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NEL PAESE CHE È PRONTO A SOGNARE

GRAZIA LAURA IMAI MESSINA

Èstato un anno lunghissimo, in cui è successa la metà delle cose che sarebbero dovute accadere e si è pensato il doppio delle cose che si sarebbero dovute pensare. Un anno in cui il riflettere ha preso a tutti gli effetti il sopravvento sul fare e siamo rimasti tutti, globalmente, a sognare che ogni cosa tornasse normale.

È stato un anno di compromessi, in particolar modo per il Giappone. I giapponesi conoscono la sfortuna proverbiale delle loro Olimpiadi: accadde con i Giochi estivi e invernali (rispettivamente a Tōkyō e Sapporo) nel 1940, a causa dello scoppio della Seconda Guerra

Mondiale. E adesso?

Lo scorso maggio ho preso il mio primo volo dopo un anno e mezzo di pandemia. Sono partita dall’aeroporto di Narita, in quella città incantata sempre piena di negozi in cui decine di migliaia di turisti si accaparrano ogni giorno l’ultimo pezzetto di Giappone da portare con sé per ricordare il viaggio straordinario appena fatto.

Eppure, questa volta, chi vi entrava scattava fotografie non al desk, ma per testimoniare, sbalordito, il vuoto, il bianco, il silenzio.

L’aeroporto si svelava a tutti gli effetti come un nonluogo, mentre oltre i finestrini immacolati del Narita

Express si dipanava una Tōkyō sempre attiva ma non in affanno, intimamente calma come è il cuore dei giapponesi. Eppure, a breve, i gate si animeranno di atleti e giornalisti, sistemi sofisticatissimi si attiveranno per evitare le code, gli assembramenti, vi si concretizzerà l’unione in un solo luogo della terra di decine di migliaia di persone provenienti da ogni parte del globo.

Ricordo ancora distintamente il giorno in cui vennero attribuite a Tōkyō le Olimpiadi del 2020. Ci fu lo scoppio e insieme le mani giunte, il capo chino, la posa fatta per spiegare al mondo la parola “omotenashi”, l’accoglienza declinata al giapponese, ovvero l’estrema cura, il garbo, l’esserci sempre, l’ammettere ogni errore e asperità con la dolcezza ferma di una cultura che non alza la voce se non per invitare alla gioia.

In Giappone lo sport è centrale almeno quanto lo è la musica, parte integrante dell’educazione. È un movimento generale a cui è stato dedicato persino un giorno di vacanza nazionale: “taiku no hi”, letteralmente il “giorno dell’educazione fisica”. L’obiettivo è quello di avvicinare la popolazione a uno stile di vita salutare.

Quest’anno, dopo essere convogliati tutti sul virus, la speranza è quella di convogliare globalmente sulle manifestazioni sportive. Di levarsi di dosso un po’ di tristezza. Durante la pandemia ha funzionato quella che viene definita in giapponese “dochō atsuryoku”, pressione di gruppo, ovvero quella pressione reciproca che gli individui esercitano gli uni sugli altri, di modo che non è mai necessario adottare misure coercitive o esercitare l’autorità per far sì che le persone rispettino le regole sociali. Questa forma di auto-disciplina ha evitato manifestazioni di isteria collettiva o di ipersensibilità, in tempi in cui i fattori economici legati al calo massiccio del turismo, allo spostamento eccezionale delle Olimpiadi, al taglio dei posti di lavoro e a un’ondata anomala di suicidi di celebrità in estate avevano già inciso sulla tenuta psicologica della popolazione. La resistenza dei giapponesi è proverbiale, ma all’estero sono arrivate voci di stanchezza e insofferenza: «Ma è vero che i giapponesi le Olimpiadi non le vogliono?» mi domandano spesso in questi giorni. È innegabile che l’ansia intacchi la gioia ma ormai è certo che si terranno e mi sento di poter garantire la riuscita al meglio, per l’indole di questo popolo che oscilla tra la positività intrinseca e un’accettazione ironica dell’inevitabilità della vita. “Pojitiibu” è la parola che traduce il termine inglese “positive”, il pensiero positivo. Nella conversazione giapponese, per il mantenimento dell’armonia, si tende fortemente a valorizzare il positivo. D’altra parte, puntella la conversazione giapponese un’altra espressione: “shiyōganai” che è un’espressione che si traduce come “non c’è niente da fare”, “non c’è modo”. Vi si spiega l’ineluttabilità di certe cose, la regola smarrita, l’invito a non disperdere energie su quanto è incontrollabile e ormai fuori dalla portata del nostro desiderio e del nostro dispiacere. Di parola in parola, insomma, si definisce l’atteggiamento con cui il Giappone guarda alle Olimpiadi e più in generale alla vita: positività, speranza, accettazione di quanto accadrà. Anni fa, in tv vidi il documentario di un’atleta giapponese, una maratoneta che scriveva ogni giorno sul suo taccuino una frase di ringraziamento per la medaglia che era certa avrebbe vinto durante le Olimpiadi di Londra, che sarebbero state inaugurate di lì a poco. Pur non conoscendo davvero gli esiti della gara, si nutriva nell’immaginazione della sensazione della vittoria e, investita dalla positività, riusciva a lavorare meglio. La felicità, insegna insomma il Giappone, è a tutti gli effetti un’intenzione. Ed è così che tutti stanno aspettando le Olimpiadi di Tōkyō 2020. ■

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22 La parola che meglio spiega lo stato d’animo dei giapponesi è “omotenashi”: significa accoglienza con il garbo e la dolcezza di un popolo che non alza mai la voce se non per invitare alla gioia

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