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METTI un ribelle a CENA
piatto ricco. Infatti in poche ore questa divenne la notizia del giorno grazie alla caustica penna di Charlotte Curtis, la cronista mondana del New York Times, che aveva già “sistemato” Truman Capote e il suo leggendario Black and white ball del 1966, con i Kennedy, Frank Sinatra e Mia Farrow in maschera.
LA POLEMICA. “Eccoli lì, le Pantere nere del ghetto e i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si studiavano cautamente tra gli arredi costosi, le elaborate composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d’argento di tartine”, scrisse la Curtis (The New York Times, 15 gennaio 1970) suscitando un vespaio di critiche. Il giornale rincarò la dose nell’editoriale del 16 gennaio, dove si condannavano le Panthers e i Bernstein per aver minato gli sforzi di chi lavorava seriamente per i diritti civili: “L’emergere delle Black Panthers come beniamini romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla maggior parte dei neri americani. [...] La terapia di gruppo più la serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein [...] rappresentano il tipo di elegante baraccopoli che degrada allo stesso modo i mecenati e i destinatari della loro beneficenza. [...] Ciò è una presa in giro dell’eredità di Martin Luther King Jr”
Tanto astio si doveva al fatto che gli invitati non erano così popolari nella società americana dell’epoca: anche i giornali più progressisti ritennero imperdonabile che 90 persone del jet set si fossero riunite a sostegno delle famiglie dei Panther 21, arrestati il 2 aprile 1969 e accusati di aver cospirato per uccidere agenti e colpire i distretti di polizia, i grandi magazzini e altri edifici pubblici. Non un gran biglietto da visita per un dinner party a Park Avenue. Tanto più che il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover aveva definito il Black Panther Party “la più grande minaccia alla sicurezza interna del Paese”. È vero però che i Panther 21 (tanti erano i membri del gruppo) erano stati tenuti in prigione per nove mesi, molti con una cauzione di 100mila dollari, cifra impossibile da pagare, senza un processo e senza poter preparare una difesa adeguata. Sembrava proprio che i federali si fossero impegnati nel dare una lezione al movimento con una detenzione politica preventiva. Per questo, nell’attesa di un giusto processo, un gruppo di newyorkesi aveva istituito un fondo per sostenere le spese legali e assistere le famiglie degli imputati. Quella cena serviva a finanziarlo.
Leonard Bernstein spiegò in seguito di essere arrivato in ritardo da una prova del Fidelio di Beethoven e di essersi unito alla discussione. Alla fine della serata furono raccolti 10mila dollari. Quasi. Un po’ pochino per tutte quelle lettere di insulti e minacce di morte che continuarono ad arrivare all’indirizzo di Leonard Bernstein e della moglie.
I Bernstein passarono i mesi successivi a rilasciare dichiarazioni che, invece di spegnere la polemica, la alimentarono. Felicia scrisse immediatamente una lettera al Times, che però fu pubblicata con giorni di ritardo: “Come libertaria civile, ho invitato un certo numero di persone a casa mia il 14 gennaio per ascoltare l’avvocato e altri coinvolti con i Panther 21, discutere il problema delle libertà civili applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a raccogliere fondi per le loro spese legali [...]. Fu per questo scopo profondamente serio che si tenne il nostro incontro. Il modo frivolo in cui è stato riportato come un evento
‘alla moda’ è indegno del Times e offensivo per tutte le persone che credono alla giustizia”.
Ma ormai i media ironizzavano
Tom Wolfe e il New journalism
l radical chic, dopotutto, è solo radicale nello stile; nel suo cuore fa parte della società e delle sue tradizioni”. Questo pensava Tom Wolfe dell’intellighenzia newyorchese che aveva bastonato nel suo articolo. Lo ripubblicò, insieme a un altro pezzo, nel libro Radical Chic and Mau-Mauing the Flak Catchers (traducibile più o meno “ maumauizzando i parapalle”, con un’allusione ai Mau-Mau, movimento nazionalista del Kenya). Il secondo saggio raccontava come ai programmi sociali messi in piedi dalla municipalità di San Francisco la comunità nera rispondesse con minacce per ottenere sempre di più. Certo non si può dire che Tom
Wolfe si preoccupasse troppo di essere politicamente corretto. Il successo. Nella sua veste (spesso bianca e di taglio sartoriale) di alfiere del New journalism, che aveva fondato nel 1973, mirava a introdurre nel giornalismo elementi di narrazione. Prima inventò il romanzo-reportage, commistione di letteratura e giornalismo in cui accompagnava il lettore sul luogo dove i fatti accadevano, per farglieli osservare come da una telecamera. Poi passò direttamente alla fiction pubblicando il romanzo di enorme successo Il falò delle vanità (1987), portato al cinema da Tom Hanks. Qualcuno ha scritto che Wolfe ha registrato in una “prosa sgargiante” il crollo della civiltà occidentale. Di certo trovava molto divertente lo spettacolo di decadenza del suo mondo newyorchese e sapeva raccontarlo con uno stile pirotecnico.
Pugno levato Manifestazione nella California del 1970, a sostegno delle Black Panthers. A destra, la copertina dedicata al pezzo di Wolfe sulla cena dai Bernstein.
