Spagine n°0 - Libri 01
Lecce, 2013 - anno I n. 0
Le recensioni
Antonio Verri in una fotografia di Fernando Bevilacqua
Gianni Ferraris per Costantino Nuzzo, “Trainella” per Minuto D’Arco
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Silverio Tomeo per Leonardo Angelini, Il sole, la campana, l’orologio. Modelli di temporalità a Locorotondo per Psicoline, 2013
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri
Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
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Spagine n°0 - Libri 01 Lecce, ottobre 2013 - anno I
Il sole, la campana, l’orologio di Leonardo Angelini per Psicoline, 2013
libri
Come t’imbriglio il tempo
Una ricerca sul campo a Locorotondo fra etnologia e psicoanalisi
L
a parola ‛tempo’ viene dal greco temno che significa “io taglio”. Si tratta dello stesso etimo del termine “tempio”. Partendo dalla domanda di fondo su cosa sia il tempo e attraversando i modelli di temporalità suggeriti da storici della cultura come Norberto Elias e Marie Bonaparte per il versante della psicoanalisi, il pugliese Leonardo Angelini, psicoterapeuta a Reggio Emilia, propone “Il sole, la campana, l’orologio. Modelli di temporalità a Locorotondo” (Psicoline, 2013), uno studio situato nel suo paese d’origine che è Locorotondo, comune della Bassa Murge barese. Un testo sorprendente, fatto di analisi, genealogie, interviste alla comunità anziana che ancora conserva memoria di lentezze, partizioni, regole e saperi meridiani che la modernizzazione forzata ha travolto e mutato. Nella prefazione l’antropologa Annamaria Rivera scrive che Angelini “ci regala un’analisi raffinata e accattivante di un frammento di quella pluralità di maniere – storicamente e culturalmente determinate – in cui gli esseri umani cercano d’imbrigliare e addomesticare il tempo che scorre, in definitiva di sublimare la loro inappellabile mortalità”. Nel caso di Locorotondo, e certamente non solo, “il sole e la campana rappresentavano i due criteri in base ai quali tendevano a misurare il tempo, i contadini e gli artigiani, cioè le due classi sociali più rilevanti fino a una cinquantina d’anni fa all’interno della popolazione”, mentre l’orologio allude alla scansione temporale delle nuove generazioni e delle nuove classi sociali apparse negli ultimi decenni, scrive Angelini. Il riferimento al “Saggio sul tempo” di Norbert Elias (il Mulino, 1986) appare centrale all’autore, come anche i lavori di Marie Bonaparte, l’allieva di Freud, per quello che concerne il “tempo psichico”, e inoltre il sociologo Kristos Pomian e tante altre riflessioni di altri autori. L’omissione della temporalità secondo l’analitica esistenziale di Martin Heidegger ha i suoi buoni motivi per l’economia del testo, e si potrebbe anche credere che venga ritenuta fuori luogo e “fuori tempo” per un’attenzione concreta all’evoluzione di una comunità, per quanto Heidegger fosse tutt’altro che estraneo alla riflessione sulla Gemeischaft, ma purtroppo in termini inquietanti. L’esperienza aporetica del tempo nel racconto, come la chiama Paul Ricouer, agisce nelle microstorie dei vissuti, nel “tempo raccontato” e non misurato. Un libro sorprendentemente originale e utile per la generalizzazione possibile nell’ambito del “pensiero meridiano” della temporalità, della comunità vista nelle aporie della modernizzazione, nella rammemorazione del tempo del “sole e della campana”, e anche nell’ abitare la distanza tra l’origine e l’emigrazione “esistenziale”. Vivendo personalmente la distanza tra la remota origine isolana e l’annosa presenza peninsulare pugliese, per cui dal luogo d’origine ci sono state sempre “più partenze che ritorni”, quando non il gesto di recidere il “cordone ombelicale” assieme alle retoriche delle radici, credo di comprendere a fondo lo sguardo amoroso ma disincantato di Angelini verso Locorotondo, che qui appare quasi come una metonimia della Puglia. Per la propria singolare percezione della temporalità rispetto alle età e ai luoghi della vita nello spazio della caducità e della metamorfosi, è il “Canto alla durata” di Peter Handke del 1986 a tornarmi spesso in mente. “Quando la durata vi impone le mani/si chiude la ferita/di cui mi accorgo/solo quando si sta rimarginando”, e questa sensazione è nel ritorno casuale o cercato ai luoghi-chiave del vissuto, nel riemergere di amicizie e volti, nella sensazione, a volte, quasi di una compresenza temporale per cui “sostenuto dalla durata,/io, essere effimero/porto sulle mie spalle i miei predecessori ed i miei successori”. Silverio Tomeo
Particolare di un disegno di Gianluca Costantini
spagine L’immagine che illustra la copertina del libro
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Spagine n°0 - Libri 01 Lecce, ottobre 2013 - anno I
libri Trainella di Costantino Nuzzo, Minuto D’Arco Editore
I doveri della memoria Un racconto di vita vissuta fra Marittima, Diso e Tricase
