’ora dopo la voce d’un altro zio, Giorgio Falorsi, già governatore di Derna dopo la prima conquista; «Coraggio, Pierino, ti ci vorrà d’averne, ma tieni duro». Glielo promisi, tenni duro. Del grande Sindaco nessuno più parlò in casa nostra. Tenni duro mezzo secolo, fino a questa vecchiaia.


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Lettera a un ”preside“

Venne l’ora d’iscriversi alla scuola, la seconda del Liceo Classico “Benvenuto Rambaldi” che mio padre aveva fondato. Il fascistone orribile e rosso che la governava dichiarò che mai avrebbe accettato nel suo Liceo quel giovane fascista. E la mamma gli scrisse: «Egregio Signor Preside, sono ormai avvezza a lottare in ogni modo e spero di poter resistere finché la necessità lo richiede! Il vedermi in questa dura mia lotta ostacolata da chi per la sua posizione potrebbe aiutarmi, mi addolora e per questo non trovai parole da rispondere a tutto quello che Ella mi disse l’ultima volta che venni al Liceo: oggi, dopo aver meditato sulla conversazione che ebbi con Lei sabato scorso, Le confermo che non rinuncio a iscrivere mio figlio alla II classe del nostro Liceo; di quel Liceo che mio Marito sedici anni fa ottenne di costituire, nonostante le contrarietà dei tanti che lo ritenevano inutile a Imola. Ne godeva pensando che suo figlio non sarebbe stato esposto un giorno ai pericoli che correvano i ragazzi fino allora costretti al viaggio quotidiano a Bologna o a Faenza. Se Lei avrà le sue ragioni per rifiutare l’iscrizione di Piero, vorrà avere la cortesia di comunicarmele per scritto. Non sono mossa da un puntiglio stupido in questo mio proposito. Considerazioni di carattere morale ed economico e ragioni di affetto mi indurranno, credo, a tale iscrizione. Lei mi ha fatto considerare il pericolo che esiste per il mio figliuolo e, fin qui, non avrei potuto altro che esserle grata: ma che cosa devo pensare quando Lei dice di esser pronto a tirar fuori dai cassetti della presidenza, al primo disturbo che il ragazzo possa recare, i documenti che comprovano i suoi sentimenti fascisti? Documenti che Lei conserva, dunque, come ricatto e minaccia? Io non posso, né voglio negare che quella fu la fede sincera del mio ragazzo: se lo negassi, offenderei lui e offenderei suo padre che da sedici mesi sconta, come Lei sa, la sua fede. Se in periodo repubblicano, io vidi i pericoli più chiaramente di lui, non posso con ciò negare la sua buona fede. Ma io Le domando se esistono solo i documenti che provano la fede di mio figlio, o se non crede che tutte le scuole di questa povera nostra Italia siano piene di


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documenti di fede fascista, dai componimenti dei ragazzi, ai discorsi dei loro insegnanti e presidi...» 21 Settembre 1946 Qualcuno che io mai conobbi di persona fece stampare in ciclostile come allora usava, centinaia di copie di questa lettera fiera di mia madre; cassetti della presidenza furono frugati e divelti. Le carte e le vecchie tessere littorie sparpagliate fino in fondo ai cessi accanto all’ingresso sulla strada. Tutto ciò fu compiuto in una notte sulla fine di Settembre; insulti e minacce al “vecchio traditore”invasero le sale, scritte sconce vergate sugli usci del suo ufficio. Il preside Manlio Mariani letteralmente scomparve dal Liceo, il suo posto fu preso dal vice-preside, il farmacista Bortolotti. «Così cominciamo a vendicarci», scrisse un mio nuovo amico: suo fratello divenne il parroco di Sant’Agata, dove fece costruire per me un nuovo organo. Divenne poi il “difensore del vincolo” nel Tribunale ecclesiastico di Bologna e trent’anni più tardi cardinale.


