La contrada del poeta per San Salvatore

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La Contrada del Poeta fogli volanti di poesia spersa

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n°10 Lecce, ottobre 2014


La Contrada del Poeta fogli volanti di poesia spersa

n째11 Ottobre 2014 Fogli volanti di poesia spersa, graficamente composti da Mauro Marino nella sede del Fondo Verri di Lecce Direttore: Maurizio Nocera I fogli sono pubblicati su Spagine (issuu.com/spagine) e stampati in fotocopiatrice a tiratura limitata


San Salvatore, 5 ottobre 2014 - da sinistra Massimo Bray, Isabella Bernardini, Maurizio Nocera, Giuseppe Nocera,Sergio Ortese

da sinistra Luigi Del Prete, Massimo Bray, Isabella Bernardini, Sergio Bidetti, Carla De Nunzio, Giuseppe Nocera


La Contrada del Poeta fogli volanti di poesia spersa


SANNICOLA: SALVIAMO L’ABBAZIA DI SAN SALVATORE, E CHE SI CONTINUI IL RESTAURO DELL’ABBAZIA DI SAN MAURO

D

a tempo non ritornavo sul sito dell’antica abbazia di san Salvatore, oggi nell’agro di Sannicola, un tempo (Basso Medioevo e inizio dell’Umanesimo, tra l’anno 1000 e il 1492) luogo di culto extra-moenia della città di Gallipoli. Finalmente, dopo quasi 35 anni, ci sono ritornato il 5 ottobre 2014, grazie all’invito della Fondazione Moschettini di Copertino (responsabile Luigi Del Prete) e alla Rete Civica “Tutela del Paesaggio e del Patrimonio Storico Artistico e Archeologico” del Salento, che hanno organizzato un sopralluogo sul sito alla presenza di Massimo Bray, già ministro dei Beni Culturali. La prima volta che misi piede sul sito dell’abbazia di san Salvatore fu nel maggio 1978; in quell’occasione visitai anche il sito dell’abbazia di san Mauro. Successivamente pubblicai un articoletto sulla rivista «Cultura Salentina - Proposte» (Congedo, Galatina 1983), nel quale annotai alcune considerazioni sui luoghi. Ad esempio che esisteva nella Biblioteca di Gallipoli un manoscritto di Antonello Roccio, intitolato Notizie memorabili dell'antichità della fedelissima città di Gallipoli (1640), nel quale, a carta 23, l’autore scrive: «Francesco Camaldari fu l'ultimo abate [di rito greco] dell'Abbazia di san Salvatore, fuori Gallipoli, e distante da essa 2 km, sulla strada per Lecce, mentre il fratello di nome Antonio, fu l'ultimo abate [anch'egli di rito greco] di san Mauro». Invece, a carta 303, lo stesso autore scrive che, per quanto riguarda lo stato di conservazione dei due edifici: «san Mauro, intorno al 1519, anno in cui sull'abbazia officiava ancora l'ultimo abate,

di Maurizio Nocera

e[ra] rovinata senza [altri] monici, solum con l'Abate, quale rende circa ducati 100 l'Anno...». Ovviamente se quello era lo stato di conservazione dell’edificio di san Mauro, non migliore salute doveva avere quello di san Salvatore.

Autore successivo al Roccio fu Bartolomeo Ravenna, il quale scrisse Memorie istoriche della città di Gallipoli (ho consultato la ristampa anastatica dell’edizione originale di Napoli 1836, curata da Elio Pindinelli e Mario Cazzato, Gallipoli 2000), dove leggo: «Esisteva in Gallipoli un antico e gran Monastero de’ Padri Basiliani […] Era in oltre molto ben provvisto di rendite, possedendo tutto ciò che in terraggi, oliveti, canoni, decime ed altro, forma l’Abadia di S. Mauro, che poi fu conceduto al nostro Seminario, insieme coi beni che sono nei territorj di Nardò e Vetrana nominati Curti veteri. Possedeva pure l’Abadia di S. Salvatore, un’altra col titolo di San Mauro in Galatina, e molti altri beni in Ugento, Felline, Taurisano, Casarano e Presicce. Vicino alla Città, e nella distanza di circa tre miglia, ove attualmente è la Chiesa di S. Mauro, era luogo in cui colla Chiesa esisteva l’abitazione per uno de’ Religiosi, che colà dimorava per invigilare agli affari campestri, ed agl’interessi e rendite del Monistero./ Non si ha notizia dell’epoca precisa nella quale questo Monastero fu eretto, ma devesi supporre, che ciò accadde verso il secolo VI, allor quando l’Ordine di S. Basilio divenne sopra tutti gli altri più celebre e numeroso, e che nelle nostre Provincie più vicine ai Greci s’incominciarono a stabilire de’ Monasteri di un tale Ordine./ Nel secolo XIII fu distrutta la Città, e con essa anco la Chiesa ed


il Monastero de’ Monici di S. Basilio. Passati i dispersi cittadini ad abitare nella maggior parte nel proprio territorio, i Monici si ricoverarono in detta Chiesa di S. Mauro, ed all’antica abitazione aggiunsero alcune piccole stanze per loro comodità, e vi rimasero per molti anni. Né i cittadini né i Monici, pare, che avessero potuto più badare alla già distrutta Chiesa e Città, dacché trovo notato avere scritto l’Abate Camaldari nella sua storia, che i marmi di questa Chiesa furon tolti e portati altrove dai Calabresi, ed anco dai Siciliani furtivamente, e che sotto alle macerie dopo il decorso di più anni furon trovate due bellissime colonne di marmo, residuo delle molte, che adornavano quella Chiesa./ L’Ordine de’ Basiliani rimase soppresso, ed i beni di questo Monastero nella maggior parte furono ridotti in diverse Abadie, tra le quali vi è quella di San Mauro Suburbano, che come ho notato si possiede dal Seminario./ Dalla visita locale di Monsignor Cibo dell’anno 1548, della quale ne esiste un logoro avanzo nella nostra Vescovil Curia, si ricava la notizia di sette antichi Abati, che avevano posseduto l’Abadia di San Mauro Suburbano, cioè Palinide Angaro, Sergio Castaldo di Brindisi, Paride Moncada Siciliano, Rinaldo Pennucci, Raimondo de Oria di Rossano, Tommaso Nanni di Gallipoli […] Guglielmo Camaldari di Gallipoli […]. Il suddetto Abate Castaldo di Brindisi mosse litigio a quei che possedevano le altre due Abadie, cioè quella di Galatina, e l’altra di San Salvatore di Gallipoli, pretendendo riunirle in una, e nella sua persona, perché un tempo appartennero tutte allo stesso Monastero» (pp. 348-350).

Altro autore successivo al Roccio fu Luigi Riccio (Descrizione istorica della città di Gallipoli, Capone editore, Lecce 1977), ma nel suo libro non c’è menzione sullo stato di conservazione dei due edifici. Qualcosa in più, solo però relativamente all’abbazia di san Mauro, lo sappiamo dallo studio fatto da F. Tanzi nel suo libro L’archivio di Stato di Lecce (1906), dove si legge: «La città di Gallipoli, insediata e fortificata nell’isoletta, che più tardi fu congiunta con un ponte, su questa possedeva un non picciolo tenimento, coi suoi casali, con una foresta, di cui gli avanzi si riconoscono nei feudi di Coppe, Curlo e delle Pazzariche. Stabilimento principale dei monaci greci, era la chiesa di S. Mauro, che fu innalzata nella contrada, la quale ha lo stesso nome, sul serro di Gallipoli e sulla via che conduceva a Nardò. Da essa dipesero le grancie di S. Maria di Alizza [Alezio], di S. Nicola [Sannicola], di S. Pietro [dei Samari], e nella

