Ronin Home Edition, il nostro quarto speciale, esce a quasi un anno di distanza dalle nostre ultime pubblicazioni. E in qualche modo è paradossale che le nostre storie abbiano trovato il modo di uscire proprio mentre a noi umani in giro per il mondo non era possibile! Ronin Home Edition è proprio il nostro “tributo” a questo periodo di quarantena. Un omaggio a tutti noi (autori e lettori) che siamo bloccati in casa. A chi tutto sommato se la sta cavando bene; a chi scalpita per tornare alla normalità; a chi sarebbe pure rimasto volentieri sul divano, ma invece non ha mai smesso di lavorare. Ognuno vive a modo suo il rapporto con il virus, con la pandemia e con il “lockdown” e, allo stesso modo, ognuna delle nostre autrici e ognuno dei nostri autori hanno scelto di raccontare la realtà di questo nostro strano tempo a modo loro, con il loro stile, secondo la loro sensibilità. Ci sono farse e tragedie, invenzioni pittoresche e storie di tutti i giorni; e poi: persone qualunque, animali, supereroi e mostri (reali o immaginari). Chiusi nelle nostre case abbiamo dato libero sfogo alla fantasia e il risultato sono le pagine che state per leggere. Quasi cento pagine tra fumetti, racconti, illustrazioni e oggetti non ben identificati: noi abbiamo fatto del nostro meglio e siamo molto contenti di questo numero speciale. Se le nostre storie vi piaceranno, regalateci un abbraccio. A distanza, naturalmente!
Ronin Home Edition One Shot Magazine Ideatori Progetto: Pietro Rotelli, Luigi Chialvo Redattore responsabile: Luigi Chialvo Cover: “Ronin Home edition” – Francesco Segala, Guido Vitabile Fumetti: “Cepstrum” – Paul Izzo, Federico Galeotti “Cosa faranno gli altri?” – Pietro Rotelli “Clock” – Emiliano Barletta “Covidbusters” – Massimiliano Meucci, Nello Caiazza “Dentro” – Giorgio Puleo “Di coccio” – Alessandro D’Amico “Esodo” – Gabriele Bitossi, Edoardo Comaschi “Fate il vosto gioco” – Riccardo Sciarra, Francesca Dea, Barbara Mamone “Flash: troppo lento” – Marco Orlando, Michele Cavalieri d’Oro “Gotham: Lockdown” – Marco Orlando, Francesca Gatto “Il mondo Dopo” – Marco Generoso, Alessio Rose “La locanda” – Stefano Spataro, Nicola Perugini “Lei ha preso il virus” – Luigi Chialvo, Paolo Voto, Pietro Rotelli “Lockdown” – Erika Di Paolo “Lockdown? Fine!” – Luigi Chialvo “Parentesi” – Fabio Lastrucci “Scusa” – Francesca Gatto “Superman: Nuovo mondo” – Marco orlando, Gianlorenzo di Mauro “Uccidere il mostro” – Marco Torti, Matteo De Santis Racconti: “Correre” “Il cittadino modello” – Giulio Rotelli “I promessi contagiosi” – Luigi Chialvo “La rivelazione” – Maria Grazia Becherini “La siepe” – Francesca Piantanida “Sogno” – Emiliano Barletta “Un limbo affollato” – Beniamino Franceschini “L’appartamento” – Pietro Rotelli Illustrazioni: “Covid begins” – Guido Vitabile “Fuck the virus (speranzosa Lisa)” – Arianna Gualtieri “Immondo giocoliere” – Antonino Farina “Kintsugi” – Arianna Gualtieri “Space_A al tempo del Covid-19” – Michele Cavalieri d’Oro “Rifiuti speciali” – Rivka Spizzichino “Casa” – Pietro Rotelli facebook.com/RoninMag/ issuu.com/mokapop-ronin
Arianna Gualtieri
LA RIVELAZIONE Maria Grazia Becherini
Conosceva gli uomini da prima che loro si conoscessero, da quando aveva dato a Prometeo il compito di forgiarli dal fango. Che li avesse animati col fuoco divino, quella era una storia che preferiva non ricordare, una delle tante. Aveva imparato se non ad amarli, concetto che per lui spesso coincideva con quella forma d’amore che si potrebbe definire carnale, ad apprezzare alcune loro sfumature, lati che in molti casi li accomunavano al comportamento degli dèi quando dimenticavano la loro immortale superiorità. Quegli dèi di cui era padre e capo. Un affetto bonario, forse questo provava nei confronti degli uomini, piccoli esseri finiti e scalpitanti. Nei più recenti segmenti di quell’immutabile presente che è il tempo divino, la loro condotta era però arrivata a turbarlo, come il fastidio di una folgore scagliata male o di un tentativo di seduzione inspiegabilmente non andato a buon fine. Azioni cieche e contraddittorie che generavano in lui una frustrazione sconosciuta, e a niente servivano i suoi occasionali tentativi di risvegliare in loro quel fuoco primordiale ormai da tempo soffocato. A volte erano state tempeste di lampi, percepite sulla Terra come eventi meteorologici di inaudita ferocia, altre volte si era servito dell’aiuto del brutale Poseidone per scatenare maremoti o terremoti che sbriciolassero le loro futili certezze e permettessero loro di ritornare alla purezza delle origini, a percepire l’essenza della fiamma di cui già una volta li aveva privati. Prometeo traditore! No, a quella storia meglio non pensare più. Non capiva questo suo interesse perverso, non poteva spiegarselo se non con l’avanzare di una divina senilità. In ogni caso questa volta avrebbe lasciato perdere. Non voleva più immischiarsi nelle faccende terrene di quei
frivoli gusci di melma che proprio non riuscivano a preservare quello che di bello e prezioso la vita offriva. Da dio sapeva che il dono intossicato che aveva fatto loro millenni fa, quel vaso che Pandora, la Prima Donna, aveva portato con sé e inavvertitamente aperto liberando tutti i mali del mondo, era stato un colpo basso. Si era però fatto perdonare lasciando che la Speranza, ultima superstite di quella fuga sciagurata, venisse liberata e restituisse agli uomini la loro dignità. Perché allora continuavano a essere così sciocchi? Perché distruggevano col loro tocco avvelenato ciò che avrebbero invece dovuto proteggere, prima di tutto Gea, la grande Madre? Stupidi, stupidi uomini! Ma non avrebbe più sacrificato nemmeno uno dei suoi fulmini per loro. Un pensiero peregrino gli bloccò all’improvviso il nettare in gola: sapeva che quel vaso esisteva ancora, sopravvissuto a molte vite. E non era vuoto. L’aveva visto distrattamente scorto in una foresta di cedri secoli fa, e ora, sfogliando le pagine del tempo, l’aveva ritrovato, malconcio ma ancora sigillato, in una discarica alla periferia di una me-
tropoli. No, non era vuoto. Ora ricordava che, ancora preda dell’antica collera nei loro confronti, aveva riempito il vaso con un ultimo dono funesto, un flagello ignoto lasciato però alle cure di Tiche, la dea del caso, o della Fortuna. Una fortuna che gli uomini non erano più riusciti a ingraziarsi a causa della loro stoltezza. Aveva giurato di non voler più intervenire, e fu quindi da spettatore che vide il destino compiersi. Il contenitore, che per innumerevoli ere aveva resistito alle
vessazioni del fato, si stava sgretolando davanti ai suoi occhi, non più protetto dall’ormai stanca mano di Tiche. Scaraventato nel cassone di una ruspa e da lì gettato via, insieme ad altri anonimi rifiuti, dalle crepe del vaso Zeus vide liberarsi il suo fatale ultimo omaggio, quel parassita sconosciuto che avrebbe segnato l’inizio dell’apocalisse e avrebbe, forse una volta per tutte, svelato gli uomini a loro stessi.
