Wembley in una stanza

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A Lina, Matilda e Camilla


Wembley in una stanza di Fabrizio Ghilardi Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Editor: Giacomo Battara © 2010-2011 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Edizione 2010 Seconda Edizione 2011 ISBN:978-88-7381-352-1

Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com


Narrativa Minerva collana diretta da Giacomo Battara

Fabrizio Ghilardi

WEMBLEY IN UNA STANZA

Minerva Edizioni



Presentazione

Una volta un mio amico che non è un critico letterario ha recensito un mio libro. In Italia succede molto ma molto più spesso di quanto non si pensi, però questo mio amico ha avuto l’onestà di premettere che al di là del fatto che non essendo un critico letterario non aveva competenze specifiche, proprio in quanto mio amico non avrebbe dovuto recensirlo. Tuttavia, non era riuscito a trattenersi dal farlo, perché il libro in questione era il libro che lui avrebbe voluto scrivere e che però non aveva mai scritto. Detto questo, io di norma scrivo libri, o più raramente li traduco, non scrivo prefazioni. E a maggior ragione non dovrei scrivere questa prefazione, visto che il libro che tenete in mano in questo momento l’ha scritto un mio amico. Solo che non riesco a trattenermi dal farlo. Anch’io infatti avrei voluto scriverlo, ma non l’ho mai scritto perché tanto per cominciare pur avendo giocato innumerevoli volte a Calciobalilla non ho mai giocato a Subbuteo. Ora, lo so. In teoria chi è cresciuto con l’uno non dovrebbe avere alcuna dimestichezza con l’altro. Non solo. Di solito i giocatori di Calciobalilla non riescono a capire come ci si possa divertire giocando a Subbuteo, e viceversa. Vige una sorta di reciproco snobismo, ed è assai raro che si verifichino contaminazioni. Eppure io che a Babbo Natale il Subbuteo non l’ho mai chiesto mi sono divorato la storia dei due protagonisti di Wembley in una stanza, e ho riso e mi sono commosso assieme a loro, e grazie a loro ho riscoperto un mondo. Un mondo 5


che è quello degli anni spesso terribili a cavallo tra due decenni come i Settanta e gli Ottanta, e però visti attraverso gli occhi di due bambini spesso chini sul tappeto verde, pronti a snocciolare formazioni ormai mitiche e a farsi ogni sorta di dispetto, come spesso accade tra fratelli nonché rivali in quella cosa serissima che è il gioco, ma anche capaci di spiazzare il lettore con la loro innocenza e con il loro senso dell’umorismo, innegabilmente intriso di romanità. L’infanzia scivola nell’adolescenza tra battute e scene esilaranti, con l’inevitabile corollario di dubbi esistenziali e tempeste ormonali, salvo poi ritrovarsi a puntare la porta avversaria convinti di farlo meglio se la propria squadra schiera un omino la cui “identità molecolare” risponde al nome di George Best. Oltre gli spalti, l’universo degli adulti, incarnato soprattutto dai genitori, dagli insegnanti e dal nonno, l’unico che in fin dei conti sappia mettersi in ascolto dei due protagonisti, non solo perché è lui a regalare loro l’agognato (in un primo momento, soprattutto dal narratore) Subbuteo. Ma all’universo degli adulti appartiene anche la realtà che incombe sui sogni di gloria calcistica o almeno subbuteistica dei due fratelli. E pagina dopo pagina scorrono nomi e volti sedimentatisi in bianco e nero nella nostra memoria collettiva, ormai lontani: da Luciano Re Cecconi a Bobby Sands, passando per Margareth Thatcher e Aldo Moro, di cui nessuno aveva ancora raccontato così il rapimento. Non mancano naturalmente miriadi di calciatori italiani e stranieri, di ogni serie e campionato, con sullo sfondo una tivù fatta di due soli canali dove Paolo Valenti conduce Novantesimo Minuto, ma da cui entrano nelle case degli italiani anche il mago Silvan, Ernesto Calindri e Loretta Goggi, per tacere di Ugo Pagliai, protagonista all’epoca dello 6


