VIA BARBERIA 4

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara


Maurizio Garuti

Via Barberia 4 Romanzo

Minerva Edizioni


Via Barberia 4

di Maurizio Garuti

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editing: Maria Irene Cimmino © 2014 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-604-1 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


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La prima volta che sono andata a Bologna avevo cinque anni. La mia famiglia abitava a San Pietro in Casale, in un vecchio caseggiato sopravvissuto alla guerra e ai bombardamenti. Mio padre faceva il calzolaio e mia madre la sarta. Lavoravano insieme in uno stanzone che era anche la cucina di casa. S’alzavano sempre presto, mentre fuori faceva ancora buio. Io dormivo con i miei due fratelli, e per noi la sveglia era un po’ più tardi. Ma quella mattina, complice l’ansia per la gita a Bologna, fui io la prima in famiglia a saltare giù dal letto. Scalza, in punta di piedi per non svegliare Carlo e Guido, scivolai fuori dalla mia stanza. A passettini leggeri raggiunsi la camera dei miei genitori. Mi arrampicai su per il lettone e bisbigliai nell’orecchio di mio padre: «Papà, è già ora di andare a Bologna?». Fu così che cominciò quel giorno memorabile di tanti anni fa. Mio padre aprì gli occhi, mi fece una carezza sulla testa, guardò la sveglia sul comò. Credo che fossero le quattro, le quattro e mezza; ma non volle deludermi rimandandomi a letto. Mormorò piano «Ssst!», con l’indice sulla bocca. Poi si alzò

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in silenzio, uscì fuori sul ballatoio e andò in bagno a farsi la barba. Io ingannai il tempo affacciandomi alla finestra e scrutando il cielo, dove le stelle non si decidevano a spegnersi per far posto alla luce del giorno. Poco dopo, io e papà eravamo seduti a tavola a fare colazione con una zuppa di pane e latte. La mamma intanto s’era alzata anche lei e stava stirando la camicia bianca per il babbo. Nel silenzio si udivano i colpi del ferro da stiro e il respiro regolare dei miei fratelli che dormivano, ignari. Loro, benché più grandi di me, erano esclusi dal nostro viaggio a Bologna. Era una cosa tutta fra me e papà. Una cosa che mi faceva tutta l’importanza di quella giornata. Mio padre mise la camicia bianca e la giacca grigia, come faceva nei giorni di festa. Lo stesso feci io, indossando un vestitino di lino bianco con le maniche corte, confezionato da mia madre. In silenzio, aspettammo che il tempo passasse e che spuntasse il sole. L’orologio era lentissimo quella mattina. Finalmente, mio padre disse: «Andiamo, Rosa, è ora». La mamma mi abbracciò e mi diede un bacio su ogni guancia. Poi salutò mio padre, con le raccomandazioni di rito per chi andava in città: «State attenti a Bologna, ad attraversare le strade!». Mio padre mi prese per mano e ci avviammo verso la stazione. L’aria era fresca e il cielo di fine estate si stava illuminando. Per strada incontrammo altri mattinieri. Il giornalaio faceva il suo giro in biciclet-

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ta col cestino pieno di giornali. Dei braccianti partivano pedalando verso la campagna, con la zappa legata alla canna della bicicletta. Tutti scambiavano un saluto con mio padre; qualcuno notava il suo abbigliamento festivo e chiedeva: «Ma dove vai, tutto vestito di nuovo?». «A Bologna, con la mia bimba», e mi dava una stretta complice con la mano. Fu il primo viaggio in treno di cui conservo memoria. Il sedile era una panca con lo schienale di legno lucido e duro. Mio padre mi fece sedere accanto al finestrino, dove si vedevano meglio i campi e gli alberi che scappavano veloci. Mi mancava quasi il respiro, come sul dondolo. Giunti a Bologna, mi riprese per mano e cominciò così la nostra passeggiata attraverso la città. Capii subito che aveva in testa una meta precisa. «Dove stiamo andando, papà?». «In un bel posto, vedrai». Risalimmo via Indipendenza, su fino in centro. Ogni tanto mi dava delle spiegazioni: “Questa è la statua del Nettuno, questa è piazza Maggiore con la chiesa di San Petronio, adesso ci incamminiamo verso via D’Azeglio.” Passammo accanto al chiosco di un gelataio. “Vuoi un gelato?” mi chiese papà. “Sì, rosso: tutta fragola.” Dopo una breve sosta seduti sui gradini della chiesa, riprendemmo la nostra gita. Bologna, ai miei

