CAMCANTIERE 3
Selinunte si racconta CAM, 5 MAGGIO 2010 Atti della giornata di studi A cura di Enrico Acquaro, Paola De Vita, Alessandro Iannucci
CAMCANTIERE/3 SELINUNTE SI RACCONTA Atti della giornata di studi A cura di Enrico Acquaro,Paola De Vita, Alessandro Iannucci
CAM , 5 MAGGIO 2010 Baglio Calcara - Triscina di Selinunte Castelvetrano, Trapani Contributi di Enrico Acquaro Giuseppe Salluzzo Simone Rambaldi Alessandro Iannucci Nicola Cusumano Federica Schiariti Manuel Martinez Paola De VIta Antonella Lamia Martine Fourmont Produzione editoriale Fondazione Kepha Onlus www.kepha.eu Progetto grafico e impaginazione Sciara srl sciara@sciara.net Le fotografie sono degli autori dei rispettivi interventi, eccetto quelle di copertina, controcopertina e delle pagine 23 e 49 che sono di Antonio Sorrentino. Š Tutti i diritti riservati, ogni riproduzione anche parziale vietata senza il consenso degli autori
ISBN 978-88-97100-01-0
indice
Enrico Acquaro, Introduzione
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Giuseppe Salluzzo, Le cave di Cusa: il tempio G, i rocchi e la strada del trasporto
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Simone Rambaldi, Empedocle e la bonifica di Selinunte: un breve riesame
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Alessandro Iannucci, Il tempio E della collina orientale di Selinunte: ipotesi per un’identificazione del culto
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Nicola Cusumano, Purificare e riconciliare la polis: la Lex sacra
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Federica Schiariti, Zeus Meilichios: tipologia religiosa e rapporti con il mondo punico
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Manuel Martinez, Gli Aegyptiaca di Selinunte
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Enrico Acquaro, L’archivio del tempio di Apollo: alcune considerazioni
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Paola De Vita, Bes, Sileno e l’ambientazione dionisiaca nelle cretule della Selinunte punica
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Antonella Lamia, Ermes con sandalo nell’archivio punico di Selinunte
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Martine Fourmont, Conclusioni
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Bibliografia
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INTRODUZIONE
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Nel quotidiano approccio divulgativo ai documenti archeologici era uso fino a qualche tempo fa, e in parte lo è ancora, ricorrere alla proverbiale immagine delle «pietre che parlano». Pur considerando che oggi è più che mai frequente l’opposto, cioè che le parole «sono pesanti come pietre», è vero che Selinunte con le sue pietre tagliate dai giacimenti delle vicine cave di Cusa invita al dialogo tutti i suoi visitatori, dal turista meno acculturato allo studioso che veste i più variegati colori delle toghe accademiche. Sarà il mare, con le sue lunghe onde, a rendere meno conflittuale l’inevitabile, intenso, confronto siciliano fra cielo e mare, ma è un dato di fatto che le pietre squadrate dei templi, le alte colonne rovinate si stagliano nell’azzurro del cielo di Selinunte come se fossero tranquilli relitti di un naufragio antico. Avviene così che il linguaggio spesso autoreferenziale della ricerca scientifica si sciolga e riacquisti quella fluidità espressiva necessaria per spiegare alla comunità politica e amministrativa l’opportunità di interventi continui volti alla tutela e alla valorizzazione del sito, premessa di ogni investimento culturale non élitario, svincolato da un approccio antiquario, benemerito ma difficilmente spendibile in momenti di progettualità internazionale. Se per Mozia, colonia fenicia, nella sua realtà isolana soltanto in questi ultimi tempi si sta riscoprendo l’identità e la vocazione plurietnica, se per Palermo questa è stata da sempre evidente nei ricchi corredi funerari, Selinunte ha fondato da sempre la propria storia di polis siciliana sull’apporto plurietnico, in cui è rilevante, al di là delle mutevoli vicende politiche e militari, la componente cartaginese.
È così che una programmata giornata di visita a Selinunte ed alle sue cave si è trasformata, grazie alla disponibilità della Soprintendenza Archeologica di Trapani, del Consorzio Universitario della Provincia di Trapani, del CAM di Triscina e dei Colleghi e dei giovani ricercatori del Curriculum in Archeologia del Mare della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna, in questa giornata di studio dove Selinunte si racconta, o meglio dove noi raccontiamo la nostra Selinunte, aprendoci ad ogni altro tipo di confronto e pronti a rapportare la nostra lettura, che è storia, archeologia, ma anche emozioni, con gli esiti di altri approcci forse migliori.
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1. Selinunte, zona archeologica. 2. Cave di Cusa, rocchi di colonne. 3. Selinunte, tempio G. 4. Selinunte, tempio G: pianta (da Mertens 2006, p. 232).
5. Selinunte, tempio G: tracce di stucco sulle colonne scanalate. 6. Cave di Cusa, gruppo di cinque rocchi (foto L. Nifosi). 7. Cave di Cusa, asportazione del diaframma lapideo.
Le cave di Cusa: il tempio G, i rocchi e la strada del trasporto Giuseppe Salluzzo
Le pietre e le rocce, nella loro varietà di forme artificiali e naturali all’interno della zona archeologica e delle antiche cave di estrazione dei materiali lapidei, contrassegnano fortemente il paesaggio interessato dalle rovine di Selinunte (fig. 1) e quello agricolo nella zona delle cave di Cusa (fig. 2) a Campobello di Mazara, delle cave di Barone a Castelvetrano e delle cave di Misilbesi a Menfi. Tra le cave antiche quelle di Cusa, rimaste aperte per il completamento del tempio G, e la strada del trasporto dei materiali estratti verso Selinunte, formano un monumento meritevole di rilievo e di approfondimento in complementarietà al tempio (Peschlow-Bindokat 1992, p. 33: «Volendo, però, farsi un’idea più chiara dell’attività nelle cave di Cusa, vale la pena gettare lo sguardo nelle cave di marmo scoperte pochi anni fa a Mileto, in Asia Minore, e che nei capi principali costituiscono quasi un esempio parallelo») e all’edilizia abitativa di Selinunte nel V sec. a.C. La capacità di Selinunte di realizzare il tempio G (fig.3), un’impresa architettonica alla pari delle città più note della Grecia arcaica, quali Mileto, Efeso e Atene, mostra ancora oggi l’importanza della colonia e i contatti della stessa con le grandi città. Il tempio G (fig.4) fa parte della triade di monumenti religiosi rivolti ad oriente per mostrare alle altre colonie greche la magnificenza della città; si tratta di un edificio periptero (49.95x 109.12 m.) che trova riscontro soltanto nei colossali dipteri ionici in Oriente. La costruzione del tempio ebbe inizio intorno al 530 a.C. e si prolungò fino al 409 a.C. Il protrarsi del cantiere per diversi anni mostra una variazione
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stilistica delle colonne che da est verso ovest diventano più tozze e vicine allo stile severo. Il cambiamento di linguaggio architettonico si deve soprattutto alla contrazione angolare eseguita ad ovest, che ha interessato gli intercolumni delle colonne; sul lato est sono state collocate a distanza di 6.52 m, sul lato ovest invece sono disposte a 6.62 m e quelli d’angolo a 6.28 m.
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Le variazioni ed ammodernamenti nel corso degli anni si riscontrano anche nella cella, in quanto è improbabile che nel progetto iniziale del tempio G fosse previsto un opistodomo; il pronaos e il naos a giudicare dalle forme degli elementi, sono databili in età tardo arcaica. Il naos è diviso in tre navate da due file di colonne e la presenza di un canale per lo smaltimento delle acque all’interno del naos conducono gli archeologi a ipotizzarne un vano all’aperto (Mertens 2006, pp. 232-233). Il tempio, a dispetto di diverse parti incomplete, già doveva assolvere a funzioni cultuali, ipotesi confermata da alcune parti (fig. 5) già complete negli stucchi. Tuttavia il ritrovamento di numerosi rocchi di colonna nelle cave di Cusa e lungo la via del trasporto descritta nei primi anni del ‘900 da Hulot-Fougères (1910), lascia molti interrogativi sul perché il tempio non fosse ancora ultimato nel 409 a.C., data in cui la città venne distrutta e le cave abbandonate. Le indagini effettuate sulle cave di Cusa da A. Peschlow-Bindokat dell’Istituto Archeologico Germanico hanno consentito di avere un primo quadro scientifico sull’area estrattiva, aprendo nuove ipotesi di ricerca sul percorso della strada del trasporto e sul tempio G. Lo studio ha permesso la catalogazione di 62 rocchi di colonna, molti dei quali riutilizzati perché lesionati, e l’individuazione e l’analisi di differenti tecniche estrattive utilizzate in loco. Particolarmente interessante risulta la tecnica leggibile nel gruppo dei 5 rocchi, (fig.6) diversa rispetto a quelle utilizzate nelle altre cave del mondo antico oggi conosciute (Peschlow-Bindokat 1992, pp. 22-23). L’estrazione dei blocchi cilindrici qui procedeva in tre diverse fasi di lavorazione: frantumazione, distacco e rifinitura. Si procedeva incidendo sul banco roccioso delle circonferenze secondo il diametro corrispondente a quello della colonna da realizzare. Dopo veniva tracciata una seconda circonferenza concentrica, distaccata dalla prima mediamente 40-65 cm. Gli scalpellini procedevano ad intaccare la roccia creando un solco adiacente alla prima circonferenza segnata e poi ripetendo l’operazione presso la seconda e procedevano nel loro lavoro di intaglio aspor-
tando il diaframma tra i due solchi (fig.7), in modo da creare un canale circolare (fig.8) all’interno del quale operavano. Il procedimento veniva continuato fino a raggiungere l’altezza del pezzo voluta; successivamente il rocchio che in media «ha la considerevole altezza di 4,30 m un diametro in alto di 3,10 m ed in basso di 3,40 m» (Peschlow-Bindokat 1992, p. 23), a mezzo di cunei metallici, veniva inciso alla base fino allo stacco totale dal suolo (fig.9). Completata la fase di finitura i cilindri erano pronti per essere trasportati verso la città. Le cave di Cusa distano da Selinunte circa 11 km: ad oggi, la strada del trasporto percorsa per portare i blocchi lapidei attraverso l’impiego di animali da traino (Peschlow-Bindokat 1992, p. 29: «Questo sistema di trasposto scrive Vitruvio e da attribuire all’invenzione degli architetti dell’Artemision arcaico di Efeso, Chersiphoron e Metagenes»), non è stata oggetto di indagini che ne attestino l’antico tracciato. Hulot e Fougères descrivono la strada come « una pista larga da 9 a 10 metri, costeggiata da querce e da mandorli; i larghi e molto profondi solchi che scavano il tufo attestano un attivo carreggio di veicoli pesantemente caricati. Nei posti dove il tufo era stato eroso dal calpestio delle mute, una pavimentazione di calcare duro colma le cavità. Dei frammenti di marciapiede appaiono qua e là» (Hulot – Fougères 1910, p. 164). Ancora oggi all’interno delle cave sono visibili alcuni brevi tratti a nord del banco di estrazione, posti a diretto contatto con gli uliveti. In più punti, infatti, si intravedono tratti carrabili intagliati nella roccia e tratti in cui le orlature in pietra di cava creano la sede stradale (figg. 10-11). Quale poteva essere il percorso seguito per raggiungere Selinunte in un ambiente all’epoca caratterizzato da boschi e da folta macchia mediterranea, da canneti e paludi e con un andamento orografico poco agevole? Il direttore dei lavori delle cave, e probabilmente del tempio, aveva necessariamente progettato tale percorso, individuandone il tracciato più breve e rettilineo possibile, (Caniggia - Maffei 1979, p. 232: «tali percorsi di fondovalle consentono un rapido raggiungimento di polarità distanti») evitando percorsi difficilmente praticabili da animali. L’andamento della strada del trasporto è stato indicato nel testo di A. PeschlowBindokat sulla base dell’analisi delle altimetrie dei suoli e ha come riscontro sul campo l’unico rocchio esterno all’area estrattiva (fig. 12) abbandonato tra gli uliveti. Partendo da questo punto è possibile ipotizzare un percorso della strada del trasporto più breve e rettilineo, con leggera pendenza ed in alcuni tratti
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pianeggiante verso il tempio G. Tale ipotesi di tracciato (fig. 13), da verificare e indagare con l’ausilio di indagini archeologiche, coincide in parte con una strada di accesso ai fondi agricoli e passa in prossimità di alcuni bagli, sovrapponendosi in alcuni tratti a strade di campagna, ma segue un percorso pianeggiante. I materiali estratti alle cave di Cusa non erano destinati solo alla costruzione del grande tempio selinuntino. Altri materiali presenti nelle cave di Cusa sono diversi conci usati probabilmente nell’edilizia abitativa dell’acropoli. Infatti, nel V sec. a.C. a Selinunte si costruiscono nuove abitazioni realizzate con pietra intagliata, lungo la plateia principale in direzione Sud-Nord, in prossimità della porta Nord. Numerose case, con cellule che si sviluppano sui moduli dei lotti precedenti (figg. 14-15), sono realizzate con muri in pietra intagliata, con una tecnica tale da essere assimilata all’architettura monumentale. Le ricerche condotte da D. Mertens, nella zona dell’acropoli, hanno dimostrato come diverse case sull’arteria principale fossero state costruite secondo un rigoroso piano edilizio. Soltanto cosi si giustifica, l’utilizzo del materiale in conci, non usuale nell’edilizia residenziale. Proibitiva per i privati, pertanto «l’iniziativa collettiva di un’entità politica poteva per converso realizzarlo, disponendo di capacità economiche sufficienti; e se quest’ultima coincide con la città stessa, il pensiero corre subito a cave di pietra comunali e relative installazioni di trasporto» (Mertens 2006, p. 327).