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città le chiese di S. Maria delle Servine e di S. Basilio./ Alla descrizione di questa basilica, che altri ha già fatto, e ai cenni i quali si trovano qua e là sparsi nelle opere dei nostri scrittori, aggiungiamo che il calogerato rimase fiorente fino a tutto il secolo XIV: e lo attestano anche le moltissime scritture notarili, che poi servirono in parte a comporre il Codice bizantino. Nel secolo XV vi erano ancora monaci; lo togliamo da un capitolo di grazie concesse da Federico d’Aragona alla città di Gallipoli: “Item perché lo nostro clero è molto poverissimo et questa nostra patria (Gallipoli) è poco dotata di beni beneficiali, detto clero pate assai et presertim quando delli pochi benefitij che vacano s’investono forestieri, se supplica V. Maestà gratiose se degna concedere che tutti i benefitij vacassero et signanter una Abadia nominata Santo Mauro non se possa concedere eccetto ai cittadini de questa città eligendoli a chi appartiene. Placet Regiae Maiestati: datum in castello novo Neapoli… die XVIIII Maji millesimo quatringentesimo nonagesimo septimo regnorum nostrorum anno primo – Rex Federicus”. Ma nei primi anni del secolo seguente i monaci erano scomparsi e restava soltanto un ultimo Abbate./ L’Università di Gallipoli fu sollecita a fare novelle istanze a Carlo V. “Item come in lo destritto et territorio della detta città si trova situata una Abbacia sub vocabulo de Santo Mauro Suburbano de lo Ordine de Santo Basilio, e rovinata senza monici solum con lo Abbate, quale rende circa ducati cento l’anno supplicano a loro Altezze loro piacza et se degneno gratiose quella concedere et donare allo capitulo et clero di detta città doppo la morte del presente Abbate, cum sit; che de detta città alla quale servono continuamente acciò che possano vivere et vacare allo culto et officii divini. Placet R. Maiestati consentire dummodo prebende quae ex reditibus dictae Abatiae constituerentur seu ampliantur, sint de iure patronatus regi, prout est ipsa Abbacia: datum in civitate nostre Barchinone die vigesimo mensis Augusti septime indictionis anno a nativitatis domini millesimo quingentesimo decimo nono… Io el Rey”./ Da questo documento appare che ora i chiostri erano caduti; la chiesa resisteva ancora alle ingiurie del tempo e degli uomini. Nell’anno 1567 il vescovo Cibo andò in giro per i luoghi della diocesi, e li descrisse negli atti della sua visita. Egli affermò di avere trovata “ecclesiam predicti Monasterii antiquam, pictam cum diversis figuris sanctorum cum tribus altaribus; quae ecclesia cum sit in campania, et in eo loco non est incolatus hominum et sunt penes dictam ecclesiam nonnulla aedificia antiqua


Massimo Bray all'interno della chiesa di San Salvatore


diruta, consistenctia in diversis membris, vide licet: in una sala discoperta, cum una camera cooperta palatiata, cum diversi set est quaedam spelunca ecc.”./ Nel giorno di S. Mauro, primo di Maggio, celebravasi nella platea del monastero una gran fiera, dove accorreva tutta la popolazione circostante./ Pertanto da questo tempo non solo incominciarono a scomparire le ultime reliquie degli edifici basiliani e delle antiche abitazioni dei coloni greci, ma la stessa chiesa fu abbandonata, non celebrandovisi qualche messa se non di rado./ Non al clero di Nardò, né ai cittadini di Gallipoli furono concesse in beneficio le rendite del calogerato; fu solo nella seconda metà del secolo XVIII che esse vennero con bolle papali e regio assenso annesse al Seminario Diocesano. Ora la fattoria di S. Mauro è proprietà privata» (pp. 146-148).

Chi approfondì lo studio dello stato di conservazione dei due edifici fu l'ingegnere Della Grazia, il quale scrisse una Relazione dattilografata alla Soprintendenza (15 giugno 1929), finora a me sconosciuta (ma da quanto leggo, sconosciuta anche a Sergio Ortese, che è l’ultimo studioso che seriamente si è interessato delle due abbazie. Più avanti citerò anche il suo studio), mentre ho rintracciato l'Inventario Topografico e Bibliografico delle cripte eremitiche basiliane di Puglia, pubblicato nel 1936 a Roma dall’orientalista Giuseppe Gabrieli (Calimera, 4 aprile 1872 – Roma, 7 aprile 1942), bibliotecario dell’Accademia dei Lincei, dove egli, a pag. 39, riporta solo, col numero progressivo 48, l'esistenza della Cripta o grotta di san Mauro. Nulla scrive di san Salvatore.

Chi invece cominciò a interessarsi seriamente dello stato di conservazione delle due abbazie fu Alba Medea (in altra pagina di questa «Contrada» è riportato un suo profilo biografico), incaricata dalla Società Magna Grecia Bizantina Medioevale che, negli anni ‘30, la inviò in Puglia per verificare lo stato di conservazione degli affreschi bizantini. Dopo il suo reportage, la Medea pubblicò il suo lavoro in un libro (due tomi in ½ folio, uno di testo con 272 pagine e 40 rilievi, l’altro come Albo di immagini con 165 illustrazioni), intitolato Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi (Roma-Tivoli, 1939), undicesimo volume della prestigiosa Collezione Meridionale Editrice, diretta da Umberto Zanotti-Bianco. Recentemente (marzo 2014) questo importante libro è stato ri-editato dall’editore Lorenzo Capone di Cavallino con una dotta presentazione di Antonio Ventura.

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Scrive la Medea: «la constatazione delle penose condizioni nelle quali si trovano questi monumenti lontani per lo più da luoghi abitati e perciò difficilmente sorvegliabili, o dispersi in centri rurali ove erano abbandonati al vandalismo di contadini ignoranti che se ne servivano per usi domestici e campestri, aveva attirato negli scorsi anni l’attenzione di studiosi specialmente dediti alle regioni dell’Italia Meridionale [… e, quindi, che suo intento era] quello di attirare l’attenzione su questi residui di una civiltà gloriosa destinati al deperimento più assoluto [… per cui si augurò] di riuscire anche nel secondo intento», cioè di non considerare «un’inutile fatica se il materiale raccolto potrà riuscire di qualche utilità agli studiosi di questo campo dell’arte cui è dedicato, potrà servire a conservare la riproduzione e il ricordo di monumenti in molti casi destinati – ché non sempre è opportuna né consigliabile l’opera difficile del restauro né sempre possibile quella di protezione e conservazione – a scomparire» (p. 7 e 9 dell’edizione originale). Per avere un quadro panoramico delle due abbazie all’epoca delle Medea, leggiamo quanto ella scrive: «La chiesetta [di san Mauro] è abbandonata ed esposta alle intemperie, di notte pare si rifugino pastori ed armenti. Mancano i battenti alle porte e in genere le aperture e le luci sono prive di infissi. Le strutture murarie sono abbastanza solide. Il pavimento, in origine a tre ripiani che risalgono verso il presbiterio, dovrebbe essere ricostruito a lastre di pietra calcarea. Gli affreschi sono ancora in gran parte, soprattutto nell'imbotto della volta, sulle pareti e in parte anche nei sott'archi longitudinali della navata mediana, ricoperti dalla scialbatura generale di tutta la chiesetta. Quelli visibili e descritti affiorano qua e là, ove forse un tempo addietro si cercò di rimetterli in luce ed ove l'intonaco è caduto per azione dell'umidità e della brezza marina. Naturalmente tali affreschi appaiono assai deturpati e deterioratissimi […] La chiesetta (di san Salvatore), circondata da vani sortile intorno ad ogni lato, dall'ovile ad altri svariati locali di masseria, è adibita a ripostiglio degli strumenti agricoli che vengono appoggiati ovunque lungo le pareti e spesso contro gli affreschi stessi nella loro parte più bassa. Nonostante il lungo abbandono, le condizioni statiche del piccolo edificio sono soddisfacenti; solo nel muro di sinistra fu aperto uno spazio di accesso e si nota qualche lesione su un arco della prima campata e nell'abside. Gli affreschi sono assai fatiscenti e in parte deteriorati per la caduta dell'intonaco in più


punti» (v. Alba Medea, Op. cit., pp. 246-247 dell’edizione originale).