i sono modi di dire che si utilizzano per abitudine, spesso per convenzione, “Il mondo è piccolo”, ad esempio. A volte poi ti accorgi che la tradizione orale, la cultura popolare, tramandano verità. E’ piccolo il mondo se mia figlia, alessandrina che studia all’università a Pavia, ha una “collega” salentina che la invita a Tricase per l’estate, successe nell’agosto 2012, ed è piccolo se a distanza di un anno incontro Costantino, il padre della ragazza salentina, nella piazza di Diso ed iniziamo a parlare accorgendoci di avere in comune amici e interessi, oltre che di trovarmi davanti ad un raffinato scrittore. Diso è un paese tranquillo, poca gente per strada, seggiole in piazza martedi 6 agosto 2013, fra i tavolini del bar, un palco, una bandiera italiana ed una della CGIL. C’è la proiezione di un documentario che per varie vicissitudini ancora non avevo visto: Arneide. Passano su quel piccolo schermo e con un audio improbabile le immagini e le testimonianze dei protagonisti delle lotte a cavallo fra il 1950 e il 1951, quando le terre vennero occupate, quando la polizia di Scelba caricava donne e uomini che volevano solo e banalmente lavorare un pezzo di terra, che chiedevano di poter sopravvivere. Anche Costantino Nuzzo era in piazza a Diso, e mi ha sorpreso regalandomi un libro che aveva scritto nel 2010: Trainella. Non è romanzo, non è saggio, è un racconto di vita vissuta fra Marittima, Diso e Tricase. Lui nacque a Marittima, ora vive e lavora a Tricase. Già direttore di Radio Salento popolare e collaboratore di riviste, ha voluto mettere su carta i suoi ricordi, che sono quelli della sua generazione. L’ha fatto perché occorre ricordare, avere memoria di come eravamo per comprendere cosa siamo. E l’ha fatto perché gli spiriti più attenti della nostra generazione si rendono conto che il filo della memoria è esageratamente esile e fragile. Cito un passaggio della sua presentazione del libro. Quella attuale, per Costantino “è una società senza chiari modelli di riferimento, confusa e smarrita, che si concentra […] sull’insano culto dell’io senza lasciare spazio al noi […] Una società concentrata nel quotidiano individuale, che vive alla giornata. Senza passato, senza storia e senza alcun progetto di futuro[…]” Forse una visione eccessivamente pessimistica, che tuttavia ha ragion d’essere se valutiamo la deriva sociale e politica in cui siamo stati risucchiati tutti quanti, e della quale la mia generazione, che è anche quella di Costantino, ha qualche responsabilità. Consideriamo le lotte dell’Arneo, quando una classe di “ultimi” chiese, pretese ed ottenne in parte di avere un pezzo di terra che desse a quelle persone la dignità di esseri umani, che facesse uscire il Salento dal feudalesimo crudele dei baroni e dei proprietari terrieri che utilizzavano centinaia di ettari di terreni coltivabili come riserva di caccia, e vediamo oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, nuovi “baroni” tanto simili a
quelli antichi che vengono incarcerati perché riducono in schiavitù altri “ultimi”, i ragazzi che arrivano con scafi di fortuna. Le domande sorgono spontanee, le conquiste di un tempo, quanto valgono oggi? Soprattutto, perché la cosiddetta “società civile” consente questi ignobili comportamenti? Perché un conclamato razzista ricopre importanti cariche in parlamento? Perché i diritti conquistati nel tempo sono stati tutti risucchiati e negati da un capitalismo globalizzato che si ritiene invincibile? E potremmo proseguire a lungo, ma torniamo a Trainella. Il libro è di agilissima lettura, scritto in modo asciutto, riporta episodi, guaches di personaggi e comportamenti di Marittima e Diso degli anni fra il 1957 e il 1967, quando la guerra finita sembrava lasciare posto alla rinascita, ma che vedeva i contadini, i mezzadri fare una vita meno che dignitosa, spaccarsi la schiena e lottare ogni giorno per sopravvivere. E lo fa senza enfasi e senza cadere nel tranello del “Mulino Bianco”, quando i mulini erano bianchi, ben lo sappiamo, i poveracci crepavano di fame. Racconta, anche con simpatica ironia, la quotidianità di una famiglia con molti figli, del parto provocato da un ribaltamento del “traino”, racconta del contrabbandiere, della festa patronale con gli abiti buoni, della raccolta del tabacco, del trasferimento della famiglia intera, compreso il nonno fumatore incallito, a Ginosa per la raccolta sulla “millequattro” con l’autista che stipava tutto l’occorrente per la sopravvivenza di alcuni mesi e 9 persone a bordo. Un viaggio di ore e ore, sempre che non ci fossero guasti e che la polizia stradale non fermasse quella strana auto stracarica per la multa di ordinanza. E ricorda, Costantino, del daziere che potremmo definire gabelliere, di come il “Don” precedesse il nome dei figli laureati dei possidenti terrieri. Quelli che studiavano anche se “ciucci”. E poi il cinema Excelsior dove occorreva andare alle tredici per prendere posto, ed era indispensabile andarci perché anche le ragazze potevano farlo, con il beneplacito dei genitori e del prete. E ancora, i matrimoni mai fatti perché dalla dote mancavano i materassi, o della “fusciuta” (scappatella) di chi non poteva permettersi la dote e giustificava in questo modo un matrimonio improvviso. Acquarelli leggeri nella loro pesante realtà, che fanno sorridere con tristezza. Accompagna per mano a capire, fa vedere con occhi diversi le bellezze di queste terre e la durezza del lavoro. Soprattutto si comprende meglio la trasversalità delle storie degli “ultimi”, quelle descritte da Nuto Revelli nel suo stupendo ed irrinunciabile libro che conserverò accanto a Trainella: “Il mondo dei vinti” che racconta la vita dei contadini di Langa, costretti ad emigrare per fare “la stagione” in Francia da clandestini ovviamente, costretti a nutrirsi di castagne e a comprare il sale di contrabbando dagli “acciugai”, tutto ciò per poter dire di avere vissuto. Il mondo, in fondo, è veramente piccolo. Gianni Ferraris