Viaggio nel vortice

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Narrativa Minerva Collana diretta da Giacomo Battara


viaggio nel vortice Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Francesco Altan, Maria Irene Cimmino © 2013 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. ISBN: 978-88-7381-484-9 Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 www.minervaedizioni.com info@minervaedizioni.com


Giacomo Battara

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Minerva Edizioni



Un bambino può insegnare tre cose ad un adulto: a essere contento senza motivo, a essere sempre occupato con qualche cosa, e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera. P. Coelho



Prima La statale era trafficata La statale era trafficata, puzzolente e mi aveva messo a disagio. Nel caos in cui mi trovavo, mi era sembrato evidente che avrei dovuto imboccare la superstrada, ma la mancanza di fretta mi aveva indotto a scegliere l’altra via. Così, avevo pensato, avrei potuto viaggiare con calma, mettere a fuoco i disordini che mi sconvolgevano la vita, cosa che, in fin dei conti, avrei potuto fare anche comodamente seduto in poltrona o sulla tazza del cesso, il luogo in cui, a detta di molti, il pensiero si può liberare piacevolmente. Devo ammettere però che, in quel contesto, la tanto decantata libertà di pensiero non mi aveva mai neppure sfiorato. Invece no. Avevo preferito scegliere quella strada che mi sembrava di ricordare poco incasinata e soprattutto silenziosa. E il cambiamento voluto d’una abitudine così fortemente radicata, quella appunto di non abbandonare la via vecchia per la nuova, mi aveva indotto a pensare che fosse un segno del destino, che qualcosa si stesse per compiere per proiettarmi in una nuova dimensione: quale, ovviamente non sapevo né potevo immaginare. L’idea che mi circolava per la testa era che nel percorrere quella strada a bassa velocità avrei potuto dare più facilmente un senso alle immagini, poche e sempre ripetitive, che emergevano a piacimento dal nulla, senza che potessi impedire le loro improvvise sortite e, nel contempo, godermi il paesaggio costel7


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lato da paesini senza troppe pretese, ma dignitosi, costruiti a ridosso di ampi squarci di campagna spezzati da lunghi filari di alti pioppi che, probabilmente, avrei rivisto smagriti forse a causa del vento che continuava a battere forte quegli spazi larghi o forse dal tempo che già si stava predisponendo a ficcare quella campagna e tutto il resto dentro la desolazione dell’inverno di pianura. Quella strada l’avevo percorsa molte volte con i miei genitori e mia sorella una vita fa, e giurerei che era spesso muta se non fosse stato per l’eco di qualche campana che batteva le ore, oppure addirittura deserta se batteva le dodici, al punto da sollecitare il silenzio anche tra di noi e invitarci a osservare quel mondo così singolare, pieno di pace, disgiunto dalla nostra nervosa, isterica quotidianità. Per la prima volta avevo pensato che il nastro d’asfalto tortuoso fosse stato messo lì apposta, allo scopo di tagliare a metà quei paesi, con l’intento premeditato e feroce di ridurre l’intimità di quei luoghi, contaminandoli con il rumore dei pesanti tir e dell’infinito scorrere di auto, di soffocarli in una camera a gas a cielo aperto. Da qui a pensare che quei paesi violentati dalla strada su cui stavo transitando rappresentassero in qualche modo la mia anima era stato un attimo, quasi si trattasse d’un automatismo, ostaggio di un desiderio dal vago sapore autolesionistico che mi induceva a ritenere che qualsiasi atto o pensiero facessi si sarebbe sicuramente ritorto contro di me. E mentre osservavo quel nuovo mondo, mi ero reso conto con sgomento che stavo attraversando un tratto di vita 8


