Spagine della domenica 23

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Un omaggio alla scrittura infinita di F.S. Dòdaro e A.Verri

della domenica 23 - 6 aprile 2014 - anno 2 n. 0

spagine

Periodico culturale dell’Associazione Fondo Verri


Lecce, 6 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 23

Poesia - La città e il cambiamento - Per Lecce 2019

Quando Lecce

era periferia di Rudiae

di Vito Antonio Conte

Dopo il primo intervento di Ilaria Secli pubblicato domenica scorsa Spagine e il Magazzino di poesia continua ad “interrogare” i poeti sulla città e sul cambiamento

S

alotto buono. Centro storico. Barocco. Movida. Rondò. Metropolitana di superficie. Tangenziali. Parchi. Cultura. Abusivismo. Degrado. Rovina. Periferia. Ogni città inizia dalla sua periferia. Ogni città dovrebbe serbare massima cura della sua periferia. *** Ogni città dovrebbe amare la sua periferia. Ergo, le parole sopraordinate dovrebbero essere lette al contrario. E non per un mero dichiarato senso d’importanza, ma per ragioni di sostanziale vivibilità e bellezza del tutto. E il tutto è l’intero territorio d’ogni città. Non soltanto, quindi, il centro urbano, ma tutta l’estensione territoriale della città, con le strade e i vicoli, le frazioni e le località, le campagne e le montagne, le marine, i corsi d’acqua e tutto quel che di visibile e d’invisibile (il territorio) contiene. Il sottosuolo e il cielo. Tutto. Tutto quel che appare. E tutto quel ch’è nascosto. La terra, con tutto quel ch’è sotto e tutto quel che sopra sta. Passato e presente. Storia e speranza. Radici e cielo. Cielo. Sogno. Futuro. Lecce, sempre più spesso, è ridotta a uno slogan turistico. Che non ripeterò. Ché le parole hanno significato in quanto esprimono e/o rimandano a un senso. E gli slogan finiscono per svuotare di senso le parole. Quel ch’è noto all’occhio sono soprat-

tutto le prime sette parole (dell’incipit di questa mia scrittura, che non è nient’altro che un atto d’amore). Già un po’ meno ciò che significano quelle parole. Eppure vengono usate e abusate. Uso e abuso. Parole vuote. La prima snaturata, sradicata e divenuta desinenza della seconda. La pratica dell’abuso ha svilito il buon uso dell’esistenza: una buona esistenza è quella (…) capace di armonizzare Spazio e Tempo. Così una buona città: è tale quella dove lo Spazio e il Tempo s’accordano in piena euritmia. A Lecce lo Spazio è spezzato, reciso, violentato: le stratificazioni della Storia sono state sacrificate dalla sovrapposizione di banconote a banconote. Piccole storie di piccolo becero potere. Il Tempo è diventato uno sconosciuto, senza più memoria, sconfitto dall’oblìo e dalle rovine dei mega centri commerciali… Le restanti parole (dell’incipit) sono profferite spesso da inetti politicanti che – parlandone – pensano a altro, vogliono altro. Parole che diventano strumento, mezzo, mai fine, mai contenuto, mai bellezza. Oppure le si rinvengono nelle (ormai) tante denunce per quel che potrebbe essere e non è. Comunque, quasi mai destinatarie d’amore. Amore. L’unico ingrediente capace di aggregare le energie per giungere alla vera bellezza. Ecco: dovremmo finirla di pronunciare le parole e iniziare a prenderci cura davvero di quel che significano e rappresentano. E agire. Essere attenti alla città nel suo complesso. Eliminando dal vocabolario e dalle azioni parole e fatti quali spreco, speculazione, interesse personale, uso, abuso, oblìo. Ogni città inizia dalla sua periferia. Ogni città dovrebbe serbare massima cura della sua periferia. Ogni città dovrebbe amare la sua periferia. Qui vedo periferie devastate. Per l’assenza di cultura. Qui vedo periferie riqualifi-


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Il precedente articolo per “La città e il cambiamento” è su: http://issuu.com/mmmotus/docs/spagine_della_domenica_22?e=9256684/7289937 pagina 4 Spagine della domenica del 30 marzo 2014, Poesia - La città e il cambiamento di Ilaria Seclì

...“La città, sempre più spesso, è ridotta a uno slogan turistico. Che non ripeterò. Ché le parole hanno significato esprimono e/o rimandano a un senso. E gli slogan finiscono per svuotare di senso le parole”...

Periferia di Lecce

cate. In nome della cultura. Cultura: altro ingrediente per circondarsi di bellezza. Credo che, oggi e ovunque, la cultura sia una possibilità! E non tutto e il contrario di tutto. Cultura è coltivare la propria identità guardandosi intorno, tenendo conto delle diversità, scambiandosi saperi. È la possibilità di contaminare la personale visione del mondo per costruire un mondo nuovo, sì che ogni identità rimanga riconoscibile nel puzzle identitario planetario nel rispetto d’ogn’altra realtà. Questo chiamo armonia. Questo chiamo bellezza. Questo chiamo futuro. Non l’occasione d’un flusso di danaro per qualche toppa qua e là e per il vestito nuovo (con accessori… griffati) di pochi. La mia casa è a due passi da Rudiae. Rudiae è morta. Rudiae è sepolta. Rudiae è periferia di Lecce. Il suo Spazio è sotto i rifiuti. Il suo Tempo è fermo. Rudiae è ancora una parola vuota. Qualcosa si muove. Qualcuno si è speso e continua a spendersi perché luce, nuova luce la tocchi. Per intanto ci sono € 755.000,00 per il Completamento dei lavori di scavo archeologico, valorizzazione e fruizione di “fondo anfiteatro” – Parco Rudiae 1° Stralcio, ma il resto di € 1.560.350,00, già stanziati, che fine ha fatto? Perso nella burocrazia di altre inutili e vuote parole? È soltanto una questione semantica? E però pare che, a Rudiae, qualcosa sia stata completata: sembrerebbe ultimato il Polo Didattico dell’Archeologia per gli studenti delle scuole medie. Peccato che la struttura faccia a pugni con l’ambiente in cui è allocata e con gli occhi di chi la guarda. Peccato che mostri già segni di degrado. Peccato che gli unici visitatori sembra siano i piccioni e altri… uccelli. Peccato che sia costato € 372.500,00, per quel ch’è dato sapere, ossia un’enormità… E poi ho ascoltato i diretti in-

teressati al recupero dell’antica Rudiae dire che la somma stanziata è una goccia rispetto ai lavori necessari per riportare alla luce la bellezza di Rudiae, del suo anfiteatro, delle sue mura… Sì, indubbiamente c’è un gran lavoro da fare, ma continuo a passare dalla vecchia via dei cavamonti (l’antica Lecce-Copertino, ch’è – sembra – soltanto un tratto della più lunga via che collegava l’Adriatico allo Jonio) e tutto è fermo! Nulla cambia! Tranne i rifiuti. Di tutti i tipi. Soprattutto pneumatici esausti e eternit. Che lievitano! E per questo c’è da prendersela solo con se stessi. Con la mancanza di senso civico. E con qualche maledetto gommista… ma, sono anni ormai che si sente sempre la stessa solfa, c’è la crisi e smaltire costa. Qualcosa sta cambiando. Piccole cose. La riqualificazione del quartiere LeucaFerrovia… Le cave di Marco Vito… Qualche punto verde… E altro che – nell’insieme – fanno una grande cosa. Si potrebbe opinare sulla qualità dei singoli interventi… Ma perché Lecce possa cambiare davvero e in meglio è necessaria la partecipazione di tutti i cittadini, di tutti noi che amiamo questa città, è necessario farsi sentire, essere propositivi, e – pure e soprattutto è necessario - che chi governa Lecce voglia e sappia ascoltare la nostra voce. Ché si cambia realmente soltanto se si cambia insieme. Rudiae è una possibilità. Una possibilità grandiosa. Una possibilità di bellezza. Un’occasione che può diventare motore per il lavoro e l’economia. Ne ho già scritto in passato. Non voglio ammorbare alcuno. Ogni città inizia dalla sua periferia. Ogni città dovrebbe serbare massima cura della sua periferia. Ogni città dovrebbe amare la sua periferia. Senza scordare che una volta Lecce era periferia di Rudiae.