sceneggiato Il segno del comando, o di Renée Longarini, che con Enzo Tortora conduceva Portobello. Così, poco per volta, mentre si completa l’album delle figurine Panini e la Lazio diventa Campione d’Italia 1974, prende forma un vero e proprio catalogo, e non so voi ma da parte mia adoro i libri-catalogo. Terminato un anno scolastico, ecco le vacanze in Ciociaria, in attesa di crescere un altro po’ e di farle in Scozia, anche se poi si finisce sempre per desiderare di tornare a Roma. E mano a mano che ci si avventura nel mondo dei due protagonisti, destinati un giorno a crescere malgrado la malattia del calcio in punta di dita li abbia contagiati per non lasciarli mai più, ci si affeziona alle loro voci inconfondibili. Insomma: grazie a Fabrizio Ghilardi e al suo Wembley in una stanza non mi sono solo infine fatto un’idea delle altrimenti incomprensibili regole del Subbuteo e dell’immaginario dei suoi giocatori, ma mi sono anche divertito, ed emozionato. Poi, certo, il Calciobalilla è tutta un’altra cosa. Giuseppe Culicchia

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Introduzione

Fabrizio Ghilardi è uno scrittore. Non solo: è un ribelle, un sognatore, un fuggitivo. Un cantastorie, un bracconiere di memorie, uno che affronta il presente recuperando coriandoli e bagliori del passato. È un mio amico, di quegli amici che ci sono nei momenti che contano, e non per sentito dire o per obbligo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo in occasione di una presentazione, a Roma, alla libreria Feltrinelli, di un romanzo di Giuseppe Culicchia, tra i nostri narratori più autentici, più forti: mi colpì, di Fabrizio, il suo senso dell’ironia, quel suo modo di interpretare la vita con leggerezza, con intelligenza. Da quel momento, ci siamo incrociati e capiti. Con tanti discorsi e passioni in comune. Compreso quel Subbuteo, così presente in questo suo libro, un libro che si gusta come una bella partita, che quando è finita, tra gol incredibili e parate strepitose, tiri all'incrocio dei pali e autogol memorabili, dici: che peccato, il tempo è passato così in fretta! Non sono mai stato un gran giocatore di Subbuteo, Fabrizio, invece, è un campione, uno che in punta di dita si comporta come Mané Garrincha con la sua imprevedibile e romantica finta o come Diego Armando Maradona con il suo sinistro scheggiante. Ma nel 1974, l’anno della mia maturità e dei mondiali tedeschi (quelli della nostra umiliante uscita di scena al primo turno e del bel romanzo di Giovanni Arpino “Azzurro tenebra”, del successo della Germania Ovest del tracagnotto Gerd Müller sull’Olanda “rivoluziona9


ria” del genio malinconico Cruyff ) mi provai a lungo sul tappeto verde, schierando il mio Brasile e cercando di mandare a rete il centravanti Leivinha, stella, a quell’epoca, della mia squadra del cuore paulista, il Palmeiras di San Paolo. Furono giorni di felicità, con i miei compagni di classe a trascurare Hegel e la chimica per tentare, con quei giocatori dondolanti, il tiro ad affetto, il colpo imparabile. Tutti promossi, comunque, alla fine. Le pagine di Fabrizio mi hanno riportato a quella stagione epica. Che era una stagione di sogno e di ribellione, di quando la giovinezza ci sembrava lo scrigno di tutte le meraviglie del possibile. Di quando noi ragazzi leggevamo Hemingway e Kerouac e conoscevano a memoria l’incipit di “Howl”, ascoltavamo Fabrizio De André, Francesco Guccini e Claudio Lolli, scendevamo in piazza al fianco degli operai della Fiat Mirafiori in sciopero, degli studenti cileni e dei contadini vietnamiti. Sì, c’era il Subbuteo: ma c’erano anche i tornei studenteschi di pallone (per tre volte vinsi la classifica dei cannonieri), “Contessa” di Paolo Pietrangeli, le rovesciate di Pietro Anastasi, i fumetti di Tex Willer, e quanto amavamo le vittorie di Aquila della Notte contro i soldati arroganti e i venditori di odio e di morte, i massacratori di indiani. “Wembley in una stanza” ci porta in tante altre stanze. Nella stanza da letto dove io e mio fratello Fabrizio (Fabrizio: guarda caso) giocavamo a calcio, con due sedie a fare da porta e le calze arrotolate a comporre in un qualche modo una palla. Lui del Toro, io della Juve. A imitare le voci di “Tutto il calcio minuto per minuto”, e a calmarci soltanto quando sentivamo girare la chiave della porta d'ingresso all'arrivo dei nostri genitori. E, 10