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La ricerca archeologica sulle case in conci, potrebbe aggiungere ulteriori nuovi risultati allo studio del complesso monumentale ‘Cave di Cusa / Strada del trasporto’, nonché dati sull’amministrazione delle cave di estrazione (fig. 16).
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8. Cave di Cusa, estrazione di un rocchio. 9. Cave di Cusa, distacco del rocchio dal suolo. 10. Cave di Cusa, tratto di antica strada intagliata. 11. Cave di Cusa, tratto di antica
strada costruita. 12. Rocchio posto fuori dall’area estrattiva delle cave di Cusa. 13. Strada del trasporto: un’ipotesi di lavoro. 14. Selinunte. Pianta distributiva delle case a conci del V sec. a.C.
(da Mertens 2006, p. 327). 15. Selinunte. Casa in conci nella plateia principale. 16. Cave di Cusa, rocchio di colonna estratto.
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1. Selinunte, veduta ricostruttiva (da Hulot - Fougères 1910). 2. La valle del Cottone vista dalla collina orientale (foto S. Rambaldi). 3. Moneta di Selinunte raffigurante il fiume Selinos (da Rizzo 1939).
4. Moneta di Selinunte raffigurante il fiume Hypsas (da Rizzo 1939).
Empedocle e la bonifica di Selinunte:un breve riesame Simone Rambaldi
Nelle sue Vite dei filosofi, Diogene Laerzio ricorda un’importante operazione di bonifica che sarebbe stata attuata da Empedocle presso la città di Selinunte. È opportuno riportare qui il passo relativo, che è contenuto nella parte conclusiva della biografia del sapiente agrigentino, dove sono narrate le dicerie allora correnti sulle circostanze della sua morte: «Scoppiata una pestilenza fra gli abitanti di Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano e le donne soffrivano nel partorire, Empedocle pensò allora di portare in quel luogo a proprie spese altri due fiumi di quelli vicini: con questa mistione le acque divennero dolci» (VIII, 70, trad. M. Gigante). La cronologia di Empedocle, al quale Aristotele attribuì una vita di sessant’anni (Diogene Laerzio, VIII, 52), può essere fissata tra il 485 e il 425 a.C. circa. Nell’ambito della filosofia presocratica la sua figura occupa un posto particolare, per via dei numerosi aneddoti che già nell’antichità avevano finito per circonfondere la sua figura di un alone di mistero, guadagnandogli una fama di mago e taumaturgo perpetuatasi sino all’età moderna. Una buona parte di queste notizie derivava sicuramente dalle invenzioni burlesche che erano state prodotte dai poeti comici, secondo un uso ben conosciuto in relazione ad altri celebri personaggi, anch’essi vittime di tali deformazioni caricaturali (si pensi a Socrate, oppure ad Euripide). Un altro aneddoto riferito dalle fonti di cui disponeva Diogene Laerzio, ad esempio, è senza dubbio frutto di fantasia: per preservare la campagna coltivata dai venti etesii, che si erano messi a soffiare con violenza eccessiva, Empedocle non avrebbe esitato a fare scuoiare una mandria di asini, allo scopo di confezionare una serie di otri, i quali, convenientemente disposti sulle colline vicine, avrebbero dovuto trattenere la furia dei
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venti (VIII, 60). Ora occorre cercare di capire se anche l’episodio della bonifica selinuntina sia da considerare un’invenzione, o se in esso si possa riconoscere almeno un nucleo di autenticità. Nelle opere empedoclee che sono giunte fino a noi, vale a dire nei resti dei suoi poemi sul mondo fisico e sulle purificazioni, sono accennati problemi di idraulica: in un frammento appartenente alla conclusione dei Physica, in particolare, Empedocle descrive una pompa utilizzata per irrigare i campi in estate, per mezzo delle riserve d’acqua immagazzinate a questo scopo durante l’inverno. Quello che non è altro che un semplice espediente tecnico viene da lui descritto in termini immaginosi: «ed anche farai, dal secco in estate, a ristoro degli alberi, i getti d’acqua che sprizzano in alto» (fr. 111 D.-K., 7-8, trad. C. Gallavotti). Il suo stile è infatti ricco di iperboli e di costrutti poetici, dai quali probabilmente trassero alimento le esagerazioni dei comici sopra ricordate.
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È però doveroso distinguere, perché la descrizione di una pompa per l’agricoltura non può naturalmente essere messa sullo stesso piano di un’iniziativa di ingente portata come un’operazione di bonifica, finalizzata al risanamento del territorio di una grande città qual era Selinunte nel V sec. a.C. A quel tempo la scienza idraulica non era ancora un sistema condiviso di competenze ingegneristiche al quale si poteva attingere in qualunque momento, quando vi era la necessità, come sarà poi per i Romani (infatti Vitruvio dedicherà un intero libro del suo De architectura, l’ottavo, alla trattazione dell’acqua e delle questioni idrauliche). Ciò è confermato dalla tendenza, manifestata dalle fonti letterarie, a mettere in relazione con figure eccezionali il ricordo di imprese di notevole impegno. Così era avvenuto nel caso di Talete, nato oltre un secolo prima di Empedocle, cui veniva attribuita un’operazione sostanzialmente analoga a quella selinuntina, anche se non effettuata per motivi di bonifica, cioè lo scavo di un canale nel quale doveva essere deviato un fiume che l’esercito del re Creso non era in grado di attraversare (Erodoto, I, 75). Allo stesso modo, un’iniziativa di risanamento dei fiumi selinuntini resasi necessaria nel corso del V sec. a.C. potrebbe essere stata ricondotta dalla tradizione a Empedocle, poiché si trattava del più grande intellettuale siceliota dell’epoca. Un elemento ulteriore, che potrebbe avere favorito questo collegamento, è dato dalla necessità di liberare gli abitanti della città dalla pestilenza causata dall’impaludarsi delle acque, la quale nel resoconto di Diogene Laerzio sembra essere l’istanza prioritaria. Empedo-
cle potrebbe essere stato chiamato in causa proprio perché godeva di una larga fama di guaritore, come dichiara lui stesso nel suo poema sulle purificazioni, dove ricorda la folla di persone sofferenti che si rivolgevano a lui per ottenere aiuto (fr. 112 D.-K., 8-12). Nel corso dell’Ottocento venne avanzata l’ipotesi che il piccolo Tempio B dell’acropoli di Selinunte potesse essere un heroon dedicato a Empedocle dai cittadini riconoscenti, i quali, come è narrato nel prosieguo della testimonianza diogeniana, avrebbero onorato il filosofo benefattore come un dio. Ma si tratta di una supposizione del tutto priva di fondamento (Marconi 2008, p. 78). A questo punto, vera che sia la paternità empedoclea dell’iniziativa o che non lo sia, come sembra più probabile, bisogna interrogarsi sull’attendibilità dell’operazione di bonifica in sé narrata nel passo citato. Fermo restando che nell’esame di questa vicenda non si può uscire dal campo delle ipotesi, l’esigenza di risanare un corso d’acqua che si era reso paludoso appare del tutto ammissibile. Entrambi i fiumi che costeggiano i lati dell’acropoli di Selinunte e della collina di Manuzza, il Modione a ovest (l’antico Selinos) e il Gorgo Cottone a est, come anche il terzo fiume importante del territorio selinuntino, il Belice (l’antico Hypsas), che scorre ancora più a est dell’abitato, hanno sempre manifestato una tendenza all’impaludamento (Hulot - Fougères 1910, pp. 19-24). Nelle relazioni dei viaggiatori che si recarono a visitare il sito di Selinunte in età moderna, in particolare tra Sette e Ottocento, sono infatti descritte le paludi malsane, infestate da insetti, che ricoprivano i corsi d’acqua della zona. Per prima cosa, seguendo la testimonianza letteraria citata, bisognerebbe tentare di identificare il «vicino fiume» che, con le sue acque stagnanti, determinava la pestilenza, e gli «altri due fiumi di quelli vicini» interessati dal processo di bonifica. Sembra francamente impossibile che in questa operazione venisse coinvolto il Belice, il cui corso era troppo lontano perché potesse essere deviato per farlo confluire in uno dei fiumi che rasentavano la città, per cui nel primo fiume indicato ma non denominato da Diogene Laerzio si dovrebbe riconoscere il Modione oppure il Cottone. Entrambi questi fiumi svolgevano un ruolo basilare per Selinunte, in quanto nei loro estuari, oggi colmati ma un tempo caratterizzati da ampie insenature, erano situati i due porti cittadini (fig. 1). È ben noto come sia i bacini portuali sia i corsi d’acqua (soprattutto nei loro tratti terminali) fossero particolarmente soggetti, in antico, a fenomeni di insabbiamento, che ne compromettevano la funzionalità. Per la stessa Sicilia sono testimoniati altri luoghi paludosi,
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come in prossimità di Siracusa e di Camarina, dove si estendevano acquitrini che potevano se non altro costituire una valida barriera contro gli eserciti nemici (Diodoro Siculo, XIV, 71, 2; Servio, in Verg. Aen. III, 701; cfr. Traina 1988, p. 93). A Selinunte, però, al di là delle eventuali conseguenze dannose sulla salute degli abitanti che il ristagno delle acque poteva causare, le concomitanti attività portuali richiedevano una piena efficienza dei due bacini idrici. Durante la vita della città greca devono verosimilmente essersi rese necessarie più azioni di bonifica nei corsi d’acqua vicini; magari di un intervento di entità molto rilevante potrebbe essersi conservata a lungo la memoria, la quale, legata al nome di Empedocle, si trasmise fino a Diogene Laerzio.