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a dir poco complicato; il pensiero di non poterne uscire in modo decente mi aveva spaventato e reso finalmente consapevole della mia fragilità e del fatto che fossi un uomo stanco se non vinto. La mia anima era stata centrata e deturpata dall’esplosione di avvenimenti dai quali non ero riuscito a difendermi, nemmeno a proteggermi un poco e col tempo, quelle vicende dolorose si erano trasformate in callo spesso della mia esistenza che si era aggiunto a un immenso spazio vuoto e buio che occupava gran parte del mio passato. Che cosa mi era capitato di preciso non lo ricordavo perché tutto era avvolto nel buio, in una amnesia nebbiosa. E questo amplificava il mio stato di disagio procurando altri sfregi alla delicata immaterialità della mia anima, tanto da farmi allontanare dalla città per trovare rifugio in una casa colpevolmente abbandonata, situata, e chissà in che stato, a ridosso del mare, luogo prediletto di mia madre e di sua madre, in un tempo quasi dimenticato. Insomma, come si può immaginare, mi trovavo nell’epicentro d’un terremoto interiore che in un attimo aveva spazzato via ogni punto di riferimento, reale o presunto che fosse, e scaraventato in una situazione di malessere così profondo e guasto che qualsiasi cosa non armonicamente disposta in un contesto perfettamente ordinato, finivo per interiorizzarla elaborando nefaste corrispondenze, proprio come il paese violentato dalla strada, dal traffico e dalla stupidità umana. Colpi di clacson esplosi in rapida successione m’invitavano ad aumentare l’andatura, ma quello 9


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era uno di quei rari giorni in cui avevo deciso di ubbidire alle disposizioni dei cartelli stradali e dunque avevo pensato bene di lasciare che i frettolosi mi superassero, senza esporre la consueta e varia gamma di gesti indecenti e idioti e continuare a osservare il mondo intorno: operazione che mi era sembrata subito complicata perché, di nuovo, era emerso potente il ricordo di una vicenda che mi aveva visto protagonista, insieme ad altri, quand’ero ancora piccolo. E dunque, tra uno strombazzare d’auto che mi feriva l’udito e uno sguardo fugace verso la campagna fredda e silenziosa, non potevo fare a meno di pensare a Nerina, La prendo da lontano, mi serve, tanto non ho fretta, mi ero detto mentre guidavo. Nerina era sempre sola. Non saprei dire se per sua libera scelta oppure perché aveva qualcosa dentro di lei di imprecisato che teneva a distanza gli altri, così da ridurla, oso pensare suo malgrado, in una sorta di quarantena scolastica permanente e incomprensibile, perlomeno a me. Quel suo qualcosa di dentro un poco impauriva; dicevano così i suoi compagni di classe che dovevano per forza starle accanto durante l’orario delle lezioni; dopo no, la evitavano prontamente senza che lei in apparenza mostrasse di patire l’isolamento. E questo un po’ mi stupiva e a cui poco credevo. Sensazioni mai tradotte in verità sacrosante. Anch’io ero un suo compagno. Naturalmente la nostra era una classe a doppio sesso, ma se fosse stata a sesso unico nulla sarebbe cambiato giacché i maschi stavano con i maschi e le femmine con le 10


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femmine, divisi da una barriera invisibile ma capace di respingere qualsiasi tentativo di contatto tranne gli sguardi fugaci che spesso si incrociavano in barba a quella cesura impenetrabile; tuttavia non ricordavo d’aver detto e tanto meno pensato una cosa del genere, voglio dire che Nerina in qualche modo spaventasse, per il semplice fatto che quel suo qualcosa di dentro a me non turbava affatto. Anzi, quella sua diversità, rimasta indefinita per sempre, dato che nessuno ha mai potuto capire in che cosa consistesse, paradossalmente aveva avuto il potere di scatenare la mia curiosità ma non quella degli altri. Dunque, Nerina la vedevo avvolta da un velo di mistero che mi ero messo in testa di squarciare, in che modo ancora non lo sapevo. Intanto le stavo a distanza seguendo supinamente l’atteggiamento dei compagni di classe, dato che in branco si riescono a fare cose generalmente sciocche, qualche volta perfino crudeli che altrimenti, voglio dire quando si è soli, non si farebbero e non solo per vigliaccheria. La campagna larga che stavo attraversando mi sollecitava con forza insistente al ricordo e mi induceva alla comprensione di remoti stati d’animo sui quali non mi ero mai seriamente soffermato. Tuttavia il ricordo di Nerina e il contesto nel quale interagivamo presentava contorni non sempre chiari e per giunta i dettagli qualche volta erano sfuggenti. Per questo i motivi profondi che avevano causato il suo isolamento erano rimasti approssimativi nonostante gli sforzi compiuti. È certo comunque che reputavo insostenibile l’idea che tutto fosse dipeso da quel suo qualcosa 11