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Cinema

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“Allacciate le cinture” di Ozpetek e “In grazia di Dio” di Winspeare

I

n 24 ore ho visto due film girati in Salento. Il primo aveva Lecce come sfondo e palcoscenico, ma avrebbe potuto tranquillamente essere raccontato ad Aosta o a Cuneo, non cambiava molto, Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek. L’altro molto salentino nell'ambientazione, nel dialetto (sottotitolato), nelle storie, e nel pathos: In Grazia di Dio di Edoardo Winspeare. Un dialetto che trova la forza di parlare al mondo intero, e che tuttavia non poteva che essere girato e vissuto nella terra d’Otranto. *** Un film, il primo, con una storia di fondo: il cancro che colpisce la protagonista e la mutazione dei rapporti familiari, sociali, affettivi. Non mancano i richiami all'omosessualità, anche questi cari al regista. Un film che, nonostante il tema forte trattato, ha un odore, come dice il mio amico Renato, di fotoromanzo, sa di plastica. Lontano dalle opere che mi avevano fatto conoscere ed apprezzare il regista turco, Le fate ignoranti e La finestra di fronte, in cui i temi erano, anche qui come un filo rosso che unisce i lavori del regista, il racconto era l’omosessualità nei risvolti dei rapporti sociali, familiari, della scoperta di un mondo, o nella repressione del ventennio fascista, erano narrati con impegno, forza, determinazione. Allacciate le cinture sembra invece un raccontino che scade facilmente nel melodramma, pur riconoscendo al regista la tenacia nel voler dire storie pesanti, questa volta, a me come spettatore, non è piaciuto. Neppure Lecce rende più alta l'opera, ne è sottofondo sfocato, capace solo di essere prepotente e potente con le sue luci ed ombre, quella luminosità naturale che avvolge ed ammanta tutto. Sul film la critica e il pubblico si sono spaccati, mi trovo d’accordo con Mario Zonta su Mymovies.it: "E così quel tocco naif, che ha sempre caratterizzato le sue pellicole, rischia di diventare a tratti insopportabile quando si immerge nel melò come avviene senza remore in questo Allacciate le cinture». Ora, si può essere empatici verso una storia d'amore che sfonda nel melodramma, qui tra l'altro ospedaliero, e certo sentirsi trasportati dall'abbraccio fatale di questa "storia e destino", ma nel modulare la ten-

Una scena di “In grazia di Dio”

Due film “salentini”

di Gianni Ferraris

sione emotiva è necessario mantenersi un minimo al passo con i tempi. Insomma, spesso in questo film si slitta tra lo sguardo naif e la cartolina, tra l'ingenuità e il modello stereotipato. Sappiamo che Ozpetek è sincero (e questo è tanto), ma il mondo fuori, molto più brutto e cattivo dei tempi di Le fate ignoranti, non lo mette al riparo e forse c'è bisogno di uno scatto in più, di uno sguardo più complesso, di un contraddittorio meno edulcorato. Nota di rilievo è il cameo del Sindaco di Lecce, Paolo Perrone, che fra il ballo e le apparizioni sullo schermo, mostra voglia di esserci. *** Molto salentino è In grazia di Dio di Winspeare. Se è vero che è una storia molto italiana, altrettanto vero è che il film non avrebbe potuto essere girato che in Salento, l’impatto forte è il dialetto, i non attori, interpreti presi dalla vita quotidiana. Il cast: Celeste Casciaro, Laura

Licchetta, Anna Boccadamo, Barbara De Matties, Gustavo Caputo, Angelico Ferrarese, Amerigo Russo, Antonio Carluccio; nomi non noti, fra loro troviamo persone che nella vita quotidiana fanno l’avvocato, la barista, il pescatore, il contadino. "Attori" presi dalla vita reale, interpreti magistrali nei loro ruoli. E’ una storia credibile in tempi di crisi economica e mostra la capacità, tutta femminile, di rinascere utilizzando le conoscenze, queste si, assolutamente tipiche di questa terra. Il fallimento della fabbrichetta costringe il socio fratello della protagonista ad andare a cercare lavoro in Svizzera, qui rimangono le donne che vanno a vivere in una masseria da riassettare. Così l’universo si rinchiude fra madre, figlie e nipoti, con l'aiuto/complicità di un solo uomo perchè "un uomo ci vuole per lavorare i campi", che sarà in realtà un altro tema affrontato con delicatissima capacità dal regista, l'amore nella

terza età. Un film dove convivono risate e commozione, consapevolezza del presente e crisi economica, uomini di malaffare, equitalia e finanziarie improbabili nella parte degli squali, amore, rassegnazione. C’è la difesa del territorio da “quelli del nord che comprano ed hanno molti soldi”, dove il denaro può tutto, meglio, tutto dovrebbe potere con la complicità di intermediari senza scrupoli. E c’è un richiamo ad un’economia antica, che purtroppo (o per fortuna) può diventare attualissima nel periodo terrificante che stiamo vivendo: il baratto. In tutto questo il Salento gioca una parte decisiva e non replicabile in nessun altro luogo. Mentre nel film di Ozpetek Lecce è solo un palcoscenico come tanti, nel film In grazia di Dio nulla potrebbe essere replicato altrove nello stesso modo. Qui tutto è Salento: il paese, il bar, anche il campo nella cava e la masseria. La compenetrazione fra il regista, gli attori, il territorio e le situazioni sono totali. Soprattutto dove la prorompente forza delle donne è protagonista assoluta e incontrastata. Come dice il regista in un’intervista: "...In grazia di Dio direi che non è la risposta alla crisi, è piuttosto una risposta alla crisi. È la storia di quattro donne che approfittano della crisi, delle sue durezze, delle sue difficoltà per reinventarsi, per affrontare la vita con un piglio diverso e nuovo. Quello che voglio raccontare attraverso il mio film è l’importanza di reagire ad una condizione e ad una situazione insostenibile. A forza di reagire, alla fine ci si troverà veramente 'in grazia di Dio’...''. Un film da non perdere assolutamente insomma. Grazie veramente a Winspeare che mi ha riconciliato con il cinema solo dopo poche ore. Un film che mi ha ricordato in alcuni aspetti Speriamo che sia femmina girato da Monicelli nel 1986. Che tuttavia ha un valore aggiunto incredibile dell’attualità più stringente. Stupenda anche la fotografia che rende ancora più bella la luce naturale di questi luoghi. Un solo appunto, metterei sottotitoli non bianchi, spesso si perdono sullo sfondo chiaro e diventano poco leggibili.


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Buongiorno Taranto di Paolo Pisanelli al Bif&st domenica 6 e lunedì 7 aprile 2014 al Multicinema Galleria di Bari per il Bif&st

...e uno

spagine

Lecce, 6 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 23

“tarantino” S

arà il Bif&st, B a r i International Film Festival ad accogliere la prima proiezione ufficiale di Buongiorno Taranto in concorso nella sezione documentari domenica 6 aprile alle ore 19, alla presenza del regista, e in replica il lunedì 7 aprile alle ore 22.30 presso il Multicinema Galleria di Corso Italia a Bari. Il film di Paolo Pisanelli, prodotto dalla cooperativa Big Sur, associazione Officina Visioni, con il sostegno di Apulia Film Commission, è stato realizzato anche grazie a una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso, dove è possibile sostenere il progetto sino a lunedì 14 aprile.