Rivka Spizzichino
Guido Vitabile
sogno lucido emiliano barletta I sogni si fanno ad occhi chiusi – il ricordo sfuggente della voce di sua madre – chiudi gli occhi mio dolce principe. Aprì gli occhi e si ritrovò ad osservare il soffitto del suo appartamento da quarantenne. Da un po’ di tempo faceva un sogno ricorrente che gli lasciava una sensazione di benessere. Alla radio passava l’ennesimo tormentone dell’estate, i bambini facevano colazione in salone e sua moglie era in bagno sotto la doccia. Si alzò pigramente dal letto. Sul materasso era rimasta la sagoma bianca di sudore. Sembrava una di quelle in gesso che di solito venivano tratteggiate intorno ad un cadavere. Si ritrovò a pensare che come ad ogni estate la programmazione televisiva fosse limitata ai soliti film gialli. La voce alla radio lo fece ritornare alla realtà: Ennesima giornata record per le temperatura alte, bere molta acqua, mangiare tanta frutta e verdura fresca. Uscì in strada puntuale alle 08:25 in modo da riuscire a prendere con calma il treno delle 08:48 per andare in ufficio. Era d’obbligo la piccola sosta in edicola a cercare l’ultimo fumetto appena uscito o qualche rivista d’arte. La solita e noiosa attesa sulla banchina in compagnia del tizio che chiedeva l’elemosina e dei turisti in attesa del treno per l’aeroporto. Nel vagone, di norma, si era obbligati ad ascoltare le telefonate degli altri passeggeri, quel giorno in particolare il racconto estivo - vero o immaginario - di immersioni subacquee e ritrovamenti di tesori sommersi fatto da una bellissima donna con indosso grandi occhiali da sole e un cappello di paglia bianco. Per lui invece la mente vagava lontano nel tempo, indietro nel ricordo dei suoi viaggi in pullman e delle tante frontiere attraversate. Una volta era quasi entrato in Iran e un’altra in Israele ma in entrambi i casi gli era stato negato l’accesso. Chiuse gli occhi nella speranza che le otto ore di lavoro sarebbero volate via.
Tornò a casa mentre il sole stava già tramontando, i suoi figli gli corsero incontro e lo inondarono con i racconti della loro giornata e dei libri di favole comprati in libreria. La cena, le risate, gli ultimi cartoni animati prima di andare a letto, la favola della buona notte e alla fine i massaggini ai piedi di sua moglie sorseggiando una birra fruttata, rilassati sul divano. Stanco dopo quella lunga giornata si sdraiò sul letto con la speranza di fare ancora quel sogno. Buongiorno dolce principe - la voce forte e rassicurante di sua madre vicino al suo orecchio - è giorno, bisogna collegarsi con la scuola. Sua madre era accanto a lui e gli accarezzava dolcemente il viso. È successo mamma, ho fatto di nuovo quel sogno. Quale? Quello in cui sono un uomo adulto, non mi ricordo molto ma solo che mi mancava qualcosa, ma non sapevo cosa. Non pensarci, per fortuna hai ancora tanto tempo. Adesso vai a fare colazione e poi subito a lavarti che dobbiamo collegarci con le maestre. Il bambino con un balzo scese dal letto e si voltò verso sua madre che stava mettendo a posto le lenzuola. Da tempo non usciva di casa e la scuola era stata chiusa. Si diceva che c’era una malattia che faceva morire le persone e spaventava i grandi. Ma lui era coraggioso e aveva anche l’occasione di passare tanto tempo con sua madre, il suo unico contatto umano. Mentre si dirigeva in cucina per fare colazione, accompagnato dal silenzio irreale di una strada senza traffico, pensò che finché ci sarebbe stata lei tutto sarebbe andato per il meglio.
i promessi contagiosi un poco originale racconto di amoore e malattia
Luigi chialvo Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, era completamente deserto, perché con il lockdown imposto dal Governo (e sentito soprattutto in Lombardia, visto lo stato sanitario della regione) la gente restava a casa e sicuramente non andava a cazzeggiare lungo le rive del lago. Alcuni lavoravano in smart working, ma erano comunque una minoranza. Tra quelli che fino all’ultimo momento erano rimasti sul posto di lavoro, gli operai delle molte fabbriche del territorio. E, come chiunque può immaginare, non per loro scelta.
Anche Ronzino e Lucetta, operai in una fabbrica tessile, erano a casa. Annoiati, impossibilitati ad andare al Centro commerciale “Manzoni” che era abitualmente il loro unico sfogo culturale nel tempo libero, si confrontavano sul rinvio inevitabile del loro matrimonio. Già, perché dopo una lunga carriera da single dissoluti nei locali della Milano da bere, i due si erano incontrati ben più che trentenni all’inizio del 2019 e nel giro di pochi giorni avevano deciso di convolare a nozze, fissando la data per aprile 2020, ma i decreti del Presidente del Consiglio erano chiari: NUN VE POTETE SPOSA’! Eppure, mentre Ronzino aveva accettato con pacata rassegnazione il divieto normativo, Lucetta non era disposta a cedere e aveva chiamato Don Vile, dalla vicina parrocchia di Sant’Abbondio, per trovare il modo di farla in barba allo Stato con l’aiuto della Chiesa (e con una giusta compensazione economica a quest’ultima, come da tradizione).
Il sant’uomo era giusto in macchina sulla strada per andare da Lucetta, quando venne fermato da una pattuglia di bravi vigili urbani. Questi, lasciati al sole senza ricevere cambio da 14 ore erano prossimi al limite della sopportazione umana e, nonostante l’iniziale deferenza verso l’abito talare del prete, una volta saputa la reale motivazione del suo spostamento, stracciarono l’autodichiarazione di Don Vile, accompagnando il gesto con
un paterno consiglio: - Questo matrimonio non s’ha da fare. E lei, padre, è la quarta volta solo questa settimana! Devo bestemmiarle in faccia per farle capire che deve stare a casa?!?!
Il sacerdote, cogliendo finalmente l’antifona, girò la macchina e tornò verso la sua abitazione. Non prima di aver scritto un laconico sms a Lucetta: Mi sono rotto il cazzo, sposatevi da soli e non rompetemi più i coglioni.
Nel frattempo, il turismo sul lago di Como era morto e un anziano nobilastro spagnolo bloccato in Lombardia dalla quarantena, PierRodrigo Goya Cervantes Calderon de la Polla, passava le sue giornate piene di noia, chiuso nel parco della sua villa, a sentire le barzellette volgari raccontate in videoconferenza su Whatsapp da un suo vecchio amico, un imprenditore italiano con intrallazzi politici che, pur essendo lombardo, aveva scelto di passare la quarantena nella sua sconfinata villa in Sardegna. Poiché il vecchio imprenditore lombardo continuava a magnificare la reclusione con le sue fidanzate ventenni, anche il vecchio nobilastro spagnolo non intendeva essere da meno: non avendo però tempo e modo per provvedere ad un regolare corteggiamento, ritenne che assumere una professionista sarebbe stato decisamente più rapido e probabilmente anche più soddisfacente. Chiese quindi consiglio all’amico, interrompendolo mentre stava raccontando qualcosa a proposito di una culona con cui si era frequentato, e quello, finalmente in grado di rendersi utile, rispose immediatamente: - So chi fa per te, una mia dipendente che arrotonda con lavoretti di questo genere.
Fu così, per farla breve, che PierRodrigo nel giro di pochi secondi stava parlando al telefono con Lucetta, operaia del settore tessile ed escort part time, la quale però era angustiata dai dubbi:
- Guardi, fosse per me, anche subito, ché a casa mi sto facendo due maroni grossi come i panettoni di Cova, ma ho una pattuglia di Carabinieri praticamente sotto casa, e mica posso scrivere sull’autodichiarazione che devo spostarmi per intrattenere i – legittimi, sia chiaro – appetiti di un nobile straniero. Per di più vivo col mio fidanzato che non è informato del mio secondo lavoro: sebbene sia bresciano, ragiona come un terrone su questo tipo di cose, e poi… - Mi perdoni se la interrompo, signorina, ma ho già pensato a tutto. Lei esca per fare la spesa, verrà prelevata da una pattuglia di bravi vigili urbani che sono soliti svolgere questo compito per un mio amico e la porteranno qui da me. Al suo fidanzato faremo credere che sia stata rapita, poi dopo qualche giorno la faremo liberare dalle forze dell’ordine, così magari ci scappa anche qualche passaggio in televisione per la povera vittima dell’orribile crimine. - Perfetto, mi dica lei quando.
Solo poche ore dopo, Lucetta scese di casa per comprare un urgentissima confezione di Ferrero Rocher, salì nella macchina che la aspettava, inviò un messaggio al suo fidanzato “Aiuto, mi rapiscono!” e poi spense il cellulare.
Si era fatta notte quando Lucetta giunse a villa de la Polla: il nobile la accolse vestito solo di mantello e cappuccio, le prese il polso con gentilezza accompagnandola lungo chilometri di corridoi mentre le raccontava la storia del palazzo nel suo italiano spagnoleggiante e infine, giunti nella sfarzosa camera padronale, davanti a un letto a baldacchino delle dimensioni di un monolocale, la sollevò come fosse un prezioso vaso Ming e la gettò sul materasso come fosse un sacco di patate. Spense l’unica candela, lasciando la stanza nel buio più totale e togliendo il mantello avanzò voglioso verso di lei.