Circa trent'anni dopo la Medea, nel 1967-68, toccò a Gianfranco Scrimieri, allora redattore della rivista «La Zagaglia», a fare un sopralluogo e uno «studio di ricognizione», purtroppo solo sul sito di san Mauro. Nulla invece vide dell'abbazia di san Salvatore. Comunque, la sua descrizione sullo stato di salute di san Mauro non doveva essere molto dissimile da quello di san Salvatore, tanto che è bene rileggerlo: «San Mauro rientra nel novero delle piccole o grandi abbazie basiliane affidate alla distruzione del tempo e alla sconsiderata incompetenza degli uomini […] Da notare che la parte sinistra, fino a uno o due anni fa murata, è di nuovo aperta, la luce penetra all'interno, oltre che dalle aperture suddette, da due finestrelle [...] Gli altri buchi, praticati qua e là specialmente nel muro di destra, che è l'attuale ingresso della chiesa, e la feritoia aperta nel centro dell'abside, fanno presagire un lento fatale decadimento dell'intero edificio. Uno dei sei pilastri che dividono la chiesetta in tre navatelle, si mantiene in piedi solo grazie a pochi frammenti delle pietre destinate a sorreggerlo. Il pavimento non esiste più. Ci sono soltanto delle buche, più o meno larghe e profonde, ulteriore segno dell'ignoranza e della superstizione [...] Degli affreschi dell'abside resta ben poco. Non si può nemmeno scorgere quella Déesis che la Medea credeva di poter trovare nel 1939. Sembra quasi che la gente si sia divertita a scalfire le pareti, un po' ovunque, e non solo per apporvi nomi e date. Il luogo, alquanto impervio, non riesce a frenare la curiosità distruttrice, tanto più che non ci sono né porte né battenti e le aperture non hanno infissi. Il portale è chiuso a qualche metro di distanza, da un muretto. Non basta [però]» (v. G. Scrimieri, Immagini e storia della Chiesa di S. Mauro in territorio di Sannicola, in «La Zagaglia», n. 36, dicembre 1967, ed ib., n. 37, marzo 1968).

edifici accorpati crepavano. Per fortuna, oggi, ma mi riferisco agli ultimi 20 anni, le Amministrazioni comunali di Sannicola (sindaci Sergio Bidetti prima e Giuseppe Nocera dopo), si sono prodigati per acquisire alla proprietà pubblica l’abbazia di san Mauro, in alto mare invece sono le pratiche per l’acquisizione anche di quella di san Salvatore. Per quanto riguarda il primo edificio, quello di san Mauro, va sottolineato che alcuni interventi di assoluta prima necessità di restauro e di rinforzo sono stati effettuati.

A fine anni ’70, ad interessarsi dei due edifici fu lo storico gallipolino Domenico De Rossi che riprese gli studi precedentemente fatti, fece diversi sopralluoghi sui siti e concluse le sue osservazioni riportandole nel libro Civiltà Salentina (Tipolinolito TP, Cutrofiano, 1978). Parlando della struttura del complesso abbaziale di san Mauro, il De Rossi scrive: «al lato della chiesa si apre una cavità, in cui si può scorgere qualche frammento di pittura che non basta a stabilire l'effettiva destinazione della stessa. Al di sopra di esse, all'esterno, e dietro l'abside, mucchi di pietre rimangono accatastati, ma non sciolgono alcun interrogativo. Al di sotto della terra potrebbero trovarsi i resti dell'antico cenobio: all'interno dell'antro, altri frammenti di pittura, forse i primitivi, rudimentali altari, i giacitoi. Ma ... [questo Domenico me lo ripeteva spesso a voce] i mezzi inesistenti, la [sua] non giovane età, [e], soprattutto, la mancanza di autorizzazione, sconsigliano la ricerca per stabilire con precisione ov'era l'eremo basiliano». Per quanto riguarda lo stato di salute degli affreschi, scrive: «Una Madonna col Bambino, forse la migliore composizione pittorica, sulla faccia del primo pilastro volta verso l'abside, è quasi del tutto scomparsa. […] Degli affreschi dell'abside resta ben poco». Non migliore è la situazione che il De Rossi trova sul sito dell'abbazia di san Salvatore. Descrivendone gli afIn risposta all'accorata denuncia dello Scrimieri qual- freschi trova che: cosa si mosse. Agli inizi degli anni Settanta, infatti, fu- «nel catino dell'abside appaiono quasi del tutto svanite rono sistemati alla meglio alcune colonne portanti della e appena visibili le figure della Déesis [...] Gli affreschi navata; furono chiuse tutte le aperture laterali della sono abbastanza sciupati; deteriorati specialmente dalcappella e, sulla porta d’ingresso, fu apposta una infer- l'ignoranza degli uomini, che della cappella ne hanno riata. Alla più o meno meglio, fu sistemata anche la pa- fatto una stalla» (v. D. De Rossi, Op. cit., pp. 258-263). vimentazione a tre ripiani e rialzato il muretto antistante l'entrata principale. A san Salvatore, intanto, Con le notizie fornitemi da Domenico De Rossi, apil silenzio si faceva più profondo, mentre i muri degli punto nel 1978, anch’io mi sono recato sui siti delle due


abbazie, trovando quello che ho descritto poi nell’articoletto citato, da cui riprendo questo passo: «Sono salito su per la serra rugosa che porta al monastero di san Mauro e la scena che mi si presentò, non appena raggiunta la meta, fu davvero desolante. Fui subito assalito da un sentimento di delusione e rabbia nel constatare come l'ignoranza e la superstizione degli uomini possano saccheggiare e degradare un'area storicamente così interessante per la comprensione dello sviluppo di una comunità. Il muretto che lo Scrimieri aveva notato, sul quale poi era stata posta l'inferriata, era in parte crollato e l'inferriata stessa divelta e contorta. Gli antichi tratturi, quello che sta dietro l'edificio e quello che dal fondo della strada provinciale porta sulla sommità della collina, erano stati barbaramente interrotti da muretti di delimitazione edificatoria. L'interno dell'abbazia era letteralmente sconvolto: non c’erano più i tre ripiani della pavimentazione, da quello più basso (che s'incontrava appena entravi) a quello in alto (che stava ai piedi dell'abside). C'era solo un informe cumulo di macerie e di buche, tanto che in alcuni punti il terreno posto di rinforzo sotto alcuni pilastri aveva cominciato a venire meno col continuo rischio che qualcuno di essi poteva cedere anche per un piccolo smottamento. Non esistevano quasi più le antiche pitture: là dove esse non erano state picchiettate con pietre o punte di ferro per una nuova imbiancatura, si era formata una crosta di salnitro che aveva coperto definitivamente le ultime ombre di quelle che erano state le pitture. La Déesis dell'abside non esisteva quasi più: al suo posto c'era un incolore muro impregnato di umido e di intonaco scrostato. Sulle pareti laterali dell'edificio, in alcuni punti, i secolari tufi sembravano sul punto di sfaldarsi da un momento all'altro./ Uscito all'esterno dell'abbazia, mi sono arrampicato sul retroabsidale. La terrazza a semibotte era ormai piene di vecchie radici che minacciano le chiusure a chiave dei tufi. Lo stesso campaniletto a vela, che si alza sulla cuspide, correva anch'esso seri pericoli: alla sua base le radici di erbe selvatiche e i forti venti avevano rosicchiato le congiunzioni./ Tutto ciò interessava l'edificio vero e proprio. Perché altro discorso era guardare e giudicare lo stato d’abbandono dell'intera area cenobitica. Per avere idea della situazione di degrado in cui si trova oggi san Mauro, bisogna pensare che non c'è più alcuna possibilità d'individuazione degli antichi limiti della coorte basiliana; del loro antico piccolo cimitero non c'è più traccia, come pure del loro minuscolo campo di lavoro, annessi entrambi

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all'edificio. Neanche la laura, che fungeva da dormitorio-rifugio dei monaci, e che si trova subito a fianco della cappella, si è salvata dalla furia devastatrice di alcuni irresponsabili. Il fondo della caverna è stato manomesso e rivoltato; ciò ha provocato guasti irreparabili agli strati inferiori appartenenti ad epoche storiche precedenti a quella dei basiliani. Fortunosamente non sono state ancora “toccate”, perché leggermente più distanti dall'edificio alcune specchie ed un cumulo di terra, rimasti così com'erano originariamente./ Dell'antica abbazia di san Mauro non è rimasto altro, e se qualcuno non interverrà subito quel poco che ancora può essere salvato, fra non molto di questo antico luogo resterà soltanto il ricordo». Fortunatamente, così come scrivevo appena sopra, le Amministrazioni comunali (Bidetti e Nocera) sono intervenute e qualcosa di tutto questo degrado è stato cancellato, salvo il fatto che, appena un paio di anni fa (2011), qualche irresponsabile è andato nottetempo su san Mauro oltraggiando stupidamente la sua terrazza con del colore rosa. Ma l’impegno per riportare l’antica abbazia ad una sua dignità storica non è ancora finito.