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Poiché alla sua foce era ubicato il porto probabilmente più importante, si può congetturare che il fiume responsabile della pestilenza che affliggeva i Selinuntini fosse il Cottone (fig. 2). Una testimonianza di età moderna può aggiungere qualche elemento utile a suffragare questa identificazione. Il tedesco Julius Schubring, il quale visitò il sito della città antica dopo la metà dell’Ottocento, stese un’ampia relazione topografica, pubblicata nel 1865, dove sono riportate alcune notizie tuttora di estremo interesse, sebbene non tutte le sue conclusioni siano oggi accettabili. I resoconti dei viaggiatori moderni nei siti archeologici risultano spesso di notevole valore, in quanto possono trasmettere informazioni non reperibili per altra via, in relazione a situazioni ambientali ormai mutate, magari anche radicalmente, all’epoca in cui, negli stessi luoghi, sono state avviate esplorazioni sistematiche. Schubring, che propendeva lui pure per riconoscere nel Cottone il «vicino fiume», anziché nel Modione, si diffonde a raccontare le difficoltà che aveva incontrato nel percorrere la valle relativa, completamente invasa dalla palude. Egli riferisce, inoltre, di avere visto due corsi d’acqua che scendevano verso il Cottone dalle pendici nord-occidentali della collina di Marinella (Schubring 1865, pp. 415-18; cfr. anche Hulot - Fougères 1910, pp. 103-105). Ora, se naturalmente sarebbe scorretto sul piano metodologico identificare tout court questi due ruscelli come i due fiumi sui quali avrebbe agito Empedocle facendoli confluire nel Cottone in modo da purificarne le acque, si può comunque avanzare l’ipotesi che in antico si fosse proceduto al risanamento del fiume facendo ricorso all’acqua più limpida di altri rivi minori, opportunamente convogliati, analoghi a quelli visti dal viaggiatore ottocentesco. Il testo che narra l’evento, come si è visto, parla propriamente di «due fiumi di quelli vicini» (la traduzione citata segue letteralmente la lezione greca).
Con l’iniziativa descritta da Diogene Laerzio alcuni hanno proposto di mettere in relazione alcune monete selinuntine del V sec. a.C., dove compaiono le personificazioni di due dei fiumi che solcano il territorio della città, precisamente il Selinos e l’Hypsas, rappresentati come due giovani nudi e stanti, nell’atto di compiere un’offerta presso un altare (figg. 3-4). Il primo è visibile su tetradrammi recanti al dritto la quadriga di Apollo e Artemide, il secondo su didrammi raffiguranti la lotta di Eracle col toro. Iconografie molto simili, tuttavia, si trovano impiegate per rappresentare i fiumi di altre città in Sicilia e Magna Grecia, ad esempio nei conii di Leontinoi, nei quali viene mostrato in maniera del tutto analoga quello che sembra essere il fiume Lissos, oppure nelle monete di Pandosia Bruzia, dove compare il Krathis (Rizzo 1939). Non pare perciò necessario postulare che conii di questo tipo commemorassero particolari interventi di bonifica, come quello attribuito dalla tradizione a Empedocle, in quanto le emissioni potevano essere semplicemente celebrative dei più importanti corsi d’acqua locali, ribadendo in ogni caso la funzione essenziale che l’idrografia del territorio rivestiva per i centri abitati che vi sorgevano. 19
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1. Selinunte, il tempio E della collina orientale. 2. Placchetta di terracotta del VI secolo a.C. da Tharros interpretata come Astarte (British Museum, London).
Il tempio E della collina orientale di Selinunte: ipotesi per un’identificazione del culto Alessandro Iannucci
Il visitatore che ascende la splendida collina orientale di Selinunte e consulta una guida per conoscere i ‘nomi’ di quanto rimane dei tre templi che anticamente vi si ergevano resterà forse deluso di trovarvi le sigle convenzionali E, F e G. In mancanza di dati positivi ne è infatti tuttora fortemente incerta l’identificazione. Varie e controverse sono state le proposte di attribuzione. Picard 1936 aveva per primo messo in relazione tra loro i culti dei tre templi attribuendoli rispettivamente ad Apollo (tempio G), Artemide (tempio F), e Dioniso (tempio E); successivamente, soprattutto sulla base di una dedica a Hera (IG XIV 271), rinvenuta in situ, alcuni hanno identificato in un Heraion il tempio E, ma come già sottolineato da Bejor (1977), dati di questo tipo non possono essere considerati probanti. Più di recente diversi studiosi hanno seguito la strada dell’identificazione dei culti sulla base dell’omologia rispetto a quelli della madrepatria; nel caso specifico non Megara Iblea ma la stessa Megara Nisea che partecipò direttamente alla colonizzazione del territorio selinuntino. A Megara, infatti, sulle pendici dell’acropoli di Caria, sulla base di Pausania I 40,6 si succedevano un Olympieion, il tempio di Dioniso Nyktelios e il tempio di Afrodite Epistrophia; vari indizi portano infatti a considerare i templi della collina orientale di Selinunte «una possibile, voluta reduplicazione della madrepatria, riveste il più volte osservato conservatorismo culturale e linguistico di Selinunte, che ben si spiega con la collocazione isolata della colonia all’estremo occidente della Sicilia e con la forte pressione economico-sociale derivante dall’elemento elimo e fenicio sul nucleo originario dei coloni megaresi» (Coarelli - Torelli 1984, p. 88). Il punto maggiormente cogente delle argomentazioni di Coarelli - Torelli
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(1984, pp. 81-88) riguarda il nesso tra tempio E (Afrodite) (fig.1) e tempio F (Dioniso). Il primo tempio F (circa 550-540), infatti, rivela l’eccezionale presenza di un muro alto m 4,70 fra le colonne della peristasi che chiude l’accesso al tempio sul retro; indizio della presenza di culti misterici dionisiaci, come noto spesso connessi al culto di Afrodite, in modo del tutto analogo rispetto ai nyktelia del tempio di Dioniso megarese; (i nyktelia sono orghiai notturne in stretto rapporto con il rito misterico della morte e resurrezione di Dioniso, un culto simile a quello di Osiride in Egitto (cfr. in part. Plutarco, de Iside et Osiride 35; e Quaestiones Romanae. 112); nyktelios è peraltro usuale epiteto nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli: cfr. altresì Pseudo, Zonara, Lexicon s.v. nonché Etymologicum Magnum p. 609, 20). L’Afrodite epistrophia venerata nel tempio megarese è a sua volta la dea che spinge gli uomini all’amore, contrapposta alla Afrodite apostrophia, che al contrario allontana gli uomini dall’amore; ma non ci sono però ulteriori attestazioni di questo culto.
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A questi elementi, già di per sé persuasivi, si può aggiungere un ulteriore dato desunto dalle fonti letterarie – non ancora messo in relazione con il tempio E – che sembra testimoniare la presenza di una forma di hierodoulia a Selinunte, e quindi confermare la possibile esistenza di un tempio dedicato ad Afrodite. Si tratta del fr. 201 Pfeiffer di Callimaco, dal giambo XI, di per sé poco significativo: « Ma no, per l’Ipsa, che il mio sepolcro…» . Un commentario papiraceo – la cui fonte va probabilmente ravvisata in Timeo (FGrHist 566 F 148) – offre tuttavia un’interessante contestualizzazione di questo altrimenti oscuro giuramento sul fiume extraurbano di Selinunte in cui è peraltro da notare il singolare quanto non noto riferimento a un ‘teatro’ selinuntino (Diegheseis in iambos, col. 5): Si sbaglia nel dire il proverbio “di chi li prende sono i beni di Connaro”: bisogna infatti dire “Connida”. E il proverbio ha questa origine: Connida, immigrato a Selinunte era diventato ricco gestendo un bordello. Fino alla fine andava dicendo che avrebbe distribuito i suoi averi ad Afrodite ed ai suoi amici. Alla sua morte si scoprì che il testamento conteneva le parole “di chi li prende sono i beni di Connida”. Perciò il popolo uscì dal teatro e saccheggio i beni di Connida. Selinunte è una città siciliana… (trad. G.B. D’Alessio).