La notte passò. Con molta soddisfazione di lui e scarsissima per lei, ma la ragazza era lì per lavoro, non poteva far altro che passare sopra certi dettagli. Il giorno seguente, la prima luce del mattino illuminava la stanza quando Lucetta si svegliò, e vedendo finalmente in faccia il suo temporaneo datore di
lavoro, fu prossima a gettare un grido; si trovò invece a vomitare davanti al più orribile viso che avesse mai potuto solo immaginare, tra deformità, croste verdastri e rigonfiamenti purulenti che coprivano anche gran parte del torace. Mentre si rivestiva rapidamente, incurante di non ritrovare tutti gli indumenti con cui era arrivata, espresse la sua contrarietà usando il gergo paterno, più efficace per esprimere i sentimenti: - Ah vecchio laido schifoso, passi che c’hai’n cazzo de 3 centimetri e vieni dopo 30 secondi, ma ‘sta faccia demmerda nun me la scordo finché campo, mortacci tua! Mo’ me paghi pe’na settimana e stai muto, e se rompi er cazzo te faccio pija’ a carci ne’e palle da ‘n’amico mio, a due a due finché nun diventano dispari.
PierRodrigo, vuoi per la lingua usata, poco affine alle sue orecchie, vuoi perché scosso da tremiti di febbre e violentissimi colpi di tosse, vuoi perché non stava nemmeno realmente ascoltando, non capì nulla e come cenno di commiato si limitò a tossire. Uscita dal palazzo e trovando l’auto dei bravi vigili urbani ancora nel vialetto, Lucetta montò in macchina come fosse un taxi e diede l’indirizzo di casa; ma decisamente non era una giornata fortunata per la giovane e gli instancabili tutori della legge, dell’ordine e del lockdown le spiegarono che avendo passato la notte con un uomo infetto, non poteva tornare alla vita civile. L’avrebbero quindi portata in un convento alle porte di Monza che le monache avevano appena convertito in ospedale Covid femminile, grazie ad un ingente finanziamento disposto dal Governatore regionale.
A Monza, la povera Lucetta si trovò in una situazione più dantesca che manzoniana: le malate gettate su brandine in ogni metro quadro di spazio disponibile, e le morte impilate l’una sull’altra in quella che prima era la cappella, secondo il principio che Dio avrebbe badato a loro in attesa di trovare una soluzione migliore. Poiché Lucetta non presentava sintomi della malattia, le fu concesso di stabilirsi nei quartieri delle monache e le fu data una celletta, piccola e spartana, ma pulita. <<Sono 150 Euro a notte>> le spiegò la Monaca Superiora <<pagamento ogni giovedì ,che dobbiamo fare la spesa e le file al supermercato nel fine settimana sono più lunghe>>
Il tempo passava lento, e Lucetta fortunatamente non mostrava segni di contagio, avvicinandosi quindi al giorno della sua dimissione, che però le monache avevano già rimandato due volte. Una delle poche distrazioni in quell’ambiente fatto di grida, preghiere e incontri fugaci notturni nelle celle accanto (la cui eco attraversava anche gli spessi muri di pietra) era il passaggio regolare e quotidiano di un unico uomo in mezzo a quel gineceo di malate. - Chi è quell’uomo? - È un virologo. Nessuno sa il suo nome. Viene qui una o due volte al giorno, fa un giro tra le malate più sofferenti e sussurra loro nell’orecchio: <<Non sei voluta stare a casa, eh? La mascherina non l’hai voluta mettere, eh? Era solo un raffreddore, eh?>>
Nel frattempo, Ronzino, alla disperata ricerca della sua amata, aveva rovistato sotto ogni pietra, in ogni angolo e in ogni ospedale tra Como, Bergamo, Lodi, Codogno e Milano, sfuggendo miracolosamente alle pattuglie delle forze dell’ordine. Non era riuscito a trovare Lucetta, in compenso era stato infettato e aveva dato un significativo contributo alla diffusione della malattia in metà della regio-
ne. Colpito da polmonite, venne intubato in un ospedale di campagna (una volta curato scriverà un diario di questa esperienza) dove passò le successive settimane.
Erano passati ormai due mesi dal giorno del finto rapimento, quando, guarito e ristabilito, gli fu finalmente concesso di incontrare Lucetta, che nel frattempo aveva lasciato il conventospedale di Monza (non senza aver passato una notte col virologo Innominato). In preda all’ardore per questo incontro, sebbene le condizioni di Ronzino non consentissero ancora un intenso contatto fisico, lei era entusiasta all’idea di raccontargli ogni dettaglio delle sue disavventure (in una versione estremamente rimaneggiata): - Oh, Ronzino, finalmente posso di nuovo sfiorarti, non sai cosa mi è successo… - Guarda, nel tempo passato qui mi sono fatto amici i medici e gli infermieri, mi hanno raccontato tutta la vicenda che, a quanto pare, è stata al centro della cronaca rosa e nera per un mese, so tutto. Ma ora io sono guarito e tu sei qui, e posso finalmente dirti che sei una grandissima zoccola. Ah, quasi dimenticavo: hai pure la sifilide!
l’appartamento Pietro rotelli La stanza è spoglia, a parte un tavolo, le sedie, il lavabo ed il frigo. C’è una finestra da cui entra la luce perpendicolare come se fosse mattina, ma non vediamo nulla di quello che ci sta al di là. C’è un cadavere, nella stanza. Il copro è sdraiato sul tavolo della cucina. Indossa un maglione a righe rosse e blu (sotto ha una maglietta bianca dell’hard rock caffè di New York ma non la vediamo), un paio di jeans strappati, calzini di cotone e adidas alte. Il corpo è immobile e ha le sue stesse mani strette attorno al collo. Sono le sette di mattina e nella cucina entra adesso un ragazzo che avrà trent’anni, coi capelli lunghi e la barba di tre giorni, una maglietta e dei jeans. È scalzo e appena vede il corpo rimane fermo a fissarlo e poi urla: “Chi è stato?”. “A fare cosa?” chiede una voce di ragazza fuori campo. “A lasciare il corpo sul tavolo!” urla in risposta il capellone “Non vi sembra che qui dentro ci sia già abbastanza caos? È necessario lasciare copri inanimati a giro?”. Entra una ragazza. Avrà trent’anni anche lei ed è vestita con maglietta e jeans. Si, anche lei. “Ah, è lui. Chi mi dice che non ce lo abbia messo tu per poi urlare e depistare?” chiede guardando con sospetto il coinquilino. “Io solitamente non uccido e non porterei certo il morto qui. Che ci dovrei fare?” Entra adesso un altro personaggio: quarant’anni con un maglione ma in mutande. “Chi è?” chiede indicando con un movimento del mento in direzione del corpo, arriva al frigo, lo apre, prende un cartone di latte, torna al lavandino e se lo versa in una tazza. Mette la tazza nel microonde, lo accende. Un minuto. «È il pacifico” Il quarantenne si gira a guardarlo alzano il sopracciglio destro. “Finalmente. in effetti era un bel rompicoglioni.
Chiunque di noi sia stato ha fatto bene e ha tutto la mia stima.” “Ah, quindi diamo già per scontato che sia stato uno di noi?” chiede il ragazzo. Il quarantenne gli si avvicina (dio, quanto si somigliano) e gli dice: “Quando mai te hai visto qualcun’altro che non si sia uno di noi aggirarsi per queste stanze?” “Non ha torto” dice da dietro la ragazza. Bling - suono del microonde - il quarantenne lo apre, prende la sua tazza di latte e la mette sul tavolo. Si siede. “OH, AVETE ROTTO IL CAZZO CON QUESTO CIRCO EH!” entra uno di cui non sappiamo inquadrare l’età. Ha un cappotto scuro ma gira scalzo. ha capelli lungi tirati davanti agli occhi ed ha una sigaretta che spunta dai capelli. Accesa. “AH; ALLA FINE L’AVETE AMMAZZATO? AVETE FATTO BENE!” così dicendo si siede di fronte al quarantenne col latte. Il quarantenne lo osserva e gli chiede se è possibile abbassare un po’ il tono ed i toni, che lì mica siamo fuori, siamo fra noi non è che si deve per forza esagerare.