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occhi, era maestosa, brulicante di folla, e io la scoprivo piena di curiosità e stupore. Camminavo a passettini veloci, senza mai restare indietro di un centimetro rispetto ai passi lunghi e radi di mio padre. «Sei stanca, Rosetta?». «No». Tagliammo per via Carbonesi, poi per via Barberia, dove ci incamminammo sotto un portico. All’improvviso, svoltammo dentro un portone: «Siamo arrivati», disse. Non capii bene dove mi trovassi, se dentro un palazzo, o una chiesa, o chissà cos’altro. Ricordo solo che un vano in penombra s’era aperto all’improvviso nello spazio luminoso del portico. Mancava una facciata che aiutasse a comprendere che tipo di edificio fosse. «Chi ci abita qui?», chiesi a mio padre. «Il partito comunista italiano» rispose con parole che non chiarirono del tutto i miei dubbi. Percorremmo alcuni metri in un androne semibuio. Poi, oltrepassato un cancello di ferro, girammo a sinistra incamminandoci su per uno scalone immenso, inondato di luce. Questa scala era così larga e fastosa che io non avevo mai immaginato niente di simile, se non nel palazzo reale dove Cenerentola perse la scarpina di cristallo. Dopo una prima rampa, l’ascesa si biforcava in due scale, diventando, se possibile, ancora più sontuosa. Qui la luce del sole pioveva dall’alto come una cascata dorata attraverso enormi finestre. Grandi pitture e

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stucchi in rilievo ornavano le pareti: pareva quasi che le figure vi danzassero sotto i raggi del sole. Mi sembrava tutto così smisuratamente grandioso che io mi sentivo piccola e insignificante come un insetto. Mio padre invece doveva trovarsi a suo agio, perché salutava con calore tutte le persone che incontrava. Ma non era disinvolto come a San Pietro in Casale, ci avrei giurato. Saliti al piano superiore, ci inoltrammo per un lungo corridoio, con varie porte ai lati, molte delle quali erano aperte e si vedeva della gente che parlava e fumava. Il corridoio faceva una curva a gomito verso sinistra e poi proseguiva come una galleria che sembrava non dovesse finire più. Poi, finalmente, giungemmo in una grande stanza, con pitture sui muri, col soffitto molto alto e anch’esso tutto dipinto: una stanza che era una specie di ufficio. Mio padre parlò con una signora dall’aria importante, seduta a una scrivania: «Ho un appuntamento col segretario», disse. La signora si alzò, aprì una porta verniciata di bianco con intagli dorati, bussò a una seconda porta e scomparve dentro un’altra stanza. Poco dopo riapparve e disse: «Prego, il segretario ti attende». Mio padre mi strinse la mano per farmi coraggio e si accinse a varcare la porta, anzi la doppia porta. Io lo seguii, ma quando fui sulla soglia e potei gettare uno sguardo all’interno dell’ambiente che si apriva di là da essa, restai paralizzata dalla paura. C’era un salone con specchi giganteschi alle pareti e figure dipin-