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di dentro. La constatazione di non essere capace di mettere a fuoco quella situazione l’avevo giustificata ripetendo che era trascorso tanto tempo da allora, al punto che leggere con precisione e catalogare quei moti interiori, miei e dei miei compagni di classe, risultava improbabile oltre che arduo. Sono rimasti, credo per questa ragione, soltanto sentimenti sostanzialmente confusi a causa di una memoria consumata ed ora addirittura smemorata, una memoria che va in cortocircuito facilmente e questo, presumo, non accadeva durante il periodo della mia vigorosa fanciullezza. Ora invece la mia memoria ferita ha fatto sì che spezzasse il tenue filo della continuità evocativa con il risultato di conservare incomprensibili i comportamenti e i sentimenti che concorsero a ridurre Nerina in una emarginazione a dir poco spietata come solo i bimbi sanno condurre a compimento, perché sono spontaneamente e terribilmente diabolici, di più ancora, ripeto, se agiscono in combriccola. Invece il ricordo di lei, voglio dire il suo profilo, i suoi gesti e soprattutto il suo sguardo, mi risultava nitido, lo è sempre stato e lo è tuttora. Qui la memoria adulta non ha mostrato falle vistose e nemmeno è andata in tilt. Sorprendente, vero? Nerina se ne stava seduta accartocciata sul vecchio bancaccio di metallo e legno scuro come lei, che lassù sembrava volersi confondere. Prima elementare, primo banco, fila di mezzo, a guardare proprio al centro la cattedra della maestra Cavallacci, grembiule nero, fiocco bianco, puntigliosamente immacolato. 12


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Nerina là seduta ci stava da sola, unico caso nella nostra classe, per decisione irrevocabile della Cavallacci e, per ironia della sorte, il suo nome, voglio dire quello di Nerina, corrispondeva incredibilmente alla sua esteriorità: capelli folti, ondulati, del colore della pece, carnagione scura, ma non olivastra, occhi neri e talmente luminosi che sembravano fossero sempre sul punto di piangere, e forse lo erano anche. Se non fosse stato per via del suo sguardo scintillante, Nerina sarebbe apparsa proprio come un globo a sé, scuro, confondibile; invece quelle due luci brillanti come le stelle piantate nel mezzo, contraddicevano la natura stessa di quel globo incapace di riflettere luminosità, rendendolo, invece, tanto vivo e pulsante di vita. Ecco perché Nerina, vista di spalle, era un tutt’uno con il banco. Almeno a me pareva che fosse così. Come dicevo, la ricordo ancora con una certa continuità; voglio dire solo il suo viso e la sua espressione, soprattutto durante le mie notti insonni, come una macchia scura che ogni tanto si muove liberando scintille di luce, che si agita giusto il tempo di un respiro per poi subito ricomporsi e ritornare nella sua staticità d’oggetto muto ma vivo, pensante, addirittura enigmatico nella sua fragile compostezza. Io stavo seduto insieme a Luca nel secondo banco della fila di destra; le file erano tre, dunque dalla mia postazione vedevo Nerina quasi sempre di spalle, tranne qualche volta, quando si agitava, appunto, in cui stava di profilo ma mai del tutto, per via dei suoi capelli che non erano quasi mai raccolti e che la seguivano in ogni movimento, oscillando e coprendole il volto, una volta a destra, una volta a sinistra. 13