tutti sudati, eccoci pronti a rigettarci sui libri di testo, con ancora in testa un pallonetto di Paolino Pulici o un dribbling di Helmut Haller. Già, che scherzo mi hai fatto Fabrizio Ghilardi! Con questo romanzo mi hai permesso di viaggiare a ritroso nel tempo, tra calcio e politica, amori e letteratura, figurine Panini e campioni, mezzi campioni, carneadi, brocchi, scudetti vinti e scudetti persi, e certe storie, a Roma o a Torino, a Palermo o a Trieste, sono comuni, riguardano avventure e desideri e che hanno, comunque, un filo conduttore, le stesse nostalgie e, a volte, gli stessi rimpianti. “Wembley in un stanza” compie, dunque, questo miracolo: esce dal “particolare” per diventare universale. Per questo lo leggo e lo rileggo. Spiegando a mio figlio Santiago come erano, in ogni caso, indimenticabili quei giorni là. Di quando suo padre era un ragazzino con l’universo e le stelle in tasca. Darwin Pastorin

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Even at the age of ten Smart boy Kevin was a smart boy then He always beat me at Subbuteo Cos he flicked the kick And I didn’t know My Perfect Cousin, The Undertones

Don’t cry Don’t raise your eye It’s only teenage wasteland Baba O’ Riley, The Who

Eh che maniere! Qui fanno sempre così perché loro sono grandi e io sono piccolo e nero. È un’ingiustizia, però! Calimero

Alcune delle più incredibili storie d’amore che io conosca hanno avuto un protagonista solo. Wilson Mizner


Capitolo primo In cui si racconta di quando acquistammo le prime squadre di Subbuteo e io confusi i pantaloncini bianchi con quelli neri. 19 dicembre 1975 “Se tu scrivi una letterina a Babbo Natale, forse ci porta il Subbuteo” – propongo all’improvviso a mio fratello, mentre fa merenda, il suo momento di maggiore debolezza. “Non so scrivere” – risponde seccato per l’ammissione colpevole. “Ma puoi sempre mandare un disegno a Babbo Natale. A lui i disegni piacciono moltissimo”. “Lo so, me l’ha detto pure Suor Nunziatina che gli piacciono i disegni dei bambini”. “Anzi, ha detto Suor Nunziatina che se disegniamo quello che ci piacerebbe ricevere in dono, ci pensa lei a far avere il disegno a Babbo Natale” – aggiunge mio fratello che è caduto nella trappola. “Ottimo! E che disegni?” – chiedo facendo finta di essere interessato quanto basta a sciogliergli la lingua senza insospettirlo. Se mi tradissi potrebbe non accettare di mandare a Babbo Natale un disegno raffigurante una scatola di Subbuteo, anzi due, e relativi giocatori in miniatura, casomai Babbo Natale le portasse vuote. Con i vecchi non si sa mai. “Voglio disegnare una macchina”. 13


