Spagine poesia 03 il simbolismo notturno di pascoli tomeo

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Spagine n째0 - Poesia 03

Lecce, ottobre 2013 - anno I

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Il simbolismo notturno di Giovanni Pascoli di Silverio Tomeo Giovanni Pascoli


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poesia

Giovanni Pascoli

Il gelsomino notturno inno alla notte feconda di Silverio Tomeo

N

el suo studio-antologia L’idea simbolista (Garzanti, 1976) non ha dubbi Mario Luzi ad ascrivere Giovanni Pascoli alla grande stagione simbolista della poesia europea. Per Luzi il nostro poeta “per vie istintive attuò un genere di poesia nel quale si possono riconoscere gli orientamenti estetici e spirituali del simbolismo, per quanto la tendenza amplificatrice del suo umanesimo ottocentesco lo espone al pericolo dell’eloquenza e del compiacimento linguistico”. E la prima delle due poesie pascoliane che Luzi immette nella sua antologia è Il gelsomino notturno, poesia-simbolo, quasi, della sensibilità poetica di Pascoli e della sua misura migliore che tuttavia non sempre riusciva a raggiungere. Scritta il 21 luglio del 1901 e precedente di qualche anno come ideazione, inserita già dalle prime edizioni dei Canti di Castelvecchi, nelle Note in coda al volume si può leggere: “E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del Gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua), al nome d’un dio e d’un angelo, quello d’un povero uomo: voglio dire gli nacque il suo Dante Gabriele Rossetti”. Insomma, la poesia a detta stessa dell’autore viene dedicata a un amico per la nascita e per la notte del concepimento del suo figliolo.

Come spesso nei versi di Pascoli si mescolano elementi di una sua autobiografia che dal reale trasfigura nell’immaginario e poi nel simbolico. Il simbolismo riuscito della sua poesia è quello che attinge a significati polisemici, quello che si fa significante di più significati. Quando invece la poesia si fa puro flusso di significanti senza quasi più significato, in versificazioni quasi mimetiche, con l’uso frequente di onomatopee, quasi un “fonosimbolismo”, oppure con il vezzo di parole d’uso dei termini degli agricoltori, siamo di fronte forse a una rappresentazione involontaria della lingua del materno nel rivolgersi al fanciullo, pur nel quadro di un virtuosismo letterario altissimo e in una anticipazione dello sperimentalismo linguistico successivo. Se si può parlare di simbolismo istintivo e a volte riuscito, difficilmente si può pensare a una ingenuità sprovveduta del letterato Pascoli, che nel mentre attingeva a una tradizione letteraria, si auto - collocava consapevolmente nella tradizione poetica italiana (allievo di Carducci, amico di D’Annunzio), e pur senza farne cenno diretto nella sua produzione critica e di traduttore, era bene a conoscenza della letteratura europea del secondo Ottocento. Il gelsomino notturno è quel fiore ornamentale detto anche “bella di notte”, dai colori a volte svariati, che ha un suo ciclo anomalo: non ama il sole nelle ore calde e se ne sta ben chiuso, mentre al tramonto e verso la notte si

schiude. E questa poesia di Pascoli diventa un inno alla notte feconda, pur nella consapevolezza del notturno come complesso intreccio simbolico di sonno, morte, materno. Ridurre invece il senso de Il gelsomino notturno a una sorta di simbolismo erotico e voyueristico quasi infantile è abbastanza errato, così come esaltarla come composizione di un presunto filone esoterico della produzione poetica pascoliana. Non dimentichiamo, inoltre, la circostanza per cui la raccolta di poesie Myricae il Pascoli la dedicò al padre che gli venne a mancare appena adolescente per un misterioso omicidio, mentre i Canti di Castelvecchi vennero dedicati alla madre che gli venne a mancare appena un anno dopo il lutto paterno, nel corso di una catena luttuosa che riguardò anche una sorella e due fratelli. In seguito Pascoli chiamò con sé due sue sorelle, con una delle quali visse in compagnia a lungo dopo che una si sposò suscitando nel poeta una reazione quasi morbosa di gelosia e quando poi svanì un suo paventato matrimonio con una cugina lontana.