Lo stesso giorno della visita a san Mauro, nel pomeriggio, mi recai anche a san Salvatore, che in linea d'aria dista solo qualche chilometro dall’altra abbazia. Nel mio articoletto citato, scrissi: «Qui la scena che mi si è presentò è davvero dantesca. Quella del primo libro, per intenderci. Nulla è più riconoscibile di quanto descrisse Alba Medea nel 1939. Il luogo, tutt'intorno per circa un ettaro, è ormai desolatamente abbandonato. I vani sorti attorno all'edificio vero e proprio sono fatiscenti, quando non del tutto crollati. Nelle restanti pareti, anche quelle della cripta, si aprono lunghe crepe verticali. La parte sinistra dell'intera costruzione è ormai crollata da anni. Nei vani superiori, là dove un tempo c'era stata la comunità monastica prima, la famiglia del massaro dopo, ci sono solo rovine e mucchi di calcinacci. Superato l'impatto con tanta desolazione, sono entrato all'interno di ciò che resta della cappella. Le pitture basiliane, che la Medea descrisse così bene dopo il suo sopralluogo, non sono più visibili. Su alcune pareti delle ombre più oscure fanno vagamente supporre che al loro posto, un tempo, c'erano state delle pitture. La Déesis è irreversibilmente cancellata. Solo la volta a botte, più qualche muro di rinforzo costruito successivamente riescono ancora a


Maurizio Nocera a San Salvatore

San Salvatore, una croce sulle mura dell’edificio


stare in piedi./ Nuovamente ritorno all'esterno della cappella. Penso alle occasioni mancate di restauro. Penso alle difficoltà che le nostre generazioni incontrano oggi nel ricostruire la propria identità culturale legata al luogo di appartenenza. E intanto, continuo a guardarmi intorno. Dell'antica coorte resta ormai molto poco. Il pozzo, con un ben architettato sistema di irrigazione, fatto con un continuum di pile e pilette poste una dietro l'altra, è stato per metà rotto, per metà interrato. Tutt'intorno grossi frammenti di colonne e pile stanno a testimoniare l'antica vita che in quel luogo si era svolta. I danni maggiori sono stati arrecati all'antico cimitero dei basiliani, collocato sul retro della cappella. Vi sono molte tombe scavate nella roccia e una serie di cumuli di pietre che destano ancora qualche curiosità. Sicuramente alcune di queste tombe, che risalgono ai primi secoli del secondo millennio, sono state rimosse in epoche diverse. Soprattutto le tombe degli abati che, a raggiera e in numero di otto, dipartono dal retro-abside. Su alcune di esse è cresciuta da tempo una fitta vegetazione di fichi selvatici. Oltre a ciò che ho sopra descritto non c'è altro: dell'intero san Salvatore nulla è rimasto ad esclusione di un'interessante pietrafinita, sfuggita sinora all'occhio del “visitatore”, perché distante un centinaio di metri dalla cappella e perennemente sepolta dalla vegetazione. Questa pietrafinita, mai riportata su testi o pubblicazioni specifiche, misura 28 cm. di spessore, 40 cm. di larghezza ed è alta 150 cm. dal livello della superficie./ In conclusione, per san Salvatore resta meno che per san Mauro. Infatti, se san Mauro sarà ricordato in futuro per il suo Syllabus graecarum membrarum (nel 1865, F. Trincherà curò il fondo archivistico greco riguardante il monastero e composto da 18 pergamene), riguardo a san Salvatore non esistono né fondi di archivio a cui fare riferimento né storie o studi complessivi a cui attingere per la ricerca. Fra qualche tempo, se nessuno interverrà per salvare il salvabile, quando una ruspa sarà passata sopra le sue vestigia, né noi né altri, passando di lì, si accorgerà che un tempo in quella contrada ha vissuto e lavorato una comunità umana. È leggenda che in questa zona venissero prodotti il miglior olio e il miglior vino del Salento».

Provinciale “S. Catromediano”, Giovanna Delli Ponti, che scrive: «Italia Nostra intende puntare l’obiettivo fotografico su alcune testimonianze storiche del territorio salentino che per i più singolari motivi non sono o non possono essere oggetti di tutela e di restauro e che sono invece riferimenti importanti, non solo sul piano qualitativo, per la ricostruzione e la comprensione della storia che ci riguarda». Nella brochure, si occupò degli affreschi dell’abbazia, e sempre con la consueta competenza, Marina Franchi Castelfranchi, mentre Antonio Cassiano segnalò che la mostra fotografica «intende proporre l’attenzione sul monumento in termini nuovi. Oltre che segnalare con precisione lo stato di conservazione e il punto di degrado e presentare per la prima volta tutto il programma iconografico, fornisce i dati catastali perché si possa giungere al vincolo e alla notifica del monumento per motivi di interesse storicoartistico, punto di partenza essenziale per iniziare un discorso serio e concreto per la sua salvaguardia e la sua conoscenza». Da canto suo Roberto Bozza, verificò lo stato di conservazione dell’edificio. Scrive: «Ad un primo approccio le strutture del San Mauro nel loro complesso (fondazioni; paramenti murari; pilastri; archi e volte) non mostrano dissesti di particolare gravità, ed il loro stato di conservazione, sotto il profilo statico, può dirsi soddisfacente. Una fessurazione non preoccupante, sull’asse mediano della facciata e del campanile, sembra imputabile alla spinta delle volte./ Seria invece l’alterazione dei parametri murari perimetrali e dei corrispondenti intonachi interni affrescati per l’umidità ascendente dalle fondazioni, che ha portato, assieme all’abbondante proliferazione di alghe e a non poche manomissioni, alla quasi totale scomparsa dei cicli figurativi. All’esterno vistosi fenomeni di erosione dei conci – ed in particolare l’alveolizzazione – evidenziando le alterazioni caratteristiche dell’azione combinata degli agenti atmosferici con l’umidità di risalita./ Ulteriori danni si sono pure prodotti per l’infiltrazioni d’umidità, in particolare perimetralmente al corpo di fabbrica, dal manto di copertura – del tipo detto “astrecu” – interessato da abbondanti depositi suNel 1984, questa volta per iniziativa della sezione lec- perficiali./ Il pavimento interno, in battuto, appare nocese di Italia Nostra, fu fatta una mostra fotografica e tevolmente sconvolto e manomesso, particolarmente una campagna di sensibilizzazione con la parola d’or- nella zona presbiteriale; ciò nonostante sono ancora dine Un monumento da salvare. San Mauro presso Gal- conservati i livelli dei piani di calpestio, più elevati nel lipoli, con interventi dell’allora direttrice del Museo presbiterio rispetto alle tre navate. Dai vani delle porte

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San Salvatore, Volto del Cristo


e delle finestre sono scomparsi, ovviamente, i serramenti; alcuni vani sono stati murati./ Il portichetto anteriore di cui restano i muri laterali è un’aggiunta recente come documenta la foto Palumbo (circa 1930), mentre l’abside è ancora ben conservata./ Volendo avanzare delle prime e sommarie ipotesi di restauro si può iniziare col dire che, per un risanamento statico, potrebbe bastare la riduzione del carico dei rinfianchi, la ricucitura con imperni azione delle fessurazioni, oltre alla risarcitura di queste ultime./ L’umidità ascendente potrebbe venire adeguatamente intercettata con il taglio meccanico, a livello appena superiore al piano di spiccato, delle murature perimetrali ed inserimento di uno sbarramento orizzontale con resine./ La presenza, all’interno, degli affreschi sconsiglia di sostituire dall’esterno i conci più danneggiati ed erosi con la tecnica del “cuci e scuci”; più idoneo appare invece, per assicurare un’adeguata protezione ai parametri, il trattamento periodico degli stessi con idrorepellenti, naturalmente reversibili e da scegliere dopo specifiche indagini di laboratorio./ Per impedire ulteriori e future infiltrazioni dal manto di copertura sembra inevitabile il suo rifacimento in perfetta analogia, dopo la collocazione di una guaina impermeabilizzante elastomerica./ Pure il pavimento potrebbe venire integrato con altro analogo, mentre i nuovi serramenti dovrebbero assicurare una corretta ventilazione naturale, per non sconvolgere irrimediabilmente l’attuale situazione microclimatica./ Per concludere non sarà superfluo ricordare che i futuri auspicabili interventi non potranno naturalmente prescindere da un accurato rilievo, condotto su basi di massima scientificità, dello stato di conservazione di ogni singolo elemento costitutivo, e che le tecniche di restauro, per assicurare la perfetta conservazione degli affreschi, dovranno preventivamente venire individuate con ogni possibile indagine di laboratorio». Questa di Roberto Bozza è la prima vera analisi sullo stato di conservazione di san Mauro. Ovviamente san Salvatore qui non è stato nemmeno citato perché l’attenzione, in quel momento, era rivolta solo alla prima abbazia.