Non ci guarda nessuno. Non ci guarda nessuno? “Io in generale non credo che stia bene eliminare le persone, anche se ci mettono a volte in condizioni poco piacdvoli.” dice un bambino apparso adesso da sotto il tavolo. Ha addosso una shirt immacolata e dei jeans, ma senza buchi. Capelli pettinati da una parte. “A me piace giocare con tutti, anche se non tutti siete simpatici.” “Ecco, meno male è arrivato il bimbo bravo.” lo apostrofa il quarantenne. “Meno male ci sei te, che sei bravo e buono con tutti. Come faremmo altrimenti ad arrivare in fondo alla giornata?” il tono è marcatamente sarcastico. “Te sei orribile.” gli risponde il bambino. “Ma ti voglio bene lo stesso.” Ora sono seduti tutti e cinque intorno al cadavere: il trentenne, la ragazza, il quarantenne, quello col cappotto e il bambino. Tutti intorno e nel mezzo il corpo. Stanno un attimo in silenzio. “Siamo sicuri che è morto?” chiede la ragazza. “Non mi pare si muova, non mi pare respiri.” risponde il trentenne. “C’importa davvero?” chiede quello col cappotto accendendosi la sigaretta. “A me stava antipatico, quindi non me ne frega nulla” dice quello di quarant’anni. “Mamma mia come siete…” osserva il bambino. “Sarebbe comunque il caso che chiunque sia stato lo dica, almeno ne prendiamo atto, chiudiamo la faccenda e ripartiamo da lì. C’è poi da decidere che ci facciamo con la sua stanza.” dice il trentenne. “La sua stanza la lasciamo com’è, sia mai che arrivi qualcun’altro a occuparla.” dice il quarantenne. “Bisogna nascondere il corpo, che qui da noia e non possiamo neanche vederci in faccia se ci sediamo. E poi mi distrae.” dice quello col cappotto. “Ma a nessuno di voi dispiace?” chiede il bambino. “Certo, più che un dispiacere diciamo che vederlo era un’abitudine, adesso dovremo abituarci a fare senza.” risponde la ragazza “Dovremmo imparare a fare cose che non sapevamo fare, perché lui era quello che mediava con tutti, era quello paziente che cercava sempre il dialogo. Era il nostro ambasciatore pacifico con
l’esterno. Adesso siamo senza, in attesa che tu, bambino, cresca. Perché tu gli sei simile ma sei ancora giovane e incerto e rischi di farti macellare da quelli là fuori.” “MA CHE CAZZO CE NE FREGA DI MEDIARE, DI ESSERE DISPONIBILI O PAZIENTI? CHE VADANO TUTTI AFFANCULO! STIAMO SOLI.” urla quello col cappotto, accendendosi una sigaretta con quella che ha appena finito. “Io non vorrei stare sola, non credo ci faccia bene.” dice la ragazza guardandoli tutti e soffermandosi sul corpo “Stiamo diventando sempre più cinici, chiusi e stiamo troppo tempo fra noi. Non ci fa bene, davvero. Stiamo tagliando i ponti.” “Madonna che lagna” dice il quarantenne. La ragazza si gira verso il trentenne “Oh, te non dici niente? Nessun idea, nessuna opinione, nessun pensiero? Sei te il titolare, che facciamo?” Suona il campanello. Si guardano tutti, ma nessuno fa il gesto di andare ad aprire. “Vado io.” dice finalemente il trentenne, poi si gira verso la ragazza “Sono io il TITOLARE.” sottolinea con la voce la parola. Si alza, va vicino alla porta, chiede chi è. È la vicina, se può aprire un attimo perché deve chiedergli una cosa. Apre. “Mi scusi” fa la vecchia con la maschera che le copre la bocca e parte del naso, mentre scruta da sopra la spalla la stanza e constatando che la cucina è vuota. “Pensavo avesse ospiti, sentivo le voci, invece vedo che è solo”, “Dica” dice il trentenne girandosi distrattamente verso la cucina vuota “Cosa vuole”. “Ho perso il mio gatto. Non lo trovo più, deve essere uscito dalla porta che ho lasciato socchiusa quando sono scesa a buttare la spazzatura, e ora non lo trovo. Ho paura che gli sia successo qualcosa. Lo ha mica visto? Può darmi una mano a cercarlo?”. “No” e gli sbatte la porta in faccia. Si volta verso la cucina. Bussano alla porta. Ancora. Ancora. Ancora. Il corpo è di nuovo sul tavolo e i coinquilini al loro posto, lo guardano. Il bambino sta piangendo. “Forse lui avrebbe fatto diversamente.” dice il trentenne accennando al corpo.
Correre Devo correre. Anche fosse il giro dell’isolato. Comincio con un giro, poi lo ripeto 5, 10, 20, 50 volte. Correre fino a quando non mi si spezzano le gambe. O si frantumano le scarpe. O mi ferma la coppia di vigili urbani che a ogni passaggio mi guarda male perché non corro con la mascherina. Devo correre. Non posso correre lontano, cercherò di correre a lungo. Correre fuori di casa, correre fuori da casa. Correre per non vederlo, per non sentirlo, non incontrarlo. Cancellarne anche il ricordo nella fatica, lasciarlo scivolare via con il sudore. Correre ogni giorno un chilometro in più, e anche se alla fine torno in casa ogni volta, immaginare di mettere tra noi quella distanza sempre crescente. Correre per scrollarmi di dosso la polvere del silenzio, dell’insofferenza, del malessere. Correre per scappare, ma soprattutto per ritrovarmi in quella corsa. Il ritmo dei miei passi all’unisono col fiato, col battito del cuore, con il pulsare dell’anima. Correre per riappropriarmi del mio corpo: sentirmi viva nelle dita dei piedi che poggiano a terra, nelle ginocchia fragili che mi sostengono nonostante tutto, nei muscoli tesi delle cosce, nelle mani chiuse a pugno fino quasi a infilarmi le unghie nel palmo, nel seno che si solleva a ogni respiro, nei capelli che mi fluttuano dietro come fossero la scia della mia velocità. Correre per sentirmi bella come non mi vedo mai davanti allo specchio. Correre attorno agli obblighi delle convenzioni sociali che stringono i polsi come manette. Correre alle spalle dei vincoli familiari che pesano come macigni. Correre via dal passato che mi insegue, via dal presente che mi ingabbia. Correre guardando a un futuro in cui sono libera di essere chi cazzo mi pare, di inseguire la mia felicità dovunque essa si trovi, di scegliere chi avere accanto a me nella ricerca. Corro ancora un giro dell’isolato. Forse due. Poi torno a casa, ma domani si corre di nuovo. Perché ogni tanto posso essere “down”, ma, a me, non mi “locka” nessuno!