Pascoli

Nell’andamento serrato di sei quartine di versi novenari, a rima alternata, Il gelsomino notturno si apre sulla visione di una notte quasi di epifania misteriosa, vista nella campagna dal Pascoli tante volte descritta in una sua fissità metafisica e senza tempo nei suoi versi. Nell’ora del tramonto, nell’ora in cui il poeta pensa ai suoi cari ormai scomparsi, si


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tre nel sonno e nella veglia lega viventi e memoria di quanto è scomparso, dà luogo alla vita nascente, al mistero del futuro. La notte è morte ed è madre, è silenzio, sonno, bisbiglio, è ciclo notturno di vita. E’ difficile non ritenere, in versi come questi, che siamo di fronte a una nuova sensibilità poetica, che cioè la parte meno retorica della poesia pascoliana arrivi a collocarsi al di là della fine del suo secolo per proiettarsi nelle forme poetiche del novecento. Certamente, seppure non in modo lineare, dalla poesia di Pascoli si accede sia al crepuscolarismo di poeti come Gozzano e come Moretti, sia al futurismo di Palazzeschi, in una stagione dove nel decadentismo italiano si fanno crogiuolo sentimenti stranianti di patria, desiderio confuso di riscatto, sostanzialmente paura del moderno e nello stesso tempo apertura a suggestioni europee, a nuove sensibilità post-romantiche e a ricerche sperimentali nella forma poetica. La storia della critica su Pascoli apre uno scenario composito che non riguarda esclusivamente le forme poetiche e quelle linguistiche, ma anche quelle propriamente culturali, ideologiche, sino a quelle psicoanalitiche, che

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aprono i fiori notturni, appaiono le farfalle del crepuscolo tra i fiori bianchi dei viburni. Nel silenzio ormai profondo della notte solo in un casolare bisbiglia la vita, brilla una luce; in contrasto i nidi dormono sotto ali protettive come le ciglia sugli occhi, il profumo dei gelsomini notturni si esala, l’erba cresce silenziosa sulle fosse delle tombe. Un’ape tardiva rimane solitaria mentre rientra nell’arnia trovando le cellette occupate, le Pleiadi per l’aia azzurra del cielo notturno gli raffigurano una Chiocciola (dal nome popolare della costellazione), con un suo seguito di stelle come pulcini. Nella casa intanto si spegne la luce della lampada al primo piano nella notte profumata. All’alba, si riaprono i petali dei gelsomini, e “si cova/nell’urna molle e segreta; non so che felicità nuova”; come dire che nel grembo del fiore, della notte, della moglie dell’amico, cova la vita nascente. Il contrasto sottile tra sonno e morte, erba che cresce sulle fosse del cimitero, la sua propria solitudine e un suo senso di esclusione da una sua vita familiare simbolizzato dall’ape esclusa dal favo, si apre e si risolve sulla considerazione attonita della nuova vita che cova, quasi nel ciclo eterno della natura. In questa poesia le figure della metrica e soprattutto quelle proprie della metafora, si risolvono senza troppe forzature allegoriche nel simbolo essenziale di un fiore notturno che si apre alla notte, nel quadro complessivo di uno spazio lunare, stellato, che men-

Giovanni Pascoli in un’opera di Carlo Ravaioli


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La natura... lo stupore, la meraviglia

Un’immagine giovanile di Giovanni Pascoli

intrecciano lo studio della biografia del poeta e quello delle simbologie ricorrenti. La simbologia del materno, del fiore, del nido, sono ricorrenti nella produzione poetica del Pascoli. Il senso di stupore e di meraviglia verso la natura, la riduzione sentimentalistica del senso della storia nei poemetti, la retorica virtuosistica del rapporto con la tradizione classicista greca e romana, la frammentarietà a volte confusionaria delle prose critiche, sono altrettanti aspetti di un estetismo compiaciuto del Pascoli.