La storiella di Connide, purtroppo perduta, ha ovviamente fatto pensare (D’Alessio 1996, p. 633) al fatto che la «donazione promessa sia da collegare a qualche forma di prostituzione sacra relativa al culto di Afrodite, come ad Erice», culto sincretistico ed ampiamente diffuso nel mediterraneo antico, legato alla divinità fenicia Astarte (cfr. Bonnnet 1996, in part. pp. 115 ss. su Erice). Il parallelismo ovvio con la donazione di Connide è in quello ben noto di Senofonte Corinzio che avrebbe donato cento etere al tempio di Afrodite come ex-voto per la vittoria ai giochi Olimpici, episodio immortalato in un celebre encomio di Pindaro di cui restano alcuni versi (fr. 122 Sn.-Mah.) citati nel racconto fattone da Ateneo (XIII 573c-574b). Il legame tra il perduto carme e il santuario di Afrodite Urania dell’Arocorinto (cfr. Strabone VIII 379 e Pausania II 5,1) ha fatto pensare che le etairai menzionate dalle fonti fossero vere e proprie hierodoulai (cfr. Cantarella 1981, p. 71 e Cavallini 2001, p. 193). D’altro canto gli studi più recenti hanno opportunamente sottolineato come la prostituzione sacra del Vicino Oriente – e di conseguenza le sue contaminazioni nel mondo greco-romano – sia una sorta di topos letterario piuttosto che una realtà storica documentata (Hooks 1985, Gruber 1986, Oden 2000, Lynn Budin 2003). In particolare S. Ribichini (2002), attraverso una puntuale analisi della documentazione epigrafica fenicio-punica e delle testimonianze letterarie classiche, ha evidenziato che per le donne di condizione servile utilizzate in un santuario è più opportuno parlare di prostituzione templare (ed è questo il fenomeno meno documentato, perché scarsamente diffuso piuttosto che perché usuale). Una prostituzione sacra temporanea o eccezionale era poi esercitata in particolari circostanze da donne libere (in particolari situazioni festive come le feste di Adonis in cui è una forma di trasgressione rituale dell’ordine normale; ancora per procurarsi il denaro necessario per l’adempimento di un voto); infine era diffusa anche una prostituzione dotale o prenuziale, in cui le giovani fanciulle si prostituivano presso un tempio appunto per procurarsi il denaro necessario per la dote, forma questa che rientra nella sfera sacrale solo per il richiamo al nome e al culto della dea che presiede all’amore, più che in un rituale vero e proprio. In definitiva «è comunque da sfatare l’idea che i santuari di Astarte altro non fossero che ricchi bordelli, per la quale, come si è visto, la documentazione è tutt’altro che chiara e abbondante. Manca parimenti di prove certe a sostegno il luogo comune di riti sessuali finalizzati al mantenimento delle misteriose forze della vita, propagandati nel Mediterraneo a opera dei
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Fenici adoratori di Astarte» (Ribichini 2002, p. 64) (fig.2). In conclusione, per tornare al presunto tempio di Afrodite a Selinunte, la storia di Connide ha a che fare con la ‘prostituzione sacra’? E in ogni caso può essere probante per l’identificazione del tempio E di Selinunte? Il parallelismo tra Pindaro-Corinto e Callimaco-Selinunte indurrebbe certo a postulare anche per Selinunte un tempio di Afrodite perché sia plausibile una donazione di etere, come quella narrata nel giambo XI di Callimaco. Tempio direttamente evocato dall’espressione del commentario antico secondo cui Connida avrebbe inteso «distribuire i propri averi ad Afrodite». In entrambi i casi la hierodoulia non consisterebbe in riti sessuali ‘sacri’ legati al culto della vita, ma in una forma di prostituzione templare in cui il legame tra etere e santuario è da porre in relazione all’adempimento di un voto (per Senofonte) o ad un lascito testamentario (Connide).
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Il testamento su cui gioca (come possiamo solo supporre) Callimaco potrebbe quindi configurarsi come una donazione alla divinità che in ogni caso è da considerarsi la patrona anche delle prostitute da parte di uno straniero che si era arricchito grazie ad esse. Anche in questo caso quindi una sorta di adempimento di un voto di riconoscenza per il successo (economico) ottenuto in vita.
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1. La lamina plumbea della Lex sacra (da Jameson – Jordan – Kotanski 1993). 2. La lamina plumbea della Lex sacra, la colonna A (da Jameson – Jordan – Kotanski 1993).
3. La lamina plumbea della Lex sacra, la colonna B (da Jameson – Jordan – Kotanski 1993). 4. L’Apografo della Lex Sacra (da Jameson – Jordan – Kotanski 1993).
5. Ricostruzione ipotetica di un axon soloniano (da Cartledge 1998, p. 141).
Purificare e riconciliare la polis: la Lex sacra Nicola Cusumano
Nel mondo greco, a seguito di un omicidio o di altri eventi ritenuti contaminanti, era compito dei parenti della vittima e in generale di coloro che si consideravano vittime, perseguire l’autore del delitto. Il primo provvedimento da prendere era l’estromissione di colui che era ritenuto colpevole dalla comunità civica, ossia dagli spazi pubblici condivisi, così come da quelle attività collettive intorno alle quali si condensava il sentimento stesso di partecipazione comunitaria. È soprattutto da Atene che proviene la stragrande maggioranza delle nostre testimonianze, in particolare del V e IV secolo a.C. Diverse e complesse sono le procedure messe in atto da una società per preservarsi da pericoli generati da gravi trasgressioni, come i delitti di sangue, soprattutto quando coinvolgono l’ambito familiare. L’aspetto forse più interessante è tuttavia l’intreccio inestricabile del pubblico e del privato nella soluzione della crisi. I congiunti della vittima non sono, infatti, gli unici protagonisti: al loro fianco è la polis intera a schierarsi in difesa dei propri nomoi, ossia delle leggi, scritte e non, concepite come architettura di un ordine voluto, approvato e garantito in ultima istanza dagli dei. Per tale ragione anche i magistrati e i sacerdoti, a nome di tutti i cittadini, svolgono un compito fondamentale per la tenuta della coesione sociale. Un’osservazione preliminare, e direi spontanea, è che le semplici istituzioni umane (i tribunali, nel nostro caso) da sole non bastano, nella cultura greca, a ripristinare quei sentimenti di philia, koinonia e harmonia profondamente lacerati da atti di violenza. Insomma, quel mondo greco che siamo stati educati a concepire come la sfera perfetta di una razionalità tutta umana e conclusa in se stessa si rivela invece ben consapevole degli inevitabili limiti di una giustizia solamente umana e cerca altre vie di ricomposizione che coinvolgono anche la
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sfera divina. Se Atene costituisce un punto di riferimento imprescindibile per riflettere su questi rapporti così stretti tra diritto, religione e identità sociale, sorprendente è il contributo che in questi ultimi anni abbiamo ricevuto da Selinunte. La pubblicazione di uno straordinario documento epigrafico, comunemente noto come Lex sacra selinuntina ha consentito di allargare lo sguardo a tutto il Mediterraneo greco da una prospettiva al tempo stesso eccentrica e centrale, incarnata da una polis eccezionale sotto diversi aspetti. Città di frontiera, ma inserita in una rete di contatti di larghissimo respiro, Selinunte è stata una delle poleis più monumentalizzate, segno di grande prosperità (non solo economica), ma anche un centro caratterizzato da un forte multiculturalismo: un’apertura che si accompagnava anche – va da sé – ad una maggiore frequenza di attriti e conflitti, sia interni che nei confronti del variegato spettro di culture che quotidianamente attraversavano il suo spazio vitale.
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La Lex sacra di Selinunte è una laminetta di piombo, forse la più grande fin qui scoperta (anche in questo non casuale dettaglio Selinunte manifesta il suo primato): le dimensioni sono, infatti, di 0,597m x 0,23m e la storia del suo ritrovamento costituisce una sorta di storia nella storia, che non è qui possibile narrare in dettaglio, se non ricordando che si tratta di uno dei casi più eclatanti ed esemplari di violazione del nostro patrimonio culturale, risoltosi felicemente con il ritorno a casa di questo fondamentale documento, dopo lunghe trattative con il Paul Getty Museum e con il governo degli Stati Uniti d’America. Su questa laminetta furono incisi due testi reciprocamente connessi e dunque legati da un’unità di fondo (Colonna A e Colonna B), in un periodo imprecisato, ma che può verosimilmente essere compreso nella prima metà del V secolo a.C. (che è anche l’apogeo di Selinunte sotto molti aspetti). Le foto e l’apografo qui riprodotti (figg. 1-4) lasciano ampiamente intuire il cattivo stato di conservazione e la lacunosità dei testi conservati: eppure questo non ha impedito un’indagine approfondita e preziosa, che fa di questo documento una miniera di informazioni destinata a fornire per molto tempo ancora ampia materia di riflessione. Si tratta di prescrizioni rituali volte a risolvere situazioni di impurità individuali e collettive, derivanti da trasgressioni che di norma gli studiosi moderni riconducono a delitti di sangue, e in generale a quegli avvenimenti che feriscono la memoria degli uomini.
Numerose divinità vi sono implicate: da Zeus Meilichios (vedi qui il contributo di F. Schiariti), già noto dall’area sacra della Gaggera e ampiamente attestato in molti centri greci e in particolare Atene, a Zeus Eumenes e alle Eumenidi. Altrettanto numerosi gli attori umani: i protagonisti delle azioni violente o comunque esecrabili, le associazioni cultuali alle quali questi uomini sono legati o che comunque si incaricano di eseguire i rituali, i sacerdoti e i magistrati della città. Di particolare interesse una sezione della colonna B, che contiene prescrizioni per purificarsi dall’influsso di alcune entità demoniache, indicate nel testo con il nome di elasteroi. Molti studiosi sostengono una loro sostanziale sovrapponibilità con gli alastores, esseri legati alle Erinni e alla persecuzione degli assassini, ben noti grazie in particolare al teatro greco. Tra i numerosi esempi mi limito a ricordare la scena dell’Eracle di Euripide, quando, dopo aver ucciso moglie e figli, l’eroe vede arrivare Teseo e si chiude nel silenzio velandosi il capo, preso dal timore di contagiargli il proprio alastor (vv. 1233-1243). Questo tipo di situazione non apparteneva certo solo all’immaginario della trama teatrale, ma doveva invece essere un sentimento familiare e diffuso: alterare la trama dei nomoi, delle norme in cui si condensa la volontà dei cittadini-politai, significa mettere a repentaglio l’ordito della vita della polis e la sua continuità. Solo dopo la purificazione indicata nella Colonna B il colpevole è riammesso nella sua comunità e sarà possibile rivolgergli la parola e consentirgli di mangiare e dormire dove vuole, come prescrive scrupolosamente la nostra Lex. I sacrifici sull’altare pubblico concludono questo percorso ristabilendo il corretto equilibrio. I Greci di età arcaico-classica, e tra loro gli abitanti di Selinunte, non riuscivano evidentemente a pensarsi al sicuro da questi pericoli, soprattutto quando si trattava di traumi che esplodevano all’interno stesso del corpo sociale: i rituali purificatori prescritti mirano difatti a disinnescare lo spettro di una violenza inobliabile che potrebbe contaminare e alterare il cuore stesso dell’identità individuale e collettiva. Per tutte queste ragioni essa doveva essere certamente esposta, affissa all’interno di un santuario (forse sull’acropoli, considerati gli aspetti pubblici dei rituali) oppure inserita in apposite strutture lignee, come avveniva per le leggi e i regolamenti pubblici ad Atene (fig. 5) che consentivano la rotazione del testo per una lettura completa, o almeno per marcare una sua visualizzazione pubblica (l’esempio più noto resta quello del codice di Solone, cfr. Plutarco, Vita di Solone, 25).
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1. Zeus Meilichios, rilievo marmoreo da Corfù (da LIMC VIII, 2). 2. Area sacra di Zeus Meilichios a Selinunte (da Famà-Tusa 2000). 3. Stele “gemina” dal santuario di Zeus Meilichios a Selinunte (da
Famà-Tusa 2000). 4. Rilievo votivo dal santuario di Pankrates sull’Ilisso (da Vikela 1994).