Arianna Gualtieri
la siepe francesca piantanida La finestra, è piccola, o almeno lo sembra vista dall’interno. Davanti al vetro c’è un tavolino su cui è poggiato un laptop che svetta come un monolito tra un mucchio cartaceo informe composto da strati di libri e fumetti, a cui si aggiungono, come isole in un oceano solitario, svariate bottiglie vuote e qualche tazza da the e caffè, sporche. In mezzo a tanto depositarsi di idee e morta carta, un uomo, seduto, scrive tenendo le spalle alla finestra, come cercasse di ignorare volontariamente il panorama che si scorge fuori da essa: un meraviglioso declinarsi di campi, vigne, colline e, in lontananza, il limitare di un bosco dietro add una casa colonica; una scena agreste pittoresca ed idilliaca, incorniciata in primo piano da una siepe, come fosse un quadro. C’è movimento sulla siepe, inosservato dal mondo un uccellino ruba rametti per il nido. I compagni, gli amici o forse, chi sa, i familiari del picoclo costruttore gioiscono del materiale raccolto, e mentre volano via cinguettano l’un l’altro. Distratto dal rumore l’uomo alza la testa e si volta. Sbuffa “Beati loro ... chi sa dove volano” Si affaccia alla finestra, forse intenzionato ad affacciarsi per seguire almeno con lo sguardo il volo degli uccelli, eppure come si affaccia la siepe in primo piano occupa tutto il suo spazio visivo. L’astio alla vista dell’ingombrante cespuglio gli riempie la bocca di astio e fiele. “La prima cosa che faccio quando esco di qua sarà potare quella maledetta siepe” Da dietro la siepe occhieggiano dei greggi, al pascolo libere nel panorama agreste, o almeno così sembra, schiacciate come sono tra le fronde e il riquadro visivo dello stipite della finestra L’uomo si sporge inclinandosi pericolosamente sul fianco destro per
riuscire a vederli meglio “Pecore?? Agnellini? Ah già...è quasi Pasqua... ma chi li porta in giro?” Più si sporge, più la siepe in primo piano cresce, tanto da costringerlo ad alzarsi in punta di piedi “Questa maledetta siepe copre tutto, ma qualcuno porterà in giro il gregge” Riscende dalle punte dei piedi, e si rigira verso il tavolo, scordato mentre la testa si svota e gli occhi si riempiono di lacrime, mentre il panorama dietro la siepe al (adesso una semplice piccola siepe di recinzione) torna normale: un arioso paesaggio agreste punteggiato qua e là da qualche pecorella. Lui di spalle beve un sorso da una delle molte tazze, trangugiando il contenuto tiepido senza neppure più capire se sia una tisana, alcool, caffè o acqua sporca. “Se non fosse per quella maledetta siepe lo saprei” Poggia la tazza con astio, un cerchio d’umido nuovo va ad aggiungersi alla ragnatela di macchie tra fogli e scrivania. “Se non fosse per quella siepe non sarebbe un problema star chiusi, potrei guardare il panorama” Si accuccia spalle al muro sotto al davanzale, scivolando sui talloni come se le sue spalle avessero un fardello troppo pesante sopra per riuscire a restare eretto, su di lui, dietro la piccola siepe, un grande arcobaleno sfavilla all’orizzonte, piccole nuvole simili ad unicorni lo abbelliscono, suggerendo nascoste dietro il bosco meraviglie, avventure e creature fatate. L’uomo non vede nulla di tutto ciò, la testa stretta tra le mani. “Non è un problema nulla...” Ripete a sè stesso meccanicamente cullandosi avanti e indietro “l’unico problema è solo quella maledetta...enorme, sgraziata siepe”. Abbassa la testa sulle ginocchia. Continua a cullarsi.
Michele Cavalieri dâ&#x20AC;&#x2122;Oro
un limbo affollato beno franceschini «Bella la vita, per te! Una quarantena tutta coccole e croccantini! Ma chi ci pensa a me? Sono sfinito, sono esausto, je suis tellement fatigué!» A parlare era Gian Gualberto di Cortez-Calissaia, spirito ormai pluricentenario del fu pirata pre-dandy Sbarbachina. Davanti a lui Memo, un gattone che lo osservava senza proferire parola, tutt’al più sbadigliando e leccandosi qua e là. «Ho infestato questa casa perché non c’era mai nessuno: chi all’ozio e chi al negozio, chi alla pallacorda e chi alla fiaschetteria, anzi, al… come dicono… all’aperitif. E adesso il mio buen retiro limbico è diventato un inferno. Absit iniuria, va da sé.» Il gatto prese a toelettarsi una zampa, mentre gli inquilini viventi passavano avanti e indietro come mosche noiose in attesa di sbattere contro i vetri di una finestra aperta. «Lo vedi? Un cicalio senza tregua, mon ami. Mi scoppia la testa, se ancora l’avessi. Mi sembra di essere tornato in carne e ossa. Tu sai come soffrivo di hemicrania! Il mio medico di bordo – personaggio divertente: poteva farti la barba, estrarti un dente e preparati unguenti con la stessa facilità con cui cucinava un dodo al vapore – sosteneva che la mia hemicrania derivasse da certi umori del fegato… Beh, non ci voleva molto, mein Freund, con tutto quello che bevevo… Una volta alla Gran Terra di Maiotta trovai delle casse di arak…» Un tonfo dalla cucina lo interruppe. Il gatto si voltò di scatto e drizzò il pelo, stirandosi ad arco acuto, pronto all’attacco o alla fuga. Poi le grida sull’inopportunità di preparare un presunto budino fritto con i popcorn indussero i suoi nervi felini primordiali a tornare ai fasti del XXI secolo. «Aaaaah, io vado ai pazzi, I’m going crazy… полудявам! Aspetta, e questa che lingua sarebbe? Vedi, non ce la faccio più, sbabelo! Dico, è questo il modo
di stare in quarantena? Quale quarantena è mai la vostra, che alternate isterie domestiche a vacue sortite? Ah, saprei io come fare. Quando uno dei miei marinai si ammalò nelle Isole dell’Amicizia, gli inglesi ci vietarono di scendere a terra per quaranta giorni. A nulla servì che io prendessi quel tal marinaio e lo buttassi ai pescecani. Gli inglesi si arrabbiarono molto: “No, capitano, non si fa così, anzi la processeremo e su e giù”. Allora io, che come sai sono un homme d’honneur, aspettai quaranta giorni e quaranta notti, ligio all’autorità. Nessuno fiatava sulla mia nave, mangiavamo le schegge dell’albero maestro. Al quarantunesimo giorno, però… da sbellicarsi! Razziammo tutte le Isole dell’Amicizia. Portammo via persino la sabbia delle spiagge. Gli inglesi, gente che ride solo alle proprie battute, si offesero, mi inseguirono per mezzo mondo e mi catturarono in Giamaica… Chissà se hanno mai ritrovato la mia testa. Vabbè, come già ben sai, ho sempre sofferto di hemicrania, quindi minima de malis!» La figlia maggiore della casa si fermò nel mezzo del salotto, estrasse il telefono cellulare e si scattò una foto del volto contratto in una smorfia da papera che in tutto somigliava a una papera che avesse il becco contratto in una smorfia da figlia maggiore per scattarsi una foto nel mezzo di un salotto. Il fantasma roteò gli occhi – «Quelle vulgarité», – mentre il gatto, che porta con sé la memoria genetica di momenti ben peggiori, sbatté la coda un paio di volte. Umani con la testa da animali? Già visti. «Dirai tu: “Prova a divertirti! Volgi la crisi in opportunità, lavora sulla tua scalata all’oltretomba, carpe diem!” Beh, io ne ho abbastanza del tuo ottimismo, my dear. Tu hai le tue unghiette affilate e giustamente castighi quegli stolti quando meno se lo aspettano. Ti accoccoli con loro sul sofà e dal nulla – sgraff! – una bella zampata. Bene! Bravo, così si
fa! Mi ricorda una certa locandiera della Caienna, che…» Nel corridoio qualcuno cominciò a gridare parole incomprensibili che sfondavano il muro degli ultrasuoni, il che rendeva plausibile che qualcun altro riuscisse a vedere la scena in infrarossi, con le macchie di calore che si dimenavano attorno a concetti come supermercato e ipermercato, in cima alla strada e in fondo alla strada, fila e autocertificazione. Tuttavia la battaglia dei trentuno secondi terminò com’era cominciata, una scaramuccia di poco conto che forse anni dopo sarebbe stata inserita tra i prodromi di una grande guerra, ma per il momento aveva solo obbligato Memo a bruciare preziose calorie per girare la testa. «Sono stufo di questi vocalizzi eruttati! Dimmi che cosa devo fare, c’aggia fa? Tu hai le tue armi, ma io? Li tieni in soggezione con il tuo sguardo, li metti sulle righe semplicemente stando a sedere accanto a loro e scrutandoli con aria altera lion-like. Magari potessi almeno spaventarli con la mia aura di spettro, ma questi sono miscredenti, non hanno timore di niente. Se vedono un fantasma, ne sono felici: l’evento della loro vita, nemmeno fossero al cospetto della regina delle Asturie! Impugnano quegli arnesi e – zac! – ghermiscono la luce della povera anima. Questi viventi moderni, meu gato, hanno preso troppo sul serio il poeta che diceva: “I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi”. E invece, noi esistiamo. Eccome se esistiamo. Certo, ci sono spiriti reali e spiriti figurati, perché tutti abbiamo nel profondo uno spauracchio o una proiezione di noi stessi che serve ad allontanare il terrore, a volte anche a restarne preda e ostaggio, ma al giorno d’oggi le persone sono calate nel mondo senza avere consapevolezza degli idola che assediano le loro menti e obnubilano il raziocino. O forse scelgono di vivere così, nella loro caverna platonica. Non c’è deterior surdus di chi non vuole audire, come quel vecchio olandese nei pressi del Capo di Buona Speranza che… Aspetta, aspetta, questa devo raccontartela! Avevamo appena devastato un emporio portoghese,