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Revisionista in Vandea Charette, l’eroe proibito

Quelli che scelsero Aleksandr Solzhenitsyn per inaugurare il Memorial de Vendée sapevano che cosa facevano e perché. I ricordi dell’ultima guerra mondiale, dell’Indocina, le stragi del Cambogia, i fasti del comunismo universale impallidiscono come imitazioni davanti agli originali. Qua fu applicato per la prima volta il terrorismo contro una popolazione. Peggio che altrove, contro una gente della propria nazione. Nantes, 17 Giugno 1996. L’abbiamo scelta in cima all’Europa. La Place d’Armes, che cercavamo, adesso si chiama Viarmes, precisa la signorina al Castello. Saliamo a piedi in un quartiere ricostruito a casaccio dopo i bombardamenti inglesi e americani, che sull’amica Francia in attesa di liberazione non furono più pietosi che su Germania e Italia. Curiosa, inoppugnabile sorpresa. Place Viarmes è un’immensa baraonda bordata d’orribili edifici. Su un lato un albergaccio, sull’opposto cartelloni pubblicitari nascondono qualche altra bruttura. Quando si danno al brutto, i francesi, non li batte nessuno. Il vento veloce solleva un polverone che fa turbinare nuvole di foglietti, pianetine bianche d’un gelato a poco prezzo. Carretti, trespoli; avanzi, dicono, d’un mercato appena smontato. Della fucilazione, il cui luogo cerchiamo, solo il nome di un ristorante, “Le Charette”, chiuso. Al bar vicino domandiamo se non vi sia memoria di quell’avvenimento di due secoli fa. Senza gentilezza indicano un angolo in fondo, nell’ombra dei platani. C’è, infatti, insolentemente circondata di paracarri, una vecchia grande croce di pietra giallastra, il sacro cuore vandeano al centro. Nel basamento una targa di ghisa ossidata, corrosa, quattro piccoli gigli agli angoli: «Ici a eté fusillé / pour son Dieu et son Roi / le général vendeen Charette de la Contrie. 29 Mars 1796». I blu del generale Travot l’avevano catturato sei giorni prima nei boschi della Chabotterie, il castello d’un seguace nel cuore


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della Vandea. Di tre anni di battaglie e agguati, delle migliaia di contadini soldati che al suo richiamo si addensavano filtrando tra paludi e foreste per poi tornare a dissolversi verso le loro case, gli rimaneva una trentina di fedeli, comprese le donne e le ragazze che sempre lo seguirono nelle sue imprese. Il clero si era piegato al nuovo regime, preti e abati lo denunciavano. Il conte d’Artois, il futuro Carlo X, atteso fino allo spasimo sulle spiagge atlantiche, era l’ultima speranza. Non venne, la speranza si spense. Gli ultimi passi della sua guerra, Charette li mosse a piedi. Affidò il cavallo a un contadino che corse a denunciarlo ai soldati del generale Hoche. Riunì i suoi ultimi volontari e disse,con una dolcezza che non era più nelle sue abitudini: «Siamo traditi, venduti, vi resta la speranza di confondervi nella folla. Legato al giuramento al mio Re, io non posso lasciare il mio posto senza un suo ordine, la mia fede mi prescrive di aspettare il destino. Rassegnato ai decreti della Provvidenza, mi difenderò da soldato e morirò da cristiano». Non disse che aveva scritto a Luigi XVIII: «Sire, la viltà di Vostro fratello ha rovinato tutto. Poteva sbarcare su queste coste e tutto perdere, o tutto salvare. Il suo ritorno in Inghilterra ha segnato la nostra sorte. Non ci resta che morire, inutilmente, al Vostro servizio.» Il Re e la Provvidenza di Charette erano rimasti nei cieli sublimi che risplendono sugli eroi. Fortunati i popoli che hanno i loro eroi quando non c’è più speranza. La mattina del 23 Marzo 1796 i centomila uomini dell’armata di Hoche, su quattro colonne, mossero per farla finita con quei trenta che facevano tremare la République. Una, che veniva da Chauché comandata dal generale Travot, s’imbatté nel piccolo gruppo del Generale vandeano, già ferito. Charette spara sull’aiutante generale Valentin, manca il colpo e i blu lo incalzano con fuoco serrato. Lo salva, ancora una volta, l’attendente tedesco Pfeiffer che, come in un travestimento da Don Giovanni, si mette in testa il cappello col pennacchio bianco che Charette si ostina a portare e così attira la fucileria repubblicana e cade subito ucciso. Charette sfugge per l’ultima volta e incappa in un’altra colonna; i suoi cadono, è di nuovo ferito. Tenta di pas-