Una fotografia di Paolo Pisanelli da Taranto

Realizzato insieme agli abitanti della città più avvelenata d’Europa e a numerose associazioni culturali e ambientaliste, il film documentario fa parte di un progetto di narrazioni sociali innovativo, forse il primo realizzato in Italia a partire da un videoblog, sostenuto anche dalla partecipazione di Michele Riondino, attore e cantante, figlio di un operaio dell’impianto siderurgico tarantino e tra i promotori del grande concerto del Primo Maggio che anche quest’anno si svolgerà nel Parco Archeologico delle Mura Greche, uno spazio recuperato dall’abbandono grazie all’opera del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti. Buongiorno Taranto racconta tensioni e passioni di una città immersa in una nuvola di

smog, una città intossicata ad un livello insostenibile. Aria, terra e acqua sono avvelenati dall’inquinamento industriale, all’ombra del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, costruito in mezzo alle case e inaugurato quasi cinquant’anni fa. Le rabbie e i sogni degli abitanti sono raccontati dalla cronaca di una radio web nomade e coinvolgente, un cine-occhio digitale che scandisce il ritmo del film e insegue gli eventi che accadono ai confini della realtà, tra rumori alienanti, odori irrespirabili e improvvise rivelazioni delle bellezze del territorio. Scrive Paolo Pisanelli nelle note di regia: “Raccontare le storie di questa città bellissima e disperata è una sfida che non riguarda solo il mio percorso cinematografico, ma il tentativo

di attivare una comunicazione più profonda attraverso un videoblog e una radioweb che sono luoghi di narrazione e di confronto sociale aperti alla città come spazi da abitare. Qui siamo costretti a metterci in scena perché quella di Taranto è una storia che riguarda tutti: è lo specchio del degrado di un’Italia in crisi esistenziale che dopo aver puntato sul processo di industrializzazione di un Mezzogiorno prevalentemente rurale, ora si trova incagliata nei conflitti aperti tra industria e ambiente, tra identità e alienazione, tra salute e lavoro. Taranto oggi è chiamata a scegliere quale strada seguire, superando quel “Ce m n futt a me!” (che me ne importa a me?) che ha accompagnato il processo di degrado della città e dell'Italia tutta. Per contribuire alla rinascita di questo territorio ai confini della realtà è necessario conoscere la sua storia e considerarsi tutti tarantini. Buongiorno Taranto è un saluto a una città che si risveglia dal torpore di un'allucinazione collettiva in cui è caduta nella ricerca di un benessere illusorio. È un sole che si fa spazio tra le nuvole di fumo per esorcizzare la paura e sfidare l'immobilismo, l'indifferenza e la rassegnazione. Buongiorno Taranto è un progetto per costruire una narrazione fatta di immagini, suoni e parole della città dei due mari, un viaggio sur-reale ritmato da esplosioni di bellezza sommersa e ipnotici tramonti sul lungomare”. http://www.bifest.it/ http://www.buongiornotaranto.it


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Contemporanea

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“Non so se Papa Francesco sia o meno comunista – non mi sorprenderebbe se lo fosse...”

La chiesa di Francesco

tra il dire e il fare

di Gigi Montonato

O

ggi, a distanza di poco più di un anno dall’elezione al soglio pontificio si può tentare di vedere Papa Francesco oltre quello che appare. Finora i media ci hanno mostrato: Santa Marta, Piazza San Pietro, giri in papamobile, baci e abbracci di bambini, invalidi, vecchiette, borse portate personalmente a mano, uso di utilitarie, immagini in varietà di posizioni – l’ultima inginocchiato di spalle al confessionale – politici convocati a messa, conti pagati di tasca propria e tutto quell’insieme di ostentazioni che hanno creato in pochi mesi il mito del Papa innovatore. La prima impressione è che Papa Francesco abbia sempre una gran voglia di apparire e di piacere (verbo). Vanità che è rubricabile come peccato di lussuria. Il buon Papa Ratzinger ha detto che il Signore ha voluto questo e che lui per questo era inadeguato e dunque ha fatto “il gran rifiuto”. Possibile che il Signore volesse un Papa lussurioso? Bah! C’è poi un altro genere di ostentazione, che è quello delle affermazioni clamorose, del consenso subito. «Chi sono io per giudicare?»; «L’essere umano è per la chiesa come un malato per l’ospedale: che fai ad un ricoverato, gli chiedi la sua fede o non intervieni subito a curarlo, a guarirlo?»; «Dicono che sono comunista perché sto coi poveri, ma i poveri sono il cuore del vangelo». Frasi che non possono passare inosservate. Così anche coloro che non sono in regola coi sacramenti trovano spalancate le porte del Signore. Di fronte a simili prese di posizione, come prima cosa, si deve onestamente riconoscere che è in atto non direi una riforma ma una revisione dottrinale, così alla buona, a spizzichi e mozzichi. Che, aggiunta all’ormai acquisita consapevolezza che tutte le religioni sono uguali,

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Papa Francesco abbraccia un ammalato

espone il cattolicesimo a traguardi importanti ma incerti. In seconda battuta non si può non rilevare che anche qui c’è da parte del Papa una gran voglia di stupire. Quando si pensa al rifiuto di giudicare da parte della chiesa, che da sempre si è posta come magistero, viene di pensare ad un professore che a scuola mette a tutte le verifiche scritte e orali dei suoi alunni un bel dieci e al Preside che gli chiede ragione dice: e chi sono io per giudicare? In terza battuta, si coglie l’inevitabile ricaduta politica di certe affermazioni, che vanno in direzione della sinistra, sia a quella operaia, dei poveri e disoccupati, sia a quella radicalchic che vuole tutta una serie di liberalizzazioni: matrimoni gay, eutanasia, procreazione assistita, sacerdozio femminile, abolizione dei sacramenti attraverso un loro progressivo e indolore svuotamento. Insomma, questo Papa ha un confine mobile tra ciò che è il compito tradizionale e istituzionale della Chiesa e quello che lui

si pone, per cui ogni volta ti sorprende. Difficile dire fino a che punto sia del tutto spontaneo e incurante delle ricadute o consapevole degli effetti religiosi e politici delle sue affermazioni e dei suoi comportamenti. Certo è che sta riposizionando la Chiesa, in conseguenza di un’idea della Chiesa fondata su una parte, non più in rappresentanza di tutto il corpo sociale ed ecumenico. La Chiesa dei poveri dice. E che vuol dire: che vorrebbe un’umanità di morti di fame? La storia, che è sempre il riferimento ineludibile per trovare ragioni e spiegazioni, ci dice che la Chiesa non si è mai schierata con una parte sociale. La Chiesa, nel corso dei secoli, ha dimostrato di essere dei poveri e dei ricchi, dei deboli e dei forti, degli ignoranti e degli intellettuali. Ed ha avuto ragione, perché senza i ricchi-forti-intellettuali, i poveri-deboli-ignoranti sarebbero stati molto peggio e mai si sarebbero mossi dalle posizioni preistoriche. E’ la storia che produce le differenze sociali. Il vangelo

vale per tutti; nei suoi contenuti il ricco e il povero si ritrovano purché obbediscano alle leggi del Signore Gesù Cristo figlio di Dio. Se i poveri sono il cuore del vangelo, i ricchi quale organo anatomico occupano? Chi sceglie di stare da una parte, con una parte, lo fa o in buona fede o per calcolo. Escludo che un Papa lo faccia in buona fede; lo fa per calcolo. Ma chi ragiona e opera per calcolo è il politico, che calibra la sua azione in difesa di una parte piuttosto che di un’altra, nella consapevolezza di una necessaria dialettica per raggiungere degli equilibri. Chi si prefigge di portare una parte a prevaricare sull’altra non sta col vangelo, non sta con la democrazia. Non so se Papa Francesco sia o meno comunista – non mi sorprenderebbe se lo fosse – ma dovrebbe sapere che una sola ideologia nella modernità ha esplicitamente dichiarato di proporsi come obiettivo la dittatura di una parte sull’altra; e questa è la dittatura del proletariato. Sappiamo tutti che cosa è stato. Ma Papa Francesco non stupisce solo per quello che dice e per quello che fa; stupisce anche per quello che non dice e per quello che non fa. Per esempio, non convince i sacerdoti ad indossare l’abito talare e ad uscire dalla chiesa per stare tra la gente, nella società, come una volta. Se è veramente convinto di quello che dice a proposito di povertà e di Chiesa povera, si liberi dello Ior, che è una banca e come tale deve rispondere, più che al Dio uno e trino della fede cristiana, al dio uno e quattrino della fede finanziaria. Se fosse veramente convinto della povertà della Chiesa dovrebbe rinunciare all’otto per mille. Papa Francesco si è troppo secolarizzato e politicizzato, dimostra di aver appreso l’arte tutta italiana degli annunci ad effetto: a dire le cose che poi non fa e a fare le cose che non dice.


