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POLIGLOTTI QUESTIONE DI GENIO O DI GENE?
I neuroscienziati si chiedono da dove venga la capacità di imparare tante lingue ma non hanno ancora una risposta.
È però certo che faccia bene alla salute.
di Elisabetta Intini
Mondo In Mano
Poter parlare in lingue diverse tra loro non significa solo potersi destreggiare in molte situazioni, ma anche avere una mente più flessibile.
Nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, Philip Crowther, reporter dell’agenzia Associated Press, si guadagnò fama planetaria e 70.000 nuovi follower su Twitter per i suoi dispacci da Kiev trasmessi in sei lingue diverse: inglese, lussemburghese, spagnolo, portoghese, francese e tedesco. A noi che fatichiamo a stare al passo con gli esercizi di Babbel o altre app per imparare le lingue, quelle di Crowther sembrano competenze da marziano. Eppure il giornalista, cresciuto in Lussemburgo da padre inglese e madre tedesca, racconta con naturalezza di aver acquisito queste prime tre lingue natali “gratis” e senza sforzo, e aver aggiunto francese e inglese sui banchi di scuola, seguiti dal portoghese negli anni universitari.
Differenze Individuali
Le persone che come Crowther hanno un alto grado di conoscenza di più lingue sono chiamate poliglotti. Anche se, su quanti idiomi si debbano sapere per far parte del “club” non esiste un accordo preciso: 4-5 è di solito considerato un numero sufficiente, ma c’è anche chi ne padroneggia più di 10 (sono gli iperpoliglotti: vedi riquadro nell’ultima pagina). Viene spontaneo domandarsi: che cos’ha di speciale il cervello dei
Metà della popolazione mondiale è almeno bilingue ma i poliglotti (che parlano 4-5 idiomi) sono molti di meno
poliglotti? Così portati per le lingue si nasce oppure si diventa? Linguisti e neuroscienziati si pongono le stesse domande. «Ci sono persone che sembrano facilitate nell’apprendere una lingua straniera, altre meno. Come mai? In realtà, tutti impariamo a parlare e capire la nostra prima lingua senza uno sforzo consapevole. Ma anche nell’acquisizione della prima lingua ci sono grosse differenze individuali», spiega Alessandra Rampinini, ricercatrice del Brain and Language Lab al Campus Biotech dell’Università di Ginevra. «Io e i miei colleghi impegnati nel progetto Evolving Language siamo interessati proprio a queste differenze: dipendono da una predisposizione genetica o sono invece il risultato dell’esperienza di vita? In fondo il poliglottismo non è che una delle molte possibili manifestazioni delle differenze individuali nella capacità del linguaggio». Del resto in molte parti del mondo esprimersi in lingue diverse a seconda del contesto è la norma: in aree geografiche caratterizzate da una grande diversità etnica o geografica come la Papua Nuova Guinea, l’Indonesia, l’India o la Nigeria, è perfettamente naturale che più lingue ufficiali convivano con i diversi “dialetti” parlati dalla popolazione. Senza contare che si stima che circa la metà della popolazione mondiale sia almeno bilingue.
Capacit Parallele
Sicuramente l’esposizione precoce a lingue diverse può contribuire a formare un multilingue, ma non si diventa poliglotti per “osmosi”. La maggior parte delle persone che conoscono molte lingue dedica al loro studio tempo e passione. L’iperpoliglotta statunitense Alexander Argüelles, che parla in modo fluente almeno 10 lingue e ne ha studiate più di 60, ha raccontato al giornalista Michael Erard, autore del libro sui poliglotti Babel no more (Non più Babele, con riferimento alla torre biblica in cui si parlavano talmente tante lingue da non capirsi più), di alzarsi ogni notte alle 3:00 per scrivere un paio di pagine in sanscrito, arabo o cinese, le lingue che chiama “sorgenti etimologiche”, e di continuare poi con altre lingue finché non ha riempito 24 pagine di un quaderno. Poi esce per fare jogging ascoltando audiolibri in altre lingue, e quando torna a casa si dedica a esercizi di grammatica e fonetica, appuntando su un foglio excel il tempo dedicato allo studio di ciascuna.
Ma che cosa distingue i poliglotti da tutti gli altri? «Non sembra che quella del linguaggio sia una dimensione che procede da sola. Stiamo iniziando a capire che le capacità linguistiche e le capacità cognitive generali si muovono assieme, su direttrici parallele», chiarisce Rampinini. La scienziata propone a persone con conoscenze linguistiche e background socio-culturali diversi batterie di questionari e test al computer per esplorare il loro rapporto con le lingue, le loro capacità di intelligenza generale e quelle di discriminazione uditiva prima di metterle alla prova con frasi da comporre in lingue inventate e sottoporle a esami in risonanza magnetica, strutturale e funzionale (fMRI). Le due tecniche di imaging cerebrale permettono di fotografare in altissima definizione particolari come lo spessore della corteccia cerebrale in alcuni punti o la quantità di materia bianca che collega come un’autostrada diverse aree, o ancora di osservare le regioni impegnate mentre i volontari partecipano a diverse attività linguistiche, come ascoltare una fiaba nella propria lingua madre o in una seconda lingua.