da morire dal ridere – figuratamente, ça va sans dire – e ci eravamo diretti verso il Capo per farci una scorpacciata di granchi, quando all’improvviso…» La conversazione fu interrotta dal suono di una raffica di spari. Il ragazzino di casa stava festeggiando la vittoria videoludica contro una banda di non si sa quale stirpe. Le celebrazioni includevano vocalizzi e danze che niente avevano da invidiare alle migliori tradizioni apotropaiche delle tribù della giungla indonesiana. Tutto comprensibile – d’altronde a brigante, brigante e mezzo, – anche se il povero Memo si era contratto in una posa arcigna che sarebbe stata fonte d’ispirazione per una gargolla medievale. «Ma insomma, un po’ di rispetto per chi cerca il riposo! Adesso mi manifesto con l’aspetto spaventoso, eh. Provo con il leviatano? No, serve l’acqua salmastra. Mi vesto da strega di Macbeth! Ti piace? Magari tu la riconosci, ma questi zotici? Oh, aspetta! Faccio l’accento delle Lofoten… Oh, le Lofoten… Ti ho mai detto di quella volta che siamo naufragati alle Lofoten? Eravamo io, il sosia di Francis Drake, un calzolaio pugliese…» E invece ci fu un evento ordinario, la quotidiana collisione tra le galassie: la figlia, che nell’ennesima posa da papera deambulava videochiamando i compagni degli elementari, inciampò fatalmente nei cavi del videogioco del fratello, interrompendolo nel pieno di una delicata manovra nei pressi dell’occhio del ciclone – «Quello è un ciclone? Alle Andamane è stato un ciclone!» Il seguito si sviluppò secondo il menù delle classiche sagre: antipasti di offese miste, tris di insulti fisici, gran carré di improperi al pizzicotto e dessert di lamentele. Il conto presentato dalla madre riportò il silenzio, con la minaccia di amari e limoncelli offerti senza limite. Quanto al gatto, ottima fu la sua imitazione del gobbo di Notre-Dame. «Incredibile, sono morti viventi a molla. Nemmeno ad Haiti ho visto roba simile. Devono essere le pulsioni magnetiche! Altro che quel nobiluomo di Redi: questa è la generazione spontanea degli idioti. Le turbolenze disturbano anche
me… guarda!» La figura di Sbarbachina cominciò a tremolare, con varie parti del corpo che sembravano perdere in intensità a momenti alterni, mentre nel complesso tutto lo spirito era attraversato da bande orizzontali che ne alteravano la continuità dei contorni e la simmetria. «Va sem-gio: mal-sta di-te, di-bi-brazionali, ca-la-nza-ec-smat-a». Il pirata sbuffò, si tirò uno schiaffetto sul viso e respirò profondamente: «Va sempre peggio, volevo dire: mal di testa, disturbi vibrazionali, cali della potenza ectoplasmatica. E sai cosa mi ha detto il fantasma della pettegola al quarto piano? Il peggio deve ancora venire, perché presto i viventi useranno una forza ancora più potente per comunicare. La chiamano “cinque gi”, ma non ho ben capito se scritto proprio con cinque lettere g o in altro modo. Non ho idea neppure di che cosa si tratti. Ho chiesto a quell’ombra che passa tutte le sere alle 11, lo spirito scorbutico dell’ingegnere maniacale che ogni giorno deve inscenare la propria dipartita nei minimi dettagli. Dice che un suo amico – il cugino del tizio che ha infestato l’alcaldía – ha sentito che queste “cinque g” usano la stessa frequenza degli zaini positronici degli… brr… Acchiappafantasmi e…» Ovunque s’udirono squilli di trombe e campane. Gli inquilini della casa entrarono in agitazione, cominciarono a chiamarsi freneticamente e si strinsero di fronte alle finestra aperta. In tutto il palazzo si propagarono voci e suoni, talvolta anche armoniosi. La strada era in festa, in una confusionaria e disorganizzata euforia. Negli edifici si gridava, si suonava, si cantava, si batteva sulle pentole: ognuno contribuiva come poteva al concerto collettivo, i più assennati anche con il silenzio. «Oh no! Già le 6, l’ora di menestrelli e tricoteuses. Sono stanco di sentire l’arpia qui accanto che gorgheggia come una scimmia urlatrice del Guatemala! Adesso ne ho abbastanza, vado a protestare al Bureau Transizioni Pre-limbiche. Non mi merito tutto questo! Non ho scorrazzato per i Sette mari abbordando navi e saccheggiando porti per ritrovarmi in un covo di matti. Non mi interessa se c’è una lista di attesa, devono trovare
il modo di far passare Sbarbachina, che sia in alto, in basso o nel mezzo! E tu, non guardarmi così! Datti un contegno, trovati una strega, un alchimista… che ne so! Fai il gatto! Argh!» Il fantasma sparì in uno schiocco. La gente di casa si voltò con la rapidità di chi conosce la propensione dei gatti ad arredare il pavimento con i soprammobili, ma l’incolpevole – per questa volta – Memo era placidamente fermo, rivolto verso un angolo della stanza, con il muso sollevato a scrutare il soffitto. «Micio! Vieni qui con noi. Perché sei flashato con quella parete?» «I gatti sono strani.» «I gatti sono gatti.» «Forse c’è qualche insetto…» «O forse un fantasma? Ho letto che i gatti riescono a vederli.» «Sì, vabbè! Memo, vieni. Dai, vieni!» Il gatto si allontanò con la coda sollevata. C’era troppa gente in quella casa e tutti volevano parlare con lui, toccarlo, strizzarlo. A volte capiva anche che cosa dicessero, ma generalmente non gli interessava. Quando era in buona si limitava per pura cortesia a fingere di ascoltare, ma il più delle volte sintonizzava le orecchie muovendole avanti e indietro e ascoltava un po’ di musica, anche per evitare di dover schizzare all’erta per ogni fruscio. Dopo tante chiacchiere era finalmente arrivato il momento di godersi i benefici di essere un gatto. Memo, lasciando che gli umani facessero gli umani e i fantasmi facessero i fantasmi, raggiunse la propria coperta e si raggomitolò. Infine tese le vibrisse sull’esclusiva rete felina a 21G – altro che il 5G degli umani – e via in modalità Panthera Leo.
Antonino Farina
il cittadino modello giulio rotelli Ho perso il conto dei giorni da quando è iniziata questa quarantena per la pandemia. I media la chiamano lockdown, ormai la globalizzazione, si proprio quella per cui questo maledetto virus è arrivato così velocemente e facilmente anche da noi, ci impone di usare terminologie inglesi per qualsiasi cosa. Potrebbero essere 40 giorni come tre mesi, non me ne rendo conto, ogni giorno è identico a quello precedente. Se qualcuno mi avesse detto anni fa che avrei vissuto anche questa esperienza, gli avrei riso in faccia con sufficienza e disprezzo e invece eccomi qua, solo, chiuso in casa, da più di quaranta giorni. Niente uscite neanche per la spesa, solo consegne a domicilio: quello schifoso virus non mi avrà mai, si prenderà quegli stupidi runner o quegli odiosi furbetti che portano il cane a fare un giro anche tre volte al giorno, ma a me non mi avrà. Anche la spazzatura la getto dopo le dieci di sera, così non devo incontrare quei piccoli nani untori che scendono mano nella mano dei loro irresponsabili genitori, se questa è l’educazione che trasmettono alle nuove generazioni, non c’è da stupirsi che il mondo vada a puttane. Li vedo, dalla mia finestra al quinto piano, da quassù controllo tutto il quartiere. Che popolo di egoisti fuorilegge, sempre a pensare al loro interesse, sì, sono proprio loro, gli odiosi furbetti che sui social mi vogliono dare lezioni di libertà! Lo fanno da sempre, saccenti e arroganti, ma da oggi li posso controllare e denunciare, mi hanno dato uno scopo in queste giornate interminabili: mi apposto a ore intere, anche dopo cena, alla finestra e osservo. Vigilo per il bene di tutti e quando qualcuno sgarra ho il preciso dovere di denunciare. Molto meglio degli stupidi programmi TV, questa è vita vera, io posso controllarla e sono pure legittimato a supervisiona-
re quella degli altri. Qualcuno mi direbbe che sono una specie di spia, o peggio ancora un delatore….Ma io non lo sono, sono semplicemente un bravo cittadino che adempie al suo dovere per il bene della comunità. Tutto scorre bene; ad esempio ieri mattina, erano le 5.00 circa ho beccato un ragazzo in tuta che correva in circolo sotto il mio palazzo, ho schiacciato il tasto chiamate dello smartphone (il primo numero che compare è proprio quello delle forze dell’ordine) e l’ho denunciato. Tempo 15 minuti è arrivata una volante, lo ha fermato e lo ha multato, mi sono sentito l’eroe del quartiere e sono orgoglioso perché il mio concorrente non ce l’ha fatta ad essere più veloce di me. Chi è il mio avversario? Lo chiamo così perché abbiamo dato il via ad una sorta di tacita competizione su chi è più solerte a beccare e denunciare questi stronzetti. Lui se ne sta alla finestra del palazzo che è di fronte al mio, stesso piano, così non ci sono scuse su chi può essere avvantaggiato o meno. La prima volta l’ho notato circa un paio di settimane fa, mentre vigilavo sulla strada sottostante, ho alzato gli occhi e lui era là, di fronte a me e mi stava guardando, o almeno credo, perché in parte ero accecato dal riflesso del sole nella sua finestra. Siamo stati un pò a fissarci, nessuno dei due abbassava lo sguardo, nessuno dei due si allontanava dalla finestra, ed è li che è scattato qualcosa, una specie di scintilla: la sfida. Senza parlarci ci siamo capiti, dentro di noi arde lo stesso sacro fuoco della cura della legalità, in questo Paese fatto di zecche rosse e di ladri neri siamo rimasti talmente in pochi ad avere questo senso di responsabilità che ci si riconosce quasi al volo. La sfida è partita. Ogni volta che mi metto di vedetta, arriva anche lui.