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te che sembravano sospese al soffitto. Come se non bastasse, una corsia rossa sul pavimento attraversava tutta la stanza, e conduceva a una scrivania, dov’era seduto un uomo, impassibile come una statua. «No, io non entro!», dissi sottovoce a mio padre. «Io ti aspetto qui». E mi nascosi nella nicchia fra le due porte. Chiusa la prima porta alle mie spalle, sbirciai attraverso l’altra, per un piccolo spiraglio. Vidi mio padre avanzare sulla guida rossa, e man mano che avanzava sembrava diventare piccolo anche lui. Finalmente raggiunse la scrivania in fondo alla sala. Là sedeva il segretario della federazione del Pci di Bologna, Enrico Bonazzi, che lo attendeva, come aveva detto la signora dell’anticamera. Il segretario, senza alzarsi, fece un cenno di saluto e disse in dialetto: «Alòura?». Mio padre aprì una cartelletta che portava con sé. Trasse fuori delle carte e le passò al segretario. Come seppi poi, si trattava del resoconto sull’attività estiva del ballo a San Pietro in Casale. I proventi del ballo, a San Pietro come in altri comuni, rappresentavano una delle principali risorse economiche del partito. Bonazzi esaminò le carte soddisfatto, ed ebbe parole di elogio per mio padre, cosa che mi rinfrancò un pochino. Parlarono anche di altri argomenti politici che non saprei specificare. Intanto, Bonazzi stava sempre comodamente seduto sulla poltrona della scrivania, e mio padre in piedi. Non c’erano sedie per gli

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ospiti. Io non vedevo l’ora che papà tornasse da me, sano e salvo. Infatti, dopo un tempo che mi parve infinito, ma che forse non durò più di un quarto d’ora, il colloquio finì. Mio padre salutò, ripercorse la guida rossa attraverso la grande stanza, e mi raggiunse nel mio nascondiglio fra le due porte. Lo presi per mano e bisbigliai: «Andiamo via!». E lui: «Non ti piace questo posto?». «Sì, ma non ci voglio tornare mai più». Non dovrei dirlo proprio a te, tesoro mio: nell’anticamera di quella stanza avrei trascorso gli anni più belli della mia vita. E tu, forse, non me lo perdonerai mai. So anche che non te ne importa niente di queste pagine e forse non le leggerai neppure. Le scrivo per me. Non sono più sicura della mia memoria, sai. Oggi è un giorno buono, vedo tutto nitido, come il fondo del mare vicino a riva, quando l’acqua è trasparente e quieta. Ma certi giorni la trama dei ricordi si sfibra, il filo si rompe e si perde. Ho sempre paura di svegliarmi con la testa piena di nebbia, dove tutto sfuma nel nulla.

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Quando mi svegliavo alla mattina, non era di caffè il primo odore che sentivo. La cucuma aveva già gorgogliato da un pezzo sul fornello del gas, alimentato con la bombola. L’aroma del caffè si era già dissolto. Io aprivo gli occhi, e avvertivo solo l’odore degli stecchi che bruciavano nella stufa diffondendo per casa un sentore di fumo e di canapa secca. A dire il vero, più che una stufa, era un bruciatore rudimentale, di ferro, molto simile per forma e dimensioni a un barile da petrolio. In dialetto veniva chiamato al fugòn, il fuocone. Appena alzato, mio padre lo riempiva di stecchi, che erano i frantumi degli steli della canapa. Bruciavano a fuoco lento, emanando un gran calore. Una carica al mattino bastava per riscaldare la casa per tutto il giorno. Aveva però lo svantaggio di produrre un odore acre, spesso accompagnato dal fumo, che pungeva le narici e si fissava agli abiti e ai capelli come una maledizione. Peraltro, nella buona stagione il fuocone se ne stava spento, lasciando libero campo all’altro

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aroma che stazionava in casa mia con la buona e con la cattiva stagione: l’odore di colla. La fabbricava mio padre con le sue mani, e costituiva uno strumento di lavoro per la sua attività di calzolaio. Era un intruglio di farina, aceto, e non so quale altro ingrediente, che ribolliva e fumava in un tegamino sulla stufa, mentre i suoi vapori asprigni aleggiavano per tutta la casa. Da vedere, la colla somigliava vagamente a quei dolci che si facevano una volta con il mosto dell’uva: i “sughi”avevano infatti lo stesso colore rosato e la medesima consistenza gelatinosa. Ma l’odore che la colla sprigionava era decisamente meno gradevole. Io non osavo dirlo al papà che accudiva il suo tegamino con tanto amore, ma trovavo quell’odore proprio nauseante. Queste erano le mie prime sensazioni al mio risveglio, ogni mattina. Mi alzavo e mi lavavo gli occhi nel bagno fuori, in corridoio, al freddo. Rientravo di corsa, ormai ben desta, e la prima immagine nitida della giornata era mio padre, seduto a tavola, con un occhio al tegamino della colla sul fuoco e un altro intento a scorrere l’articolo di fondo dell’Unità. Questa lettura, di primo mattino, era per lui un dovere, come accendere la stufa e fare la colla. E io so quanta fatica gli costasse questo compito che s’era fissato in testa. Spesso lo vedevo aggrottare la fronte e incagliarsi davanti a qualche espressione che non capiva. Allora prendeva il vecchio dizionario “Melzi”, che stava su una mensolina insieme a pochi altri