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Insomma, si trattava di visioni che duravano attimi. Nerina si agitava spesso, non solo qualche volta a rifletterci bene, ma non era il corpo ad esprimere agitazione bensì certi sussulti interiori che il respiro amplificava, ed io, che la tenevo sempre sotto controllo prestandole attenzione con l’orecchio perché l’occhio doveva restare piantato sulla Cavallacci, li avvertivo quei suoi sussulti. Questo le accadeva ogni volta che, all’improvviso, una delle tre finestre che si affacciavano sulla strada si apriva cedendo ad una bizzarra e potente folata di vento, o se entrava in classe la bidella con una tazzina di caffè bollente per la maestra, se cadeva un quaderno sul pavimento, se una macchia di inchiostro precipitava sul foglio e certamente ogni volta che la Cavallacci le piantava i suoi occhi acquosi addosso, in una specie di rimprovero glaciale del tutto identico al suo corpo, che a me sembrava senza senso oltre che sgradevole. Tuttavia lo sguardo della Cavallacci creava quasi sempre uno stato di agitazione collettiva che qualche volta produceva incontrollabili rossori e precipitazione dalla fronte di fitte e piccole gocce di sudore. La Cavallacci non era prevedibile e quando dirigeva i suoi occhi stinti diritti sui nostri, era capace di iniettare giganteschi sensi di colpa. Ma quale colpa? Non lo sapevo, nessuno lo sapeva, ma questo era ciò che dicevamo durante l’intervallo e anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Correva voce, e non ricordo come fosse uscita fuori questa diceria, che se la Cavallacci avesse soltanto sfiorato qualcuno di noi con le sue dita secche e legnose, beh allora quello sventurato si sarebbe potuto considerare fritto, perché tutto gli sareb14


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be girato per il verso sbagliato, almeno per quella mattinata di scuola e forse anche per più giorni. Per giunta quando la Cavallacci parlava, e per forza che parlava, esibiva una erre moscia oltremodo stonata, e le sue tiritere quotidiane, di cui naturalmente ne erano ricche, ci imponevano l’ascolto di sinfonie maledettamente irritanti. L’insopportabilità della sua voce corrispondeva precisamente all’insopportabilità della visione del suo aspetto fisico. Non che fosse orrenda d’aspetto oltre che glaciale nello sguardo, era l’insieme ad essere orrendo. Questa, voglio dire la sua voce, era stata una delle ragioni che mi aveva indotto a non voler scegliere, successivamente, come lingua straniera, il francese, in cui il rotacismo, avevo sentito dire, era quasi un vezzo più che un difetto e quindi assai bene accolto dato che conferiva eleganza alla pronuncia. Luca mi chiedeva, più o meno ogni giorno di scuola, se secondo me la Cavallacci era così anche a casa e io gli davo sempre la stessa risposta: sì, perché quella è nata così. Però se la Cavallacci fosse sposata e avesse figli o condividesse con qualcuno la sua esistenza, nessuno di noi primini lo sapeva, né in fin dei conti ci interessava più di tanto. In quinta elementare, undici anni appena compiuti, avevo chiesto a mia madre se poteva immaginarsi la Cavallacci montata da un uomo. Mi aveva risposto con uno sguardo smarrito, più o meno come era il mio. Sì, avevo insistito, perché gli uomini montano le donne, ma ci sono anche uomini che vanno con altri uomini e donne che giacciono con altre donne e ancora, uomini che cavalcano uomini ma anche donne. Lo smarrimento di mia madre si 15