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sare un torrente che lo separa dalla foresta, si difende come un diavolo, un colpo di spada gli tronca due dita. La sua resistenza sovrumana cede, è a terra, stremato. Il domestico Bossard e due compagni lo prendono a braccia, Bossard è ucciso e subito dopo il giovane La Roche-Davo; il terzo si carica il suo generale sulle spalle ma presto crolla, taglia un gran ramo di frassino, ce lo nasconde sotto, ma il generale nemico accorre di persona con tre blu, lo scorge: « C’est lui, c’est Charette!», e si getta sul corpo disteso. Accecato dal sangue d’una ferita che gli riempie gli occhi, il vinto tace. Uno dei cacciatori lo riconosce: «Tenez ferme, c’est nostre homme!». Travot, che non crede alla sua fortuna, grida: «Dov’è Charette?». «Eccolo qua», risponde il ferito. La cattura di Charette, riferiscono copiose cronache, «mise la République in delirio». «Fatichiamo oggi», scrive Michel de Saint Pierre, «a figurarci che cosa rappresentasse quella cattura. La personalità e poi il mito, del Cavaliere, del capo inafferrabile di immense legioni fantasma, avevano commosso e incantato l’Europa. Aleksandr Suvarov, il comandante degli eserciti russi, gli scriveva come a collega e maestro. Napoleone, a Sant’Elena, ripenserà alle sue gesta. Rifiutò di andare in Vandea a dare man forte ai colleghi Haxo, Touron, Roche, i macellai del sadismo criminale. Restò all’Armata d’Italia e, una volta Console, poté dedicarsi a risanare le ferite orrende inferte a quel popolo. Il Concordato del 1802 fu salutato in Vandea come la «vittoria dei vinti». Il giorno di Pasqua le chiese della «patrie vendéenne» gridarono insieme, con la voce di bronzo delle campane, che il popolo sterminato aveva ancora. Era stato sul punto di soccombere alle «colonne infernali», come le battezzarono i loro comandanti: truppe mandate ad applicare «un programma di sterminio sistematico», così si legge ancora nel libro che Gracchus Babeuf scrisse per incarico di Fouché, nel tentativo di far dimenticare, coi crimini del «boia di Nantes» e dei suoi compari in uniforme, i crimini suoi propri, nel momento che la reazione termidoriana incalzava verso la ghigliottina gli artefici del Terrore. Riuscendoci, purtroppo, come la sua carriera testimonia. Al padre del «comunismo utopistico» dobbiamo, per un curioso paradosso, quella descrizione della strage indiscrimi-