Se ci passo un pomeriggio intero, lui non demorde, anzi sembra quasi sorridere soddisfatto quando provo a controllare se è ancora là. Sono certo però di essere più veloce nelle segnalazioni: ogni volta che becco un fuorilegge, prendo subito in mano il telefono e sono sempre il primo a prendere la linea… ogni singola volta. Infatti finita la chiamata, alzo lo sguardo e vedo che anche lui mette giù il suo telefono e pure se non ne ho la certezza, io so che mi sta guardando in cagnesco. Ogni denuncia telefonica che concludo, la sua faccia è sempre meno rilassata ed assume smorfie di rabbia e cattiveria, chissà quanto gli brucia che sia sempre io il più veloce! ….. Il tempo passa e ormai è un mese intero che il nostro gioco va avanti, mi sono segnato le tacche giornaliere sul muro vicino alla finestra; come un carcerato che conta i giorni che lo separano dalla libertà io ho segnato tutti i giorni in cui abbiamo fatto i nostri appostamenti e ovviamente non ne abbiamo saltato neanche uno. Al TG hanno detto che domani finirà il blocco e potremo di nuovo uscire di casa, dato che i contagi sono diminuiti; il Premier ha ringraziato sommariamente tutti i cittadini per la collaborazione. Capito? Tutti! Che ipocrita schifoso, come se non si sapesse che le cose sono andate bene solo grazie ad i bravi cittadini come me, una netta ma inarrestabile minoranza che ha vigilato e denunciato chi di dovere. Mi meriterei una fottuta medaglia dal Presidente della Repubblica in persona: tutti i giorni, per quasi 20 ore il giorno ho vigilato sul mio quartiere. …. Stamani uscirò; stanotte non ho chiuso occhio e non per una insensata euforia legata alla fine di tutto, no, è che stanotte è successo qualcosa di strano: dopo cena, un tramezzino veloce mangiato seduto sul divano, mi sono ovviamente recato al mio posto di lavoro e come sempre, ovviamente è comparso il mio
avversario. C’era però qualcosa di strano nel suo volto: era come trasfigurato. Per essere sicuro ho preso la mia macchia fotografica con tanto di teleobiettivo ed ho zoomato al massimo per cercare di capire se il buio e la stanchezza mi stessero giocando un brutto scherzo e invece no: non aveva più un aspetto molto umano, la pelle era biancastra, la faccia allungata e scavata in maniera innaturale, al posto degli occhi c’erano due buchi neri deformati e la bocca era come immobilizzata in un angosciante ghigno perpetuo da cui schiumava bava… ho avuto paura, quello che ho visto non mi è piaciuto per niente. Ho abbassato la macchina fotografica, ho tirato la tenda, buttato giù la tapparella e mi sono allontanato immediatamente dalla finestra. Non mi ci sono più neanche avvicinato. Sono rimasto sdraiato nel letto con cucita addosso la convinzione che nonostante fosse nel palazzo di fronte, in casa sua, lontano decine di metri da me, quella creatura mi stesse ancora fissando. Anche adesso che sono uscito per strada quella sensazione non mi si scrolla di dosso, tanto è che mi fermo a fissare il suo palazzo per non so quanto tempo… “Signore, mi scusi, c’è qualche problema?” una voce si rivolge a me e mi risveglia dal mio trance. E’ un operaio con tuta da lavoro, elmetto anti infortunistico e ovviamente una mascherina anticontagio. “Mi chiedevo se c’è qualche problema signore, dato che è da quasi 10 minuti che è fermo, immobile a fissare le finestre di questo palazzo.” “Nessun problema, è solo che volevo capire chi abita al quinto piano di quel palazzo e poi mi sono fermato in sovrappensiero. Sicuramente faccio prima a guardare i nomi sul citofono.” “Guardi signore, non vorrei deluderla ma credo sia impossibile che qualcuno abiti qua, non solo al quinto piano ma in tutto lo stabile: già prima della pandemia c’era rimasta una sola famiglia in quel palazzo, che poi è stato sgombrato definitivamente perché giudicato pericolante,
pare che nella costruzione delle fondamenta si siano scordati un paio di pilastri portanti. Adesso, finito il lockdown verrà demolito, io sono qua apposta per fare gli ultimi controlli.”
“Ne è sicuro? Perché io ho la certezza di aver visto qualcuno alla finestra dell’appartamento del quinto piano, anche ieri notte, abito esattamente di fronte alla stessa altezza!”
“Ma non è possibile che nel periodo della quarantena qualcuno si sia introdotto illegalmente in uno degli appartamenti?”
“Mi dispiace signore, ma ho personalmente controllato tutte le entrate, sono ancora murate, intatte. L’unica spiegazione è che lei abbia semplicemente visto se stesso riflesso nella finestra che fissava!”
“Non vedo come, dato che il perimetro, come lei stesso può vedere è transennato e le porte con tutti gli accessi del piano terra e del sottosuolo sono stati letteralmente murati!”
