Woody fuga nella realtà

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Woody ...fuga nella realtà! di Alfonso La Licata in collaborazione con Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi. Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata. Edizione 2011 ISBN: 978-88-7381-398-9

© 2011 Rai Radiotelevisione Italiana Rai Eri Viale Mazzini, 14 - 00195 Roma www.eri.rai.it rai-eri@rai.it

© 2011 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna

Finito di stampare nel mese di dicembre 2011

Direttore Editoriale: Roberto Mugavero Grafica e impaginazione: Nicola Catassi Minerva Edizioni Via Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO) Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420 http://www.minervaedizioni.com e-mail: info@minervaedizioni.com

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Alfonso La Licata

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Prefazione Il coraggio di chiamarsi Woody “Vorrei che mi scrivessi qualcosa, una prefazione, per accompagnare un mio scritto... Questa volta ho voluto tentare un genere a me inconsueto, un racconto un po’ surreale ma nell’insieme leggero, di facile lettura”. Impresa non difficile, mi dico, per un racconto che l’autore stesso definisce “leggero”... Mai fidarsi degli autori! Appare subito evidente, infatti, che la presunta leggerezza riguarda esclusivamente la godibilità della lettura: attraverso un contesto sintattico mobile ed a volte disarticolato, il linguaggio, mai banale né scontato, modula senza sforzo la comicità di una trama divertente e ricca di colpi di scena. Ma se è vero che la chiave del racconto è comica o, molto spesso, ironica, la cifra del personaggio è decisamente umoristica, nel senso Pirandelliano del termine. L’intento dell’autore, allora, si rivela solo apparentemente ricreativo. Tra le pieghe del giocoso involucro, attraverso situazioni impreviste e paradossali, egli ci porta infatti a scoprire significati insospettati che ci costringono a ribaltare continuamente impressioni e certezze già acquistate, in un gioco altalenante tra ciò che appare e ciò che è. La tematica dell’apparire e dell’essere, filo conduttore di tutto il racconto (e di altri scritti di Alfonso La Licata, vedi Ipogeo), coinvolge così, per primi, proprio noi lettori. 5

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Protagonista è lo strampalato Woody Grantortino, definito dallo stesso autore “Uomo di modeste qualità, oberato da una infinità di complessi di inferiorità”; immaginiamo perciò quel genere di sempliciotto di cui solitamente ci si diverte a raccontare le vicissitudini sottolineandone la balordaggine con effetti esilaranti. Una specie di Bertoldo o di Giufà, per intenderci. Rimaniamo perciò un po’ spiazzati quando ci troviamo di fronte ad un racconto in prima persona in cui Woody, nell’autopresentazione iniziale, coglie con precisione e lucidità sconcertante tutti i risvolti della propria inadeguatezza e della propria non corrispondenza a quei modelli vincenti che la mentalità comune reputa (secondo lui giustamente) degni di altrui attenzione. (“... Io sono l’uomo comune, il banale, il dozzinale”). Silenzioso, insignificante fino ai limiti della non visibilità (“... sono una comparsa sulla scena della vita... Sono un accessorio della fotocopiatrice”), figura modestissima e quindi costantemente ignorata da tutti (vedi il portiere di casa “che non spreca fiato per un misero saluto...”), il protagonista offre di se stesso un ritratto rigoroso e severo, senza inutili piagnistei, dove qualche concessione all’autoindulgenza sfuma presto nei toni di una sottile ed intelligente autoironia (“... se fosse possibile, anche lo specchio, per disprezzo, non mostrerebbe la mia immagine”). Egli è inoltre un grande appassionato di filmografia, tanto che vive quasi in simbiosi con i suoi adorati attori, che cita continuamente, rapportando la finzione alla realtà e viceversa. Ci ricorda il Lorenzo La Marca di Santo Piazzese, ma per Woody il cinema rappresenta il sogno, il mondo ideale popolato da eroi sempre all’altezza 6