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nata del popolo vandeano, repubblicani compresi, che s’intitolò «Du système de Dépopulation, ou la vie et les crimes de Carrier», 1791. Il «genocide vendéen», così lo definì Raynald Secher riaprendo il libro nel bicentenario della «rivoluzione diabolica», è il modello delle stragi comuniste nel ventesimo secolo, fino alla «pulizia etnica» perpetrata dai banditi di Tito, tra gli applausi dei complici nostrani, contro gl’Italiani a partire dal 1943. Gli storici controrivoluzionari dei nostri tempi, giovani e giovanissimi come Jean-Joël Brégeon, hanno trovato in Babeuf la conferma di quanto altri avevano scoperto: che fu realmente intrapreso, in Vandea nel 1793, lo sterminio di una popolazione giudicata non assimilabile per conformazione razziale al regime ateo repubblicano. Gli storici liberali e radicali, massoni e comunisti, avevano intenzionalmente lasciato nell’ombra il libro di Babeuf, perché smentiva dal principio l’immagine redentrice della Révolution. Ne denunciava il meccanismo intimo, di cui il Terrore era il solo esito possibile, coi caratteri che si mantennero nel passaggio dal giacobinismo liberale e democratico ai furori anarchici e bolscevichi: «Col sistema di spopolamento e la conseguente diversa ripartizione delle ricchezze, tutto si spiega, le guerre della Vandea, la guerra esterna, le proscrizioni, le guillottinades, le foudroyades (folgorazioni, ossia fucilazioni in massa), le noyades (annegamenti in massa), le confische, le requisizioni, le appropriazioni, le elargizioni a determinate categorie d’individui [...] il pensiero di Rosseau», chiariva Babeuf, «in interpretazioni perverse». La massima, «tutti abbiamo abbastanza, e nessuno troppo», divenne incitamento a «liquidare gli oziosi, gl’inutili, i parassiti». I robespierriani che a Parigi inventavano il «popolicidio», e Carrier, che l’applicava a Nantes, si erano persuasi che, «a conti fatti, la popolazione francese eccedeva le risorse del suolo» e siccome s’era deciso di ridurre il numero, conveniva cominciare con questi cristiani recidivi e realisti incorreggibili. Babeuf fu tra i primi che portassero nella politica moderna il ricordo di come i Conquistadores spagnoli imposero il Vangelo agl’Indiani d’America. La républicanisation della Vandea seguì il modello anche nella scelta delle vittime, «uomini agresti, semplici, vicini alla


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natura, e per conseguenza adattissimi a cadere nel tranello della libertà». In America, pugnale in una mano e crocefisso nell’altra, s’intimava a poveri diavoli che mai avevano sentito parlare di un tale chiamato Gesù il galileo, «riconosci il tuo dio, o ti uccido ». E qui, oggi, «coccarda nazionale» in una mano e il ferro nell’altra, gente che non aveva alcuna idea della libertà era convertita con la breve formula: credi nei tre colori, o ti pugnalo. Soltanto gli scenari sono cambiati, il fondo dei due quadri è identico. L’avo patriarcale dei nostri comunisti poteva ben farci la figura del santone, perché i manovratori del terrore erano i «patrioti» liberali. Ma i clienti di quegl’istituti di rieducazione democratica che poi si chiamarono ufficialmente Glavnoe Upravlenie Lagerej e familiarmente Gulag, non faticarono a riconoscere il profumo delle origini quando il glorioso bicentenario si mise in moto. Lo disse Aleksandr Solzhenitsyn, chiamato a inaugurare il Mémorial de Vendée eretto su due ettari di campagna con al centro, alta sulla collina, la chiesetta dei Lucs de Boulogne, la città martire, nelle cui mura tutta una popolazione fu sterminata, parroco in testa. Ma, ecco l’imprevista sorpresa, la storia ufficiale, venerata e truccata in due secoli di tirannide ideologica, rimetteva in moto la disprezzata sorella, l’antistoria irrazionale, ribelle all’equazione hegeliana di «razionale» e «reale». L’antistoria irrisa e demonizzata dai nipotini di Hegel diventava reale operante contro storia. Contemplata nel suo culmine delinquenziale, spogliata dei panni solenni, la Révolution apparve in tutta la sua miseranda decrepitezza. Non più l’esaltavano i dogmatici del falso, non più riluceva en bloc secondo una pretesa idiota e famosa. Ripassati al bucato della contro storia, gli «eroi della Révolution» rivelavano la stupidità scientifica dell’astronomo Bailly, la malafede volpina dell’abate Sieyès, la vanità incosciente di Mirabeau, la corruzione di Danton, il sadismo criminale di Robespierre. L’immagine dipinta dalla storiografia massonica si dissolve nel liquame marcio dei sofismi, delle vergogne, dei fiumi di sangue inutilmente dissipato. Risplende la verità che Alessandro Manzoni vecchio incise nelle pagine del Saggio comparativo, il grande libro che


