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LE CAMPIONESSE DELLA LIBERTÀ
GRAZIA LE CAMPIONESSE DELLA LIBERTÀ
alla notizia dell’ammissione di Laurel alla gara, le altre partecipanti hanno tenuto a sottolineare il suo vantaggio “biologico” nel gareggiare tra le donne, e non più tra gli uomini. Difficile di fronte a questa reazione non ricordare che uno degli stereotipi contro i quali le donne hanno dovuto combattere è stato quello della loro “naturale” diversità dal genere maschile, consistente nella loro presunta mancanza di competitività: come non leggere in questa reazione una forte competitività non solo con l’altro genere, ma anche tra donne? Certo i tempi sono cambiati e la competitività femminile può essere considerata come un adeguamento a una realtà non solo competitiva ma fortemente aggressiva, o anche come il frutto del processo di emancipazione femminile, ma così non è. Facendo un passo (un lunghissimo passo) indietro nel tempo si scopre che le donne non solo hanno praticato attività atletiche sin dall’antichità, ma erano competitive anche millenni or sono. Le prime prove risalgono infatti addirittura all’età Minoica, vale a dire al terzo millennio prima di Cristo, al quale va ricondotta una celebre immagine nota come l’Affresco del Toreador, che riproduce uno degli spettacoli che, sull’isola di Creta, si tenevano abitualmente nei grandi Palazzi dell’epoca, e che mostra un acrobata di sesso maschile che compie volteggi sul dorso di un toro, aiutato da due giovani donne. Evidentemente, dunque, le donne partecipavano ad attività acrobatiche anche rischiose. E passando a un’altra civiltà, in un’epoca molto più recente di quella minoica ma sempre lontanissima da noi, vale a dire quella romana, eccoci di fronte a un’inaspettata dimostrazione della competitività femminile: a Roma, infatti, nel primo secolo dopo Cristo, esistevano delle gladiatrici (cosa a pochi nota, ma storicamente certissima). Delle donne, dunque, che scendevano nell’arena a combattere nell’esercizio di un mestiere di rara violenza. Ma dove e come è nata, allora, l’idea della loro mancanza di competitività? È nata nella civiltà greca delle pòleis (delle “città-Stato”, ndr) per inchiodarle, in nome della loro “naturale” diversità, agli unici ruoli che quella per tanti aspetti grandissima civiltà riconosceva loro: la riproduzione e quella che oggi viene chiamata la cura, l’accudimento dei bambini, dei vecchi, dei malati, la sovraintendenza dei lavori domestici. Una concezione del femminile tramandata e recepita, nel mondo dell’atletica, al momento dell’organizzazione dei giochi olimpici moderni, nel 1896, che come quelli antichi non consentivano la partecipazione delle donne, ammessa solo a partire dalla seconda edizione, disputata a Parigi nel 1900 e destinata a trovare nuovi spazi grazie all’iniziativa di una sconosciuta atleta francese, di nome Alice Milliat. Lei prese caparbiamente a organizzare le donne in federazioni sportive e a promuovere competizioni di grande livello. Nel l922 ebbero un tale successo da minacciare di offuscare le Olimpiadi, che in quel momento faticavano ad affermarsi sul piano internazionale: di fronte al pericolo, il mondo supermaschilista decide di inserire nel programma dei Giochi delle competizioni femminili di atletica leggera. Una rivoluzione tradotta immediatamente nei numeri relativi alle presenze femminili. Se nelle prime edizioni dei Giochi si trattava di poche decine, ad Amsterdam 1928 le donne iscritte crebbero arrivando a contare ben 275 iscrizioni, ovvero il 10 per cento del totale dei presenti. Innescato da Milliat, il moltiplicatore ha continuato a promuovere l’attività femminile ed è così che negli Anni 70 le donne hanno toccato un dato numerico che non è solo simbolico: quota 1.000. E oggi? Oggi spesso sono le donne che portano in alto il prestigio sportivo italiano azzurro: Valentina Vezzali, la regina del fioretto mondiale che dopo aver vinto come nessun’altra nella storia olimpica della scherma ha assunto un importante ruolo politico, diventando Sottosegretaria allo Sport (vedi a pagina 99). E Federica Pellegrini che cercherà di allungare una carriera mitica, cominciata con l’argento ad Atene 2004 (vedi a pagina 52). È stata lei a vincere il primo oro femminile del nuoto italiano ai Giochi nel 2008, unica nella storia capace di salire sul podio mondiale per otto volte consecutivamente nella stessa gara (i suoi 200 metri stile libero): una longevità sconosciuta al mondo delle piscine. E, per finire, non è possibile non parlare della forza morale e del sorriso contagioso di Bebe Vio, campionessa paralimpica e mondiale di scherma, invincibile in gara nonostante l’amputazione di gambe e avambracci in seguito a una meningite fulminante che l’ha colpita a 11 anni. Il fioretto per lei è stato salvezza, riscatto, vita. E lei è un insegnamento di vita. ■
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L’idea che le ragazze non siano competitive è nata nell’antica civiltà greca per ridurle ai ruoli di riproduzione e di cura di piccoli, anziani, malati
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