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era trasformato presto in pallore. Avevo toccato un tasto dolente? Chi ti ha detto queste cose?, mi aveva chiesto. Luca. Lui le sa perché suo padre e sua madre gli hanno spiegato come gira il mondo, soprattutto come gira il mondo nascosto, avevo risposto. Mia madre, evitando di incrociare il mio sguardo, mi aveva assicurato che prima o poi me ne avrebbe parlato ma a tempo debito, cosa che non avvenne mai, naturalmente. Nerina faceva fatica a salire sul banco e quasi sempre ci riusciva soltanto dopo un prolungato sforzo. Qualche volta scivolava, era come se le mancassero le forze e guardava il suo banco con lo stesso sguardo impaurito e stanco di chi teme di non farcela a scalare l’immensa montagna che ha di fronte, ma sa che deve superare l’ostacolo perché è al di là della cima che c’è la sua meta. Eppure il suo fisico sembrava integro e la sua altezza nella media generale delle femmine della classe. E noi restavamo lì a guardare, immobili, silenziosi, tutti i suoi sforzi, forse facendo il tifo per lei o forse no. Avevo sentito dire che il suo affanno era interiore e non sapevo se era questo che generava quei sussulti che venivano amplificati dal suo respiro. In realtà non avevo ben compreso il senso di quelle parole, ma mi piaceva pensare che a pronunciarle fosse stata la bidella Marianna e che dunque doveva essere proprio così come diceva dato che la consideravo come il mio armadio umano dentro il quale ficcavo volentieri, ma non soltanto io, le mie lacrime e le 16


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piccole sofferenze scolastiche e non solo, compresa la richiesta di un aiuto per i miei improvvisi mal di pancia che mi obbligavano a corse precipitose nel bagno della scuola che era sempre gelido. Nella rivisitazione di quel tempo, uno dei pochi momenti che ricordavo senza vistose approssimazioni era spuntata la mattina in cui la scalata al banco si era presentata più ardua del solito, facendo fare a Nerina un supplemento di fatiche che presto avevano indebolito la sua resistenza e causato un respiro più marcato e penoso tanto che avevo deciso, ubbidendo a un moto spontaneo, di aiutarla. E dunque d’istinto mi ero alzato ed ero sgusciato dal banco. Aveva ricomposto la situazione lo sguardo della Cavallacci fulminandomi lì, accanto al banco, e facendomi accelerare il battito cardiaco. Avevo rinunciato, castrato il mio istinto, e per questo mi ero vergognato per aver ceduto senza resistere nemmeno un poco allo sguardo duro di quella donna che reputavo senz’anima. Non ho mai saputo se la Cavallacci mi aveva guardato in quel modo, in realtà era il solito modo, perché mi ero alzato senza il suo permesso o perché la spontaneità del mio gesto l’aveva stupita. È certo che provavo per la Cavallacci un sentimento misto di paura e odio; non di rispetto, direi con maggiore consapevolezza oggi, intuendo fin da allora le differenze tra rispetto e paura, odio e affetto, anche se non avevo per nulla chiare nella testa le sfumature che caratterizzano le categorie di bene e male. Se mi avessero chiesto conto della Cavallacci avrei detto senza dubbio che era una donna crudele e senz’anima, ripetendo a pappagallo le stesse paro17