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Richiedei stampò nel 1889 a cura di Ruggero Bonghi, e la cultura massonica e progressista riuscì a cancellare: la Révolution fu illegale e criminale dal primo giorno, 10 Giugno 1789, e falsa è la complice indulgente pretesa che tale divenisse, per brevi tratti di graduali eccessi dovuti a forze negative, tuttavia scusabili considerando la bontà dei resultati. Chi sono più i Robespierre e i Carrier e i loro complici militari grondanti palmette dorate, cordoni e galloni? Non più che ruote sdentate, pulegge rugginose di un potere infame che pervertì la Francia e poi, divorando meridiani e paralleli, tutta l’Europa. E invece risorgono Charette, il carrettiere Cathelineau, il guardacaccia Stofflet, i nobili ufficiali dell’Armata Reale, d’Elbée, Lescure, Bochamp, i due fratelli de la Rochejaquelein; il più giovane, Henri, aveva vent’anni quando agl’insorti che lo eleggevano a loro capo rispose con una frase chiamata a lunga carriera: «Io sono un ragazzo, ma col coraggio mi mostrerò degno di comandarvi. Se avanzo seguitemi. Se indietreggio uccidetemi. Se muoio vendicatemi». Mantennero parola, lui e loro. Risuonano i gridi dei martiri sconosciuti, diffamati, cancellati fin nelle tombe. Dai miasmi dell’offesa partigiana che li aveva ridotti avanzi irresponsabili e folcloristici di arretratezza barbarica e provinciale inettitudine a comprendere il nuovo, riemergono la buona fede, il coraggio, l’intelligenza: «Charette mi dà l’idea di un grande carattere... Lascia trasparire il genio», rifletteva Napoleone a Sant’Elena. E Las Cases stenografava. Il genio Atterrato dalla sfortuna, il capo di nazioni e di eserciti si chinava sulla sventura del capo di una piccola nazione e dei suoi improvvisati eserciti, fucilato a trentatre anni. Napoleone sapeva quanto gli storici negarono e nascosero. Che quella morte, mettendo fine alla rivolta di Vandea, aveva privato del suo ultimo baluardo il trono più antico di un’Europa che non sarebbe più stata cristiana come prima. Sapeva, come Carnot, come Hoche, che mai la Repubblica era stata messa in pericolo


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dall’invasione esterna come fu nel 1795 in Vandea dove l’invincibilità e inafferrabilità di Charette si erano propagate fino a Parigi in un presagio di catastrofe. Se, soltanto, il Re e il suo fratello fellone, avessero osato sbarcare. Quando gli annunciarono la cattura di Charette, il generale Grigny mandò a Hoche un messaggio che soltanto gl’ignari trovano stupefacente: «Charette in nostre mani... Complimenti, mio caro generale! Dopo questa notizia, siamo come ammattiti!». Tutto resta, ogni parola è testimoniata. La République era logorroica e grafomane, le sue carte imbottiscono gli archivi. Alla tribuna del Direttorio esultano Hoche e Travot: «Eccoci infine liberati del più crudele nemico della République!». In tutti i teatri di Parigi il governo annunciò l’evento come «une des victoires qui sauvent les nations». Una vittoria ch’era costata alla Vandea trecentocinquantamila (secondo altri, quattrocentomila) esseri umani. Il 24 Marzo 1796 Charette, prigioniero coperto di ferite, è issato su un cavallo, ai lati Travot, Valentin e Grigny. Alla testa di una numerosa colonna, partono per Angers. Il 25, sopporta fieramente «la curiosité insultante du peuple». In carcere lo affidano a un medico, per poterlo ammazzare con le parvenze di un sano. «Soffro molto», dice il prigioniero. Gli medicano lo squarcio alla fronte, bendano il braccio ferito, la mano a brandelli, le dita mozzate. Il 26, vigilia di Pasqua, i generali lo invitano a pranzo per soddisfare la loro curiosità. Gli rendono i riguardi che credono di dovergli. Manca Hoche, alle prese con gli ultimi sciuani normanni di Louis de Frotté. Charette mangia con appetito, parla con naturalezza. Sulla veste lacera porta il crocefisso, la croce di San Luigi, i tre gigli d’oro. «Perché vi siete lasciato catturare vivo?». Risponde: «Io mi sono battuto per la mia religione, signori. Avrei commesso un crimine contro le leggi divine se mi fossi tolto la vita», e, dopo una pausa: «Ad ogni modo proverò che non temo la morte». Gli ufficiali blu cominciano a trovare questo nemico molto simpatico. Vorrebbero mandarlo a Parigi dove, con la nuova aria che tira, potrebbe salvare la vita, ma Duthil, comandante la piazza di Nantes, rivendica alla città il diritto «d’esser teatro