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“E che ci fai con una macchina?” – la faccenda si complica – “Mica puoi guidare”. “Ci gioco, che ci faccio? Ma perché t’interessa quello che voglio per Natale? – inizia a farsi sospettoso. Devo distrarlo. “Per non chiedere a Babbo Natale le stesse cose”. “E tu, che hai scritto nella letterina?”. Io non ho scritto un bel niente. Inizio a sudare. “Cavolo” – gli dico – “ho scritto che siccome tu non sapevi scrivere, gli chiedevo per te una macchina”. “Che tipo di macchina?” – mi fa interessato più al regalo che alle mie premure. “Una Ferrari?” – provo io. “Perché una Ferrari? Non mi piace. Voglio una Lamborghini Miura. Gialla”. È deciso a farsi rispettare. Non so nemmeno cosa sia la Lamborghini Miura. Ma lui che evidentemente non sa leggere ma sfoglia Quattroruote, continua: “È la macchina di Little Tony, di Bobby Solo, hai presente?”. “Sennò, voglio una Manta turbo. Rossa”. “Vabbè, ci penso io. Glielo dico io a Babbo Natale” – comincio ad essere stanco di questa chiacchierata inutile. Non disegnerà niente, lo sento. Tento l’ultima carta: “E comunque per chiedere la Ferrari per te, mi sono dimenticato di scrivere a Babbo Natale che avrei voluto il Subbuteo. Capisci, mi sono dimenticato di chiedere a Babbo Natale il mio regalo, il Subbuteo!”. Sto perdendo la calma. 14


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“Non ti preoccupare glielo dici quando gli spieghi che voglio la Miura o la Manta invece della Ferrari”. È troppo logico. È invincibile. Quasi quasi gli dico che Babbo Natale non esiste. Alla fine è nonno, a decidere di comprarci il Subbuteo, senza passare per l’intercessione di Babbo Natale e i disegni di Suor Nunziatina. E prima che venga celebrata la nascita del Bambino Gesù. Nel pomeriggio, dopo aver fatto tappa al bar “Due scalini” e all’edicola dei giornali per acquistare i venti pacchetti canonici di figurine dei calciatori Panini, dopo aver assistito alla litania del ce-l’ho-mimanca-ce-l’ho, nonno guida la spedizione al negozio Casa Mia. Un quarto d’ora mi separa dal mio massimo desiderio. In silenzio, per mano a nonno ci mettiamo in marcia. Vorrei correre, ma per lui non sarebbe una faccenda facile starci dietro. Sembra di procedere alla velocità del rallenty di Novantesimo Minuto. E il sogno si materializza lentamente. La lentezza del viaggio favorisce le allucinazioni. Comprerò la Lazio, il Liverpool, il Torino e la Germania Ovest. Insomma giocheranno sul mio campo del Subbuteo i più grandi campioni del football! In testa ho una lista infinita di partite, gol, parate, azioni. Arriviamo stanchi come se avessimo disputato tutte le partite dell’intero campionato di Serie A in un solo giorno, ma mi godo il momento. Entriamo e ci avviciniamo solennemente al bancone dove una signorina tiene alle proprie spalle una muraglia di scatolette verdi, oltre a diversi altri articoli accessori. Porte, palline, campi, staccionate. 15


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Nonno ci lascia curiosare dopo aver chiesto cortesemente il permesso alla commessa. Mio fratello impiega quattro secondi netti a trovare la scatola che contiene la Juventus. Non mi spiego come abbia fatto. Non sa leggere, non sa scrivere – altrimenti avrebbe chiesto lui stesso la Lamborghini a Babbo Natale – eppure riconosce la sua squadra dal lato corto della scatola, proprio dove sono scritti il numeretto del codice e il nome della squadra. E se mi avesse mentito fino a questo momento? Magari sa leggere e pure scrivere. Ho il sangue agli occhi. Non trovo la Lazio. “Ti sbrighi?” – mi dice lui, cercando pure lo sguardo compiaciuto della commessa che vorrebbe fare altro, ma che è lì impietrita perché secondo me ha capito che ho l’occhio criminale e potrei rubarmi tutta la parete non so come, ma potrei. Mi concentro nella ricerca e lo ignoro. Ignoro pure gli sguardi sospettosi della signorina. “Ti sbrighi, voglio andare a giocare”. Lo guardo brutto. Non trovo la Lazio, sto male. Ricomincio a guardare le scatolette. La Lazio non c’è. “Non trovi una squadra che ti piace, bambino?” – mi chiede la commessa. Arrossisco. “In verità non trovo la Lazio”. “Finalmente ti sbrighi a chiederla, tanto non c’è. Compra il Liverpool” – si inserisce nella discussione mio fratello. Divento ancora più rosso. Più rosso della maglia del Liverpool. 16