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della situazione; in quella dimensione onirica egli si rifugia per costruirsi un alter ego finalmente vincente che possa ricompensarlo delle continue frustrazioni in cui trascina la sua misera quotidianità (vedi il capitolo “Dreaming”). Ma proprio nell’esibire con convinzione la sua inettitudine, egli si rivela una creatura affascinante, ricca di un mondo interiore insospettato, capace di giudizi puntualmente azzeccati. Nel gustosissimo spaccato della vita d’ufficio (vedi capitolo “C’è del marcio in Danimarca”), ci offre ad esempio una descrizione satirica, a volte sferzante, di quel “ceto impiegatizio” di cui fa parte, ma che egli guarda da una particolare posizione strategica: “il mio osservatorio preferito è il mio scrittoio di impiegatuccio banalissimo di penultimo livello”. Così, partendo da un atteggiamento umilmente ammirativo nei confronti degli altri, che ritiene tutti indistintamente superiori, finisce di volta in volta con rivelarne il ridicolo, la superficialità, la boria ingiustificata. Alla fine, inaspettatamente, il personaggio vincente risulta lui e la situazione si ribalta: le insospettate capacità di tempismo nel risolvere le situazioni più incresciose o pericolose, ne fanno improvvisamente un eroe agli occhi sgomenti ed increduli di chi lo aveva prima ignorato e sottovalutato, cioè di tutti. Il sogno così si avvera. Eppure, Woody rimane sempre meravigliato degli esiti positivi delle sue trovate e delle soluzioni ovvie cui gli altri non sono arrivati: modesto fino al punto da attribuire le sue giuste ed a volte geniali intuizioni alla semplice imitazione degli esempi offertigli dagli eroi dello schermo, in circostanze analoghe alle sue. 7

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Vedi l’episodio dell’assalto alla banca e della conseguente fuga, dove da ostaggio in pericolo di vita Woody si trasforma di fatto in capo “morale” della banda, perché è il solo ad intuire e suggerire le giuste mosse per salvare la pelle. I banditi, dipendenti via via dagli ordini di quella che doveva essere la loro vittima, scivolano inconsapevolmente verso il ruolo di gregari. Tra di loro, poi, ce n’è uno che Woody classifica subito come suo doppione, tanto è anonimo: “un banale comunissimo bandito senza particolari pregi e demerito eccessivo, posto a corredo della banda proprio come un accessorio”. Ebbene, proprio costui, così insignificante anche come bandito generico, riesce a liberare se stesso e gli altri dall’assedio di un gruppo di matti, declamando sorprendentemente, come il Pifferaio Magico, celebri pagine di classici (Dante, Shakespeare). E qui affiora il tema della pazzia, già ampiamente rintracciabile gli altri scritti di La Licata (“Vonnu diri ca sugnu foddi...”). E che dire di quello strano “cagnaccio” di razza indefinita ma così prezioso nel soccorrere il padrone d’adozione con i suoi muti opportuni suggerimenti nei momenti cruciali? Neppure il mondo animale sfugge alle regole dell’essere e dell’apparire! E poi le donne (“... già le donne, e che dire delle donne?!”): per Woody sono bizzarri pianeti che girano sempre intorno ad altri mondi, creature vagheggiate ma irraggiungibili. Oggetto di desiderio, osservate essenzialmente nella loro fisicità e descritte minuziosamente nelle manovre di seduzione, rimangono sostanzialmente esseri sconosciuti. Se si 8

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escludono la madre (responsabile di un nome di battesimo tanto inconsueto) e la gatta (“unica consolazione insieme alla filmografia” (...) “colei che nei miei confronti prova affetto al limite della passione. L’unico essere che su questa terra mi mostri vero amore”), le sole figure che lo fanno oggetto delle loro attenzioni sono la cinesina del sogno e la compagna delle sue disavventure, quella che riesce a comprenderlo così bene da condividerne la vita. È la sua Audrey Hepburn, ma a noi lettori il vero nome non viene svelato. Possiamo quindi concludere che il nostro è un personaggio “fuori di chiave”, e che le reminiscenze pirandelliane già evidenziate si possono cogliere anche nell’esilarante capitolo “La strana congregazione”: qui ci si comprende a meraviglia proprio perché non si capiscono i rispettivi linguaggi e l’appassionato, improvvisato omaggio di un tifoso alla propria squadra di calcio riesce a suscitare ammirazione e commozione, in quanto viene recepito come l’orazione funebre che tutti si aspettavano da lui: Così è (se vi pare). Eppure, la vera tematica di fondo si discosta dai moduli pirandelliani, anzi diverge nettamente: dal dipanarsi del racconto emerge via via il senso del messaggio finale, cioè il riscatto di tutti quegli esseri anonimi ed invisibili che popolano la nostra società, confusi tra le vuote sagome di falsi giganti, poveri fantasmi senza voce sopraffatti dalle grancasse mediatiche. L’essere che sboccia dall’apparire spinge inesorabilmente nell’ombra, con le armi inoffensive dell’intelligenza e dell’ironia, i veri portatori d’inettitudine e di balordaggine. 9