Protesta New York, 1970: corteo di protesta contro la carcerazione preventiva delle Pantere accusate di tentato omicidio. A sinistra, Tom Wolfe su tutto: in special modo sul presidente Nixon, seduto nello Studio Ovale che fumava e biascicava critiche ai “ricchi barboni snob”, mentre leggeva che anche l’aristocratica ereditiera Astor era tra gli ospiti o che la bionda moglie di un altro direttore d’orchestra era entusiasta e chiocciava: “Non ho mai incontrato una pantera, questa è la prima per me”
IO NON C’ERO. La situazione si fece pesante: Brooke Astor si affrettò a informare il New York Times che lei al party non c’era, anche se aveva ricevuto un invito, come tutti del resto. Perché di quelli che contavano non mancava nessuno: i registi Otto Preminger e Sidney Lumet con signora, la star del giornalismo Barbara Walters, la moglie del fotografo Richard Avedon, la moglie del regista Arthur Penn, la moglie del cantante Harry Belafonte. Poi ovviamente c’erano i membri del Black Panther Party – Robert Bay, Donald Cox e Henry Miller – e le compagne di alcuni imputati. La stampa non fu invitata, ma Charlotte Curtis e Tom Wolfe riuscirono a imbucarsi.
Quest’ultimo pubblicò il suo articolo, dal titolo Radical Chic: That Party at Lenny’s, solo l’8 giugno, senza lesinare in sarcasmo. La sua descrizione delle Pantere nel duplex di Park Avenue, “con il cappotto di pelle nera e gli occhiali scuri e l’incredibile pettinatura afro in scala Fuzzy Wuzzy” (cioè, crespi) oggi non supererebbe il vaglio dei sostenitori della diversity. E ancor più grave suonerebbe quel modo di chiamare gli afromaericani con il termine “negro” (così nel testo) che allora, invece, era normale. Tom Wolfe ci costruì una carriera e il suo modo di deridere la ricca élite bianca che si divertiva ad abbracciare cause sociali radicali fece in qualche modo scuola. Raccontò di camerieri bianchi che servivano radicali neri, di ricchi newyorchesi che si sentivano chic per il fatto di intrattenersi con gli estremisti, usò il termine party (festa) per alludere al party (partito) dei Bernstein, li dissezionò fino a ritrarre il padrone di casa come “il Grande Interruttore, l’Imbonitore del Village”, colui che “parlava jive con le funky Black Panthers”. Bisogna dire che Wolfe era davvero bravo. Ti rovesciava addosso qualunque cosa, ma con maestria. Non è facile dare della vecchia carampana a qualcuno senza farlo. La sua descrizione della padrona di casa, ex attrice, era al curaro: “Felicia è notevole. È bellissima, di quella rara bellezza brunita che dura negli anni. Ha una voce ‘teatrale’, per usare un termine della sua giovinezza. Saluta le Black Panthers con la stessa piega del polso, la stessa inclinazione della testa, la stessa perfetta voce di Mary Astor con cui saluta [...] durante quelle cene aprèsconcerto per cui lei e Lenny sono così famosi”
ODIATORI. Ma il tocco più velenoso Wolfe lo usò per far notare il contrasto tra gli invitati e l’ambiente: “E ora, nella stagione del Radical Chic, le Black Panthers. Quella gigantesca pantera lì, quella a cui Felicia sta sorridendo con il suo sorriso da tango, è Robert Bay, che solo 41 ore fa è stato arrestato in un alterco con la polizia, presumibilmente per un revolver calibro 38 che qualcuno aveva, in un’auto parcheggiata a Queens tra Northern Boulevard e 104th Street o in un posto altrettanto incredibile, e portato in prigione con un’accusa molto insolita [...] E ora è uscito su cauzione ed entra nell’attico duplex di 13 stanze di Leonard e Felicia Bernstein su Park Avenue. [...] Sono reali, queste Black Panthers. L’idea stessa di questi veri rivoluzionari, che in realtà mettono le loro vite in pericolo, attraversa il duplex di Lenny come un ormone ribelle”
Tutto questo clamore aizzò gli odiatori, ma anche la critica legittima di chi, come la Jewish Defense League, protestava contro il presunto “appoggio” di Bernstein alle Pantere, note per il loro antisionismo. Il musicista, che era ebreo, dovette difendersi. In un’intervista a Londra Bernstein fu costretto a ribadire che lui non appoggiava niente di tutto questo: “Non è facile discernere una filosofia politica coerente tra le Black Panthers, ma è ragionevolmente chiaro che stanno sostenendo la violenza contro i loro concittadini, la caduta di Israele, il sostegno di Al Fatah e altre attività altrettanto pericolose e mal concepite. A tutti questi concetti sono vigorosamente contrario e combatterò contro di loro il più duramente possibile”. Ormai si scusava anche in trasferta.
IL SOSPETTO. Resta da registrare che, probabilmente, quelle lettere di protesta contro i Bernstein non erano il parto genuino di qualche svalvolato. Lo dirà anche il direttore d’orchestra, anni dopo: “Ho prove sostanziali ora a disposizione di tutti che l’Fbi cospirò per fomentare l’odio e il dissenso violento tra i neri, tra gli ebrei e tra i neri e gli ebrei. La mia defunta moglie ed io eravamo tra i tanti bersagli usati a questo scopo”. Bernstein aggiunse che quella sera del 1970 “non c’era stato né un party né un