per i monumenti, gli scavi ed oggetti di antichità e di arte dei Mandamenti di Gallipoli, Nardò e Casarano», intitolato Origine e vicende della Chiesa e del Comune di Sannicola (Gallipoli, Tipografia “La Sociale”, 1913), all’interno del quale si legge una corposa appendice che consta di sette interventi, uno dello stesso F. D’Elia (Abazia basiliana di S. Salvatore a Gallipoli), seguito dalla copia ms. del verbale della visita pastorale del vescovo Pelagro Cibo (Carte Ettore Vernole) intitolata Visitatio abbatie Santi Salvatoris; seguono poi cinque interventi di Ettore Vernole, nell’ordine: Cimelii di arte basiliana, Il periodo basiliano, Appunti e rilievi presi alla mia prima visita a S. Salvatore (12 giugno 1925), Pro memoria, Lettera ad Ettore Vernole. Chiude l’opuscolo una serie di disegni di alcune planimetrie, prospetti e interni, eseguiti dallo stesso Vernole. Questo libro è molto interessante perché nell’intervento del D’Elia viene fatta la cronistoria delle vicende di san Mauro negli ultimi secoli della sua esistenza. Ad esempio, veniamo a sapere della comunicazione dell’autore dell’esistenza dell’abbazia di san Salvatore «rimasta finora sconosciuta, come lo è, credo, agli stessi eruditi nella storia dei basiliani, se non esistesse oggi una fattoria dal nome S. Salvatore, proprietà dotale della signora Giulia Ravenna, moglie del cav. S. PascaRaymondo./ Nel mezzo di questa fattoria sorge un fabbricato di varii membri, dei quali, parte sono di antichissima costruzione, e parte, dirò, nuovi, sebbene contino quasi un secolo di esistenza. Nel centro di questo fabbricato è rimasto fortunatamente incarcerata l’antica chiesa dell’abazia basiliana con parte del monastero, che ha dato il nome al podere ed alla contrada, e che oggi a noi l’esistenza di quella abazia nei secoli passati» (p. 71). L’autore scrive poi che, nel momento in cui egli visita il sito, la chiesetta è adibita a deposito di botti di vino, deposito che appartiene sì alla signora Giulia Ravenna, la quale però «non ha colpa l’attuale proprietaria, né suo padre Bartolomeo, né suo avo Giovanni Ravenna, perché tre generazioni, per quanto mi sappia, nessuna innovazione hanno apportato al fabbricato di quella fattoria, ereditata da Bartolomeo seniore, quello appunto che pubNel 1987, per iniziativa del giudice Michele Paone, al- blicò le Memorie istoriche di Gallipoli. Se vi è colpa, si l’epoca pretore di Gallipoli, e col patrocinio del Com- deve attribuire a lui. E fa proprio meraviglia ed è degno missario prefettizio di Sannicola, Nicola Prete, venne di essere notato, come egli, che mostrò di occuparsi di stampato dall’Editrice Salentina di Galatina, come re- storia patria, dei monumenti e di tutto ciò che forma il print, un interessante libro del canonico arciprete galli- materiale onde attingere le notizie per fermare la verità polino Francesco D’Elia, a quel tempo «R. Ispettore storica, non abbia poi parlato di quella chiesa e dell’an-

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San Salvatore, l’abside visto dall’interno


nesso fabbricato dell’antica abazia basiliana, come parlò di quella di S. Mauro. Egli che, nel 1836, quando pubblicava le Memorie istoriche era il proprietario del podere che la contiene, non avrebbe dovuto trascurare un cenno di descrizione su quella chiesa monumentale, quando tanto si diffuse su quella di S. Pietro dei Samari e sulle altre rurali, e di nessuna importanza, di S. maria di Daliano e della Madonna del Carmine, ed anco, in una lunghissima nota, della cappella pubblica da lui eretta nella sua villa di Rodogallo; anzi, ricco com’era, avrebbe dovuto, se veramente fosse stato amatore di cose antiche, fare alla muratura delle riparazioni per la conservazione di quel monumento, ed oggi non deploreremmo la scomparsa delle antiche pitture./ Quando nel maggio [1900] di quattro or sono mi recai a visitare quella chiesa, la trovai ingombra di botti ancor piene di vino» (p. 72). D’Elia descrive poi lo stato di conservazione degli affreschi, e trova che essi sono assai assaliti dalla muffa e dal salnitro. Tuttavia riscì «a rimuovere la muffa, e così potetti vedere chiaramente e copiare con fedeltà i caratteri». Interessante anche la seconda visita che, nel 1927, effettuò a san Salvatore Ettore Vernole, autorevole autore del libro Il castello di Gallipoli e noto storico salentino tra le due grandi guerre. Ecco come egli ci descrive i luoghi: «Entriamo nella chiesetta abaziale di San Salvatore nella vicina campagna gallipolina./ Percorrendo la strada provinciale che da Gallipoli mena a Sannicola, […] vedremo […] il biancheggiare di un fabbricato: è la masseria San Salvatore dei Pasca. […] Il massaro apre non senza pregarvi di spegnere la sigaretta, perché il magazzino è colmo di paglia. Il magazzino è invece l’antica basilica, intatta nella forma, inesorabilmente imbiacata nelle pareti; in fondo l’abside, dal catino fino al piano cilindrico, è tutta affrescata, e i dipinti sono eroicamente ribelli agli ostinati insulti degl’imbianchini, vogliono prepotentemente mostrarsi intatti agli amatori a dispetto di chi non lo vuole […] il cenobio, che ora alloggia i mandriani, ebbe ricche possessioni, passate poscia alla Chiesa vescovile di Gallipoli e nel 1518 restituite in piccola parte dal commendatario cardinal Della Valle al nobile monaco greco Alessio Massimiano per tenervi calogeri basiliani; che tenacemente vi succedettero altri abati greco-gallipolini, come Francesco Camaldari, Giovan Tomaso Nanni, Donantonio Nanni, ecc.; […] Dirò che il cortile meridionale presenta un pic-