Questione Di Inibizione
Le conclusioni preliminari delle ricerche di Rampinini (che sta attualmente studiando le capacità linguistiche, oltre ai profili genetici, di 150 persone), dicono che per essere multilingui bisogna avere buone capacità di memoria e di apprendimento. «Ma soprattutto di modulazione degli stati cerebrali, ossia della capacità del cervello di rispondere ai bisogni del momento. Se io parlo inglese, francese e tedesco, quando mi trovo in Germania devo inibire il francese per parlare il tedesco ed evitare interferenze. Questa facoltà di rimanere nello stato mentale di una lingua o dell’altra è determinata proprio dalla capacità generale di modulare l’attenzione», puntualizza la studiosa. Ma anche altre insospettabili doti cognitive possono risultare preziose: mani e parola per esempio sono connessi. «Può essere che la velocità con cui infilo dei chiodini in buchi molto piccoli con la mia mano dominante si rapporti alla fluenza con cui pos-
Studio Matto E Disperatissimo
Conoscere tante lingue viene naturale solo fino a un certo punto. Sono favoriti i bambini che nascono da coppie di nazionalità diverse (foto piccola nella pagina accanto) o che studiano lingue molto diverse dalla propria (sotto) già da piccoli. Per impadronirsi davvero di un idioma gli adulti invece devono esercitarsi molto.
Gli Iperpoliglotti
Alcune persone parlano un numero molto elevato di lingue: sono gli iperpoliglotti. Il termine è stato coniato vent’anni fa dal linguista britannico Richard Hudson e si riferisce a chi di lingue ne conosce almeno 11. I veri iperpoliglotti, che non millantano la conoscenza di una lingua solo perché ne sanno pronunciare alcune frasi, sono appena qualche decina nel mondo. Nella storia il primato spetta forse al cardinale italiano Giuseppe Mezzofanti (1774-1849, nel riquadro), insegnante di lingua araba, greca e lingue orientali all’Università di Bologna e custode della Biblioteca Vaticana. Si dice che parlasse “con rara bravura” settantotto lingue. Ma che cosa si intende per “parlare una lingua”? Rispondere è complicato ed è il motivo per cui i poliglotti stessi sono spesso restii a sbandierare il numero di lingue che conoscono, mentre preferiscono dire quante lingue parlano a livello di madrelingua, quante ne hanno studiate e quante ne usano regolarmente.
so muovere l’apparato fonatorio, i denti, la lingua e la bocca per produrre suoni in una lingua straniera quando mi viene chiesto di imitarli, donandomi quindi una buona pronuncia», dice Rampinini. Che aggiunge: «Il cervello è molto complesso, e il linguaggio lo sfrutta in tutte le sue potenzialità. Rimane vero che regioni frontali e temporo-parietali dell’emisfero sinistro sono le principali implicate nei compiti linguistici, ma se guardiamo al linguaggio nella sua globalità, come insieme di funzioni strettamente linguistiche (parlare e ascoltare, pronunciare e comprendere finemente) ma anche cognitive in senso lato (ricordare, fare attenzione, capire), allora dobbiamo considerare il cervello una struttura in cui un piccolo meccanismo non è mai isolato, ma serve a farne funzionare altri».
Motore Pi Potente
Ciò detto, i circuiti linguistici dei poliglotti potrebbero operare in maniera più efficiente rispetto a quelli delle persone “comuni”. In un esperimento in risonanza magnetica funzionale, Evelina Fedorenko, neuroscienziata del Language Lab del Mit a Boston ha trovato che, per analizzare la loro lingua madre, i poliglotti usano meno risorse neurali rispetto a chi parla soltanto una o due lingue. Una possibile ipotesi è che grazie all’esperienza accumulata con l’apprendimento di più lingue questa operazione richieda per loro uno sforzo minore. Ma potrebbero anche essere così “facilitati” da sempre. «Sarebbe importante capire se ciò si verifichi dalla nascita o se invece derivi dall’esperienza, ma per questo serviranno studi genetici e longitudinali (ossia che seguano le persone nel tempo)», dice Fedorenko. In realtà, quanto la genetica possa contribuire alle eccezionali abilità dei poliglotti è attualmente ignoto. «E ovviamente non conosciamo il ruolo che possono avere i singoli geni. In base alla mia esperienza, possiamo aspettarci un elevato livello di complessità e molti geni coinvolti», chiarisce Simon E. Fisher, direttore del Max Planck Institute for Psycholinguistics a Nimega (Olanda). Del resto esistono ragazzi dislessici che hanno iniziato a parlare un po’ più tardi (e quindi probabilmente non sono “facilitati” dai geni) che però parlano tranquillamente tre lingue perché vengono da coppie miste e vanno in una scuola dove la prima lingua è ancora diversa.
Ginnastica Cerebrale
Una certezza invece è che il multilinguismo mantiene giovani più a lungo, perché aiuta a ritardare i sintomi fisiologici dell’invecchiamento cerebrale: «È stato dimostrato che le persone multilingui tendono a presentare i sintomi della demenza mediamente cinque anni più tardi rispetto alla media. In uno studio canadese che ha seguito 619 suore in un convento (quindi persone che avevano vissuto nello stesso luogo e con stile di vita simile) per 30 anni è emerso che chi aveva una predisposizione genetica per alcuni tipi di demenza, la presentava comunque più tardi se a 20 anni aveva avuto buoni voti all’università ed era multilingue. Non solo: alcune abilità specifiche, tra cui competenze prettamente linguistiche (come la complessità delle idee espresse nei diari che le suore erano obbligate a tenere, o l’ampiezza del vocabolario utilizzato), tendono a far regredire i primi sintomi della demenza in una buona percentuale di persone (ben il 30% nel caso dello studio sulle suore). Sembra ormai accertato dunque che il multilinguismo aiuti a invecchiare più tardi», conclude Rampinini.