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In biologia, la variabilità genetica è ciò che assicura l’evoluzione, il progresso, la diversità...

spagine

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Il freno della morale di Marcello Buttazzo

L

a Natura è un prodigio di eventi, un susseguirsi di accadimenti, di cicli magicamente iscritti nel grande libro cosmico. La Natura è il ciliegio che fiorisce, la rondine che ritorna da contrade lontane, la donna che procrea la sua figliolanza. È l’alba che oscura la notte, la brezza leggera che ci bagna, è l’eterno affollarsi delle passioni. L’idea di base e paradigmatica che più propriamente rappresenta la Natura non può non riferirsi ad un concetto di cambiamento, di mutazione, di varianza. Che è sempre vita, e mai morte. Del resto, in biologia, la variabilità genetica è ciò che assicura l’evoluzione, il progresso, la diversità. Come può la Chiesa cattolica insistere sul carattere “universale” e “razionale” della legge naturale, ritenendo che essa possa essere ascritta al comportamento umano come un fondamento statico, immutabile? Per una parte predominante del mondo cattolico, l’aborto, la fecondazione assistita, la “dolce morte”, le normative laiche che regolano i matrimoni omosessuali, sono condotte chiaramente “immorali”. Ma è lecito esprimere sempre un giudizio oggettivo, valido per tutti, capace di interpretare e spiegare ogni vicenda? Viviamo in un’era veloce, che muta quotidianamente e progressivamente. La vita corre, e una concezione relativistica appare più consona ad interpretare il mondo. Non è un oltraggio al divino, ammettere la validità d’una morale più elastica, che sappia disciplinare la realtà che scorre continuamente. Non si viola la legge di Dio, se con disposizione flessibile si dà forza e rilevanza ad un’etica della cittadinanza, che decida di assecondare le sollecitazioni del tempo. Uno Stato aperto, moderno, dovrebbe, ad esempio, saper

Gay pride

contemplare dichiarazioni anticipate di trattamento liberali, sempre rispettose dell’integrità e della dignità della persona. Uno Stato moderno dovrebbe saper seguire il passo della scienza, che coscienziosamente avanza. Le antropologie di riferimento possono essere sottoposte a critica, a discussione. La ragione può sempre fare le sue scelte, in piena autonomia e consapevolezza. La ragione può sempre congetturare, prospettare la strada da seguire, in ossequio comunque a condotte sagge e a definiti quadri normativi. Sulle dirimenti questioni antropologiche, la dottrina cattolica è estremamente rigorosa. Sul concetto di sacralità ed intangibilità della vita umana, dal concepimento fino alla fine, non transige. Sull’eutanasia, sull’aborto, sulla manipolazione degli embrioni, non ammette scappa-

toie. L’etica tradizionale aderisce ad un’ontologia serrata, rispettabilissima. Purtuttavia, una società vitale ha bisogno di sentir pronunciare non solo moniti solenni, ma anche aperture sostanziali. Quando Papa Francesco dichiarò di non essere nessuno “per poter giudicare un gay”, pensammo che qualcosa di inedito stesse accadendo. Epperò, su certe tematiche, la Chiesa resta drammaticamente chiusa. In particolare, la sfera sessuale è un aspetto pratico e filosofico, che divide e ingenera fraintendimenti. Quando sarebbe, invece, il caso di giungere talvolta ad una visione quantomeno lievemente coincidente. L’intento della Chiesa cattolica è far capire l’unione che esiste fra l’atto sessuale e il fine autentico della vita umana, “evitando di esasperare l’importanza dell’erotismo”. Certo, anche l’erotismo deve essere gestito

nell’ottica appropriata. La sessualità permette all’uomo di perpetrare la specie, ma preminentemente è uno straordinario strumento di conoscenza. La sessualità non dovrebbe essere mai banalizzata, perché essa ci permette di scoprire il nostro mondo e quello degli altri. L’uomo è libero nel momento in cui condivide pienamente il proprio se con i suoi simili. Quanti sono gli adolescenti, ai primi sommovimenti amorosi, intenti a scandagliare la dolcezza dell’amore sessuale e la meraviglia di quello sentimentale? Il precedente Papa teologo, Benedetto XVI, fece moderate aperture sull’uso del profilattico, solo però quando esso veniva impiegato in caso di prostituzione. Perché una Chiesa moderna, vicina all’universo giovanile, attenta all’educazione e alla crescita delle persone, non allenta le strette maglie dell’etica, affermando nettamente che il profilattico può essere maneggiato responsabilmente dagli adolescenti? In fondo, la diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili riguarda tutti. Una seria politica contraccettiva non dovrebbe essere solo premura del mondo laico: anche una Chiesa cattolica contemporanea potrebbe rivedere parzialmente alcune sue consolidate posizioni. In un saggio, “Bioetica quotidiana”, Giovanni Berlinguer è critico, tra l’altro, nei confronti di alcune personalità religiose e politiche, “ostili all’informazione sessuale nelle scuole”. Scrive, sconsolato, il professor Berlinguer: “Le critiche di certuni sono rivolte verso il ministero dell’Istruzione, che non dovrebbe interferire perché l’educazione sessuale spetta alle famiglie, e verso il ministero della Sanità, che non dovrebbe consigliare l’uso dei preservativi perché possono favorire una sessualità priva di ogni freno morale”.


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Diario politico

Meglio Senato o Assemblea delle Autonomie Locali?

Le giuste parole L

e parole misurano il coraggio del cambiamento. Sono le parole quelle che misurano il coraggio vero del cambiamento in politica. Cambiare costa molta fatica. Innovare costa la rinuncia o la cancellazione di vantaggi acquisiti ed il rischio di sbagliare. La politica si è mossa sempre nei limiti negativi della conservazione contro il rischio di cambiare e quindi non ha saputo vivere la forza creativa delle novità nel futuro. La riforma, del Presidente Matteo Renzi, del superamento del cameralismo perfetto è coraggiosa e rivoluzionaria, ma non trova pronta la lingua a raccontare la profonda trasformazione istituzionale nel Paese. Nella scelta infatti di chiamare: Senato delle Autonomie Locali la nuova riforma non c’è solo la malattia della mediazione politica ma la resistenza contro la scrittura delle pagine nuove della geografia istituzionale delle riforme nel Paese. La parola Senato rinvia alla saggezza della vecchiaia, alla maturità dei filosofi, al ruolo dei saggi per la loro visione della pratica del Bene in politica. La storia del pensiero politico ha riempito biblioteche di libri. Anche la Costituente discusse molto prima di chiamare la camera alta Senato della Repubblica per poi fissare l’età a 40 anni per essere eletti senatori. Mi chiedo: qual è la ratio di continuare ad insistere nel chiamare la riforma di Renzi Senato delle Autonomie Locali? Forse solo per ridurre il pericolo di cambiare molto radicalmente rispetto al passato? Le parole sono specchio delle cose, luce bianca delle idee, per questo non dobbia-

di Luigi Mangia

Senatori con soldato a Roma

mo rinunciare al potere di usare parole chiare e rendere quindi facile e leggibile il nostro pensiero. Nella proposta Renzi, la definizione chiara, libera da dubbi ed interrogativi è: Assemblea delle Autonomie Locali. La proposta infatti si compone di Sindaci di Presidenti di Giunta Regionale di Consiglieri e solo da 21 membri nominati dal Presidente della Repubblica. Perché allora ostinarsi a chiamare il nuovo organo: Senato delle Autonomie Locali? Il nuovo ordinamento che sta per maturare, si articola lungo due binari fondamen-

tali: la Camera dei Deputati con il valore di essere l’Istituzione del popolo e quindi della Nazione tutta. La Camera poi è quella che ha il grande compito di essere l’organo che dà la fiducia e approva il bilancio. La Camera dei Deputati quindi continua ad essere il verbo della Nazione unita indivisibile. L’Assemblea delle Autonomie invece rappresenta i territori nel rispetto e nella valorizzazione della grande ricchezza delle culture dei campanili. La politica deve sentire il respiro dei territori e avere la sensibilità verso i loro bisogni. I territori nella ri-

forma Renzi sono il rafforzamento dei valori dei padri dell’Italia e non la forza distruttrice dei valori corporativi del territorio, così come li abbiamo conosciuti nell’esperienza corporativa della Lega di Bossi oggi nella Lega di Salvini. I territori sono l’unità di un Paese plurale aperto al nuovo verso l’Europa dei popoli nella strada che porta alla proclamazione di identità senza barriere. La nuova geografia istituzionale, con la Camera dei Deputati molto rafforzata nella riforma pone il grande tema dei contrappesi per evitare il pericolo di aver un organo autoritario ed una democrazia a rischio. Nella nuova riforma, a mio parere, diventa assolutamente necessario introdurre le preferenze nella nuova legge elettorale. È un grave rischio per la democrazia avere una Camera con molti poteri eletta con rappresentanti nominati. In un sistema politico con i partiti deboli ed inesistenti, con le autarchie locali forti nei territori e con le oligarchie potenti nel controllo degli interessi non si può lasciare il Paese nelle loro mani. Le preferenze sono necessarie, necessarie ancora più necessarie ed il Senato delle Autonomie un errore del vocabolario. È meglio usare parole chiare come quelle di chiamare la nuova Istituzione Assemblea delle Autonomie Locali. La gente non ama parole che per essere comprese hanno bisogno di aprire il dizionario politico per capire quello che intendono indicare alla brava gente.