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colo portico con due arcate ogivali, che il cortile orientale ha fosse tombali e puteali scavate nella roccia, che un concio emergente a sud dell’abside ha una rozza croce in rilievo affiancata dalle sigle scolpite: X N K (Gesù Cristo Vince)» (pp. 78-79). Il Vernole descrive poi la pianta e l’interno del tempio e, soprattutto, descrive gli affreschi e i cartigl. Successivamente nell’opuscolo del D’Elia, del Vernole viene pubblicato Appunti e rilievi presi alla mia visita a S. Salvatore (12 giugno 1925), nel quale egli precisa alcune notizie scritte nel precedente intervento, fra le quali che: «la masseria San Salvatore, attualmente di proprietà della signora Isabella Pasca Raymondi, maritata Aurelio Raheli-Lembo [… che] in località vicina si dice vi sia qualche grotta da asceta [… che] la terrazza delle volte, a dorso d’asino, è coperta di lastre di cotto [… che ] entrando nel cortile circostante, lungo il lato meridionale si apre a piano terreno un piccolo porticato come due caratteristici archi a sesto acuto; sotto di esso il massaro aveva costruito un palmento e il corrispondente sotterraneo si dice che fu trovato ricolmo di ossame e vasi fittili (?), ormai da lungo tempo sperperati e dispersi./ Proseguendo al tergo della chiesa (lato est) il cortile contiene sei fossette sepolcrali scavate nella roccia, ordinate in corrispondenza della curva dell’abside emergente dal fabbrico e disposte in senso perpendicolare alla muraglia posteriore della chiesa./ Nel cortile roccioso è scavato altresì un fosso rettangolare di circa 6 mq., nonché quattro pozzi o vore, che si assicura intercomunicanti, attualmente in parte ricolmi di pietrame: uno di essi è caratteristico, circolare, dall’orifizio orlato con regolarissimo incavo che sembra l’alveo per il pueale; anche gli altri pozzi sono circolari» (pp. 8485). Successivamente il Vernole descrive l’interno della chiesa notando che: «La chiesa è adoperata a magazzino della masseria. […] Il pavimento, di battuto comune, è in parte assai guasto, specialmente al centro della crociera, per cui non è agevole scorgervi le tracce dell’altare di rito greco./ Tutte le pareti sono calcinate e in parte con calcina rossa. In fondo è l’incavo dell’abside con affreschi malridotti, ma conservati quanto basta per l’interpretazione. Presentano tracce di tripla o quadrupla intonacatura. La parte superiore della parete di sfondo, al di sopra dell’abside, è anche affrescata ma coperta di calcina» (p. 85). Questo è quanto è possibile leggere sul piano storico di


San Salvatore, l’abside visto dall’esterno


questa antica abbazia basiliana.

Oggi, san Mauro e san Salvatore sono sotto una maggiore attenzione da parte dell’opinione pubblica, grazie alla sensibilità dell’Amministrazione comunale di Sannicola e grazie anche all’impegno profuso in questi anni dall’Osservatorio Torre di Belloluogo di Lecce, presieduto da Carla De Nunzio e Beniamino Piemontese il quale ultimo, per la difesa delle due abbazie, il 15 aprile 1997, lanciò un Appello per salvare l’Abbazia bizantina di San Mauro (divenuta poi Lettera aperta al Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro) in cui si legge: «L'Abbazia di S. Mauro, che sorge sulla Serra di Sannicola e guarda solitaria Gallipoli, in questi ultimi tempi è mèta di appassionati studiosi e cultori della storia patria i quali, ancora una volta, hanno lanciato un grido d'allarme per salvare le pietre superstiti di ciò che un tempo fu centro rinomato di arte e di spiritualità grecolatina […] Alle porte della “Città Bella” sorgono le preziose vestigia della millenaria Abbazia di San Mauro, al centro di un feudo compreso per secoli nell'ambito territoriale della municipalità gallipolina ed oggi appartenente al territorio del Comune di Sannicola, tramutatosi da Frazione in Municipio autonomo, a seguito della divisione territoriale attuata in esecuzione della Legge n. 134 del 5 aprile 1908./ Un pezzo importantissimo della storia, dell'arte, della cultura, della fede delle genti che hanno fondato ed accresciuto le sorti della “Città Bella” non può essere dimenticato, né è giusto che esso resti escluso dalle lodevolissime attenzioni ridestatesi oggi per i monumenti gallipolini solo a ragione della diversa appartenenza riportata sulla mappa catastale./ La Chiesa di San Mauro rappresenta, da molto tempo, l'esempio più mortificante di monumento in rovina, da salvare al più presto dalla distruzione». Sull’argomento, era intervenuto anche Marcello Musca di Sannicola che, in un suo libro del 1990 – Un anno a Sannicola (Proverbi - Usanze - Tradizioni - Notizie) – dedica un’interessante pagina a san Mauro. Eccola: «Che panorama stupendo da quel ristretto sagrato! Da una parte l'azzurro mare solcato nell'antichità da navi greche, romane e vichinghe, dall'altro l'ampia pianura verdeggiante con a due passi l'Appia Traiana che in 10 miglia univa Aletium (Alezio) con Neriton (Nardò) e che prima dei romani aveva visto transitare gente messapica ed autoctona con le sue bestie e le sue masserizie. Da quella strada nella vigilia del I° maggio di ogni anno

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giungeva sul piazzale antistante il convento una folla immensa di contadini, artigiani, pastori e commercianti che l'indomani mattina di buon’ora avrebbero esposto prodotti agricoli, bestiame e manufatti artigianali. Si celebrava la festa del santo con la fiera chiamata lu masciu (il maggio), la più grande dei dintorni dove si commerciava di tutto e tra i fidanzati avveniva lo scambio delle primizie. Da oltre quattrocento anni non si odono più le voci allettanti dei venditori mentre il tempo e l'uomo rapace hanno divelto l'ultimo concio di tufo di quell'abbazia della quale, nel 1845, si scorgevano ancora i crollanti residui di costruzioni e una vecchia cisterna in gran parte rivestita d'intonaco. Ora non c'è più nulla: tutte le grotte piene di materiale di riporto, scomparsi i resti di catacombe e il pavimento della chiesa divelto per la ricerca di favolosi tesori».

Nel 2002, su iniziativa dell’Amministrazione provinciale di Lecce (presidente Lorenzo Ria) e dell’Amministrazione comunale di Sannicola (sindaco Sergio Bidetti) fu organizzato un convegno di studio “San Mauro: ‘Testimone di pietre e di mare’”, le cui relazioni furono pubblicate in un volumetto dal titolo La Chiesa di San Mauro. Studio storico, religioso, linguistico ed artistico (cura di Gaetano Giuri, Monica Cascione e Francesco Penza, Coordinamento Associazioni della Grecìa Salentina). In esso non si parla dello stato di salute dell’edificio, tuttavia c’è un esaustivo panorama storico ed un adeguato approfondimento storico-religioso del mondo bizantino. Interessante la pubblicazione di un elenco dei Monasteri italo-greci del Salento tra il XI e XV secolo, dal quale si apprende che i basiliani nell’antico agro di Gallipoli stavano in san Pietro de Samari (1148), in san Mauro (1149, oggi agro di Sannicola), in san Stefano de Pygi (1195), in san Salvatore (1310, oggi agro di Sannicola), san Tirso (1325), santa Maria de Libero (1325). V’è anche un’utile Storia dell’Abbazia, dalla quale si ricava che: «le prime notizie dell’esistenza del monastero di san Mauro […] si ricavano dai pochissimi documenti che ci sono pervenuti grazie all’edizione del Trinchera (il Syllabus graecarum membra rum già citato) […] Il più antico è quello del maggio 1149 con cui Salomone, dominus di Aradeo, insieme ai suoi figli, Guglielmo ed Enrico, donano al monastero, in persona del suo egumeno Gerasimo una casa […] il secondo è del dicembre 1167 e riguarda la donazione che il monaco Ilarione e suo fratello Angelo fanno di se stessi e di tutti i loro beni pa-


La “sveglia” di Beniamino Piemontese con la sua tromba a San Salvatore.

Un fico invade l’ingresso della chiesa...