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le che casualmente avevo udito desolatamente pronunciare dalla madre di Nerina a Marianna, dopo aver terminato un colloquio improvvisato lì per lì con la maestra a fine mattinata, cosa che non era mai successa perché di solito erano stabiliti per tempo e avvenivano sempre durante le prime ore del pomeriggio. Le due donne si erano incontrate in una giornata di mezzo inverno piuttosto brutta complice la fitta nebbia e umidità. Io e Luca avevamo pensato che l’origine di quell’incontro fosse stato generato da qualcosa di grave che a noi era sfuggito, o a causa del profitto della mia compagna di classe, evidentemente giudicato scarso da quel mostro della Cavallacci. A me però non sembrava che il profitto di Nerina fosse tanto scarso, dato che io stesso non facevo meglio di lei e nemmeno Luca che era considerato un mezzo genio. Ciò che mi aveva colpito in quella circostanza era stato il volto piuttosto serio di Marianna, per sua natura portato al sorriso, dispensatrice di affetto distribuito in ugual misura nei confronti di tutti. Marianna diceva che Nerina non era giusta e che per questo dovevamo aiutarla, tutti noi della classe dovevamo aiutarla. Non era giusta? Che cosa vuol dire che non era giusta, avevo chiesto a Marianna una mattina durante la ricreazione in cui mi era piombato addosso, e a tradimento, uno dei miei frequenti mal di pancia, tanto che Marianna aveva dovuto accompagnarmi con una certa urgenza al bagno. Non è giusta, no, ha dei problemi a casa, aveva ribadito Marianna. 18


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Quali problemi?, le avevo chiesto. Non lo so e poi sono cose delicate... mi aveva risposto. Poiché quelle parole le aveva pronunciate Marianna, avevo pensato come al solito che dovesse essere proprio come diceva lei e non le avevo posto altre domande, consapevole che tanto non avrebbero avuto risposta. Aiutarla, avevo detto a Luca, è una parola, ma come facciamo? Comunque questo era il suggerimento di Marianna e così durante la ricreazione avevamo passato parola. Il fatto è che in seguito non era accaduto proprio nulla e le cose per Nerina erano andate come sempre. Continuava ad arrampicarsi sul banco con grande affanno, a restare emarginata durante la ricreazione, ad essere poco considerata dalla Cavallacci, perlomeno a me sembrava così. Eppure Nerina era lì, con la sua massa di capelli scuri e ondulati, con i suoi grandi occhi neri e persi non so dove e quasi sempre meravigliosamente lucidi. Era lì, ma non saprei dire se prestasse attenzione alle tiritere della Cavallacci o se fantasticasse su un suo possibile mondo diverso, pieno di colori e fate e gnomi e giochi da fare insieme ad altri bambini. A me qualche volta succedeva di perdermi in quei mondi anche durante le ore di lezione, nel tentativo straordinario di replicare ciò che mi sembrava d’aver sognato durante la notte. Secondo me fantasticava, secondo Luca no. Luca mi aveva raccontato che anche lui spesso fantasticava, soprattutto prima di dormire, e confessato che qualche volta lo faceva anche durante le lezioni. 19


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Dunque perché non avrebbe potuto farlo anche Nerina? Certo che fantasticava avevo replicato a Luca che, alla fine, non sembrava più tanto sicuro di ciò che aveva detto. Il fatto è che Nerina sembrava vagasse chissà dove continuamente, per tutta la mattina, e la prova l’avevamo avuta un giorno in cui la Cavallacci, deviando dal suo percorso abituale, aveva fatto una domanda a cui Nerina non aveva risposto. Era rimasta immobile e muta a fissare la maestra come se non avesse inteso o, forse, pur avendo capito, con l’intenzione precisa di non rivolgerle la parola. La Cavallacci si era infuriata e l’aveva presa a male parole, ma non solo lei, anche noi. Ero sicuro che Nerina avesse pianto, un pianto composto, silenzioso, invisibile. Io però mi ero accorto che una lacrima grossa come una perla era precipitata sul quaderno e avevo visto, alla fine della lezione, che una parola, scritta con un pennino dalla testa grossa, si era spezzata cedendo parte del suo nero all’acqua appena salata che aveva dato l’avvio ad una macchia grigia, dalla forma bizzarra che non assomigliava a nulla o forse a una nuvola dai contorni frastagliati. Le vicende della mia compagna di classe costituivano l’argomento principale delle mie chiacchierate pomeridiane con mia madre, tendenzialmente disposta ad ascoltarmi e a dire la sua. Naturalmente l’altro argomento di discussione contemplava a pieno titolo la Cavallacci che mia madre considerava eccessivamente rigida anche se, sottolineava, ci faceva fare vigorosi passi in avanti nell’apprendimento, segno delle sue indubbie capacità d’insegnamento. 20