Zeus Meilichios: tipologia religiosa e rapporti con il mondo punico Federica Schiariti
Si può dire che tra le divinità che popolavano il pantheon della città greca di Selinunte Zeus Meilichios sia quella che merita maggiore attenzione, almeno se ci prefiggiamo di considerare la storia religiosa di questo centro anche all’indomani del suo definitivo passaggio nell’orbita punica. Che tipo di figura divina si cela dietro il nome del sommo dio ellenico accompagnato da un epiteto che lo designa «dolce come il miele»? Prendendo le distanze dalle troppo radicali asserzioni della passata letteratura scientifica, che tendevano spesso ad equipararlo tout court ad una potenza infera e di conseguenza ad interpretare l’epiteto stesso in senso più o meno eufemistico (Rohde 1982, p. 275, n. 1; Cook 1965, pp. 1112-14), dobbiamo innanzitutto attenerci ai fatti. Zeus Meilichios è strettamente legato alle pratiche espiatorie: nella veste di dio “purificatore” lo ritroviamo ad Atene, dove le fonti letterarie (Pausania, I, 37, 4; Plutarco, Thes. XII, 1) riportano la presenza di un suo antico altare nelle vicinanze del fiume Cefiso, presso il quale Teseo sarebbe stato mondato dall’assassinio del cugino brigante Sinis ad opera dei Phytalidai. L’Attica era sede di vari santuari del Meilichios, i quali ci hanno restituito numerose vestigia relative al culto del dio. Particolare interesse per noi rivestono i rilievi figurati, in quanto rivelatori di una caratterizzazione iconografica della nostra divinità che possiamo definire veramente significante. Essa ci appare infatti come personaggio regale, barbuto, generalmente seduto su un trono o su una sedia; suoi attributi preferenziali sono lo scettro e la patera, e secondariamente la cornucopia (fig. 1): questi tratti caratteristici non cambiano complessivamente nel resto della Grecia continentale ed insulare, ovunque la venerazione per Zeus Meilichios ci abbia lasciato delle rappresentazioni iconiche. Varie sono in ogni caso le
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località che vantano una qualche attestazione della sua presenza, con una certa concentrazione di testimonianze in Beozia e, come già detto, sulle isole. L’epiteto che accompagna questo Zeus poteva essere utilizzato anche per altre divinità. In particolare, Meilichios era un appellativo di Dioniso a Nasso (Ateneo, III, 78c), motivato dal locale rapporto di questo dio con il frutto del fico, detto anche meilichos e collegato a pratiche purificatrici: una traccia, questa, che ci riporta ancora alla qualità precipua dello Zeus di cui ci stiamo occupando. D’altro canto, abbiamo anche notizie che documentano l’accostamento dell’aggettivo alle Ninfe, ad Era, Afrodite, Artemide, nonché la comparsa di una Miliche a Tespie in associazione alla sua controparte maschile. Un calendario sacrificale ateniese del IV sec. a.C. connette in qualche modo, dal punto di vista topografico, le solenni feste dedicate dalla città al Meilichios (le Diasia) ai Piccoli Misteri eleusini, completando così la notizia di Tucidide (I, 126) che voleva entrambe le celebrazioni in stretta contiguità temporale.
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A proposito della documentazione iconografica, il dato macroscopico che emerge è rappresentato dall’appartenenza di Zeus Meilichios ad una larga koinè figurativa, quella che riunisce le svariate manifestazioni dello Zeus benefico, soter: Zeus Soter, appunto, Zeus Philios/Naios, Zeus Ktesios, Zeus Asklepios, Trophonios ecc., fino a comprendere i personaggi affini di Agathodaimon ed Agathos Theos. Tale koinè trova la sua espressione nel modulo stereotipo del dio barbuto, maestoso e benigno, munito delle insegne regali e/o della cornucopia, il quale viene usato indifferentemente per ciascuna di queste divinità: essa si rispecchia funzionalmente nell’analogia delle attribuzioni complessive di questo gruppo divino (ovviamente con le dovute sfumature e con i compiti particolari riservati ad ognuno dei suoi appartenenti), le quali si possono riassumere nella capacità di assicurare agli uomini il soccorso nei più svariati campi della loro esistenza (nella sfera privata della casa, della salute e dei beni di proprietà, così come in quella della cerchia amicale ed in quella ancora più larga - pubblica - dell’ordine, del ristabilimento delle regole, della purificazione e della pacificazione [Cusumano 2006, pp. 173-74]). Ho volutamente omesso di citare in coda alla lista degli “Zeus Soteres” la figura di Zeus Pankrates, la quale, pur rientrando a pieno diritto nella tipologia divina appena delineata, merita una menzione a parte poiché mi permetterà di proporre un piccolo confronto con la situazione che interessa il Meilichios a Seli-
nunte. E’ invece utile ora rimarcare come quest’ultimo interferisca talvolta con la sfera demetriaca, mettendo in luce un aspetto che introdurrebbe nell’ambito di un discorso molto complesso che qui non può ovviamente essere affrontato: quello concernente le divinità maschili di tipo “ctonio” ed il loro rapporto con Demetra e – solitamente - la figlia di questa Kore-Persefone. Brevemente, possiamo solo puntualizzare come Zeus Meilichios ed i personaggi rientranti nella medesima tipologia non siano forse da considerare, alla luce delle più recenti acquisizioni e tendenze storico-religiose, delle entità propriamente ctonie, almeno nel senso in cui – erroneamente, credo – si voglia far coincidere del tutto l’aggettivo “ctonio” con quello “infernale”: cionondimeno, ritengo che alcune tipiche ricorrenze rappresentative e cultuali, alcune analogie di interessi e di pertinenze giustifichino ancora in qualche misura l’accostamento delle divinità “soteres” a quelle legate propriamente al mondo sotterraneo (cfr. la concezione generale contenuta in Scullion 1994, passim). Nel caso del Meilichios, ad esempio, sono documentate alcune associazioni a contesti tesmoforici, quelli tanto accuratamente analizzati da G. Sfameni-Gasparro (1986, passim). Ciò ci riporta immediatamente alla collocazione del culto selinuntino del dio, al quale era dedicato un piccolo santuario extra-muraneo ad ovest della città (fig. 2) ed in stretta contiguità con quello maggiore della Malophoros, una divinità femminile della fecondità nella quale si riconosce agevolmente Demetra (per tutte le informazioni riguardo al sito mi rifaccio alla esaustiva pubblicazione di M.L. Famà e V. Tusa [Famà-Tusa 2000]). L’acqua ha un ruolo vistoso nell’economia del complesso sacro (com’è naturale, trattandosi di un contesto demetriaco); inoltre, questo era ubicato nelle immediate vicinanze sia di un porto che dell’antico corso del fiume Modione. L’elemento acquatico riveste poi, a quanto sembra, un’importanza preponderante nel determinare una tipologia di culti salvifici e “salutari” particolarmente adatti ad incontrare il favore dei Fenici o dei Punici che di volta in volta ed in contesti diversi hanno avuto modo di avvicinarsi, interagire e/o scontrarsi con le popolazioni greche. Il temenos di Zeus Meilichios fu fondato con ogni probabilità contemporaneamente al santuario di Demetra (fine VII sec. circa), ed è il luogo di ritrovamento di un cospicuo numero di offerte votive consistenti in stele di vario tipo, rozzamente squadrate o figurate, iscritte e non, ma tutte riferibili chiaramente ad un culto che si rivolgeva all’individuo singolo da un lato ed a strutture di tipo superindividuale-familiare dall’altro (Cusumano 1991). Centrale è il problema
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dell’inserimento dell’elemento punico nel contesto dell’area sacra, poiché gli studi degli archeologi hanno sì stabilito come la monumentalizzazione ancora oggi visibile del santuario (compresa l’erezione di un altare betilico) risalga all’epoca immediatamente posteriore alla presa della città da parte dei Cartaginesi nel 409, ma sulla dibattuta questione dell’inquadramento cronologicoculturale delle famose stele “gemine” ivi ritrovate (riproducenti un volto maschile ed uno femminile affiancati) ancora non c’è pieno accordo. Sarà verosimilmente saggio attribuire questi interessanti manufatti, di impronta palesemente punica (fig. 3), soprattutto al periodo dell’eparchia straniera, pur non escludendo una probabilissima frequentazione del luogo sacro greco da parte di genti di stirpe fenicia anteriormente alla dominazione (è superfluo ricordare i rapporti di vicinanza, e perfino di amicizia, intercorrenti tra Cartaginesi e Selinuntini nei secc. VI e V [cfr. Tusa 1985, p. 613]). Spinoso è pure il problema dell’identificazione della divinità femminile raffigurata nelle stele, per la quale non abbiamo alcun indizio epigrafico ed è stata invece proposta tutta una serie di denominazioni, tra le quali quelle più plausibili sono, a mio parere, quella come Era (venerata in un tempietto poco distante) e quella come Demetra Malophoros. 34
Il culto del Meilichios doveva essere comunque importante per gli abitanti di Selinunte, fossero essi Greci o Punici. Non ho bisogno di ricordare qui come il dio fosse variamente nominato nella Lex Sacra che tante utili discussioni ha suscitato e di cui si occupa qui N. Cusumano. L’unica altra attestazione siciliana del suo culto proviene da Halaesa, della quale un’epigrafe ricorda il Meilichieion (IG XIV, 352); la data di fondazione della città (attorno al 403) unitamente ai particolari attinenti l’ubicazione santuariale fanno fortemente sospettare che lo stabilimento del santuario stesso fosse opera di esuli selinuntini sfuggiti al massacro (Cusumano 2006, p. 176). Il temenos nella stessa Selinunte, inoltre, fu l’unica area sacra (insieme a quella dedicata ad Era) a conoscere una continuità di frequentazione dopo l’insediamento dei nuovi dominatori. Forse non c’è bisogno di immaginare una sostituzione dei personaggi divini titolari del culto con altri appartenenti alla religione di Cartagine, e comunque sia non vi è prova che la coppia rappresentata nelle stele sia quella formata da Baal Hammon e Tanit (anche se della presenza di quest’ultima a Selinunte possediamo alcune rilevanti attestazioni materiali). I tentativi, antichi e moderni, di far derivare la figura del Meilichios greco da dèi semitici di volta in volta diversi – la prima dichiarazione in tal senso risale a Fi-
lone di Biblo, con la sua equiparazione del dio greco all’eroe navigatore fenicio Chousor morto e divinizzato (FHG III, 566) – non hanno retto al vaglio accurato della critica odierna (si veda il resoconto del problema in Cusumano 1991, pp. 30-31). Dovremmo ammettere che un’entità divina come questa, per antonomasia benigna e soccorrevole, esercitasse pur nella sua fondamentale grecità un particolare appeal nei confronti delle genti anelleniche. Mi ricollego così, al termine di questo breve e certo molto parziale excursus, alla mia precedente menzione di Zeus Pankrates, lasciata volutamente in sospeso. La situazione che a Selinunte coinvolge il Meilichios mi è sembrata per alcuni versi confrontabile con quella che nel santuario ateniese di Pankrates sull’Ilisso coinvolgeva tutta una serie di benefiche Vatergottheiten contraddistinte dal medesimo, già descritto modulo iconografico e accomunate dal rapporto con l’acqua salutifera e fluviale: lo stesso Pancrate (fig. 4), Plouton, Palaimon venivano venerati fianco a fianco in una quasi totale sovrapposizione (Vikela 1994, passim e spec. 89-90). Sappiamo che una parte consistente di fedeli era costituita da marinai fenici (soprattutto il koinòn dei Sidoni), i quali volentieri ritrovavano il loro Melqart protettore e marinaio in quelle figure rassicuranti e simili tra loro (soprattutto Palaimon in virtù della nota leggenda, ricca di suggestioni orientali, che lo legava al bimbo Melikertes ed all’ambiente marino). Potremmo ravvisare una tendenza simile, senza volervi trovare forzate analogie, sullo sfondo dell’attenzione dimostrata dai Punici per Zeus Meilichios.