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libri finiti chissà come a casa nostra, e sfogliava alla ricerca di una parola sconosciuta, e poi tornava a immergersi nella lettura. La giornata, a quell’ora, era appena agli inizi. Una dopo l’altra, in bicicletta, intabarrate, con l’immancabile fazzoletto in testa, arrivavano dalla campagna quattro o cinque giovani donne. Erano ragazze che volevano finirla di fare le contadine e sognavano di diventare sarte. Ricordo ancora i loro nomi: Rina che portava con sé un figlioletto in fasce, Clotilde che aveva imparato a ballare il rock ascoltando la radio, e Mariangela, una magra infaticabile che veniva fin da Casumaro, nel centese, pedalando per più di dieci chilometri. Apprendevano il mestiere lavorando accanto a mia madre in quello stanzone multiuso che era la nostra cucina. Sgombrata la tavola dalle tazze e dalle briciole della colazione, il vano si trasformava velocemente in un laboratorio di sartoria. Le macchine da cucire emergevano dal sonno una dopo l’altra: spesso ero io che mi divertivo a risvegliarle, sollevando i cappucci di tela che le avevano protette nelle ore di riposo. Ma, come ti ho già accennato, c’era anche un’attività calzaturiera che ferveva in quella stanza. Alla medesima ora, dal paese arrivavano alla spicciolata tre o quattro giovani calzolai, già in abito di lavoro, sciarpe al collo e baschetto blu in testa. Anche di loro ricordo qualche nome e qualche faccia affilata che spuntava dalla nebbia della mattina, ma non voglio tenerla lunga, per non annoiarti.

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Uomini e donne, cioè sarte e calzolai, si presentavano regolarmente un po’ prima delle otto. Come per un tacito accordo, cominciavano sempre la giornata radunandosi tutti insieme intorno al fuocone: un rito di cinque o dieci minuti per scaldarsi le mani intirizzite, per scambiarsi qualche chiacchiera sul tempo, su qualche episodio di cronaca paesana, o sui balli del prossimo giorno di festa. Poi, ognuno si metteva al suo posto di lavoro: le sarte intorno al grande tavolo di cucina o alle macchine per cucire, i calzolai al banchetto da ciabattino, sotto la finestra, sempre ingombro di martelletti, punzoni, forme di legno, colle, spago, chiodi. Allora la mia casa diventava una piccola fabbrica operosa: nessuno parlava, sentivi solo il fruscio continuo delle macchine a pedale che cucivano, i colpi di martelletto che crepitavano sul piede di ferro. Bisognava lavorare e produrre. Noi ragazzi non eravamo ammessi, non potevamo disturbare. La mattina la passavamo sui banchi di scuola, il pomeriggio sciamavamo per i cortili, liberi e selvatici. Solo a mezzogiorno, durante la sosta per il pranzo, l’officina tornava a essere casa, anzi mensa. Si sgomberava ancora una volta il grande tavolo di lavoro: via tagli e ritagli di stoffa, via gli abiti imbastiti, via le forbici, via il ferro da stiro, via i puntaspilli e i gessi. Si stendeva una tovaglia e si apparecchiava. Sarte e calzolai sedevano insieme per il pranzo, e an-