Francesco Segala: classe 1990. Vive a Roma e fa parte dello Studio Panopticon. Lavora come colorista sia per l’Italia che gli USA, soprattutto con Boom! Studios (Firefly), Madcave Studios (Over the Ropes), Sky Arte, Bugs comics (Geppetto - storia di un Padre), e con l’etichetta digitale Wilder online (Australia, Black Rock, Kersos). https://www.behance.net/francescosegala Guido Vitabile: Graphic Designer, amante della musica metal e dell’amaro lucano. www.guidovitabile.com Emiliano Barletta: ha scritto il fumetto biografico “Charlie Chaplin – Il funambolo” (Edizione NPE, 2019) e nel 2020 per Oblò-APS pubblica i fumetti “Professeur” e “Diario di Scavo”. https://secondogudea.blogspot.com Maria Grazia Becherini: traduttrice, radioamatrice, fotografa. Contastorie. A sé e agli altri. https://www.instagram.com/mariagraziabecherini/ Gabriele Bitossi: nasce nel ‘96 ed è da sempre appassionato di storie, in ogni loro forma. Studia Italianistica all’Università di Pisa, e sceneggiatura alla Scuola internazionale di comics a Firenze. Nello SmP Caiazza: Illustratore e disegnatore per passione, napoletano di costituzione. www.smpartwork.com Michele Cavalieri d’Oro: classe 1984, é passato da dipingere sui muri a progettarli, da leggere fumetti a disegnarli. Gli occhi catturano le illustrazioni raccontano. www.instagram.com/mke.cava.oro.art Luigi Chialvo: scrive per lavoro e per hobby, oscillando tra comunicati stampa, comunicazioni istituzionali, sceneggiature, racconti, campagne per giochi di ruolo e liste della spesa. Ha pubblicato per Ronin, Spectre e L’Erudita e ha ideato (e scritto) un fumetto uscito a puntate per quasi un anno su Pallavolo Supervolley. Edoardo Comaschi: nato a Viareggio nel 1992, si appassiona giovanissimo ai fumetti e finisce il suo percorso di studi conseguendo la laurea in Linguaggi del Fumetto presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha collaborato con Amianto Comics, STORMI, Prott Edizioni, Diamond Dogs e Ronin. https://www.instagram.com/edoardo_uomostagno_comaschi Alessandro D’Amico: classe 1996, Milano. Approfondisce la Nona Arte in accademia che culmina nella sua tesi “Fumetti, corpo e arte contemporanea: La sovraesposizione dell’immagine artistica nell’arte sequenziale”. È batterista, grafico e co-autore della rock band indipendente Seveso Casino Palace. Francesca Dea: nasce a Roma nel gennaio dell’84. Appassionata di disegno da che ha memoria, consegue la laurea in Architettura nel 2009 e si diploma contemporaneamente alla Scuola Romana del Fumetto. Nel 2012 fonda la School Comix di cui è direttore e docente. Collabora attualmente con Ronin e Tora Edizioni e a progetti personali tra cui Virtus - A tale of Valiancy. https://www.deviantart.com/francescadea
Matteo De Santis: classe ‘94, autodidatta. Attivo nel circuito indipendente e delle autoproduzioni, è co-autore insieme a Marco Torti del fumetto a episodi Cowboys from Hell. http://cowboysfromhelltds.blogspot.com/ Gianlorenzo Di Mauro: classe 1980. Studi e passione per la musica e il restauro. Come fumettista, dal 2016 entra a far parte del gruppo Mokapop e del collettivo Ronin e dal 2018 collabora con il portale Stormi (Beccogiallo). Nel 2019 pubblica una breve sul N.111 della rivista “Scuola di Fumetto”; è di prossima uscita un monografico per Oblò-aps. Erika Di Paolo: annata 1987, romana doc esportata in Francia, illustratrice e fumettista indipendente. Https://asphodel.pb.gallery Antonino Roberto Farina: Classe 1975. Attratto da tutto ciò che è arte, inizia lavorando il ferro battuto. Diplomato nel 1994 come disegnatore d’arredamento e architettura. Dopo il diploma in pittura presso l’accademia delle Belle arti nel 1999, inizia a lavorare come grafico pubblicitario e disegnatore. Beniamino Franceschini: classe 1986, toscano della Costa degli Etruschi, ogni tanto scrive qualcosa, di solito poesie, altre volte racconti e soggetti per fumetti. È coautore di Robocronache. https://benofranceschini.wordpress. com/ Federico Galeotti: nato nel 1989, ha da sempre la passione per il fumetto e la pittura. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti e la Scuola Internazionale di Comics, scrive e disegna per Amianto Comics (co-fondatore). http://federicogaleotti.com Francesca Gatto: nata a Roma nel 1978, di professione fashion designer, in realtà da grande vuole disegnare fumetti. Ha studiato tanti anni fa alla Srf di Roma e continua a studiare ogni giorno. Le piace ascoltare musica rock, mangiare e disegnare, e spesso fa queste cose contemporaneamente. Ah! Si diverte a disegnare Cattive Ragazze: https://www.facebook.com/bloodydivine78/ Marco Generoso: nasce a Firenze l’8 gennaio 1989,condividendo la data di nascita con Elvis Presley e David Bowie ma non è in grado di cantare. Ripiega sceneggiando fumetti. Arianna Gualtieri: classe 1981. Diplomata all’Alessandro Caravillani di Roma nel 2000, ha frequentato i primi due anni della Scuola Romana di Comics. Fin da piccola ha sempre disegnato, letto fumetti e guardato cartoni animati. Non ha mai avuto la fortuna di lavorare facendo quello che ama: disegnare! Paul Izzo: Appassionato di fumetti, cinema e animazione. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni per editori nazionali e per il mercato anglofono e ha collaborato alla stesure di storie per Diabolik e per L’Insonne. Ha creato con Stefano Bosi Fioravanti il personaggio di Ernest Egg che è diventato un libro illustrato e un corto in stop motion con la partecipazione di Giobbe Covatta e Pino Insegno. Nel 2015 è stato nominato miglior sceneggiatore al Gran Guinigi per la storia corale Racconti Indiani di Passenger Press.
Fabio Lastrucci: classe ’62, scultore e illustratore, lavora per più di un ventennio per le principali reti televisive, il teatro lirico e di prosa. Fumettista dall’87, a partire dal 2018 pubblica illustrazioni, cover e fumetti su magazine letterari americani. Non dorme mai. https://www.behance.net/fabiolastra2ab Barbara Mamone: in arte Bii, nasce a Latina nel lontano 1993. Diplomata in arte dei metalli e dell’oreficeria si specializza in Animazione 2D alla scuola internazionale di Comics a Roma. La passione per il disegno è diventata un mestiere a cui si aggiungono animazione e videoediting. Ha realizzato numerosi corti animati ed è docente alla School Comix. https://biisart.wordpress.com/ Massimiliano Meucci: nato il 12 gennaio 1996, è un amante a tutto tondo dell’intrattenimento, dal cinema e serie tv, fino a passare a libri, fumetti e videogiochi. È responsabile movie del sito Gamesvillage.it e redattore senior presso VMAG. Marco Orlando: sceneggiatore e scrittore di notte, Web Marketing Specialist di giorno. Cresciuto leggendo fumetti, studia, in parallelo al percorso universitario, scrittura creativa. Ha pubblicato racconti e brevi storie a fumetti per diversi editori. https://marcoorlando.blogspot.com Nicola Perugini: nasce a Città di Castello (PG) nel ’73. Vive da sempre a Roma e lavora tra Roma ed Aprilia. Collabora con Cagliostro press, per il quale è al secondo episodio di ACUA, e con Raffaele Simonelli e la sua Regulus, per il quale ha realizzato Metamorfex. Insegna fumetto e narrazione per immagini presso la School Comix di Aprilia. Francesca Piantanida: 40 anni e 60000 vite, tra teatro, cinema, TV, contabilità, turismo, congressi, segreterie, viaggi e chi sa che porterà il futuro. La costante è che il mondo dentro la testa contiene tanti universi quanti di quelli fuori dalla testa, se non più, e ogni tanto riesce a trovare una maniera decente per metterli su carta. Giorgio Puleo: fuma nei teatri, recita nei fumetti. Fa fumetti tutti i giorni su www.closurecomics.com quando non lavora la terra, o la terra lavora lui. Alessio Rose: classe 1987, da sempre appassionato di fumetti e illustrazione ha una formazione prevalentemente orientata alle arti visive, a cui dedica gran parte del suo tempo; ha pubblicato alcuni fumetti e strisce comiche per piccoli editori e partecipato a mostre in occasione di fiere di settore. Giulio Rotelli: classe 1978, grafico di professione scrittore per passione ha pubblicato da poco il suo primo romanzo breve dal titolo “Curriculum Vitae” disponibile su amazon. Riccardo Sciarra: nasce a L’Aquila il 10/10/1992. Consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2016. Dall’anno successivo collabora alla realizzazione di storie a fumetti col collettivo Ronin e alla docenza con la School Comix di Aprilia. Stefano Spataro: docente stocastico, ricercatore casalingo, scrittore infedele, musicista arrabbiato. Nel tempo libero si dedica alla lettura di qualsiasi
cosa vada un po’ oltre la banalità del contemporaneo. Rivka Spizzichino: co-fondatrice e prof. di disegno presso 24H Drawing Lab (www.24hdrawinglab.com), sta ultimando la sua prima graphic novel made in quarantena: Portrheart. Marco Torti: classe ‘91, lavora con varie realtà quali Shockdom, I Dylandogofili e McGuffin Comics. Nel 2019 è stato nominato per il premio Andrea Pazienza come miglior webcomic. http://cowboysfromhelltds.blogspot.com/ Paolo Voto: illustratore di origine abruzzese, risiede a Bologna. Dopo una formazione artistica, le prime esperienze di lavoro come decoratore; lavora dal 2015 come illustratore per agenzie di comunicazione e studi creativi. Nel 2019 la prima pubblicazione nell’editoria per l’infanzia con “Il bambino che rubava le voci”, scritto da Brian Freschi. Nello stesso anno inizia la collaborazione con ThunderGryph Games, casa editrice di giochi da tavolo per cui ha illustrato già sei titoli. Pietro Rotelli: grafico, illustratore (Delos Digital, Watson Edizioni, Letterelettriche, Lettere Animate, La Ruota Edizioni) e scrittore (“Notturno” edito da Lettere Animate, “Detective Newton” autopubblicato e “Caligonauti” in uscita per Scatole Parlanti). Co-fondatore della Community per storytellers MokaPop. Fondatore di Ronin rivista e collettivo. pietrorotelli.com