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1. Sigillo a bottone egittizzante. Selinunte, Necropoli di Manicalunga (Kustermann Graf 2002, tav. LXXVII, 964). 2. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula egittizzante.
Gli Aegyptiaca di Selinunte Manuel Martinez
La polis di Selinunte documenta, sia in contesti santuariali sia funerari, un’esigua quantità di Aegyptiaca riferibili a differenti fasi cronologiche. Gli esemplari più antichi (VII-VI secolo a.C.) provengono dal santuario arcaico della Malophoros e sono prodotti dell’emporio greco di Naukrati, in Egitto, con testimonianze nei maggiori centri del Mediterraneo antico. Da Selinunte proviene un amuleto riproducente Horo falcone: privo di coronamento, presenta numerosi confronti nelle molteplici varianti in cui è conosciuto in contesti punici: i riscontri più prossimi sono a Cartagine, a Cagliari, ad Olbia, a Sant’Antioco, a Tharros e ad Ibiza. Un altro amuleto documentato a Selinunte è il tipo di Isi nutrice in trono, anche questo ampiamente diffuso in ambito mediterraneo (Cartagine, Tharros, Ibiza, Cagliari e Nora) nelle sue numerose varianti. Da rapportare all’egittizzante cipro-naukratide è anche la statuina votiva della metà del VI secolo a.C. raffigurante un «suonatore di doppio flauto». Il tipo trova confronti sia in contesto siceliota (ad Agrigento nel santuario delle divinità Ctonie e a Gela nel santuario di Bitalemi) sia nella stessa Naukrati. Il personaggio, con parrucca di tipo saitico, riflette le soluzioni della plastica egizia, anche se in realtà la tipologia trae le sue origini dalla statuaria cipriota. Probabilmente siamo di fronte a una sincretistica divinità che tutela la salute dei figli, da accostare all’Apollo cipriota e all’egizio Horo. Medesima origine naukratide sembra avere un unguentario in faïence che raffigura un personaggio egittizzante con acconciatura a klaft. La figura, inginocchiata, tiene le mani su un grande vaso canopo, il cui coperchio è sormontato da una rana. Si tratta di una tipologia molto diffusa, l’immagine del cosiddetto «dio Nilo», che doveva contenere le ac-
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que sacre del fiume e per converso unguenti medicamentosi, soprattutto contro le infiammazioni oculari. Balsamari analoghi sono documentati a Siracusa nella zona dell’Athenaion e nella necropoli del Fusco, in Etruria, oltre che in molti altri centri punici del Mediterraneo. Il limitato numero di Aegyptiaca rinvenuti nel santuario selinuntino può in parte spiegarsi con la testimonianza di Gabrici, che ricorda come «la categoria degli oggetti di pastiglia invetriata di un leggiadro colore azzurrognolo, di importazione orientale, è assai limitata, perché la maggior parte di essi o per l’umidità della sabbia o per sali, che questa contiene, furono ridotti ad uno stato tale di disgregazione, che asciugandosi diventano polvere. In tal modo andarono distrutti molti scarabei, correnti di collana, aryballoi a striature incrociate ed oggetti di simil fatta» (Gabrici 1927, col. 377).
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Per quanto concerne i contesti funerari, una sepoltura della necropoli di Manicalunga di Selinunte, in contrada Gaggera, ha restituito un sigillo a bottone egittizzante (fig. 1) in faïence della seconda metà del VII secolo a.C. Lo scaraboide presenta impresso un felino passante a destra con sopra disco solare. L’iconografia, ricorrente in ambito naukratide, si ritrova su numerosi scarabei saitici rinvenuti a Cartagine, con diverse varianti: felino passante e disco solare, felino accosciato e disco solare, felino passante con disco solare e piuma maat, felino retrospiciente con disco solare munito o meno di piuma maat. Esemplari analoghi sono documentati anche ad Utica e in contesti iberici. La medesima iconografia (leone accosciato con sopra disco solare e piuma maat) è presente anche su uno scarabeo-cauri (cowroids) cartaginese di VII-VI secolo a.C. proveniente dalla necropoli di Douïmès. Per quanto concerne l’analisi iconologica, J. Vercoutter e W.M.F. Petrie ritengono che l’iconografia del leone e del disco solare altro non sia che un titolo di Psammetico I, o meglio una variante del nome del sovrano. Data la considerevole quantità di scarabei e scaraboidi a Cartagine recanti quest’iconografia, è da ritenere che la metropoli punica abbia costituito il luogo di smistamento di tali prodotti, confezionati nel centro egiziano di Naukrati e poi diffusi nelle diverse località del Mediterraneo occidentale, compresa Selinunte. Un ultimo manufatto amuletico preso in esame, di cui non è specificata la provenienza, è una placchetta di V-IV secolo a.C. raffigurante su una faccia l’occhio di Horo (udjat) a sinistra e sull’altra la vacca Hathor che allatta a destra,
tipo ampiamente diffuso in tutto il Mediterraneo punico (Cartagine, Mozia, Palermo, Tharros, Sant’Antioco, Ibiza), ma anche nei centri greci e sicelioti. Motivi egittizzanti sono, infine, presenti nelle cretule rinvenute nel tempio C di Selinunte punica. Una di queste impronte (fig. 2) reca impresso, entro un cartiglio, un disco solare affiancato da due urei, sormontato da una barca di papiro con due personaggi pterofori; nel campo in alto è un disco solare alato. L’esemplare mostra come in ambito punico, nella rappresentazione iconografica, si assiste spesso ad un processo di semplificazione: alcuni segni, originariamente fonemi, hanno perso il loro valore di fonogrammi (il significante), pur mantenendo intatto quello ideogrammatico (il significato).
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1. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCLXXI della catalogazione Salinas 1883. 2. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCCCXI della catalogazione Salinas 1883.
3. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCCCXII della catalogazione Salinas 1883. 4. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula 508 della catalogazione Salinas 1883.
5. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCCLXXIX della catalogazione Salinas 1883.
L’archivio del tempio di Apollo: alcune considerazioni Enrico Acquaro
Nel 409 a.C. Annibale Magone conquista Selinunte. La colonia megarese aveva accolto in esilio suo padre, Giscone, che lì era morto, e poteva contare su attivi rapporti con Cartagine: tuttavia, a prestare fede a Diodoro Siculo, non le fu risparmiato nulla (Musti 2008. pp. 55052). Furono distrutte le mura, abitazioni, templi. 16.000 furono i morti, 5.000 i prigionieri, in parte deportati a Lilibeo (Diodoro, XXIV,1), e solo 2.300 Selinuntini riuscirono a trovare scampo nella fuga. Ma, come spesso succede leggendo le fonti classiche, sembra che questa distruzione non dovette essere così apocalittica se lo stesso Diodoro, XIII, 59, 1-3, annota: « …Venuti a conoscenza che la città era caduta in mano cartaginese, i Siracusani mandarono un’ambasceria ad Annibale [Magone] per invitarlo a rilasciare i prigionieri dietro pagamento di un riscatto e a non profanare i templi degli dèi. Annibale replicò che i Selinuntini, per il fatto di essere stati incapaci di difendere la libertà della loro città, avrebbero dovuto sperimentare la schiavitù e che i loro dèi si erano allontanati da Selinunte per il forte risentimento che provavano nei confronti degli abitanti. Ad ogni modo, quanti erano in esilio mandarono come loro ambasciatore Empedione e a lui Annibale restituì i suoi possessi, dal momento che aveva sempre appoggiato la causa dei Cartaginesi…inoltre il Cartaginese, per fargli cosa gradita, concesse la libertà ai parenti che erano fra i prigionieri e ai Selinuntini che erano in esilio accordò il permesso di rientrare nella loro città e di coltivare i campi a condizione
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che pagassero un tributo ai Cartaginesi». La concessione al rientro data da Annibale Magone presuppone, quindi, l’attività di uno strumento amministrativo in grado di registrare in loco atti e tributi, con un ruolo d’archivio che doveva svolgersi, come era d’abitudine, in un luogo templare. Il ritrovamento di 643 cretule su i primi due gradini al di sotto dello stilobate presso l’angolo sud-est del tempio C, o di Eracle, o meglio diciamo noi di Apollo a seguito degli analoghi rinvenimenti di Cartagine d’Africa, sono i testimoni della vita plurietnica che Selinunte conduce per poco più di un secolo.
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Le impronte, ora conservate nel Museo Archeologico regionale «Antonio Salinas» di Palermo, impresse su argilla cruda non sempre ben depurata e cotte dalle fiamme delle distruzioni, costituiscono, con il raccordo spesso puntuale ad incisioni sigillari dei corredi personali delle necropoli puniche, un repertorio «araldico» di notevole valore. Infatti, le impronte degli archivi di Cartagine e di Selinunte e i sigilli delle tombe, da Cartagine a Kerkouane, da Tharros a Senorbì ed Ibiza, ci restituiscono un repertorio inatteso per ricostruire la diffusione degli émblema delle famiglie cartaginesi e di altre etnie che si sono integrate nelle singole comunità puniche d’Africa, di Sicilia, di Sardegna e dell’Iberia. Le centinaia di cretule selinuntine propongono schemi egittizzanti, vicinoorientali, greci. Le poche che presentiamo riportano tre temi figurativi: la barca di papiro (ultimo esito del cartiglio faraonico) (figg.1-3), il cavallo al galoppo (fig. 4), le tre spighe (fig.5). La rappresentazione del cavallo e delle spighe di grano ci rimanda ad alcuni tipi monetali cartaginesi. Ma non c’è da stupirsi: non è la moneta espressione anch’essa di un émblema comunitario? Da ultimo, le cretule di Selinunte ci invitano a recuperare quella realtà sigillare, spesso poco nota, che dovette scandire la vita dell’antichità quale identità epistolare pubblica e privata, ma anche come timbro di proprietà di beni mobili ed immobili.