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che noi ragazzi, tornati da scuola, ci univamo allegri e famelici alla tavolata. Allora si parlava e si scherzava, come a una grande mensa contadina, bambini e adulti mescolati insieme. Eravamo tanti, ma tanti, sai. A casa mia ho sempre visto tavole affollate e brulicanti di mani e di bocche. Attorno ad esse, adesso che ci penso, non sedevano solo le sarte e i calzolai, e fra noi ragazzi non c’eravamo solo io e i miei due fratelli. C’era anche il piccolo della Rina che sputacchiava sempre i pappardellini in brodo, su un seggiolone rustico rimediato in soffitta. Ma soprattutto, si aggiungevano ogni giorno quattro miei cuginetti, rimasti orfani da piccoli. Vivevano in una casa vicina con la nonna. Mio padre aveva assunto la patria potestà di quei ragazzi, che avevano un’età fra i sette e i quattordici anni. La loro mamma era morta per un male incurabile; il loro padre, che faceva il birocciaio, aveva preso a bere, come talvolta succedeva a chi praticava quel mestiere fatto di lunghi viaggi in solitudine e di immancabili soste alle osterie; finché la cirrosi l’aveva stroncato. Insomma, erano altri cinque posti che s’aggiungevano a tavola. E così, ogni giorno, intorno alla mensa, si formava un raduno allegro e chiassoso, con tante facce, con tante voci di uomini, donne, bambini. E per un’ora lo stanzone perdeva il suo aspetto febbrile di piccola fabbrica domestica, che produceva abiti e scarpe, in quell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta. Un secolo fa.

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La conta di coloro che sedevano alla tavola di casa mia non è però ancora completa. Nel 1951 una disastrosa alluvione del Po si abbatté sul Polesine, gettando nella disperazione migliaia di famiglie, private della casa e del lavoro. Parrocchie e case del popolo si prodigarono per dare aiuto a quella povera gente. La parola solidarietà a quei tempi non era solo una parola. Avevamo poco, ma quel poco lo si spartiva generosamente con chi aveva bisogno. Io ero molto piccina allora. Avevo poco più di tre anni e conservo il ricordo sfocato di una corriera che giunse un giorno a San Pietro in Casale. Veniva dalle zone alluvionate ed era carica di bambini. Solo bambini e bambine, senza genitori. Si fermò in piazza, al centro del paese. «È arrivata una corriera di bambini dal Polesine!», fu il grido che passò di strada in strada, di cortile in cortile, di fontana in fontana. Al diffondersi di quel grido, le persone lasciavano le loro occupazioni e uscivano in strada. Grandi e piccoli, uomini e donne, intere famiglie, era tutto un

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muovere verso la piazza, dov’era annunciata quella gran novità. Andai anch’io, una mano al babbo e una alla mamma. Ricordo che s’era assiepata tanta gente intorno a quella corriera. I bambini del Polesine guardavano la folla dai finestrini, senza muoversi; erano spauriti, chiusi in sciarponi di lana grossa, con le faccine serie come i grandi. La sezione locale del partito comunista sovrintendeva alle “adozioni”. Le famiglie che volevano, che potevano, portavano a casa un bambino prendendosene cura come di un loro figlio. Ricordo che ogni bambino aveva con sé una busta con una lettera scritta dal proprio padre e dalla propria madre, con il nome, il cognome, l’indirizzo della famiglia di origine: gli unici fili preziosi di una storia da non smarrire. Dopo un primo momento di accorata meraviglia, le famiglie cominciarono a chiamare i bambini: «Vuoi venire con noi? Starai bene, vedrai…», erano le prime parole di approccio. Un primo bambino, ancora esitante, lasciava il suo posto sulla corriera e scendeva gli scalini; poi un altro, poi un altro ancora. Avevano scarpe che facevano pietà. Poco alla volta, la corriera si svuotava, e ogni bambino se ne andava con la famiglia che l’aveva adottato. So che alla fine erano rimaste due sorelline, gemelle, un po’ più grandi di me, che nessuno si era sentito di separare, perché due bocche in più a tavola erano un onere troppo pesante per le condizio-