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all’esecuzione del capo brigante». Il 28, lo interroga: «Dove sono i vostri ufficiali?». «Si sono arresi». «E dove sono ora?». «Dovreste saperlo meglio di me». «Chi dava gli ordini?». «Io solo, signore». A Duthil viene l’idea «singulière et cruelle», d’una passeggiata per la città. Le idee dei boia, dei partigiani. I generali austriaci, dopo aver condannato Cesare Battisti, ne organizzarono una simile, per le vie di Trento, vile e torva, fin sotto casa sua. Tra l’esaltazione e il dileggio, le Roi de Vandée, come lo chiamarono, fu condotto per tutta la città «in un apparato più adatto a un assedio, che alla scorta di un prigioniero coperto di ferite», osservò nel 1823 Le Bouvier Desmortiers, il primo biografo di Charette. Aprivano il corteo i cavalleggeri della Milice, seguivan cinquanta tamburoni e cinquanta musicisti alternando sinfonie militari e rullii funebri per attrarre gente alle finestre; poi i granatieri e i cacciatori della Garde nationale e, impennacchiati e trionfanti, i Duthil, Travot e Grigny, tre altri generali caracollanti, che rispondevano ai «Vivat!» del popolaccio, già tutto coi vincitori. Seguiva Charette sfinito e sanguinante, a piedi, in mezzo ai gendarmi. Senza cappello, un fazzoletto alla creola sulla ferita alla fronte, sangue colava dalla spalla, al collo un foulard bianco invece dei preziosi ricami d’un tempo, la mano destra in un fazzoletto insanguinato. Una marcia di calvario. Un ufficiale, che gli tende la tabacchiera, vede le dita scarnite e mozzate. Un testimone osserva «l’air extraordinairement fier et imposante», la fronte alta, il colorito pallido, la barba, «gli occhi di fuoco, per quanto infossati». Due ore di odiosa mascherata. Un testimone repubblicano scrisse: «Barbari e selvaggi danzano intorno alla vittima. Tutt’altro che umiliarlo, pompa e sfoggio servirono soltanto a rivelare la sua grandezza d’animo, la sua pazienza, la sua fermezza». Il condannato dice a Duthil il suo rimorso per non aver saputo prenderlo e fucilarlo. Alla sorella e alla cugina, ammesse a visitarlo nel carcere, chiede di trattenere le lagrime, «Ho bisogno del mio coraggio». «Mi disse la signorina Charette», scrive Le Bouvier Desmortier, «che non lo aveva mai sentito conversare con tanto spirito, così amabilmente...». Il morituro radunava e distribuiva le ultime forze.


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Come i veri grandi, pensava alla posterità. Volle scrivere a Boetz, il sarto fiammingo suo amico, che avrebbe cercato di pagargli i suoi debiti. Il “flagello della patria” Il 29 mattina, “il flagello della patria” subì il processo, assunse orgogliosamente le sue responsabilità, respinse quelle altrui, fu condannato a morte, l’esecuzione fissata per le quattro del pomeriggio. Accettò di confessarsi a un prete assermenté solo quando fu certo che, nonostante il giuramento alla République, la confessione era valida. Nuova marcia e mascherata alle quattro. Il condannato appare, in cima alla scalinata del Bluffay, fiero, padrone di sé, imponente nel totale silenzio. Risuona un insulto, Charette folgora con lo sguardo l’offensore, che scompare nella folla. Scende gli scalini conversando a voce bassa col prete che l’accompagna. Sull’abito spoglio spicca «l’ultima coquetterie», la ferita alla testa è racchiusa in un foulard indiano rosso, annodato alla creola, un’alta cravatta bianca gli serra il collo a nascondere la barba che non gli hanno permesso di radere; sulla giacca, alla spalla, si allarga una macchia di sangue. In rue de Gorge alza gli occhi al balcone di sua sorella, dove un prete amico, «refrattario» questo, lo saluta col fazzoletto bianco. Sulla Place des agriculteurs, poi d’Armi, poi Viarmes, lo attendono, esagerato carré, cinquemila soldati e una dozzina di generali repubblicani, più dorati e impennacchiati che mai. Al rullar dei tamburi Charette, impassibile, entra nel quadrato. Scambia qualche parola con Travot, che lo ricorderà «un grande capitano, pieno di coraggio e di lealtà». Cerca con gli occhi il plotone, percorre lo schieramento con lo sguardo come se passasse in rivista la guarnigione. L’abate assermenté gli prende un braccio, lo esorta al coraggio: «Signor abate, ho sfidato la morte cento volte. Le vado incontro, l’ultima volta, senza sfidarla, senza temerla». Di nuovo rullano i tamburi, scende il silenzio, la folla tace, Charette recita a voce alta l’atto di contrizione. Abbraccia il confessore, lancia uno sguardo alla bara aperta, appoggiata al