Basta ricordare alcune testimonianze. Già Euripide, nell’Oreste (1108: «Certo: [Elena] sta mettendo sigilli dappertutto») e nell’Ifigenia in Aulide (34-42: « …tu alla luce diffusa di una lampada scrivi una lettera – la tieni ancora in mano –, e cancelli e riscrivi, e metti e togli il sigillo…») ricorda questo doppio utilizzo. Da Plutarco e da Cassio Dione abbiamo notizia delle immagini sigillari di alcuni personaggi storici: un trofeo era inciso nell’anello di un comandante al seguito di Timoleonte (Vita di Timoleonte, 31, 6); un leone armato di spada (Vita di Pompeo, 80,7) e tre trofei negli anelli sigillari di Pompeo Magno, trofei che riprendevano l’émblema di Silla (Cassio Dione, XLII,18,3); Venere armata era incisa nell’anello di Giulio Cesare (Cassio Dione, XLIII, 43,3); Ottaviano Augusto condivise per qualche tempo con Agrippa e Mecenate l’incisione sigillare di una sfinge, a cui aggiunse in seguito la propria immagine, mentre l’imperatore Galba adottò la figura di un cane sulla prua di una nave (Cassio Dione, LI, 6-7). Ancora utili notizie si ricavano dalla lettura di Diogene Laerzio, che ricorda l’uso di sigillari beni domestici (Vite dei Filosofi, libro quarto, capitolo VIII, 59), la raccomandazione di «non portare in giro un’immagine di divinità incisa nell’anello» (IV 8,1,17) e, da ultimo, la norma dettata da Solone (I 2, 56), che disponeva come non fosse lecito all’incisore di anelli «conservare il sigillo dell’anello venduto».
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1. Bassorilievo della tomba di Petosiri (da Capriotti Vittozzi 2007). 2. Bassorilievo della tomba di Petosiri, particolare (da Capriotti Vittozzi). 3. Selinunte, tempio C, di Apollo,
cretula XL-CXXXVIII della catalogazione Salinas 1883.
Bes, Sileno e l’ambientazione dionisiaca nelle cretule della Selinunte punica Paola De Vita
L’indagine avviata da Rossana De Simone (De Simone 2008) sull’apporto «semitico» nell’archivio del tempio di Apollo a Selinunte, sulla base dell’individuazione di alcuni nuclei figurativi inquadrabili nell’ambito di diverse tradizioni iconografiche, ha portato all’individuazione di alcune figure divine non prima compiutamente enucleate. Fra queste aveva messo in evidenza una cretula che mostra la testa di Bes sormontata da un «modio». A nostro parere il «modio» è da leggersi come la corona a piume dritte di tradizione libica. L’impronta reca a sinistra la figura di Apollo in atto di suonare la lira ed al centro il delfino e la clava: con tutte le cautele della casualità della coincidenza delle diverse iconografie, pubbliche e private, viene spontaneo notare che in questo caso le due immagini di «privati», quella di Apollo e di Bes, si rifanno ad una comune lettura iconologica legata al tema del simposio dove si manifestano sia l’aspetto musicale sia quello del vino. Nel mio intervento tenuto, il 31 marzo del 2010, a Ravenna nella giornata di Studio «Da Tell Afis in Siria a Mozia: studi e ricerche di archeologia orientale», avevo avuto modo di notare il ruolo notevole che la committenza attribuisce a Bes nell’eclettico repertorio figurativo della glittica cartaginese in pietra dura. Qui l’iconografia di Bes, divinità egizia entrata precocemente nella serie delle divinità dinastiche fenicie, in particolare cipriote, è chiamata ad operare complessi sistemi sincretici in diverse scene sigillari. In queste sinergie rientra anche l’affinità fra l’iconografia del Sileno e quella del Bes, che trova spiegazione nelle stesse origini mitiche «la natura parzialmente felina di Bes e il suo appartenere al corteggio di Hathor, signora dell’erotismo e della gioia, della musica, dell’ebbrezza lo avvicinano al sileno che accompagna Dioniso nel suo corteggio gioioso e trasgressivo» (Capriotti Vittozzi 2007, p. 102).
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L’archivio di Selinunte punica con la rivisitazione di alcune cretule conferma la nostra notazione. In particolare, la documentazione selinuntina indirizza l’equivalenza fra Bes e il Sileno in una compiuta lettura dionisiaca, dove è l’ebbrezza del vino che restituisce a Bes le più antiche ambientazioni orientali del dio: qui il vino gioca un ruolo non secondario (Capriotti Vittozzi, 2006). A tal proposito ricordiamo la rilettura che Giuseppina Capriotti Vittozzi dedica ai bassorilievi della tomba di Petosiri a Tuna El-Gebel (Capriotti Vittozzi 2007) (figg. 1-2). La tomba egizia, del periodo ellenistico, mostra nel muro ovest del pronao un personaggio dell’aspetto Bes/Sileno impegnato nel «fare» il vino. Tale raffigurazione come giustamente si osserva «mostrerebbe un processo di assimilazione che riconosce Bes nel Sileno, collocandolo dunque nell’ambito dionisiaco in cui il vino è complementare» (Capriotti Vittozzi, p. 102). Le varianti iconografiche di Bes/Sileno impresse sulle cretule dell’archivio di Selinunte punica, alle quali assegniamo lo stesso significato iconologico d’ambientazione dionisiaca, sono tre: la testa di Bes coronato dai grappoli d’uva, ben riconoscibile su tre impronte (figg. 3-5); la testa di Sileno leggibile su almeno cinque cretule (figg 6-10); su due cretule una testa che media le connotazioni delle due fisionomie mitiche (fig. 11-12). 46
Le riproduzioni fotografiche che si propongono, svincolano i documenti dalle problematiche realizzazioni grafiche del Salinas, e trovano significative corrispondenze nelle cretule rinvenute nel tempio d’Apollo di Cartagine, datate dal V a.C. al III secolo a.C. (figg. 13-14). (Berges 1997, p. 61, nn. 380-382). La lettura iconologica proposta, per le equivalenze sincretiche documentate, ben si colloca nella composita etnia della Selinunte punica, città che non perde con la nuova gestione cartaginese quella vocazione plurietnica che l’aveva caratterizzata già dalla fondazione.
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4. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCCLI-CXXV della catalogazione Salinas 1883. 5. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CXXXVI-CCCLXXVI della catalogazione Salinas 1883. 6. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CCCLXVI della catalogazione Salinas 1883. 7. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CXXXIV della catalogazione
Salinas 1883. 8. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula 4269 della catalogazione Salinas 1883. 9. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CXLV della catalogazione Salinas 1883. 10. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula CXLIV della catalogazione Salinas 1883. 11. Selinunte, tempio C, di Apol-
lo, cretula CXXXIX della catalogazione Salinas 1883. 12. Selinunte, tempio C, di Apollo, cretula 237 della catalogazione Salinas 1883. 13. Cartagine, cretula dal tempio di Apollo (da Berges 1997, nn. 382). 14. Cartagine, cretula dal tempio di Apollo Cretula (da Berges 1997, n. 381).
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1. Selinunte, cretula n. L. 2. Statua di Hermes, Museo del Louvre. 3. Seleucia al Tigri, cretula n. Hm 13. 4. Cartagine, cretula n. 544.
5. Taranto, anello d’oro n. 1054. 6. Zecca di Solunto, litra d’argento. 7. Guttus a sandalo a vernice nera, Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Ermes con sandalo nell’archivio punico di Selinunte Antonella Lamia
La ricerca intende analizzare un’iconografia presente nelle cretule selinuntine messe in luce durante gli scavi condotti nell’area dell’acropoli di Selinunte tra il 1876 e il 1883, in particolare, all’esterno del tempio C. Il rinvenimento ha individuato un archivio in uso durante il periodo della Selinunte punica ed è di conseguenza utile per l’individuazione di «un’identità etnica, quella punica, che, come altre nel mondo antico, è per sua natura dinamica, chiamata a misurarsi su parametri storici, territoriali, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici, portatori a loro volta di complesse identità» (Acquaro 2010, p.10). Tale valutazione è stata avvalorata da un’analisi condotta sulle cretule di altri siti punici e non, affiancata da un’indagine sulle iconografie monetali puniche. Nelle cretule selinuntine è nota la presenza di motivi figurativi greci: fra questi si registrano raffigurazioni riferibili a divinità greche, come la cretula L della catalogazione Salinas (fig.1), che raffigura Ermes nell’atto di allacciarsi il sandalo alato, uno dei tre attributi riferibili al suo ruolo di messaggero degli dèi. Antonio Salinas non legge il personaggio come Ermes, ma si limita a descrive la figura: «personaggio nudo con petaso e clamide mentre si allaccia la calzatura» (Salinas 1883, p. 304). La presenza di Ermes è confermata anche in altre cretule selinuntine attraverso un altro attributo, il caduceo: la cretula CCCL mostra il caduceo affiancato da una mazza. La ricerca iconografica, ha inoltre, notato che l’Ermes, che ha il proprio prototipo nella scultura di Lisippo (Moreno 1995, pp. 230-40) (fig.2), è presente anche nelle cretule di altri archivi; lo troviamo, infatti, nelle impronte di sigillo provenienti dagli archivi di Seleucia al Tigri, datati tra la fine del IV e la seconda metà del II sec. a.C. Le due impronte sono così descritte: «testa china, gamba destra in avanti, sinistra piegata; braccio destro teso, mano al piede; caduceo obliquo davanti al viso; capelli sulla nuca; clamide allacciata al collo; petaso;
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calzari alati» (Invernizzi 2004, p.162) (fig.3). Di grande interesse è la presenza di Ermes nelle cretule cartaginesi messe in luce nel tempio di Apollo, datato tra il V e il IV sec. a.C. Le cretule in cui compare Ermes sono ventotto. Il dio è rappresentato sempre a figura intera e con numerose varianti che lo identificano: tra queste quella in cui il messaggero divino si allaccia il sandalo (fig. 4). Il personaggio è volto verso destra, porta la clamide e il petaso, ha la gamba sinistra appoggiata ad una roccia e con entrambe le mani si lega il sandalo (Berges 1997, pp. 163-67). Anche nel nomophylakion di Cirene sono state ritrovate numerose cretule raffiguranti Ermes: solo una presenta con chiara evidenza il dio nell’atto di allacciare il calzare (Maddoli 1965, n. 436). La testimonianza mostra il perdurare di quest’iconografia anche in epoca tarda: alcune iscrizioni risalenti al I sec. a.C. sono, infatti, il terminus ante quem riferito all’edificio. Il riscontro dello schema iconografico proposto perdura nel tempo ed è attestato anche nella tipologia delle matrici sigillari: troviamo Ermes nelle gemme e nei gioielli studiati da John Boardman. L’anello d’oro proveniente da Taranto mostra il dio volto a sinistra in atto di allacciarci un sandalo alato (Boardman, n.1054) (fig. 5). La raccolta di tali testimonianze indica, dunque, un’evidente incidenza sociale e politica delle componenti greche delle comunità civiche della madrepatria e delle colonie puniche, evidenze che si manifestano non solo negli archivi, ma anche nelle emissioni monetali. È opportuno segnalare al riguardo, sempre per restare nel tema dell’Ermes con sandalo, le tre litre in argento di zecca soluntina datate agli inizi del IV sec. a.C. (fig. 6): nel dritto è stato indicato Eracle seduto a sinistra, mentre calza il piede destro; davanti, caduceo (Amata 2008, p. 38). La lettura come Eracle del personaggio seduto è stata data, probabilmente, per la presenza al rovescio di una faretra con arco e, in alto della mazza. Rileggendo tale iconografia e tenendo conto delle cretule ricordate, riteniamo invece, che il personaggio possa interpretarsi come Ermes: scelta iconografica che, come per Selinunte, conferma la presenza dell’émblema del dio greco anche in una Solunto punica. Infine, analizzando l’iconografia del sandalo, risulta di grande interesse la presenza di guttus a sandalo (fig. 7), a vernice nera, in contesti funerari punici, che permetterebbe di rapportare il suo uso alla figura di Ermes psicopompos. Le testimonianze riportate contribuirebbero ad accrescere l’incidenza del culto del dio greco nella cultura figurativa punica (Acquaro 1974; Morel 1983, p. 738).