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‘Che ne sa st’analfabeta se c’è o no la Lazio’, penso tra me e me. “Adesso controlliamo. La Lazio ha il codice numero 5. Ne ho vendute tre scatole stamattina, me lo ricordo. Aspetta che vediamo”. ‘Ne ha vendute tre scatole’, penso io. Bene, tre bambini della Lazio. Male, se mio fratello l’analfabeta che scrive di nascosto le lettere a Babbo Natale si fosse sbrigato a fare colazione e non si fosse rovesciato latte e Orzoro sulla maglietta forse, adesso, qualche altro bambino della Lazio sarebbe costretto a comperare il Liverpool, mi dico cercando di rimanere vigile e provando a non svenire. Intanto, casomai, compro il Liverpool, poi a casa torturo mio fratello con aghi, fuoco, pinze e tenaglie, gli spezzo tutti i suoi giocatori della Juventus e stiamo pari. “No, proprio come pensavo. La Lazio è finita, ma tra un paio di settimane dovrebbero rispedircela. Vuoi la Roma? Sei romano, devi tifare per la squadra della tua città”. È la goccia che fa traboccare il vaso. “Voglio il Liverpool” – nemmeno le rispondo sul fatto di fare il tifo per la Roma. La Lazio è la squadra della mia città. Da molti anni prima della Roma. “Non c’è”. “Ma non ha nemmeno controllato!” – le dico di getto. “Lo so”. “Compra il Toro” – mi dice saggiamente mio fratello. Ma che stupido a non averci pensato prima. Chi può sconfiggere la Juve se non il Toro? 17


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“Il Torino non c’è” – sentenzia la tipa. “Ok. Che squadre ci sono?” – prendo coraggio. “Milanintersampdoriagenoajuventusitaliafranciaspagnabrasile” – attacca a macchinetta la commessa. ‘Così non va, troppo veloce’, penso io. Mentre lei continua senza prendere fiato, tra un “Argentinauruguaygermaniaovestfranciagiàl’hodetta” sussurro a mio fratello: “Che dici il Lanerossi Vicenza?”. “Ma sta in B!”. “Però ci gioca Sulfaro. E ha giocato tanti anni in serie A!”. “Vorrei il Lanerossi Vicenza, c’è?” – chiedo timidamente. “Sì” – rispondono insieme la commessa e mio fratello “Mio fratello non è del Lanerossi, però! È della Lazio”. Ci guardiamo con amore fraterno e ci scambiamo cenni di assenso. Ho deciso così, all’improvviso. Il Lanerossi Vicenza. Senza una ragione. Sembra un nome glorioso, operaio e colorato. Lanerossi Vicenza. Non so nemmeno bene dove sia Vicenza. “Di che colore è la maglia del Vicenza” – mi chiede la commessa. Prontamente, rispondo come se fossi interrogato a scuola: “Bianca con righe verticali rosse”. Mio fratello accenna un applauso che io smorzo con malcelato orgoglio. Se a scuola ci fosse una materia dedicata al calcio, probabilmente gli stessi professori mi chiederebbero di insegnare. 18