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Dunque un colpo alla botte e uno al cerchio: Nerina, ma non solo lei, doveva impegnarsi di più per non mettere a rischio l’anno scolastico e la Cavallacci doveva mostrarsi più comprensiva; già, ma chi glielo diceva? Per mia madre la ricerca di un equilibrio era fondamentale e lo era stato sempre, per tutta la sua esistenza, nonostante le oscillazioni imposte dagli eventi avessero ridotto di molto le possibilità di mantenersi abbastanza salda sui piedi. Peccato, avevo pensato, perché io avrei voluto che mia madre, insieme a me, condividesse la speranza che la Cavallacci potesse rovinare a terra rompendosi una gamba, magari in più punti. Un incidente che le avrebbe impedito di venire a scuola almeno per tre o quattro mesi e nel contempo imposto una sostituzione, forse con Marianna, come capitava qualche volta, anche se si trattava soltanto di pochi minuti. Alla fine avevo concluso che non potevo attendermi da mia madre questa condivisione, dato che sapevo benissimo che non tollerava le persone che desideravano il male altrui. La pensava così per convinzione propria e non per una piana, abitudinaria applicazione di regole morali o di condotta imposte dalle convenzioni. Ricordo bene che ad un certo punto dell’anno scolastico io e Luca avevamo gettato il cuore oltre l’ostacolo, come si dice, e preso l’abitudine di andare da Nerina durante l’intervallo. Poiché lei non abbandonava mai la sua postazione come se temesse di non poterla più raggiungere in caso di allontanamento, ci era venuto spontaneo andare noi da lei. Forse voleva21


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mo fare amicizia, forse obbedivamo alle esortazioni di Marianna, forse volevamo sfidare quel suo benedetto qualcosa di dentro che tanto turbava Luca e gli altri compagni d’avventura, forse, forse non lo so, so soltanto che io mangiavo la mia merenda, Luca la sua e Nerina anche, scambiandoci nel contempo vicendevoli occhiate indagatrici, ma quasi mai parole. Qualche volta io e Luca ci scambiavamo la merenda, ma il baratto con Nerina era impossibile, lo rifiutava puntualmente con una breve oscillazione del capo e un sorriso che a me pareva stupefacente. Francamente non so che cosa trovasse di così straordinario in quelle fette di pane che trattenevano agevolmente un filo di marmellata che ogni tanto tuttavia debordava dai lati, appiccicandosi alle dita che prontamente si puliva, leccandole. Finalmente Luca era stato abbagliato dagli occhi neri e poi dal sorriso della nostra compagna di classe. Però insisteva nel dire che, dopo tutto, Nerina non fosse quella bellezza che io invece affermavo essere con molta convinzione. Il fatto è che io volevo bene a Nerina e la vedevo bella, le volevo bene e basta. Voglio dire senza una ragione specifica, come se fosse stata mia sorella Francesca più grande di noi di sei anni e di sicuro assai carina, dato che giravano intorno a lei gruppetti di ragazzi con la bava alla bocca. Anche Luca si era beccato una cotta micidiale per mia sorella perché ogni volta che la vedeva, e succedeva quando veniva a fare i compiti in casa mia, il viso gli diventava di un bel rosso fuoco, si agitava, si distraeva e riusciva a concludere gli impegni scolastici con molta fatica. 22