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ni delle famiglie disposte all’accoglienza dei piccoli profughi. Ormai la folla aveva cominciato a diradarsi. Rimanevano solo loro, le gemelline. E io, come mi hanno sempre raccontato in casa, non riuscivo a staccare gli occhi da quei due musetti scarni e tristi che nessuno voleva. Mio padre se ne accorse, scambiò uno sguardo d’intesa con mia madre, e disse: «Bimbe, volete venire con noi? Rosetta ha solo fratelli e vuole giocare anche con delle sorelle…». Così, insieme alle sarte e ai calzolai, insieme agli orfani di mio zio e al piccolo della Rina, si aggiunsero alla nostra mensa anche le sorelline del Polesine alluvionato. E restarono con noi per diversi anni. Divennero sarte. Una di esse si fidanzò e poi si sposò con un giovane della zona. Questo per dire che intorno al tavolone del laboratorio c’era una tribù sterminata. Ricordo che mia madre ogni mattina comprava quaranta pagnotte di pane. Io ho passato un’infanzia splendida, sai. Ho sempre amato le tavole piene di gente. E le amerò sempre, anche se adesso ci sono solo io intorno alla mia tavola.

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La mia casa di notte era il regno del silenzio e dei sogni, come tutte le case dei bambini. Non c’era ancora il ronzio del frigorifero, nÊ lo sbuffo della caldaia. Prima di addormentarmi sentivo il fruscio delle forbici, nelle mani di mia madre che tagliava la stoffa lungo la linea tracciata col gesso. Imbastiva il lavoro per l’indomani, quando dalla campagna sarebbero arrivate le ragazze. Era un rumore sordo e ovattato, che chiudeva un giorno e ne annunciava un altro. Ogni sera quel fruscio mi cullava aiutandomi a prendere sonno. A volte mi succedeva di svegliarmi nel cuore della notte per un brutto sogno. Ma bastava sentire il respiro regolare dei miei fratelli, e quello piÚ sibilante di mio padre nella stanza accanto, per fugare ogni paura. Come mi confortava quello stormire di fiati! Significava pace e quiete; potevo riprendere a dormire in compagnia di un sogno felice. Poi una notte, svegliandomi di soprassalto per il rombo di un tuono, mi accorsi che i miei fratelli non dormivano. La luce era spenta, dallo spiraglio della finestra si vedeva il chiarore dei lampi. Ma non era la

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paura del temporale a tenerli svegli. Ascoltavano un parlottio fitto, sommesso, che veniva dalla stanza del babbo e della mamma. O meglio, ad ascoltare era Carlo, il più grande, perché Guido era quasi sordo dal giorno in cui, in fasce fra le braccia di mia madre, i suoi timpani erano stati lesi dall’onda d’urto di una bomba, scoppiata nel cortile di casa. Carlo origliava e ripeteva tutto a Guido, in un orecchio. «Cosa ascoltate?», mormorai. «Niente, dormi!», mi risposero, bruschi. Ma io mi svegliai anche di più, e si dileguò ogni voglia di dormire. Tesi l’orecchio. Quel parlottare a bassa voce dei miei genitori nasceva da una ragione nuova e sconosciuta. Mi sembrava che una preoccupazione li angustiasse, forse una paura. Ma si percepiva solo qualche parola isolata, mi sfuggiva il senso del discorso. «Cosa dicono?», chiesi. «Dormi!», ripeterono i miei fratelli. «Non ci riesco…». «Ieri sera ci sei riuscita benissimo…». Imparai così che anche la sera precedente i miei erano rimasti svegli a lungo, parlottando fra loro. Sicuramente per lo stesso motivo. Sicuramente con lo stesso tono accorato. E ciò aumentò la mia ansia. «Cosa c’è, cos’hanno?», chiesi ai miei fratelli. «Dormi, e fai silenzio», mi risposero. Io insistetti: «Se non me lo dite mi metto a urlare!». «Il papà non può più fare la colla», disse Carlo.

