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PIETRO FIGLIOLI «È da

È DA SEMPRE CHE INSEGUO L’ORO

PIETRO FIGLIOLI è nato in Brasile, è passato per il Canada, poi ha ottenuto la cittadinanza per giocare nella nostra Nazionale di pallanuoto. Con gli azzurri ha già vinto un argento e un bronzo olimpici, e ora che è capitano vuole il gradino più alto del podio

di ENRICA BROCARDO

Èpraticamente un veterano dei Giochi olimpici il capitano del Settebello, la nazionale di pallanuoto maschile. Per Pietro Figlioli, 37 anni, nato in Brasile, cittadinanza prima canadese, quindi italiana dal 2009, quella di Tokyo è la terza partecipazione, dopo un argento a Londra nel 2012 e un bronzo a Rio de Janeiro nel 2016.

Questa sarà un’edizione molto particolare.

«Sarà unica. I protocolli di sicurezza dovuti alla pandemia sono molto rigidi. Noi atleti avremo pochissime libertà».

Anche suo padre è stato un atleta olimpico. Un nuotatore, però.

«Sì, ha partecipato a tre Olimpiadi, nel 1968, 1972 e 1976. Non ero ancora nato, ma è per lui se fin da piccolo ho frequentato la piscina. A 4 anni mi hanno buttato in acqua e fino a 12 ho fatto nuoto agonistico. Forse il mio talento è in parte genetico».

Perché ha scelto la pallanuoto?

«Guardare il fondo della piscina e contare le piastrelle dopo un po’ diventa pesante. Mi annoiavo. Nel nuoto sei tu contro un cronometro, mentre nella pallanuoto è la tua squadra contro quella avversaria. Non è solo una questione di prestazioni fisiche e tecniche, ma anche tattiche».

Nel 2009 ha ottenuto la cittadinanza perché i suoi bisnonni erano italiani. Di dove?

«Dal lato paterno erano abruzzesi, di Tortoreto, in provincia di Teramo, e toscani, di Lucca. Mentre, da quello materno, provenivano da Comacchio, in Emilia Romagna. Un misto».

In famiglia si percepivano queste radici ?

«Il mio papà si è sempre sentito un po’ italiano e mi parlava delle sue origini. Io, da ragazzo, onestamente, non ci ho mai prestato grande attenzione. Fino a quando sono venuto a giocare in Italia».

Con il Brasile dove è nato ha qualche tipo di legame?

«Avevo 4 anni e mezzo quando siamo andati a vivere in Australia. Sono tornato quattro volte, ma una è stata

94 nel 2016 a Rio de Janeiro per i Giochi e non ho avuto tempo per andare in giro a fare il turista. Abbiamo ancora qualche parente che vive lì, zii e cugini di mamma, ma li conosco poco».

Nel 2006 si autocandidò alla squadra Pro Recco di cui, ancora oggi, è il capitano. Un comportamento insolito.

«Non l’ho fatto per passare nella squadra che era campione d’Italia. Volevo crescere come atleta, allenarmi con grandi campioni. Ho avuto ragione: quella scelta mi ha permesso di migliorare enormemente in pochissimo tempo».

È risaputo che nella pallanuoto i contatti fisici sotto la superficie dell’acqua sono piuttosto rudi. Un po’ di “cattiveria” fa parte delle qualità necessarie per essere un campione?

«Se intendiamo cattiveria agonistica, sì. Qualche colpo un po’ duro può capitare, ma con la prova televisiva, oggi, a giocare scorretto si rischia di più».

È vero che sua moglie non è contenta della sua carriera sportiva?

«In effetti non stiamo più insieme e una delle ragioni sta proprio nel mio lavoro. Lo sport porta via tanto tempo, immagino che per lei non sia stato facile crescere due figli con un marito spesso lontano».

Quanti anni hanno i suoi figli?

«Nove e sei».

Sono già in piscina?

«Il grande sì, ma, in realtà, ama soprattutto la pallacanestro. Il piccolo per ora sa solo galleggiare. Non voglio obbligarli a fare nulla: nuoto o sport in generale».

Vale la pena sacrificare le relazioni familiari per essere un campione?

«Temo non ci sia altra scelta. Alla lunga l’agonismo può essere emotivamente faticoso. Ma se ti metti con un atleta dovresti sapere a che cosa vai incontro».

Per lei potrebbe esserci un’altra Olimpiade dopo Tokyo?

«Non lo escludo affatto. Anche perché, in piscina, mi sento ancora come un bambino al luna park». ■

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