ramento, o forse di autoinganno su entrambi i piani”. Secondo questi autori l’ambiguità del Pascoli sta sostanzialmente nell’idealizzare la rimozione, senza arrischiarsi nell’operazione dell’autoanalisi, nel tormento introspettivo proprio della letteratura moderna. Ma nessuna rimozione può mai riuscire del tutto, a parte nelle forme più gravi di psicosi, recita l’ortodossia freudiana, altrimenti si slitta in quella denegazione (forclusione) di cui parlava Jaques Lacan. Quindi i brividi e i presentimenti, nella migliore poesia pascoliana, ma assieme a una volontà di immobilismo fisso e stralunato delle cose, nella loro fissità di paesaggio immobile e privato di temporalità, con umori che sfoceranno poi nel versante del crepuscolarismo italiano, in una sorta di retorica dei sentimenti opposta alla retorica dannunziana dell’azione e del superomismo, ma non certo nell’estetismo . Sicuramente l’autoconsapevolezza di Giovanni Pascoli, per la sua epoca e per la sua stessa esperienza di vita, appare titubante, appannata a volte dal sentimentalismo patetico, dalla rimozione dei nascenti conflitti sociali sino alla anticipazione delle ambigue teorie dell’Italia “grande proletaria” con a monte una sorta di confuso socialismo umanitario e con nel proseguo storico i nazionalismi nascenti e le guerre colonialiste. Sono noti i rilievi di Antonio Gramsci sul Pascoli che da confuse velleità socialiste internazionaliste della giovinezza trasmigra poi

alla critica del socialismo marxista per “un socialismo del cuore”, sino a creare il concetto di nazione proletaria, verso un populismo nazionalista e colonialista. Ecco che comunque i brividi del rapporto aurorale con la natura, la troppo citata poetica del fanciullino del Pascoli, quasi una fissazione infantile da elaborare ininterrottamente con il lavoro letterario e l’immaginazione poetica, a volte l’ombra di un eros rassegnato se non malato, nel tentativo quasi di dare parola alle cose umili e miti, alle atmosfere crepuscolari, danno una cifra stilistica alle due raccolte più note e belle, Myricae e i Canti di Castelvecchi. Se ci siamo ampiamente serviti della riflessione interpretativa su Il gelsomino notturno, dalle due raccolte poetiche citate possiamo trascorrere dai trasalimenti di Nebbia alla frequente interrogazione dei defunti come nella poesia Il bacio del morto oppure Il brivido, al notturno di L’imbrunire oppure nella più nota La mia sera, e a tutto un novero tematico che raduna un paesaggio dell’anima e della memoria, una visione idealizzata dell’infanzia, una paesaggistica umana edulcorata, un sentimento di natura fatto di presagi e colori impressionistici. Nella poesia storica e civile di Pascoli si fa invece più evidente una pratica della poesia come rimozione del conflitto sociale, come pratica di un’ideologia restauratrice, come fermento di un pericoloso nazionalismo di là da venire, e che difatti avvenne, furiosamente,

in tutta Europa e non solo, negli anni successivi alla sua parabola letteraria e poetica. Eppure: “ciò che resiste, alla fine del percorso nella selva della critica pascoliana, è l’immagine di un poeta che, mentre si offre con umile chiarezza alla definizione dei critici, si sottrae di colpo con proterva complessità”, sintetizza opportunamente Antonio Prete nell’ introduzione al volume da lui curato La critica e Pascoli (Cappelli, 1975).

Pascoli

Spesso si è detto dell’accentuazione della biografia di Pascoli nella sua poetica e nella sua poesia, lui stesso ne parla nelle dediche, scrivendo che certi sentimenti e circostanze non si inventano, ed anche nelle Prose fa cenni al rapporto intenso del fanciullo appena adolescente alle cure e all’affetto della madre dipartita, e certamente gli rimane perdurante nel femminile delle sorelle questa sorta di affettività del materno perduto in un ragazzo così presto privato della figura paterna. Se nonché sembra interessante l’ipotesi che siamo di fronte a una rimozione riuscita del poeta, almeno nella sua opera, e che faremmo bene a diffidare della letterale identificazione tra poesia e biografia nel Pascoli. Come scrivono R. Ceserani e L. De Federicis in Il materiale e l’immaginario (Loescher, 1986) : “quanto all’amore, il rapporto tra biografia pascoliana e opera si configura come un grandioso atto di rimozione e di masche-

di Silverio Tomeo - Fine


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