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«Non può più fare la colla?!», dissi io senza capire. «Che bello! Non avremo più quella pestilenza per casa». «Cretina, il papà non può più lavorare!». Seppi così che mio padre aveva sviluppato un’allergia ai collanti che lui stesso preparava; in pratica, non poteva più fare il calzolaio. «Devi cambiare mestiere» gli aveva detto il medico senza tanti giri di parole. Come se fosse facile, a quarant’anni, ricominciare tutto da capo; per fare cosa, poi? Questi erano gli argomenti di cui discorrevano mio padre e mia madre da alcune notti. Nel loro parlottio avevano preso in considerazione varie possibili soluzioni. Poi, da quel fiume di parole sussurrate al buio, venne la decisione. I miei si lanciavano nell’avventura di gestire un’edicola, a Bologna, in piazza dei Martiri. La famiglia lasciava San Pietro in Casale per trasferirsi in città; destinazione un appartamento in affitto fuori Porta Lame. Babbo e mamma smettevano il mestiere che esercitavano fin da ragazzi, cambiavano vita, diventavano edicolanti. Mia madre chiudeva anch’essa col suo lavoro di sarta: l’avanzare delle confezioni industriali aveva cominciato a restringere il mercato artigianale. Le sue ragazze si adattarono al nuovo trasformandosi in lavoranti a domicilio. Un giorno di novembre, un camion stracarico di masserizie e di bagagli, tutto legato con corde ed elastici, partì da San Pietro in Casale verso Bologna.

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I miei fratelli stavano sul cassone. Io ero in cabina, fra mia madre e mio padre, che guidava. Ero triste perché perdevo gli amici, le amiche e i giochi di paese. Guardavo la strada e la città che cominciava ad infittirsi da Corticella in poi. C’erano tante case nuove, tanti palazzi in costruzione, con gru e betoniere, e tanti bambini per le strade e nei ritagli di prati. A poco a poco, l’eccitazione per la novità vinse la tristezza. Era la prima volta che tornavo a Bologna dopo quella gita strana con mio padre. Erano passati nove anni. Pensavo che Bologna era una città grande, piena di vita e di attrazioni. Perché non andarle incontro con curiosità, senza paura? Bastava tenersi alla larga da via Barberia.

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Finite le medie, mi sono intruppata nelle folle di ragazze che si volgevano all’istituto magistrale Laura Bassi. Se devo essere sincera, ho frequentato le superiori solo per strappare un diploma: uno qualsiasi, perito meccanico o geometra sarebbe stato lo stesso. Invece sono diventata maestra chiedendomi, con due rughe di scetticismo sulla fronte: «Potrò mai diventare come la maestra Tondelli, che amavo tanto alle mie elementari? Cosa insegnerò io ai miei bambini?». La maestra Tondelli era la Maestra per eccellenza, tutti ne abbiamo conosciuta una nella nostra lontana infanzia. Sembrava uscita dal libro Cuore, era la mamma e la guida di tutti noi bambini e bambine… Immagino un sorriso ironico sul tuo viso che non vedo da tanti anni. No, io non ero il genere di docente cui affidare una classe di pargoli; neanche per un giorno ho tentato di spacciarmi per maestra. Come tutti i giovani della mia generazione, o forse come tutti i giovani di ogni tempo, ho cercato il modo di dire: «io esisto». Ho cercato di dirlo con il corpo, con l’abbigliamento, con il grido. Ma non mi

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è bastato vestirmi come i miei coetanei, non mi sono bastati l’eskimo o la minigonna. E neanche gridare mi ha dato molta soddisfazione. Io ho trovato nel ballo la prima e duratura espressione della mia esistenza. Non il ballo in generale, non un ballo qualsiasi. Il mio ballo ha un nome: rock and roll. Una passione precocissima. I Beatles erano ancora sconosciuti a se stessi e io, ancora bambina, imparavo a ballare il rock in casa, con i miei fratelli. Carlo, il più grande, era un ballerino fanatico, in certi momenti pareva addirittura tarantolato: si dimenava anche a tavola snodandosi ginocchia e caviglie, battendo il tempo con le posate. Guido, il più piccolo, non era da meno, benché quasi sordo per colpa di quella bomba; bastava mettere la musica a tutto volume e sgambettava anche lui come un indemoniato. La radio era la discoteca di casa. Lì, fra la prima televisione e il primo frigorifero, si facevano volteggi, si provavano frulli e giravolte, insomma i gesti liberatori del rock. Poi la sala da ballo, quella vera, entrò prepotentemente nella nostra vita. Da Bologna facevamo spedizioni verso il Big di Cento, il più celebre fra i ritrovi giovanili della Bassa. In un raggio di almeno cinquanta chilometri, dai paesi e dalle campagne, si accorreva al Big il sabato sera e la domenica pomeriggio. Era quella la nostra Mecca. Noi venivamo giù da Bologna, in volo libero con le nostre Cinquecento. Eravamo una ghenga di ragazzi e ragazze fra i diciotto e i ventidue anni. Io ne