Appuntazzi Gianluca Costantini i spirato da Danilo Dolci

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L’arte di costruire la città

I

l leccese Mauro Manieri (1687 - 1744 circa) fu architetto e scultore dei più prolifici e interessanti del Settecento salentino. Fra le sue realizzazioni più significative si ricordano una statua di santa Irene collocata sulla porta maggiore della omonima chiesa leccese, le sculture della facciata principale del palazzo Marrese (Lecce) non meno che la facciata settecentesca, appunto, del Duomo di Taranto. Alle sue più note opere, qui ricordate e non, potrebbero aggiungersi anche due altari e quattro busti lapidei raffiguranti ognuno degli Evangelisti. Si fa riferimento in particolare all'altare maggiore della chiesa di santa Maria in Galaso a Torre Santa Susanna (provincia di Brindisi, Diocesi di Oria) e all'altare, oggi detto del Crocifisso, collocato nella chiesa madre di Torchiarolo (stessa provincia ma Arcidiocesi di Lecce); sempre in quest'ultima chiesa sono presenti inoltre i quattro busti degli Evangelisti cui si accennava che, come le precedenti opere, sono attribuibili allo scultore leccese per via stilistica. A Torre Santa Susanna A proposito della chiesa di santa Maria in Galaso e del suo altare maggiore (Fig.1) così leggiamo: “Questo notevole Santuario Mariano nasce alla storia con il ritrovamento di un'immagine di una Madonna con Bambino di origine basiliana, affrescata in una grotta. Tale immagine fu strappata dal suo luogo originale e fu posta sull'altare principale, quale pala d'altare. L'operazione avvenne nel secolo XV sulla cripta basiliana che era annessa ad una cisterna degli antichi fortilizi romani, l'acqua della cisterna era ritenuta miracolosa. Oggi il santuario si presenta partito su due livelli, quello inferiore è il vero e proprio Santuario, mentre quello a piano stradale costituisce lo spazio riservato all'ingresso, da questo piano si scendono ben 13 gradini per arrivare al piano della navata dell'edificio. Oggi la costruzione, fortemente rimaneggiata in diversi periodi, presenta notevole documentazione artistica. L'altare maggiore è, infatti, uno splendido esempio d'arte barocca nella cui nicchia centrale trova collocazione l'affresco basiliano, l'altare barocco è un'opera dello scultore di Muro Leccese Carluccio del 1727, mentre un pregevole presepe, è attribuito allo scultore Ricciardi [sic] di Lecce.” (Fonte: http://www.comune.torresantasusanna.br.it/servizi/menu/dinamica.aspx?ID=1139) L'altare maggiore di tale chiesa, quindi, a ben leggere quanto appena trascritto così come anche altre fonti bibliografiche, è stato attribuito ad

Due altari dello scultore

La mano

di Manieri

Santa Maria in Galaso a Torre Santa Susanna

altro autore sul quale non vale la pena soffermarsi in questa circostanza. Qualche informazione in più, a cominciare dall'anno in cui M. Manieri avrebbe realizzato questa sua opera di scultura nella chiesa di santa Maria in Galaso, proviene dalla grande epigrafe centrale posta al di sopra dell'immagine « traslata » della Vergine con Bambino. Andrebbe ricordato per completezza che tale epigrafe appare, per varie ragioni, non chiaramente leggibile in alcune sue parti. Essa recita (il testo è distribuito su 8 righi) : HANC EXCANDENTI LAPIDE ARAM / DEIPARAE VIRGINI IN PUTEO ANTIQUITUS INVENTAE / ATQUE HIC AB INSECTO MURO TRANSIATAE DICATAM / CAPITULUM AD QUOD (H) ECCLESIA PERTI-

NET / EX PIENTISSIMORUM ELEEMOSINIS ERIGENDAM CURAVIT / ANN(O) A VIRGINEO PUERPERIO MDCCXXVII / RESTAURATAM / A D MDCCCXX (IIII). Da quanto riportato ciò che apparirebbe più certo è, quindi, l'anno della realizzazione dell'altare maggiore, il 1727, meno invece, quello del suo restauro ottocentesco, probabilmente il 1824 (le ultime cifre non sono infatti ben riconoscibili, sarebbe necessario a tal proposito una indagine ravvicinata del testo). Ai lati dell'altare e connesse con quest'ultimo esistono due porte che conducono a un ambiente il quale, posto dietro l'altare maggiore, è diviso ma non separato spazialmente dal resto della navata unica della chiesa. In sostanza l'altare maggiore non poggia su una parete cieca, esso

di Fabio A. Grasso con le sue portelle laterali, diventa un diaframma che si staglia scenograficamente sul vuoto generato dalla profondità dello spazio o meglio dell'ambiente retrostante in cui continua, come detto, quello della navata. Le portelle cui si accennava sono sormontate ognuna da una statua a tutto tondo: quella sulla porta di destra, recita una sottostante iscrizione, raffigura san Nicola da Tolentino, l'altra statua, quella sulla porta sinistra, raffigura san Galdino (una iscrizione al di sotto di quest'ultima statua recita su 3 righi: S. GALDINUS CARDINALIS / ARCHIEPISCOPUS MEDIOLANENSIS / EX FAMILIA SALA). Entrambe queste statue sono stilisticamente riferibili sempre a M. Manieri come il resto dell'altare maggiore (ricordiamo però che alcune sue parti nel corso del tempo furono modificate, come la mensa ad esempio). A chiudere questo breve excursus sulla chiesa di santa Maria in Galaso andrebbe solo aggiunto che il grande bassorilievo, raffigurante la nascita di Cristo e collocato nell'ultimo altare destro (entrando nell'edificio), stilisticamente ricorda alcune opere poste nella chiesa matrice locale ovvero una statua di Cristo con la Croce (oggi nella prima cappella a destra entrando) così come il datato (1599) gruppo scultoreo che, collocato sopra la porta principale, raffigura la Vergine con il Bambino fra san Nicola (a sinistra guardando) e santa Susanna non meno che una statua di san Paolo (forse anche quella di san Pietro posta nel cantone sinistro della facciata principale ma quest'ultima statua non è ben leggibile nei dettagli) collocata in una nicchia del prospetto principale (cantone destro guardando la stessa facciata). In ogni caso le sculture appena elencate, e il Presepe in particolare, sono estranee ai modi esecutivi (o meglio allo stile) del noto scultore leccese Gabriele Riccardo (notizie dal 1524 all'ultimo di luglio del 1572; al 19 gennaio 1577 risulta già defunto). Ricordiamo infine che sulla parte verso l'esterno dell'architrave (datata 1594) della porta laterale destra della stessa Matrice è da segnalare,


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leccese a Torre Santa Susanna e Torchiarolo

I quattro busti degli Evangelisti nella chiesa madre di Torchiarolo

nella mezzeria, il volto scolpito di un cherubino. Quest'ultimo, riferibile probabilmente a Marco Antonio Renzo, è simile a quelli visibili sulla facciata principale di santa Maria della Grazia e ad alcuni di quelli posti all'interno della chiesa celestina di Santa Croce (entrambe queste chiese sono a Lecce). Tale ultima questione merita evidentemente un approfondimento. A Torchiarolo Altrettanto interessanti, come accennato precedentemente, sono le opere presenti nella Matrice di Torchiarolo pure ascrivibili a M. Manieri e sempre per via stilistica: l'altare del Crocifisso, collocato sulla parete di fondo del transetto sinistro, e i busti degli Evangelisti. Al centro della prima opera e al di sopra di una nicchia dal vano rettangolare due piccoli angeli sostengono ognuno con una mano un fiore e con l'altra una epigrafe di forma pressocchè ellittica (il suo asse maggiore è in verticale) con cornice su cui si legge disposto su 5 righi (nel 6° è un motivo floreale) il seguente testo: QUI / ELUCIDANT / ME / VITAM AETERNAM / HABEBUNT. Tale frase è tratta da una antica Antifona Mariana del ‘500 (Fonte per testo originale e traduzione: http://www.maranatha.it/Feriale/sa ntiProprio/0716TextLat.htm) in onore della Madonna del Carmine la cui festa si celebra il 16 luglio. Dopo l'Introitus, l'Oratio, segue l'Epistula dove nella parte finale si legge proprio la frase incisa sull'altare: « […] Qui edunt me, adhuc esurient; et, qui bibunt me, adhuc sitient. Qui audit me, non confundetur; et, qui operantur in me, non peccabunt: qui elucidant me, vitam æternam habebunt. Tradotto diventa : « […] Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete. Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere non peccherà chi mi glorificherà avrà la vita eterna[...]” ( Léctio libri Sapiéntiæ. Eccli. (Sir) 24, 23-31 -edizione vulgata-). Su quest'opera religiosa di M. Manieri, di fatto spazialmente non