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Così Woody Grantortino si avvia mano nella mano con la sua ragazza lungo lo stesso viale percorso da altri “eroi-non eroi” come lui, da Charlie Chaplin a Roberto Benigni (una volta tanto siamo noi a trovare il giusto riferimento cinematografico). Non è più “comparsa”, finalmente, ma protagonista sulla scena della vita... O no??

Maria Luisa Petronio

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Mi

presento...

Semplicemente “banale”. Guardandomi nello specchio, quella domenica mattina, mi resi conto che se avessi dovuto cercare un termine che mi definisse meglio, nessun altro, più di questo, avrebbe potuto adeguatamente qualificare il mio modo di essere, il ruolo, il personaggio (direbbe uno scrittore che conosco molto bene) che nella mia vita qualcuno ha deciso di farmi interpretare. Sono una comparsa nella scena della vita, uno di quelli che se ne stanno tra la folla di altri banalissimi figuranti, e che a null’altro servono se non a far da elemento scenico, per niente necessario, ai pochi personaggi importanti dello spettacolo. La figura che la specchiera stava riflettendo, confermava ciò che penso di me stesso: sono il trionfo dell’uomo medio più mediocre che mi sia capitato di conoscere. Detto fra noi, sono convinto che se fisicamente ciò fosse possibile, anche lo specchio, per disprezzo, non mostrerebbe la mia immagine. Qualcuno potrebbe dire che sono un po’ esagerato, frustrato, complessato, sì, forse anche questo è vero, ma a me piace pensare che in verità sono… realista, purtroppo. Sono un collage di membra ed organi accidentalmente scelti e frettolosamente assemblati per costituire ciò che sono: una originale concrezione anatomica. Ottantacinque chili di carne umana distribuiti, in maniera alquanto disomogenea, su di un tronco no11

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Alfonso La Licata

tevolmente corto rispetto alla lunghezza delle gambe e delle braccia. La testa, insolitamente piccolina, è montata su di un collo di lunghezza superiore alla media mentre il mio viso è normalmente disposto ad una espressione paciosa ed un po’ bovina. Se il buon Fedro avesse voluto inserirmi nelle sue favole, avrebbe potuto assimilarmi ad uno struzzo, se gli fossero stati noti i nuovi mondi e la fauna ad essi attinente; oppure, più probabilmente, mi avrebbe paragonato ad un dromedario, anzi no, ad un caprone, per via del fatto che non ho la gobba: almeno quella, grazie a Dio, mi è stata risparmiata. Figlio di un tal Giorgio Grantortino, oscuro uomo qualunque di medie aspirazioni di ceto impiegatizio, e di tale Assuntina Rocca La Mattina, donna d’indiscusse quanto misconosciute muliebri qualità. Professione: impiegatuccio di penultimo livello in uno dei tanti ministeri di città. Connotati fisici: altezza media, capelli e occhi castani, carnagione adeguatamente incolore. Segni caratteristici visibili: nessuno (a parte la mia tipicità fisionomica). Caspita, se mi fossi provato a cercarmi dall’alto confuso in una folla anonima, io stesso avrei avuto difficoltà a rintracciarmi; chissà se Sora Morte riuscirà a trovarmi quand’essa, alla mia ora, il sottoscritto verrà a cercare?! Stavo annodandomi la cravatta che uso soltanto la domenica mattina per andare alla Santa Messa. Secondo me è una bella cravatta di colore marrone, né troppo scura e neanche troppo chiara, certamente adeguata al vestito di finto lino beige che sono solito indossare nelle domeniche estive. 12