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avevo solo diciassette, ero la più piccola della compagnia, ma mi proteggeva la maggiore età dei miei fratelli, erano loro i miei tutori e guardaspalle. Poi al Big ci si buttava tutti quanti nel cratere fumante della pista. Il rock era una rivoluzione rispetto a tutti i balli precedenti: liberava il nostro magma profondo, muscoli e fantasia si scatenavano. Era una danza esplosiva di potenza e di grazia, ti faceva sentire tigre e farfalla. Uccideva il tedio che ogni giovane ha dentro di sé, il tedio di vivere senza sapere chi sei e cosa ci fai a questo mondo. Fu così che io diventai una rockettara di primissima generazione. In pista mi si notava. Non per niente Elvio Elvis, com’era soprannominato il ballerino più bravo del circondario, prendeva sempre me per compagna. Lui era uno che cambiava ogni volta sala. Si iscriveva a tutte le gare di ballo, e vinceva quasi sempre. Non appena al Big si annunciava un torneo di rock and roll, lui piombava come un falco. Esaminava tutte le ballerine in pista, alla ricerca della migliore con cui fare coppia. Quando la trovava, fissava lo sguardo su di essa, faceva un cenno col capo come per dire: «Andiamo?». Ero sempre io la prescelta. E io andavo. Quando ballavamo insieme, si formava il vuoto intorno a noi; i nostri corpi erano fuochi pirotecnici, sciami di scintille. Deflagravano e piroettavano al ritmo indiavolato di Little Richard o Elvis Presley. Il pubblico si raccoglieva in cerchio battendo il ritmo

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con le mani. E il ritmo ti pulsava nelle viscere. Era una sensazione euforica e allucinante, come danzare sulle nuvole. Tre o quattro volte abbiamo vinto il primo premio. Grande Elvio Elvis! Ancora una dozzina anni fa l’ho incontrato al City, l’unica discoteca di Bologna dove tutti i mercoledì si balla ancora il rock and roll. Credo che andasse per i settanta. Il rock è una passione di cui non ti liberi più per tutta la vita. È come un virus benefico che hai in circolo nel sangue. Quando senti attaccare il basso e il sax, con quegli accordi musicali che ti afferrano l’anima, parte il richiamo della foresta: tu devi andare e vai. Non fa niente se hai passato l’età, se hai i capelli bianchi e le gambe malferme. Al City, Elvio Elvis si aggirava ancora come un falco a cercare l’altra metà del corpo di ballo, e quando mi ha visto, ha fatto il solito cenno col capo: «Andiamo?» E io sono scattata come tanti anni prima. Della sua vita non ho mai saputo nulla, se non che viveva per il rock, e che la sala da ballo era la sua casa. Una casa dalla luce artificiale, uno spazio acustico fuori dal mondo dove si scambiano gesti, non parole. Non ho idea su chi fosse nella vita di tutti i giorni, se possedesse un mestiere, una famiglia. E adesso, che deve aver passato gli ottant’anni, non riesco a immaginare come trascorra le sue giornate, come conviva con gli acciacchi e le sconcezze della vecchiaia. Chissà se la luce psichedelica delle sale da ballo è ancora la sua luce, o se deve accontentarsi della balbuzie luminosa di un neon guasto, alla casa protetta.

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