Altare del Crocifisso, chiesa madre di Torchiarolo

complessa ma non per questo meno interessante, oltre alla precedente esistono anche altre incisioni. Gli angeli sommitali laterali, infatti, reggono ognuno un cartiglio nastriforme piegato a S. In quello sinistro (guardando l'altare) si leggono tre parole: PURA PUDICA PIA; l'angelo destro, simmetrico del precedente, regge un secondo cartiglio con il seguente testo: MISERIS MISERERE MARIA (l'ultima parola è abbreviata). Queste due frasi, di fatto, ne formerebbero una sola, una preghiera, che andrebbe letta cominciando dalla prima parte contenuta nel cartiglio sinistro. La stessa iscrizione la si trova (in modo più esplicito nella sua forma intera) nella chiesa della Trinità a Galatina (Lecce) più nota come quella dei Battenti: “[...] Entrando

dall’ingresso della chiesa ci si ritrova immersi in esso e davanti, sul fondo, si apre un’abside sul cui arco è incisa la seguente iscrizione/preghiera: PURA PUDICA PIA MISERIS MISERERE MARIA. [...]”(Fonte: -http://www.info-salento.it/monumenti/scheda-tecnica-1.asp?Id=112-). Non si può escludere, sulla base di queste indicazioni epigrafiche, che l'altare abbia avuto un titolo diverso dall'attuale e sia stato dedicato un tempo alla Madonna. *** Continuando la descrizione dell'altare di Torchiarolo si osserva che all'estrema destra a circa mezza altezza dell'opera, su una mensola sostenuta da un cherubino, vi è la sta-

tua lapidea di Santa Irene (nella mano destra ha la palma allusiva del suo martirio, con la sinistra sostiene il modello, sempre in pietra, di una città, probabilmente Lecce). Nella parte sinistra dell'altare, simmetrica della statua raffigurante santa Irene, è quella di un Santo Vescovo presumibilmente Sant'Oronzo. La presenza di questi due santi assieme, molto frequente prima del 1743 (e più in generale nella prima metà del Settecento), indica che, nonostante l'affermazione “incondizionata” del culto di sant'Oronzo a Lecce e nell'area leccese (a partire, come noto soprattutto dalla seconda metà del secolo precedente), quello per la Santa di Tessalonica rimase di fatto pressoché inalterato almeno fino ai fatti tragici del terremoto del 1743. Lecce, a differenza di molte altre città salentine, come Nardò (Lecce) ad esempio, rimase pressoché illesa. L'essere stato il capoluogo salentino salvato dal terremoto, uno dei tanti flagelli (gli altri principali erano la peste, la guerra e la carestia), fu considerato un miracolo che, attribuito a sant'Oronzo, sancì, di fatto, fra quest'ultimo e la santa patrona storica di Lecce una sorta di pacifico passaggio di consegne cultuali. Per completezza descrittiva andrebbe segnalato che alcuni elementi dell'attuale altare del Crocifisso sono stilisticamente estranei a M. Manieri, in particolare si fa riferimento al Cristo deposto che è sotto la mensa (le mensole con cherubini che la sostengono sono invece attribuibili all'artista leccese) e ai due tabernacoli lignei. Non rimane adesso che chiudere con i quattro busti degli Evangelisti. Questi Santi, in quanto autori dei Vangeli, sono rappresentati nell'atto di scrivere, o meglio, tutti, per questa ragione, sono caratterizzati dall'avere nelle mani un libro aperto e una penna (quest'ultima è meglio visibile solo nella figura più giovane e imberbe, probabilmente san Giovanni, nonché in quella di un anziano barbuto, per esclusione, forse san Matteo). Due di essi, san Marco e san Luca, in più, hanno i loro simboli iconografici per eccellenza (rispettivamente il leone e il toro). Le quattro figure, a tutto tondo, sono poggiate su piedistalli simili (e forse coevi dei busti) collocati a loro volta su più recenti mensole sporgenti dai quattro pilastri all'incrocio di navata e transetto. Un particolare ringraziamento si deve a chi ha reso possibile alcune fasi di questa ricerca: il Vescovo di Oria, S. E. Mons. Vincenzo Pisanello, Giuseppe Rollo, Gianfranco Troso.


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Singlossia

...Essere Honda, Gioconda, Monna o (L)Isa

Pop (serio) di Francesco Pasca

Pensiero


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Spesa pubblica

Umoristi

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L’Italia Razzi bifronte vs Crozza

di Gianni Ferraris

di Rocco Boccadamo

A

nulla giova parlare e far sovente memoria dei milioni di pensionati Inps con assegni mensili inferiori a 500 euro, quando esistono e resistono casi di percettori d’introiti e/o emolumenti a livello di emiri arabi. Si prenda, ad esempio, il caso del noto economista, docente universitario ed esponente politico Giuliano Amato, il quale, va da un bel pezzo riscuotendo, ogni mese, trentuno mila euro lordi, tra pensione pari a ventiduemila e vitalizio parlamentare di nove mila (l’interessato dichiara di destinare tale vitalizio ad attività di beneficenza). Sulla posizione smisuratamente privilegiata di Amato si è scatenata, a più riprese, una ridda di critiche, qualcuno ha addirittu-

Giuliano Amato

ra parlato di vergogna. E però, nonostante siffatta tempesta mediatica, lo scorso anno, il personaggio/pensionato in questione è stato anche investito della carica di Giudice costituzionale, che prevede una retribuzione lorda annua di ben quattrocentocinquantamila euro, ossia a dire tredici mensilità da trentaquattromilaseicento euro. Domanda: non sarebbe stato opportuno che il signor Presidente della Repubblica, requisiti e meriti del candidato a parte, prima della nomina, valutasse la situazione delle finanze di Amato, già da nababbo, evitando di dar luogo a un cumulo di buste paga letteralmente scandaloso rispetto ai trattamenti sotto i 500 euro menzionati all’inizio?

...In Svizzera siccome ero un gran ballerino, allora 'andando ballando' ne conquistavo di ragazze a centinaia. Oggi, invece i giovani sono effeminati. Io non ho mai usato un preservativo. Allora c'erano uomini veri, gli italiani erano avvantaggiati perchè avevano il 'savarfe'...”. Questa la trovate su www.huffingtonpost.it. A pronunciare queste parole è Antonio Razzi, Crozza si starà contorcendo dalla rabbia, la sua fantasia è stata surclassata, annientata, annullata. La realtà è più dura. Il problema però è

Antonio Razzi

che a pronunciare quelle frasi è uno che, secondo il governo post democratico di Renzi, passerà alla storia fra i padri demolitori della Carta Costituzionale. Questo individuo metterà mano a quanto scritto da Sandro Pertini e Alcide De Gasperi, e Aldo Moro e ancora molti altri. Per modificare la Costituzione, come in ogni paese civile dove la parola “Democratico” la si pronuncia a ragion veduta, non è solo nel simbolo di un partito padronale, si elegge una Costituente fatti di uomini e donne riconosciuti capaci di intendere, volere e soprattutto ragionare.