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Francesca pensava a studiare e a correre, anche se bastava camminare e questa sua iperattività in qualche modo mi aveva frustrato al punto che quando era necessario andar di fretta mi trascinavo stancamente. Per questo aveva cominciato a chiamarmi pigro, e in breve tempo questo era il soprannome che mi aveva appioppato l’intera famiglia, tranne mio padre che non mi chiamava né pigro né Enrico. Come mi chiamava? A mia madre diceva: tuo figlio e bla bla bla. Rivolgendosi a me iniziava la frase con un verbo che finiva con un punto interrogativo, del tipo: hai mangiato?, hai studiato?, oppure: chi ti ha detto di fare questo? Tua madre ti deve accompagnare dal medico, vedi di comportarti in modo decente! E robe del genere. Una sera avevo raccontato a Francesca di Nerina. Mi aveva ascoltato attenta e poi mi aveva detto che sarebbe stato bello se l’avessi invitata a giocare al parco la prima domenica di bella stagione. Non ci avevo pensato e l’idea mi era sembrata geniale. Buon per me che eravamo prossimi alla primavera e che qualche giornata decente l’avevamo già assaporata e il futuro, naturalmente, prometteva bene. Non mi restava che armarmi di una buona dose di coraggio e invitare Nerina al parco che si apriva accanto alla scuola, non lontano da dove abitavo, il che non era male perché se fosse venuto il cattivo tempo all’improvviso avremmo potuto ripararci a casa senza troppi fastidi. Cosa che feci un sabato mattina con grande imbarazzo, durante l’intervallo. È proprio a due passi dalla scuola... le avevo detto, come se lei non lo sapesse. 23


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Non mi aveva detto sì ma neppure no. Mi aveva lasciato appeso all’incertezza. Non lo so, devo chiedere a casa, mi aveva risposto. In ogni caso io sarò là per le undici. Spero di incontrarti... avevo timidamente sussurrato, concludendo la nostra brevissima chiacchierata. Al parco c’ero arrivato per tempo accompagnato da Francesca che poi se ne era andata per i fatti suoi e avevo atteso Nerina per più di un’ora. Ma niente, di Nerina nessuna traccia e c’ero rimasto male. Da allora non l’avevo più invitata. Lei era rimasta sempre seduta al solito posto, io e Luca, immobili, nel nostro. I nostri sguardi si incrociavano soltanto durante la ricreazione. Mentre guidavo mi sforzavo di ricordare il tono della sua voce, ma inutilmente. Persisteva invece la luminosità dei suoi occhi scuri; li ricordo anche adesso, dopo un secolo che non la vedo; nulla di lei si è perso col trascorrere del tempo e dei nostri anni che ancora non so se sono stati felici o quasi felici.

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Guidavo da più di tre ore Guidavo da più di tre ore, accompagnando dolcemente le curve con il busto come fanno i vecchi. Spiando il mondo intorno mi ero reso conto che stavo attraversando un tratto di pianura particolarmente cupa, così triste che avevo pensato fosse assolutamente dimenticabile. A meno che non mi fosse sfuggito l’indimenticabile, per via dello sguardo implacabile di Nerina che assorbiva tutti i colori intorno. Un cartello mi diceva che mancava poco alla meta. Qualche chilometro ancora e poi avrei incrociato un altro cartello con l’indicazione lido e poco oltre, la strada sulla destra, stretta, che mi avrebbe condotto, dopo un paio di chilometri, a casa. Tra un senso di frustrazione e una gigantesca incognita verso la quale persisteva a tendere il mio futuro a passi spediti, mi ero ritrovato tra quelle vecchie mura, a scartabellare senza ragione dentro i cassetti, così, tanto per rendermi davvero conto che quel luogo era mio e prima era appartenuto alle persone che avevo amato e che ora non ci sono più, o perché il loro tempo era scaduto o perché il loro destino aveva voluto evitare di intersecarsi con il mio più adulto, ammesso che sia il regista della nostra esistenza. Ma non sono ancora sicuro che le cose stiano veramente così, voglio dire che l’artefice della nostra esistenza sia veramente il fato e non noi stessi attraverso le azioni che compiamo o non compiamo, o i pensieri che evitiamo di fare per comodità o vigliaccheria. 25


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