terni situati in Gallipoli al monastero di san Mauro; il terzo, dell’agosto 1172, è un altro atto di donazione di beni mobili ed immobili, effettuata a favore del monastero dal monaco Ioannikios. […] Utili riferimenti sul monastero ci forniscono due lettere di Onorio III del 1219, le Collectorie, degli anni 1310, 1324, 1325, i Libri obligationum per gli anni 1326, 1404, 1453, il Registro dei censi del 1482 e infine alcuni documenti pontifici./ Altre indicazioni si ricavano dalle relazioni delle due visite pastorali effettuate da Pelegro Cibo, vescovo di Gallipoli nel 1548 e nel 1567. […] Va infine ricordata l’annotazione catastale del 1751 nella quale si elencano i possedimenti del monastero allora amministrati da “Carlo Michele d’Altan, vescovo di Vania in Ungheria”./ Degli abati di san Mauro conosciamo solo pochi nomi: Gerasimo, ricordato nel 1149; Giacomo, citato nel 1203; Nicodemo, attestato nel 1208; Teoto, menzionato nel 1219; Ieroteo, della cui morte si ha notizia in una lettera di Gregorio XI dell’aprile 1374; […] Morto Ieroteo la serie abbaziale si arricchisce di tre abati nello spazio di due anni. Il 29 aprile 1374, infatti, Gregorio XI nominò a succedergli come abate Antonio de Agrimio, monaco dello stesso monastero. A costui, che governò san Mauro per poco tempo essendo morto nel corso dello stesso 1374, succede Romano Riccio, figlio di Angelo, già monaco di san Nicola di Pergoleto, che venne nominato il 7 gennaio 1375 da papa Gregorio XI e il cui governo abbaziale fu ugualmente di beve durata essendo anche lui morto nello stesso anno della sua nomina. Il 22 gennaio 1376 vediamo nuovamente Gregorio XI nominare, come abate di san Mauro, Moyses di Costantinopoli, monaco del monastero di san Salvatore di Chora a Costantinopoli, che resse il monastero per circa un decennio, fino a quando cioè Clemente VII non vi nominò, essendo lui ormai morto, Angelo di Grottaglie, monaco del monastero basiliano di san Vito del Pizzo./ Conosciamo ancora l’abate Antonio, morto prima del 7 maggio 1404, giorno in cui Riccardo, suo successore, promise di pagare la tassa per il comune servizio; Domenico, che si obbliga il 31 agosto 1453 e infine Palamàdes attestato nel 1482 e ancora vivente nel 1521» (p. 52). Dalle Memorie istoriche della città di Gallipoli, di Bartolomeo Ravenna, che cita la visita pastorale del 1548 di mons. Cibo, sappiamo poi che, a seguire da quel 1521, furono «sette antichi Abati, che avevano posseduto l’Abadia di San Mauro Suburbano, cioè Palinide Angaro [molto probabilmente si tratta di Palamàdes], Ser-

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gio Castaldo di Brindisi, Paride Moncada Siciliano, Rinaldo Pennucci, Raimondo de Oria di Rossano, Tommaso Nanni di Gallipoli […] Guglielmo Camaldari di Gallipoli».

Per quanto riguarda invece san Salvatore, dalla Storia dell’abbazia citata, sappiamo che: «La prima notizia ufficiale del monastero risale al 1310, anno in cui l’abate del monastero pagò al collettore delle decime la somma di 26 tarì e mezzo. Viene poi nuovamente ricordato nelle Collectorie del 1324 e del 1325 a proposito del versamento per le decime di 22 tarì e 10 grana. Appena sette dopo, però, l’istituto monastico sembra avviato ad una profonda ed irreversibile crisi dapprima economica poi di vocazioni monastiche. Ce lo conferma il fatto che nel 1332 l’abate Luca, successore di Paolo, passato a ricoprire la cattedra vescovile di Gallipoli nel 1331, venne esentato dal pagamento della consueta tassa per il servizio comune […] nel 1347 il suo abate Niceforo venne nominato abate di san Nicola di Casole dall’arcivescovo di Otranto Giovanni, anche se poi tale provvedimento venne annullato da Clemente VI, e nel 1366 un monaco di san Salvatore, Niceforo de Stefanitio, divenne abate di san Nicola de Maliodo, monastero basiliano della diocesi di Squillace. Ma non mancavano certo i monaci nel 1358 quando Innocenzo Vi in seguito alla morte dell’abate Simone, successore di Niceforo, provvide a nominare abate di san Salvatore Andrea, già monaco del monastero basiliano di santa Maria di Talsano in diocesi di Taranto. […] A proposito di Andrea, tutto lascia pensare che non prese mai possesso del monastero. Nella Collectoria del settembre 1373, san Salvatore risulta vacante e difatti pagò nihil, mentre dalla lettera di Gregorio XI del 7 ottobre 1373, sappiamo che la nomina di Nicodemo di Pantaleone, monaco del monastero di san Vito del Pizzo, ad abate di san Salvatore, viene disposta facendo riferimento alla vacanza susseguente alla morte di Simone e non già di Andrea, e per di più che anche stavolta la lettera venne notificata al conventui monasterii. […] 26 anni dopo il provvedimento di Bonifacio IX, vediamo l’abate pro tempore di san Salvatore, Giovanni Antonelli di Sant’Elia, rivolgere un’accorata supplica a papa Martino V per far restituire al monastero l’autonomia e la dignità abbaziale, adducendo come motivo principale il fatto che l’annessione decisa da Bonifacio IX il 26 luglio 1396, oltre che risultare dannosa per la stessa sopravvivenza del monastero fosse stata disposta


San Salvatore

Carrareccie


sulla scorta di una infondata valutazione del presule gallipolino circa la diminuzione e la inadeguatezza del gettito finanziario della mensa del capitolo./ Peraltro c’è da aggiungere. A parte i sette abati già menzionati – nell’ordine Paolo, Luca, Niceforo, Simone, Andrea, Nicodemo e Giovanni, ricordiamo ancora Maximiano Marte e Francesco Camaldari, attestati nel XVI secolo. Segnaliamo infine che il monastero è registrato nel catasto conciario di Gallpoli del 1751: l’abate commendatario di allora risulta essere “D. Carlo Nicodemi commorante in Roma”» (pp. 52-53).

Infine c’è da indicare come importante e più completo studio sui siti di san Mauro e san Salvatore quello curato dallo storico dell’arte Sergio Ortese con il libro Sannicola. Abbazia di san Mauro. Gli affreschi sulla serra dell’Altolido presso Gallipoli (Copertino, Lupo editore 2012). In questo monumentale lavoro a più voci (oltre al curatore Ortese, intervengono il sindaco Giuseppe Nocera, l’assessore ai Ll. Pp. Stefano Bidetti, l’assessore alla Cultura Danilo Scorrano, Mario Cazzato, Marina Falla Castelfranchi, Manuela De Giorgi, Valentino Pace, Francesco Gabellone, Giovanni Quarta e Davide Melica, Giuseppe Maria Costantini, M. Ritana Schirinzi, Roberto Dibiase) viene analizzata approfonditamente la storia, le architetture, gli affreschi e le correlazioni delle due abbazie con il contesto greco-bizantino dell’area meridionale.

E siamo all’oggi, cioè al 5 ottobre 2014. Il gruppo di persone, interessato al sopralluogo si è ritrovato prima in piazza a Sannicola, poi di là si è spostato sul sito di san Salvatore. Impressionate quello che ci è apparso sotto gli occhi: l’abbazia di san Salvatore è come l'avevo vista nel 1978, anzi molto più deteriorata. Gli anni trascorsi, di venti, piogge e soli cocenti, com'è nella natura di ogni cosa, l'hanno stravolta. Tutt’attorno è un crollo. Ormai non c'è più muro degli edifici aggiunti che si possa definire tale. Ciò che degli edifici accorpati alla chiesa di san Salvatore resta oggi è un cumulo di rovine sulle quali cresce rigogliosa una robusta vegetazione di fichi, ortiche, rovi spinosi ed antichi olivastri. Gli affreschi si sono ulteriormente deteriorati ma, quasi che una forza oscura intervenga dalle più remote regioni dell’insondabile, resistono alla violenza del tempo e a quella più deleteria degli uomini. Nella coorte basiliana, il pozzo c’è ancora, sia pure affogato e senza vera, totalmente scomparso è invece il continuum di pile e pilette

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poste una dietro l'altra. I grossi frammenti di colonne e di pile, che stavano a testimoniare l'antica vita che in quel luogo si era svolta, non ci sono più. L'antico cimitero dei basiliani, collocato sul retro della cappella è così come l’avevo visto 35 anni fa, solo che oggi è ancora più devastato dalla vegetazione, che incombe su tutto. Non ci sono più i cumuli di pietre (tipo piccole specchie), che allora avevo notato. Qualcuno li ha rimossi. Le tombe scavate nella roccia sono letteralmente coperte dalla vegetazione. Soprattutto le tombe degli abati che, a raggiera e in numero di sei, dipartono dal retro abside. Su alcune di esse è cresciuta da tempo una fitta vegetazione di fichi selvatici. Non sono riuscito a rintracciare la pietrafinita, che nell’articoletto citato avevo descritto con queste misure: 28 cm. di spessore, 40 cm. di larghezza, 150 cm. di altezza dal livello della superficie. Quello che per fortuna resiste ancora, sono le grandi carrarecce, il cui numero è veramente impressionante e occorrerebbe fare uno studio specifico per individuare la datazione e i percorsi del carri.


