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MARCELL JACOBS «La vita
GRAZIA SPECIALE
Raggiungere “al volo” l’italiano più veloce della storia suona già come una bella sfida. Invece Marcell Jacobs, campione europeo indoor dei 60 metri piani e primatista nazionale dei 100 metri (corsi lo scorso 13 maggio al meeting di Savona in 9 secondi e 95 centesimi, infrangendo la barriera dei 10 secondi), è un ragazzo alla mano. Nato in Texas, a El Paso, 26 anni fa, da papà americano ex Marine e madre italiana, a quasi due anni, dopo la separazione dei suoi, si ritrova a Desenzano sul Garda, in provincia di Brescia. È lì che cresce e frequenta le scuole, accudito da mamma Viviana e dai nonni, in una casa affacciata sulle acque di una delle più famose “palestre di vela” del Nord Italia. Lui, invece, si innamora della pista di atletica.
La barca a vela non la attirava?
«Con l’acqua non ho un buon rapporto, ho fatto qualche uscita da bambino, ma sono anche caduto fuori bordo. No, non fa per me».
È stato lì che ha capito di avere una marcia in più nella corsa?
«Sono sempre stato molto veloce, fin dalle elementari, che ho frequentato dalle suore, a Desenzano. C’era questo cortile immenso, io me lo ricordo così, e noi bambini che, dopo pranzo, ci sfidavamo nei salti e nelle corse. Solo che i miei compagni dopo un po’ mi escludevano: “Vinci sempre tu, non c’è gusto”. E a me toccava stare a guardare. Un po’ ci soffrivo, ma è stata un’esperienza formativa, che mi ha fatto venire voglia di vincere: ho promesso a me stesso che non sarei mai più stato in panchina».
Si sentiva diverso rispetto ai compagni?
«La consapevolezza di essere diverso è legata alle mie origini miste ed è arrivata prima: a scuola ero l’unico bambino di colore. I compagni mi chiedevano: “Perché tu sei nero, se la tua mamma è bianca?”. E poi, a differenza degli altri, io non avevo un padre. Lui era in America, non avevamo nessun rapporto, così se a scuola mi chiedevano qualcosa, inventavo un sacco di storie mescolando verità a immaginazione, volevo che mio padre apparisse come un eroe».
Quando ha cominciato a fare sport?
«Presto, avrò avuto 8 anni e, come tanti bambini, ho iniziato dal calcio. Mi piaceva, anche se non ero particolarmente dotato: correvo forte ma non controllavo la palla. Poi un giorno, in partita, ho corso per tutta la fascia, tenevo la palla, nessuno è riuscito a prendermi. Correvo, correvo e ho fatto un gol strepitoso. Ero felicissimo. Ma sa che cosa mi ha detto l’allenatore? “Tu devi fare atletica”. Aveva ragione lui».
Così, a 9 anni, ha infilato le scarpette e assaggiato tutte le specialità: dal lancio del vortex al salto in alto, dalle corse campestri al salto in lungo, dove ha subito stravinto, fino ai 100 metri piani. Tutto talento o anche impegno?
«Allora no, vincevo facilmente e non mi impegnavo più di tanto, non avevo molta voglia di allenarmi. Ero un po’ pigro, prendevo le cose alla leggera: avevo la scuola, gli amici e lo sport dove arrivavo primo senza fatica, insomma facevo le cose a metà. Ho cominciato a impegnarmi sul serio più tardi, quando sono diventato padre per la prima volta».
Velocista anche in quello. Quando è nato suo figlio Jeremy aveva solo 19 anni.
«Eh sì, ero giovane. Una paternità improvvisa, non voluta. Ero diventato professionista da poco nelle Fiamme Oro, per la prima volta ero pagato per fare l’atleta, mi allenavo ogni giorno e l’arrivo di Jeremy mi ha obbligato a diventare più responsabile. Con la mia compagna di allora ci siamo lasciati, non abbiamo più alcun rapporto e anche per questo ho un po’ trascurato mio figlio. Adesso è diverso, con Nicole, la mia compagna, e con i nostri due bambini, Anthony, 2 anni, e Meghan, 7 mesi, ho una relazione molto più stabile e serena. Il lockdown poi ci ha uniti ancora di più: abbiamo condiviso tantissime cose, mi allenavo in una pista davanti a casa, da un amico di famiglia, ma poi stavo tutto il tempo con Nicole e i bambini».
A quando le nozze?
«Dopo le Olimpiadi, ormai l’ho detto e non posso più tornare indietro (ride, ndr), ma non le ho ancora fatto la proposta e mi sto organizzando per farlo in grande stile».
Ha trovato la forza di riallacciare i contatti con suo padre. Qual è stata la molla che le ha fatto venire voglia di cercarlo dopo tanti anni?
«È stata una decisione recente e in questo mi ha aiutato molto il lavoro con la mental coach che mi segue da un anno, un percorso iniziato perché tutti vedevano in me un grande talento che però non era sostenuto dalla testa: mi mancava il giusto atteggiamento mentale. Dall’agosto dell’anno scorso ho cominciato a lavorare con lei e, pian piano, ho capito che mettere da parte i problemi non serve, che devo essere responsabile delle mie cose, occuparmene e,
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