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Scritture

U

no sguardo vale più di una candela o di un lume che si spegne nuovamente e ci vuol forza a rianimarlo. Anche se certo morrà di nuovo prima del mio tempo d'insonnia. Il mio sonno – pur indormiente – non è sonno, ma un continuo ricordo ostinato. E i miei occhi si aprono solo per guardarmi dentro; e io vivo con l'aspetto e la forma dei viventi e coloro che più sanno più m'aiutano a conoscere l'albero della vita. Non conosco ostacoli né paura, il mio cuore batte ancora per un desiderio d'amor nascosto da un evento immemorabile. Ella m'aiutò... Tutto trovai, tutto compresi e tutto abbracciai in quella notte innominabile. Passione, energia, vita, tutto si fuse in una gran pioggia di speranza. «Era nuda sotto la seta nera del vestito? Nonostante il disagio, Timar non potè fare a meno di chiederselo. E al tempo stesso, cominciò a risvegliarsi in lui un desiderio intenso, acuito da tutto ciò che vi era di più estraneo al desiderio stesso: le strisce di luce e d'ombra, il sudore da animale che impregnava le lenzuola, perfino il suo sonno agitato, interrotto da paure inconsulte e da brancolamenti nel buio. "To', è stato punto da un insetto!" Seduta sul bordo del letto, la donna gli pose un dito sul torace nudo, toccando una macchiolina rossa appena al di sopra del petto, e lo guardò negli occhi». Recita così un passo di Colpo di luna di Georges Simenon pubblicato da Adelphi con un bellissimo dipinto in copertina di Félix Vallotton: Donna nuda sdraiata su un lenzuolo bianco, cuscino giallo (1904).

Quellaa Particolare di una mappa di

Mi sovviene un fatto eclatante, accadutomi a Praga negli anni Ottanta. Ebbene, nel primo dei sette viaggi che io intrapesi nell'allora capitale cecoslovacca successe qualcosa di singolare. Una esperienza unica ma veritiera, molto istruttiva. Quella che io definì: "Senza parole". Il ricordo di una fanciulla che lavorava in un albergo dove io giunsi e che mi concesse asilo nella sua abitazione, poichè non v'erano camere disponibili né nel suo hotel né in nessun altro. Eravamo in piena estate: agosto. Il sibilo del tramvai per giungere alla sua abitazione era l'unico suono che noi udivamo in quella notte insolita. Io non parlavo il ceco, lei comunicava in inglese, io percepivo l'italia-

no e il francese; non c'era verso d'incontrarci verbalmente. Ci abbandonammo allo sguardo, al senso della vista. Mi fissava con entusiasmo misto ad interesse; io ero stanco, mi doleva la testa. Lei curiosa, appariva allegra, quasi in festa. Giunti a casa il dialogo si mantenne a sguardi, dominavano i sensi, essi ebbero il sopravvento. Tutto tacque, le parole, il pensiero, il discorso, il concetto, la rappresentazione: c'è ne eravamo liberati. Questo dava un notevole senso al nostro meraviglioso incontro. Era come se un mare instabile avesse trovato e profuso la sua totale assenza di moto ed incarnasse la quiete fino ad annullare ogni volontà e responsabilità umana. Fuori dalla paura e dalla

preoccupazione, evitando i turbamenti e liberandosi del tutto. Come per designare uno stato di serenità contemplativa senza più subirne la pressione emotiva. Si conteneva la durata del gesto e della voce, si abusava solo della vista e s'alzava solo una mole di silenzio. Voce inerme, accompagnata da un corpo dominante, diretta ad aprire la vastità del senso. Puntammo al silenzio in tacito accordo cercando le sospensioni mute delle funzioni orali. Ci identificammo nella medesima parte e cademmo o ci calammo nello stesso vuoto, come per induzione. Già, eravamo arrivati, giunti. Conseguimmo, così, l'importante vittoria contro ogni 'forma' e fuori da ogni 'modo', forieri d'importanti messaggi. Andammo a fare una doccia, lei tornò in accappatoio, dolce e bianca. Preparò qualcosa da mangiare, ci sedemmo a consumare. Una volta in piedi, lei continuava a fissarmi, bella lei... sotto quel panno bianco. Mi avvicinai, la sbottonai e senza parlare l'abbracciai. Dopo un breve istante i nostri corpi erano finiti distesi sul letto, come due amanti in un silenzio perfetto. Senza emetter fiato, senza emetter vento, l'amore s'infischia del suo testo. Un incontro durato poche ore senza dire una parola, una parola sola, niente. Dico niente, prima del cominciare e dopo il cominciato e ben finito. Ecco, la grande occasione di scoprire la vita, di toccare il senso della vita invece del segno. Quell'istante aveva scompigliato e ravvivato tutti i nostri sensi... provocando sussulti nei nostri corpi, assenti. Mai presenti a se stessi, al nostro io. Noi siamo un corpo quindi, e non abbiamo un corpo anch'esso vittima


Com’è che nasce la vita pura

volta Praga

di Antonio Zoretti

del linguaggio... una carne senza concetto, appunto. Fu la nascita della "vita pura", la quale non si può racchiudere in formule, e questo non perchè sia sfuggente, ma perchè varia e completa. Noi non contenemmo discorsi, né leggende o racconti; non vi fu alcuna tirata d'argomenti. Né descrizioni. Tutto, invece, fu incanto, musica, sensualità astratta e potente! Dopo l'attraversamento di quella magica notte, la giovane donna appena conosciuta si assentava per lavoro e momentaneamente mi abbandonava. Fu allora che parlò, dandomi appuntamento per il giorno dopo... Ma io sbagliai orario: andai alle 10 post-meridiane, quand'ella invece intendeva le 10 anti-meridiane. Ci rimase male: fra noi due, forse, non conveniva parlare... Sostammo, quindi, su quella panchina per molti istanti, senza fraseggiare. I suoi sguardi, di cui ella fu autrice completa rimarranno nella mia memoria come esperienze di assoluta bellezza e, nello stesso tempo, sconvolgenti sensazioni emotive. Ecco, quella fu una conoscenza delle cose umane acquisita per prova diretta; l'insieme dei fenomeni conosciuti con le sensazioni e verificati dall'esperimento. Quel corpo sganciato dal soggetto mi fu lì donato con grande generosità, al massimo della sua valenza. Una donna che offriva il suo corpo, cioè qualcosa di estraneo da sé, e non raccontava niente. Assente a sé stessa. Era la conoscenza reale, tangibile, entusiasmante, che invita a partecipare e che resta veramente unica, vera, inconfutabile! Continuai ad andare a Praga fino al “crollo del muro”. Dopo

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La copertina del libro con il quadro di Félix Vallotton

Una scena de “Il cielo sopra Berlino” film di Wim Wendersa del 1987.

successe quello che aveva previsto Wim Wenders nel film Der Himmel Uber Berlin (Il cielo sopra Berlino), dove nella scena finale Bruno Ganz dice: «Ora sì che siamo tutti nella stessa barca». Ricordo ancora l'azzurro semovente della stanza di Susanne, la mia amica di Praga (come Euterpe, colei che rallegra), il mio cielo sopra Berlino o sopra Praga; che come se fosse infastidita da qualsiasi conversazione avesse fretta di rientrare nel suo abituale mutismo. Mentre la guardo andarsene sono preso da un troppo tardivo rimpianto. Ma, infine, che posso farci? Freno l'impulso di correrle dietro: sarebbe folle, non la ritroverei già più. Come tutto il resto... ormai.

Mai curarsi del linguaggio, dunque, ma concentrarsi ed abbandonarsi ai sensi, veri protagonisti del momento; è la sensazione che si persegue, le sillabe parole seguiranno. Si potrebbe chiamare un «colpo di luna», ritornando al testo che scrive Simenon dopo l'esperienza africana. Quando Timar dopo la sua prima notte africana, al suo risveglio sulla porta trova Adéle, la moglie del padrone, che esamina il suo corpo nudo di adolescente ancora odoroso di letto con uno sguardo carico di una sensualità vagamente intenerita, quasi materna - ma anche di ironia. Dove i codici di quel mondo impongono il silenzio. Un silenzio che è difficile saper ascoltare... «Così come il mon-

do non è mai davanti a me, ma sempre mi circonda e mi attraversa, così come non faccio che vedere il mondo provenendo dal cuore del mondo, altrettanto accade alla parola. Essa non parla che dal silenzio del mondo: quel silenzio che la parola custodisce e che essa reca in sé; quel silenzio che è così raro e difficile saper ascoltare» (Da Il gioco del silenzio di Carlo Sini). Così come in Nietzsche: «La voce della bellezza parla sommessa: essa s'insinua soltanto nelle anime più deste». "E sia il nostro silenzio, quindi, a toccarci in un bacio... nel suono del mare". Buon riposo…


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I fuochi d’artificio e la leggiadria di un aquilone