San Salvatore, Santo con cartiglio


ALBA MEDEA

Venti d’Abbazie

È nella notte dei tempi che gli ultimi abate (di rito greco) officiavano per gli esili respiri d’anime misurate con lo sguardo rivolto all’immensità del blu. Poi san Mauro piombò nel silenzio delle tenebre siderali esposto al vento furente dell’Alto Lido mentre san Salvatore rovina nella piana corroso da fichi selvatici e da mani sacrileghe con pastori e pecore che di notte l’abitarono e con io e mia madre che restammo inginocchiati sugli irti tratturi.

Col tormento degli ossi nei ginocchi con il cuore che pompa l’umida brezza marina la carne che si crocefigge nel ruvido calcare gli occhi lacrimano di luci absidali.

Maurizio Nocera

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A

(Profilo biografico tratto dall’Introduzione di Antonio Ventura alla ristampa del libro Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, Capone editore, cavallino, 2014, che la redazione della «Contrada» ringrazia)

Sono due seni di donna di collina e due coppe gonfie di mare vellutato le rocce che gonfiano le antiche abbazie scolpite dal vento: è san Mauro è san Salvatore la storia millenaria che ansima incensi basiliani e vini profumati di paradisi e olî che l’orizzonte indora di crepuscolo.

lba Medea, giovane ricercatrice, di origine lombarda e figlia unica dell’illustre psichiatra e neuropatologo Eugenio Medea, riuscì, tuttavia, a muoversi con relativa sicurezza in quei luoghi, che sino ad allora non aveva avuto mai occasione di visitare. Dopo la nascita, nel 1905, aveva, infatti, vissuto per lungo tempo con la famiglia all’estero, seguendo gli spostamenti del padre nel corso degli incarichi professionali ed accademici a Berlino, Monaco di Baviera, Zurigo. Poi, al rientro in Italia, si era stabilita a Milano e qui, portati a termine gli studi liceali ed universitari, aveva avuto modo di manifestare, ben presto, quale sarebbe stato il settore privilegiato delle sue ricerche, pubblicando, nel 1932, presso l’editore Cogliati, con prefazione firmata da Paolo D’Ancona, Arte italiana alla corte di Francesco I. 1515-1517./ In quel periodo cominciò anche ad occuparsi delle vicende storico-artistiche dell’Italia Meridionale, perché la passione per l’antichità classica l’aveva portata a collaborare con l’archeologo Paolo Orsi, il quale, insieme con Umberto Zanotti-Bianco, nel 1920, aveva fondato, nell’ambito dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, la Società Italiana Magna Grecia e costituito, al suo interno, la sezione Bizantina-Medievale, con lo scopo di poter effettuare in Puglia l’esplorazione e la ricognizione sistematica degli affreschi conservati nelle cripte basiliane, in modo da predisporne la tutela e, nello stesso tempo, renderne nota l’importanza attraverso la pubblicazione delle testimonianze superstiti e delle


San Salvatore, la sepoltura di un abate


relative iscrizioni greche ancora leggibili./ Da loro, Alba Medea, per le indubbie competenze, fu incaricata di condurre tali indagini e, pertanto, nel 1932, si dedicò con impegno ai lavori di rilevamento e di classificazione, incontrando validi punti di riferimento nelle professionalità di Quintino Quagliati e di Renato Bartoccini, Soprintendenti ai Musei ed agli Scavi di Puglia; di Carmine Corvaglia, Ispettore dei Monumenti e Scavi di Vaste e Poggiardo; di Pasquale Camassa, Direttore del Museo di San Giovanni in Brindisi./ A distanza di due anni, l’inventariazione dei dipinti era andata avanti speditamente e si avviava alla conclusione, come ella era in grado di darne notizia, riferendo su La Sociétè Magna Grecia Bizantina Medievale et le Corpus des cryptes d’Ermites dans les Pouilles, nella sede scientifica del 3° Congresso di Studi Bizantini di Sofia, dove, trascorso un biennio, sarebbe tornata ancora una volta, per presentare in anteprima, durante i lavori del 4° Congresso di Studi Bizantini, l’edizione pronta per la stampa, con la relazione Le Corpus des fresques peintes dans les cryptes des Pouilles./ Nel 1937 provvedeva anche a darne una rapida ma esauriente informazione agli ambienti culturali italiani, pubblicando Ricordi basiliani nell’Italia meridionale. Affreschi nelle cappelle rupestri pugliesi in «Arte e restauro» e Osservazioni sugli affreschi delle cripte eremitiche di Puglia in «Japigia». Gli articoli, per la novità e l’originalità dei contributi, suscitarono un tale interesse anche a livello internazionale, da essere tradotti ed ospitati nelle riviste «American Journal of Archaeology» e «The review of religions»./ Finalmente, nel 1939, la Collezione Meridionale Editrice, diretta da Umberto Zanotti-Bianco, stampava in due volumi, di cui uno fotografico, l’intera ricerca di Alba Medea, con il titolo Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi. Il territorio interessato dall’indagine, precisava l’autrice nell’introduzione, era quello della regione nei confini attuali e non in quelli storici; pertanto, diversamente da quanto aveva fatto Giuseppe Gabrieli, ella aveva preso in considerazione soltanto i monumenti esistenti nelle province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, escludendo gli altri della provincia di Matera, entrata a fare parte, in età moderna, della Basilicata./ La pubblicazione, come ebbero modo di recensire Nicola Vacca in «Rinascenza Salentina» e Domenico Vendola in «Japigia», rispondeva in

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maniera esauriente all’esigenza, da tempo e da più parti avvertita, di ricerche approfondite e metodologicamente corrette sull’argomento e ancora oggi, per la scrupolosa competenza con cui fu condotta, restano immutati la sua attualità e l’interesse scientifico. […] Tutti gli affreschi sono analizzati dall’autrice e classificati, sulla base dei differenti caratteri stilistici, secondo una precisa successione cronologica, a cominciare dai più antichi, assai vicini agli esemplari dell’arte cristiana orientale, per passare ai più perfetti dei secoli XII-XIII e giungere agli ultimi e ormai decadenti del 1300 e del 1400. Argomenti che sarebbero stati da lei ripresi ed ulteriormente approfonditi, nel 1940, trattando L’iconografia della Scuola di Rimini in «Rivista d’Arte»./ A questo articolo sarebbe seguito un lungo silenzio di circa venti anni, interrotto nel 1962, quando Alba Medea ritornò, ancora una volta, sui temi artistici a lei familiari, pubblicando, Resti di un ciclo evangelico in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania» e, l’anno successivo, relazionando su La pittura bizantina nell’Italia meridionale nel medioevo. V-XIII secolo, durante i lavori del Convegno Internazionale “l’Oriente cristiano nella storia della civiltà”, indetto nelle sedi di Roma e di Firenze./ Furono i suoi ultimi contributi sulla storia dell’arte medievale italiana./ Dal 1966 volle dare un diverso significato alla propria esistenza, perché, privilegiando interessi e vocazioni divenuti sempre più importanti, abbandonò in maniera definitiva studi e ricerche e rivolse ogni energia all’assistenza del prossimo in difficoltà e, in particolare, al riadattamento scolastico e lavorativo dei bambini affetti da epilessia e da disabilità motorie./ Divenne, così, “Nonna Alba”, come presero a chiamarla affettuosamente i piccoli ricoverati nel padiglione, che il padre, intestandolo alla moglie “Bianca Medea”, aveva creato ed attrezzato presso l’istituto riabilitativo dell’associazione “La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini, all’indomani dell’incontro, avvenuto nel 1950, con il beato don Luigi Monza./ Una esperienza di fondamentale importanza che aveva fatto maturare in lui e nella figlia la decisione di mettere da parte gli interessi culturali ed i beni materiali, per impegnarsi soltanto nell’assistenza socio-sanitaria dell’infanzia sofferente. Antonio Ventura


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L’Abbazia di San Mauro sfreggiata... dal tetto rosa

Maurizio Nocera e sullo sfondo l’Abbazia di San Mauro

fogli volanti di poesia spersa a cura di Maurizio Nocera


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