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Naturalmente la fibra sintetica del tessuto mi assicura una abbondante sudorazione corporale che, credo, non sia molto apprezzata, per le concomitanti sgradevoli esalazioni, dai miei vicini di banco, giù in parrocchia: li sento tirar di naso come cani che fiutano la preda. Se non altro però i pii credenti sono costretti a guardarmi bene in faccia, e ciò è già un bel risultato: essi mi notano, anzi mi annotano, per evitare di sedersi accanto a me la prossima puntata celebrativa. Un magnifico nodo. Mi viene sempre un bel nodo con quella cravatta di canapone finto, una delle poche cose buone che riesco a fare. Un triangolo perfettamente equilatero, simmetricamente posto al centro delle due punte del colletto della mia eterna camicia di rigatino color panna. Ebbene sì, sono un po’ conformista, ma non mi pare che ciò sia un peccato molto grave. Mi potevo senza dubbio considerare soddisfatto della mia tenuta domenicale, almeno per la parte superiore, il mio cruccio perenne stava un po’ più giù, nei pantaloni, che, per questo, sino all’ultimo, evitavo di esaminare. Non mi rassegnavo alla tragica realtà e nello stesso tempo non ero capace a darmi plausibili scientifiche spiegazioni, ma quei dannati pantaloni sembravano dotati di vita propria e con una marcata attitudine all’insubordinazione. Sembrava che avessero seri problemi di buon vicinato con le scarpe, dalle quali, sebbene fosse già la terza volta che li avevo fatti allungare, per una inspiegabile manifestazione di tipo paranormale, forse una idiosincrasia di natura merceologica con la tomaia 13

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color testa di moro dei mocassini in finto capretto, ostinatamente se ne distanziavano sempre di circa tre centimetri, lasciando intravedere le calze bianche, elemento di normale corredo nel costume di figurante medio quale io, alla fine, senza contratto, mi disdegno di far parte. Dulcis in fundo, si fa per dire, c’era la questione che, al momento, mi faceva soffrire più di tutto: la piega del pantalone sinistro. Evidente insolenza che pure le cose inanimate manifestavano verso il sottoscritto! Quella dannata misteriosa testarda piega del pantalone sinistro, manifestazione paranormale superiore alle facoltà cognitive della umana intelligenza, era la certificazione evidente della mia singolare inettitudine. é mia consuetudine stirare i pantaloni nella maniera tradizionale insegnatomi da mia madre: allineare e sovrapporre le cuciture laterali, tenerle pressate contro l’asse da stiro, stendere una pezza di cotone sul tessuto per evitare i danni dovuti al ferro troppo caldo, svaporare abbondantemente sul tessuto, e giù a pressare con decisione dall’alto verso il basso. Niente di più semplice e più collaudato. Ma qualcuno saprebbe dirmi perché quella dannata piega del pantalone sinistro, inspiegabilmente e cocciutamente, si ostinava a prodursi in una vezzosa, quanto odiosa, curva verso destra, rovinando il look di “ordinato uomo medio” che avrei voluto manifestare al mondo circostante? Niente da fare, avevo provato di tutto, ferro a secco ed a vapore, appretto spray, persino l’amido, nulla 14

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aveva giovato a correggere l’obbrobriosa deviazione. Gli ultimi quindici centimetri di quella dannatissima piega del pantalone sinistro, irrimediabilmente osavano curvare dolcemente verso destra, spostandosi, per lo spazio di due dita, dall’asse verticale che avrebbe dovuto essere il suo naturale compimento. Effetto complessivo della mia tenuta festiva: “ridicolo, oltre che mediocre, banale uomo medio”. Pazienza, ero ormai rassegnato a rispettare la determinazione del mio testardo indumento. Ultima mesta occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio, e via per l’incontro domenicale con quel Creatore che, secondo me, “... quando mi pensò e concepì sin dalla notte dei tempi...” (così diceva con tono enfatico e alato di mistero il mio parroco nelle sue prediche), doveva essersi distratto, o era impegnato in altra creazione più importante. Credo che abbia usato uno stampino consumato per plasmare, con la mia primordiale grossolana creta, l’odierno dozzinale figurante che io oggi degnamente rappresento. Solite manovre domenicali. Chiudo la porta di casa, tre mandate alla serratura centrale e sei a quella superiore (mai troppa la prudenza) e aggiusto lo zerbino che alle mosche (e a chi altro?) continua a proclamare il suo benvenuto. Quel maledetto stuoino! Lo trovo sempre spostato verso destra. Sta lì perché il mio vicino, il furbone, vi si pulisce le scarpe risparmiando di sporcare il suo. Pazienza! Di personaggi strambi è piena la terra. Scendo di corsa le sei rampe di gradini, un po’ di moto dicono che fa bene, saluto il portiere che, 15