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Continuo: “Lo stadio si chiama Romeo Menti, contiene trentamila spettatori. È intitolato alla memoria del grande calciatore che giocò con il Vicenza negli anni Trenta nel ruolo di ala destra. Giocò pure con il Grande Torino – è sicura, signorina, comunque, che non c’è il Toro, vero? – e morì nella tragedia di Superga quando l’aereo che riportava in città i giocatori del Grande Torino, si schiantò sulla Basilica che sorge sulla collina di Superga”. La signorina non mi ascolta. Mio fratello è incantato. “Lo sai che quel Grande Torino io l’ho visto giocare a Roma?” – è nonno che, commosso dai ricordi, ha apprezzato la mia preparazione. “Era invincibile. Solo la cattiva sorte lo ha potuto sconfiggere. Ma ha consegnato per sempre il ricordo di quella squadra all’Eternità. Una volta, allo Stadio Nazionale, che sorgeva dove sta adesso lo Stadio Flaminio, per colpa di quella squadra, ho preso una bottigliata in testa da un romanista che non aveva apprezzato il fatto che avessi applaudito per una bella azione del Grande Torino”. Intanto siamo arrivati alla cassa. Nonno paga; è felice perché ormai siamo grandicelli e ci può raccontare qualche episodio di quando era più giovane. Noi siamo contenti perché, tornati a casa, potremo disputare Juventus-Lanerossi Vicenza. Andata, ritorno, campionato, amichevole, finale di Coppa Italia. Non vediamo l’ora. Lungo la strada mi chiedo come sia finita con il tifoso della Roma che ha dato la bottigliata in testa a nonno. Ma la scatola del Subbuteo che tengo nella bustina, prende tutte le mie energie. Non riesco a parlare dall’emozione. Penso solo al modulo che utilizzerò contro la Juve. Devo vincere. Devo vincere. Arriviamo a 19


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casa e sulla porta abbiamo già aperto le squadre. Siamo un fiume in piena. “Papà, corri, abbiamo il Subbuteo!”. “Ho comprato la Juve! È bellissima!” “Io il Lanerossi!”. Noto lo stupore di papà ma faccio finta di nulla. È troppo evidente che non sono un tifoso del Lanerossi. Poi mio fratello realizza il primo dramma: “Ma non abbiamo comprato il campo! Nemmeno le palline! E le porte”. Mi sento un ronzio sospetto in testa. Sto per esplodere. “E adesso?”. “Non me l’avete chiesto” – si auto assolve nonno. “Forse possiamo tornare al negozio” – suggerisco, sapendo di dire una scemenza. “Magari un altro giorno, oggi è venerdì, ci andate domani, sennò lunedì, martedì, mercoledì!” – l’autorità di papà pesa sulla decisione finale. “Oggi potete giocare sul plaid, magari con la pallina che non usate per il Giocagol, quella tonda, non la mezza palla...”. Ci sembra una soluzione passabile. Dobbiamo escogitare qualcosa per le porte. Guardo il mio Lanerossi: maglia biancorossa, pantaloncini neri, calzettoni neri e rossi a righe orizzontali. Lo riguardo: maglia biancorossa, pantaloncini neri, calzettoni neri e rossi a righe orizzontali. Chiamo mio fratello in preda a un dubbio feroce. 20


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“Di che colore sono di solito i pantaloncini del Lanerossi Vicenza?” – gli urlo mentre in cucina lui sta divorando una fetta di panettone. Conosco la risposta prima che possa gridare a bocca pienissima: “Bianchi! Perché?”. Prendo il catalogo del Subbuteo e lo sfoglio velocemente. Il Lanerossi Vicenza nel catalogo è la squadra numero 4. La squadra che ho comprato io, la mia prima squadra di Subbuteo, invece, porta il numero 9. Leggo attentamente: Brentford, Derry City, Exeter City, Lincoln City, Sheffield United, Southampton, Sunderland, Atletico Bilbao, Misda St. Joseph (squadra di Malta), PSV Eindhoven e Sparta Rotterdam. Altro che Vicenza! Che rabbia. E il sorrisetto di mio fratello è ancora più irritante. Per fortuna che c’è nonno. Mi avvicino a lui un po’ triste. “Com’è finita poi, nonno, con quello allo stadio?”. “Come sempre. Ha vinto il Torino!”. Non è la risposta che volevo, ma con nonno è sempre così. Racconta quando vuole lui. Come vuole lui. Lo adoro.

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