Vita quotidiana

In cerca del necessario di Rocco Boccadamo

P

er cercare di rinfrancar la mente dall’eco delle continue percussioni connesse con la difficile situazione economica, finanziaria e sociale in atto, vorrei tratteggiare qualche nota più leggera, con l’auspicio che, possibilmente, se ne tragga spunto e sprone per riflettere, su costumi e mode, vecchi e nuovi, che si affacciano e ci circondano. Va prendendo piede, e penso ahinoi che si tratti di un processo destinato a diffondersi a tutto campo, l’abitudine di inserire, nel rituale dei ricevimenti di nozze, lo sparo di fuochi d’artificio. Quasi che non bastassero le spese per l’arredamento della nuova casa, gli abiti, i fiori, il risto-

Enzo Archetti “L’aquilone”

rante, le bomboniere, i regali ai compari, il viaggio di nozze (cioè cifre enormi, talvolta superiori, ad esempio, alla liquidazione maturata da un genitore degli sposi nell’intera vita lavorativa), si aggiunge, dunque, il costo dei botti e dei bagliori pirotecnici. E però, a tal genere di coreografie, non si ricorreva solo nelle feste patronali e, a voler abbondare, nell’ultima notte dell’anno? Purtroppo, sembra che un vero e proprio senso di stordimento sul tema della distinzione fra consumi necessari e voluttuari ci stia vie più prendendo. Oltretutto, nelle località di mare com’è nel mio caso, detti crepitii e fragori assordanti ingenerano anche fastidio e disturbo mentre la gente se ne sta in quiete e in silen-

zio a prendere il sole e/o, quando è stagione, a fare il bagno. E devono, addirittura, spaventare l’innocente fauna ittica, se è vero che adesso, sulla superficie del mare di Castro, si vedono con minore frequenza guizzare, in una sorta di rincorrersi al galoppo sulle onde invitanti e lievi, i nutriti nugoli di pesciolini azzurri, i quali, oltre a tributare letizia a noi umani, danno l’impressione di divertirsi beatamente tra di loro. *** In compenso, in un recente pomeriggio verso il crepuscolo, sullo sfondo di un cielo d’incanto, ho scorto volteggiare, alto e morbido, un affascinante e romantico aquilone, con la sua sagoma aerodinamica e la lunga coda svolazzante sotto la carezza del vento: mi sono

a lungo soffermato a rimirarlo, ritraendone un fascio di pensieri positivi e confortanti, non solo per l’inevitabile riaffacciarsi di ricordi passati, ma anche come spunto di confronto con la quotidianità presente. Ecco, gli sposi del terzo millennio potrebbero riconvertire l’attuale copione, arricchendo la cerimonia delle loro nozze con una gara d’aquiloni. Sarebbe tutta un’altra cosa rispetto agli spari fumosi e inquinanti, un piccolo intermezzo di semplicità e magia nel loro giorno felice. Dimenticavo di dire che, sopra a quell’aquilone, la scena era illuminata da una coppia di puntini fantastici: la fulgida Sirio e un’altra stella minuscola e lontana ma non meno sorridente.


MMSarte

I

Al via il nuovo percorso rivolto ai bambini di quattro classi della Scuola Primaria Leonardo Da Vinci di Cavallino e Castromediano

l 24 marzo 2014 sono iniziati i nuovi lavori della II edizione del progetto Articoliamo Senza Barriere, promosso dall'Associazione Onlus Solidarietà Civile di Lecce (presidente Pasquale De Filippi) e ideato e condotto dall’artista Monica Marzano. Il progetto che anche quest'anno sarà completamente finanziato dal Comune di Cavallino, coinvolgerà 4 classi di terza

elementare, della scuola primaria del Leonardo Da Vinci sia di Cavallino che di Castromediano. I piccoli alunni guidati dall'esperta, dovranno creare degli "Mmsarte" (dal nome dell’operare artistico-letterario ideato da Monica Marzano nel 2009), piccole opere-messaggio in cui parole e immagini sono assemblate in un unico e originale lavoro artistico. I temi civico-sociali che verranno trattati durante tutto il corso, sono di grande attualità,

una sensibilizzazione tramite l'arte sui concetti di Solidarietà, Frontiere, Barriere, Amicizia, Alleanza. Insomma, in un mondo in cui spesso ancora si vive "barricati" dietro inutili paure e preconcetti, si cercherà di lavorare tutti insieme con grande sinergia per arrivare alla conclusione che solo l'ignoranza e il non conoscere, porta alla violenza, ai tabù e al bullismo. I piccoli alunni dovranno affrontare con grande spontaneità

A

gue senza necessità alcuna di litigare, perché è sangue che pulsa nei cuori fondamentale per stringere alleanze di grande sentimento. Bellissima anche l'immagine dell'Amicizia come "Fontana" la cui ac-

qua a getto continuo "rinfresca " il nostro cuore dissetandolo di quell'amore indispensabile per andare sempre avanti. Giorgia non ha potuto resistere ad interpretare con il suo disegno, la metafora dell'Amici-

E

rità di chi ci sta intorno. La gentilezza e il garbo di anime sensibili non potrebbero mai deridere una persona per il suo modo di vestire o per la sua diversità, solo questo tipo di approccio nei confronti del

prossimo può permettere una serena convivenza iniziando già dai banchi di scuola... La piccola Ilaria ha fatto suo il pensiero della compagna Eleonora, mettendo in evidenza, nel suo grazio-

urora avverte l'amicizia come un "bene" di prima necessità per tutte le genti. L'amicizia si può tingere di san-

leonora ha accentrato il suo interesse poetico, riguardo il tema del rispetto, sul non fermarsi mai a giudicare l'esterio-

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Lecce, 6 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 23

il mondo della poesia su questi specifici temi, associando ad ognuna di queste brevi ma efficaci composizioni, un'immagine altrettanto incisiva che illustrerà tali concetti. E' possibile visitare la galleria dei lavori della precedente edizione sia sullo stesso sito della scuola che nella personale galleria on-line di Monica Marzano in arte Momartè all'indirizzo su: www.mmsarte.com.

Disegno di Giorgia Epifani, testo di Aurora Chiriacò

zia come Fonte di Vita. Ecco allora la sua Fontana con al centro la statua dell'Amicizia vicino alla quale appare una dolce ragazzina...che felice va a bere sorsi rincuoranti di amicizia vera.

Disegno di Ilaria D’Elia, testo di Eleonora Schipa

so e delicato disegno, questa sensazione di mortificazione che un bambino povero e indigente prova, perché stupidamente deriso da chi si crede e si sente più fortunato di lui...


Lecce, 6 aprile 2014 - spagine n° 0 - della domenica 23

spagine

L’opera in prima è Calma Piatta di Cinzia Ruggeri

ride

il design che

Copertina

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P

er la copertina di Spagine, un’opera di Cinzia Ruggeri, designer e artista milanese a cui siamo molto affezionati dopo le sue frequentazioni salentine. L’opera dell’artista è l’icona che presenta Ceramix incontri educati con la ceramica opere dall'archivio Franco Bucci mostra che dall'8 al 18 aprile 2014 abiterà in via Edolo 27, a Milano. *** Dall’archivio del ceramista pesarese Franco Bucci in mostra le opere e gli oggetti nati attraversando la vita con gli artisti e gli amici. Incontri di varie arti con la ceramica. In mostra: oggetti della collezione disegnata da Cinzia Ruggeri nel 2006, il tavolo Uovo del 1987 e il giardino da tavolo del 1998; i Piatti della Poesia e del Fluxus realizzati in collaborazione con Gianni Sassi nel 1988 e le bottiglie prodotte su disegno di Giò Ponti, nel 1994. Special guest la lampada Sottosopra di Paolo Rancati del 2014. Tappeti sonori di John Cage, Valter Marchetti, Juan Hidalgo. Elenco autori in mostra. Giò Ponti Cinzia Ruggeri Gianni Sassi John Cage Valter Marchetti Juan Hidalgo Nanni Balestrini Antonio Porta Jean Jacques Lebel Adriano Spatola Gianni Emilio Simonetti Takako Saito e Paolo Rancati

Cinzia Ruggeri, Guanto gioiello per la mano sinistra

Disegnato nel 1993 da Cinzia Ruggeri, “ROCCO” è un armadietto contenitore, un personaggio domestico ispirato ai perdoni, figuranti dei riti della settimana santa e delle processioni che specialmente il venerdì santo attraversano il Salento e tengono viva la fede e il legame con le tradizioni. Gli elementi scolpiti applicati al mobile sono come exvoto del design contemporaneo. http://www.designmadeinsalento.it

http://www.cinziaruggeri.com/


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