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muro, le si pone accanto, diritto, in faccia al plotone dei Cacciatori che l’hanno catturato. L’ufficiale di servizio gl’indica la pietra su cui deve inginocchiarsi, ma lui rifiuta, e ancora rifiuta la benda che un soldato vorrebbe mettergli sugli occhi. Chiede soltanto che aspettino, a tirare, un cenno della sua testa. L’ufficiale trasmette il desiderio al comandante del plotone. «Dritto, la fronte alta», sfila lentamente il braccio sinistro dalla sciarpa, si raccoglie in ultima preghiera, fa con la testa un cenno d’invito, il plotone fa fuoco. Sei sole pallottole lo colpiscono, cinque nel corpo, una alla tempia sinistra. Osserva Le Bouvier Desmortier che il corpo di un fucilato fa prima un movimento all’indietro, poi ricade in avanti e atterra sulla faccia. «Quello di Charette, che la morte ha colpito, resta in piedi davanti a lei, l’occhio ancor fisso sui soldati, la cui scarica ha comandato con lo sguardo. Il corpo cade con moto maestoso, si flette la gamba destra, poi l’anca... Più che cadere, Charette sembra assidersi nella notte eterna». Uno stuccatore di Nantes, il cittadino Casanne, ebbe ordine di prendere la maschera dell’ucciso, a persuadere gl’increduli che l’imprendibile era davvero il morto. Dové ripetere l’impresa quattro giorni dopo e rovistare sotto l’orribile mucchio dei cadaveri intanto accumulati nella fossa comune, perché era circolata la voce che l’ufficiale aveva venduto il cadavere ai Vandeani. La macabra ricerca sotto lo strato dei morti, incalzata dalla minaccia di andare a raggiungerli, è un eloquente modello di stile, degno delle imitazioni successive, dal bolscevismo «alla resistenza». Le maschere di Charette, il foulard rosso, i ritratti, le armi, i documenti dell’ufficiale di marina che fu in giovinezza, del difensore delle Tuileries, del capo di guerriglia che diventò nel 1793 quando i contadini di Machecoul lo elessero, del generalissimo, al cui grado lo innalzarono i fratelli di Luigi XVI; le stampe che invasero l’Europa dopo la sua morte, la lettera del maresciallo Suvarov, «Eroe della Vandea, onore dei Cavalieri di Francia, l’Universo è pieno del tuo nome, l’Europa ti contempla, io ti ammiro», i pensieri di Napoleone nell’edizione originale del Memoriale di Sant’Elena, le raccolte, le biografie, dalla prima, 1823, alle due fondamentali di Lenotre (1924) e