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conclusioni Martine Fourmont
Ringrazio molto l’Amico Enrico Acquaro per avermi invitato a prendere la parola, ma devo confessare che ero venuta con l’unico scopo di ascoltare e di imparare. Allora, mi sia concesso di condividere con Voi alcune delle osservazioni che mi sono passate per la mente nel corso di questa bella mattinata dedicata alla mia cara Selinunte. Non si tratterà di un’analisi completa, ma di semplici appunti, probabilmente senza grande valore di fondo. 52
All’inizio, Enrico Acquaro ha aperto le relazioni ricordando che l’argomento Selinunte si racconta è il frutto del Seminario del Curriculum di Archeologia del Mare attivato a Trapani dalla Facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Università di Bologna dedicato a Selinunte. Così si spiega l’impostazione del programma, programma che incomincia con la relazione dell’Amico Giuseppe Salluzzo sulle Cave di Cusa, argomento già presentato in questa sede, ma che si allarga oggi a delle considerazioni sull’abitato dell’acropoli di Selinunte. Più nuova è la parte riguardante la strada tra le Cave e Selinunte, per cui l’Architetto, individuando dei rocchi abbandonati, dimostra che segue una curva di livello ben definita, idonea a facilitare la progressione dei trasporti in questa zona di piccole depressioni. Simone Rambaldi si è dedicato alla questione della bonifica di Selinunte, in particolare del suo porto orientale, lato Cottone, operazione collegata nelle fonti scritte con la figura di Empedocle di Akragas, senza che nessuna prova archeologica ne possa sostenere la correttezza. Vorrei soltanto ricordare che i lavori portati avanti da Clemente Marconi, che sta studiando il tempio B, cosiddetto di Empedocle, dimostrano che si tratta di una mera tradizione storico-letteraria, senza prove scientifiche. Il tempio non può essere stato edificato subito dopo
tale bonifica operata dall’ipotetico Empedocle, perché è stato costruito in tempi «ellenistico-punici» e perché il frammento di statua (conservato al Museo Regionale «A. Salinas» di Palermo), da sempre preso in considerazione da parte dei sostenitori di questa tesi, non può essere appartenuto alla statua del tempio. D’altra parte, vorrei sottolineare che un approccio possibile della questione mi pare passare dallo studio comparativo dei diversi rilievi della zona su cui si nota la presenza dell’acqua in diversi punti dei pendii e del fondo valle. Aggiungo che l’argomento (che sto studiando) va, per me, analizzato assieme alla presenza, ancora oggi, dei punti umidi individuabili nella zona, particolarmente durante il periodo invernale. Alessandro Iannucci ha presentato lo stato di un dossier «alternativo», che porterebbe a considerare il tempio E della Collina Orientale come tempio di Afrodite e non di Hera. Nel novero dei grandi studiosi che adottano tale identificazione, Alessandro Iannucci menziona G. Bejor, F. Coarelli e M. Torelli. Di grande interesse è la menzione della fonte letteraria che accenna alla presenza a Selinunte di un certo Connaro o Connida, proprietario di un «casa di prostituzione» a Selinunte. Devo ricordare che, per un motivo strano, lo stesso testo è stato oggetto della relazione di Jean-Paul Rey-Coquais (2009) al VII Convegno di Studi Fenicio-Punici, tenutosi in novembre scorso a Hammamet. Rilevante è l’accenno a «il popolo uscì dal teatro», quando si sa che finora non si è trovato un teatro a Selinunte. Non dobbiamo dimenticare, però, che il teatro greco, come struttura, conosce uno sviluppo relativamente tardo e che, comunque, tale edificio potrebbe non essere stato costruito in duro, ma con materiali perituri. Nicola Cusumano, che è stato così gentile da ricordare il suo soggiorno a Parigi, quando era ancora un giovane studente, nella sua documentata relazione, che presenta diversi aspetti riguardanti la famosa lamina plumbea di Selinunte, ricorda giustamente l’importanza del considerare in un modo diverso di quello odierno il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata nei tempi antichi. Ricorda l’articolo di G. Nenci relativo alla kyrbis, in cui il grande studioso pubblica un disegno ricostruttivo della struttura che custodiva la lamina e che ne consentiva la lettura sulle sue due facce. Sempre con il massimo rispetto per G. Nenci, mi sia consentito allora confessare i miei dubbi su tale disegno: o la lamina, che è lateralmente piegata in due e deve così avere una larghezza attorno ai 30 centimetri (si parla di 60 centimetri per la sua larghezza totale), è troppo larga in confronto alla larghezza delle spalle della figura femminile che la sta leggen-
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do, o le spalle di tale figura sono estremamente strette! Mi sia perdonata questa osservazione sacrilega… Dopo le quattro relazioni di carattere informativo generale, è toccato ai giovani studiosi presenti al Seminario fare una breve presentazione di un aspetto della loro ricerca portata avanti sotto la guida di Enrico Acquaro, che li ha introdotti con un panoramica sull’uso delle cretule ed intagli nel mondo antico, dall’Oriente all’Impero Romano. Le cretule di Selinunte sono oggetto di numerose ipotesi e sono state sottoposte alle più diverse tradizioni di ricerca. Così, il grande Antonio Salinas le interpreta come dei documenti ellenici quando oggi, e aspettiamo con massimo interesse la pubblicazione di Rossana De Simone, sono considerate come puniche, e ciò spiega la loro presenza tra gli argomenti della ricerca del Seminario. La «storia delle cretule» selinuntine segue la storia della ricerca archeologica: ai tempi del Salinas, non si conosceva la fase punica di Selinunte.
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Federica Schiariti si è dedicata allo studio del culto di Zeus Meilichios; Manuel Martinez a quello degli Aegyptiaca a Selinunte; mentre, Paola De Vita ha sviluppato il confronto tra Bes e Sileno e si e soffermata sull’aspetto dionisiaco di tali cretule (ricordando le cretule del tempio di Apollo di Cartagine). Infine, Antonella Lamia ha scelto il tema dell’Ermes con sandalo. Il dio compare anche nel tempio di Cartagine su 28 esemplari. Così, con queste quattro relazioni, si è passati da un orientalismo nella Selinunte greca arcaica a una veste grecizzante nella Selinunte punica. Ritengo necessario ricordare che le cretule selinuntine sono state trovate sui gradini del lato Sud della krepis del tempio C, senza altra precisazione, e che potrebbero provenire da un locale ubicato all’interno del tempio C stesso, come potrebbero essere state conservate in un edificio costruito, dopo il 409 a.C., proprio a contatto con i gradini della krepis. E non possiamo dimenticare che gli scavi condotti dal Gabrici attorno alla fine del primo quarto del Novecento hanno notevolmente «cambiato» l’aspetto della parte interna del tempio C, dove erano anche state costruite delle strutture cristiane. Conviene, per finire, ricordare che lo studio delle cretule ha recentemente conosciuto una sorta di «rinascimento» dopo la scoperta e la pubblicazione delle cretule notarili (greche) di Delo e dopo la pubblicazione degli Atti del Convegno tenutosi a Torino, che riuniva in maniera trasversale gli studiosi interessati all’ar-
gomento (Boussac-Invernizzi 1993, Zoppi 1997). Per concludere, accolgo volentieri la richiesta di Enrico Acquaro di dire due parole sulla Selinunte post-punica. Mi piace sottolineare che, contrariamente a quanto scritto dai più eminenti studiosi, Selinunte non muore definitivamente nel 250 a.C., perché io conosco dei Selinuntini che abitano Selinunte ancora oggi! Ma è opportuno citare i recenti scavi della Soprintendenza di Trapani nella zona della foce del Modione, ad Ovest, dove è stato portato alla luce un complesso tardo-romano (F. Lentini), e dove si è trovata la prima fonte battesimale di un tipo presente in Tunisia, cui si aggiungono altre scoperte, tra cui un’altra fonte nelle Isole Egadi. E’ necessario citare di nuovo il gruppo di strutture, con una chiesetta, che era stato sistemato nel tempio C, nonché le tombe riscontrate nelle sue vicinanze. E sull’isolato cosidetto FF1 Nord, dove porto avanti uno studio sistematico dei diversi livelli e delle strutture corrispondenti, ho individuato la presenza di case che vanno datate al periodo normanno-svevo (Fourmont 2009, Fourmont 2006; la presenza di ceramica medievale sull’isolato FF1 Nord era già segnalata in Fourmont 1981, p. 5 e figg. 2-3 p. 6). Tale scavo, con i suoi risultati, conferma quanto intuito da F. D’Angelo (1971) e C. Trasselli (1972) – studi i pubblicati poco dopo il grande scavo portato avanti da parte della Soprintendenza allora di Palermo, nella zona Sud dell’acropoli selinuntina (Scavi V. Tusa) – che, già negli anni ’70 del Novecento, hanno pubblicato su Selinunte medioevale. Mi piace aggiungere che la nostra mattinata è stata l’occasione offerta a tutti noi di capire come funziona un Seminario, con i suoi studenti e i suoi professori; come si modella un giovane archeologo sotto la guida del maestro. E dopo la parte più teorica, intellettuale, è seguita nel pomeriggio la passeggiata tra le rovine di Selinunte con le soste e le discussioni che non mancano di ricordare la vita trascorsa nell’antica Accademia ad Atene.
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SELINUNTE SI RACCONTA CAM , 5 MAGGIO 2010 Atti della giornata di studi A cura di Enrico Acquaro, Paola De Vita, Alessandro Iannucci Contributi di Enrico Acquaro Giuseppe Salluzzo Simone Rambaldi Alessandro Iannucci Nicola Cusumano Federica Schiariti Manuel Martinez Paola De VIta Antonella Lamia Martine Fourmont
ISBN 978-88-97100-01-0
9 788897 100010