Lecce, novembre 2013 - anno I
spagine
Libri
Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri
“Il bordo vertiginoso delle cose” di Gianrico Carofiglio, Rizzoli
Se si narra la bellezza... di Vito Antonio Conte
Ad illustrare l’immagine di copertina del libro edito da Rizzoli
Spagine n°0 - Libri 03
I
ndeciso. Scriverne? Oppure no? E se sì di cosa? Dell’inizio o della fine? O di tutto quel che in mezzo sta? Ché stavolta non è come tutte le altre! Beninteso: ogni altra volta è stata una volta. Quella volta. Storia a sé. Ma, in fine e comunque, soltanto bellezza. Questa volta non è stato così. Non è così. Forse. Conseguenza delle digressioni. Delle abusate digressioni. Forse. O dell’alternanza del tu e dell’io nella narrazione. Del passato e del presente così nettamente staccati. Di due storie, dense d’altre storie, che proprio quando – nell’ultima manciata di pagine - s’incontrano, restano sospese sul bianco intonso della 316 che non c’è. Non ci sono due mani che si stringono. E insieme vanno. Forse è per questo?!? O, forse, per le molte (nonostante le tante dichiaratamente emendate, compresa la migliore – pure per me -, quella di Kurt Vonnegut: “È tutto accaduto più o meno” – da “Mattatoio n. 5”-) citazioni. Non solo letterarie. Quasi un intercalare periodico. Oppure perché tanto di questo libro già c’era nei precedenti libri. Tematiche incluse (violenza, amore inconsueto, forte introspezione… e quei conti con se stesso che faticano sempre a tornare. Quando tornano.). Oppure chissà… C’è che ogni suo libro l’ho atteso e divorato. E, poi, ne ho anche scritto. Questa volta non so. Letto. Divorato. E poi…
Lecce, novembre 2013 - anno I
Libri L’indecisione è pura retorica. Siccome le domande. Restano i dubbi. Che, in ogni caso, son meglio di mille fisse (e false) verità. Ché la verità, si sa, si schiude soltanto quando (dopo tutto) arriva la fine… Non in questo caso. L’explicit m’è piaciuto perché inatteso. Tanto inatteso da rendere meno scontata pagina 315, l’ultima. Ché una storia, qualunque storia, è (oltre tutto, anche) una storia d’amore e (soprattutto) una storia d’amore è bella quando non sai come andrà a finire. Quando riserva sorprese. Quando continua a meravigliare. Quando regala stupore. Quando è certezza dell’incerto e nell’incerto divenire. Quando anche lo scazzo tende all’armonia. Quando ogni giorno c’è una pagina bianca da scrivere… Bellezza, insomma. Come la di Vito Antonio Conte vita. Quanto all’incipit, invoglia, in puro stile (e gusto) dell’Autore, a continuare la lettura senza folgorarti. Rimane tutto il resto: quel che in mezzo sta: oltre trecento pagine. Ché, se proprio devo dire e scriverne, la dico e la scrivo tutta. Come sempre. Ci aggiungo un quasi (mitiga la presunzione!): come sempre, quasi. Scritte con grande maestria. Con la consueta fluidità che ammalia. Con una leggerezza che rende semplice quel che spesso ammorba. Con una sapienza che intriga ciò che altri complica. Pur nella delicatezza dei temi toccati: spesso complessi e sgradevoli. Da affrontare. Da ac-
“Se hai bellezza e nient’altro, hai più o meno la miglior cosa inventata da Dio”
Gianrico Carofiglio
cettare. Da parlarne. E, soprattutto, da scriverne. Ecco: la vera difficoltà è scriverne. Farne un romanzo. Contaminare la realtà, il proprio vissuto, l’esperienza personale con l’invenzione letteraria. In trecento pagine di corpo centrale. Anzi di corpo a corpo. Dilatate e amplificate sino all’eccesso. Per tutto il libro, in un esplicarsi di mestiere (però) reso a ottimo livello, compresi l’inizio e la fine. Trecentoquindici pagine dove la tensione si prende delle pause. Ecco: credo che sia mancata un po’ la tensione nella narrazione. Probabilmente è così per me. Sicuramente, anzi, è il lettore che sono stato nel mentre le pagine scorrevano. Il mio tempo ha condizionato il tempo del romanzo. Con i miei stati. Le mie emozioni. E tutto il resto. Compresa certa (mia) voglia di lentezza. È fisiologico. E naturale. Com’è naturale che, fin qui, poco del romanzo abbia scritto e molto, invece, di me. Ma c’è che Gianrico Carofiglio pone (quasi) sempre domande e le (poche) risposte le dà dove non c’è scrittura… a pagina 316 (per esempio), tanto per intenderci. E, riflettendoci, una volta ancora, è (anche) per questo che amo la sua scrittura e le sue storie. Meglio: le storie che racconta con la sua scrittura. Ché dei fallimenti, delle violenze, dell’adolescenza, del passato che non s’accorda e/o ch’è difficile d’accordare col presente, del futuro che verrà e chissà, dei crepacci esistenzia-
li, dei confini e dello starci in bilico (oppure cadere da una parte o dall’altra), delle paure, dei passaggi nelle diverse stagioni dell’umano essere, della memoria che ogni volta che torna è menomata o mitizzata (e, comunque, è sempre altro…), e ancora…, s’è scritto si scrive e si scriverà sempre, ma quel che (per me) fa la differenza (e il valore) è il come. E allora devo dire, oggi devo dire, che avevo bisogno di metabolizzarlo questo libro. Dovevo lasciarlo sedimentare. Dovevo farlo riposare. Perché emergesse la sua bellezza. Per coglierne la bellezza. Una bellezza resa dal come la storia di Enrico Vallesi è stata scritta. Dal come è stata raccontata. E, se volete scoprirlo, leggetevi “Il bordo vertiginoso delle cose”. Confesso, l’avrete capito, di non aver provato vertigini, ma, una volta ancora, vi ho trovato bellezza. Ch’è un dono che Carofiglio… fa ai suoi lettori. E, come ebbe a scrivere Robert Browning (da un suo verso è scaturito il titolo del libro), “Se hai bellezza e nient’altro, hai più o meno la miglior cosa inventata da Dio”. Non credo (a questo punto) di dover spendere parole sul concetto di bellezza… potrei esemplificare, ma dovrei riempire pagine e pagine tanti e tali sono gli esempi possibili… ve ne darò soltanto uno: bellezza è (anche) ascoltare (conoscendone il testo) Perfect Day di Lou Reed.