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come al solito, fa finta di non vedermi e non mi risponde, e mi avvio speditamente verso la mia chiesa parrocchiale. Entro, assumo l’espressione compunta da medio buon credente, mi segno con la croce e vado a confessare i miei peccati, vi assicuro, comunissimi peccatucci di uomo medio. Il prete, che pure da venti anni è il mio confessore, continua a non riconoscermi, così tanto la mia persona lo lascia indifferente, si ripresenta e mi richiede se sono un suo parrocchiano e quale è il mio nome. E già, come mi chiamo!? Alcune volte ho forti crisi esistenziali proprio per questo motivo. Anche il mio nome, per non parlare del mio cognome, sono così fuori dall’ordinario e talmente li rifiuto che spesso, quando mi presento, li pronuncio sottovoce, sperando che gli altri non li sentano, allo scopo di evitare i conseguenti ironici commenti e le doverose spiegazioni occorrenti. Mi chiamo Woody Grantortino, cos’altro mi poteva capitare di più scompagnato di tale appellativo?! Non ridete per piacere delle disgrazie altrui, il nome ognuno se lo ritrova, suo malgrado, grazie alle tradizioni o alle fantasie di chi a ciò è stato preposto. Mia madre fu la donna che, dopo aver partorito un figlio fisicamente così suggestivo, pensò di guarnirne opportunamente l’identità associando ad un cognome così insipido e di poco conto, un improbabile nome altrettanto stravagante. Ammiratrice instancabile di quell’eccentrico ed ironico attore che tutti conosciamo come Woody Allen, lo schizoide americano medio, protagonista di tante filmiche avventure vissute sul filo dell’ironia e del surreale, decise di esaltarlo 16

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anche nella progenie conseguita, affibbiandomi, per mia perenne sventura, il suo nome di battesimo per noi così tanto inconsueto e fuori luogo. A parte questa unica stranezza, io sono il trionfo dell’ovvietà, l’apoteosi della banalità e dell’anonima piattezza, il prodotto di doverosi carnali congiungimenti, presumibilmente senza passione alcuna, a scopo puramente riproduttivo, di due ordinarie entità corporee. Ultimo rampollo della mia stirpe e del mio stampo, almeno così sembrava evidente, vista la mia conclamata incapacità a conoscere (biblicamente parlando) altra passabile concrezione umana di natura femminile, poiché tal genere vivente di me continuava a non accorgersi nemmeno. Uniche consolazioni, ambedue eredità materna, la mia gatta Alice, di cui sono il prediletto, e la grande mia passione per la cinematografia di ogni tempo, soprattutto per i film distensivi e non troppo impegnati, com’è giusto che si convenga ad un uomo mediocre come me. Molti guardano ad un politico, oppure hanno come ideale un personaggio storico o un calciatore, e a lui si riferiscono per dare alla propria vita un rilievo più evidente, lo adottano come modello per elevare il proprio stile personale. Io, che amo tanto il cinema e la finzione scenica, prediligo “vedermi”, negli avvenimenti della mia esistenza, come un attore cinematografico di vecchio stampo, di scuola inglese, di quelli che ne nascono uno ogni cento anni, un Lord dello schermo: David Niven è il mio modello, l’irraggiungibile maestro di comportamento e di recitazione che mi piacerebbe impersonare, il Phileas Fogg, personaggio principale ed indimenticabile 17

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del “Giro del mondo in ottanta giorni”, non certo lo strambo Woody Allen di cui proditoriamente io porto il nome. Altro piccolo vezzo di cui mi pregio, stupidamente se volete: non porto l’orologio. Sono convinto di sapere gestire la mia giornata senza lo stress della corsa contro il tempo, senza l’assillo della puntualità. In effetti è vero, vivo bene anche senza controllare continuamente l’orologio; ciò, a ben vedere, non dipende dal fatto che sono bravo ad amministrare l’arco temporale delle mie giornate, ma per il motivo che, nei miei giorni sempre uguali: ho così poche cose da fare tra casa ed ufficio, che mi basta andare avanti in automatico e lasciare che la routine porti avanti la mia esistenza.

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