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Saint Pierre (1977) attendono il visitatore nella esposizione allestita per il bicentenario nel padiglione accanto alla Chabotterie. Acquistato dagli «Amis du Mémorial de Vendée», il castello, con le sue sale, gli arredi, i solai, i giardini, le armi, i cannoni, il ristorante, la sala di proiezioni, l’archivio, la libreria, la vendita di ricordi, dalle carte da giuoco alle repliche di oggetti, è diventato museo e baluardo culturale della Controrivoluzione. Le strade di Vandea sono disseminate di cartelli indicatori con la sua effigie. «Sur le pas de Charette» si snoda un affascinante itinerario tra i luoghi delle sue battaglie, agguati, trionfi, sconfitte, le chiese, i castelli delle sue feste, le rovine di quelli distrutti per odio e vendetta, le cappelle che gli dedicarono, le piccole case nascoste che gli furono quartieri, rifugi, alcove. L’estate vandeana crepita d’incontri, colloqui, esposizioni, concerti. Un’orchestra classica, la “Sinfonietta de Vendée”, si esibisce alla Chabotterie, nelle diverse città. Un viaggio senza mappa Sotto questa croce, Place de Viarmes, comincio un viaggio senza mappa né programma, alla ventura del caso. Ma nel caso c’è un ordine, che nasce e cresce da sé. Mi son preso in valigia la biografia del Lenotre, stampata da Hachette nel 1924. L’acquistai a Firenze, dal Gonnelli, l’Aprile del ’58, e dormì in biblioteca per quasi quarant’anni. È la sorte di migliaia di libri ereditati, ricevuti, comperati in mezzo mondo. Mi decisi a leggerla nel bicentenario del martirio. Mentre la leggevo, il Teatro di Ferrara mi chiese un programma di sala per il Fidelio di Beethoven. Da tempo mi ero accorto di qualche cosa che i “musicologi” ignorano o nascondono, forse per fedeltà a Robespierre e nipoti suoi: che Beethoven scrisse Fidelio come un inno alla libertà è vero, ma i tiranni, qui, sono Robespierre e Carrier, il boia di Nantes che nel carcere di Tours tentò di uccidere il giovane aristocratico, il Florestano dell’opera.


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Cercavo il boia e trovai l’eroe. Dietro Carrier, che la lurida testa lasciò sulla ghigliottina alla fine del 1794, risorgeva Charette, fucilato dai complici di Carrier nel 1796.1 Scesi all’aereoporto di Nantes, fittata un’automobiletta, siamo filati lungo la Loira verso St. Nazaire. L’interminabile sequela dei moli e docks che accompagnano il fiume fino al mare s’interrompe di tanto in tanto, lasciando lembi di rive intatte. Dopo il sobborgo di Couëron, oltre Le Port-Launay, mi parve di ravvisare, in una chiesetta e un borgo ai piedi delle colline, il luogo di una tremenda incisione di fine Settecento, raffigurante «Les Noyades de Nantes», gli annegamenti in massa coi quali Carrier si “sbarazzava” di preti e monache, uomini donne e bambini, nemici della Révolution. Sotto la croce nel luogo dove Charette cadde in piedi, sento che il tempo lordato dai politicanti radicali e massoni, socialisti e comunisti; il tempo manipolato dagli storici di mestiere, università, accademie, partiti; il tempo imprigionato e confiscato; il tempo truccato e falsificato, chiede di ricomporsi in stampi liberi, ariosi, diversi. C’è davvero un metodo, nel caso. Cerco Carrier e trovo Charette, il bottino del viaggio. Uno di quegli eroi che consolano gli uomini e i popoli nelle ore buie. Charette offre il filo, lo dipano con pazienza, dall’isola alla spiaggia, da una città all’altra. Trovo Chateaubriand a St. Malo, Renan a Brieuc, traghetto sull’isola di Yeu, di dove Charette aspettò il fratello del Re, che non venne. Ci trovo il forte dove il generale De Gaulle fece morire il maresciallo Pétain. E la sua povera tomba. E Pétain mi riconduce all’estate del 1940. Tremenda estate, francese e italiana, da Mers-el-Kebir a Taranto. Teppismo e pirateria d’inglesi. Ignavia e stoltezza d’italiani. Ondeggia e s’attorce il filo revisionista; va e ritorna, e non si spezza: su queste spiagge, diventa viaggio nella memoria. Che non si acquieta, s’interroga, interroga.

1

Piero Buscaroli, Beethoveen. Milano, Rizzoli, 2004, pp. 205-215 e 480 -493.


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