Focus Storia Wars Speciale - Speciale Soldati vol. 2 - Marzo 2019

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SOLDATI

GLI SPEC.DI FOCUS STORIA N.01/2019 - 26 GENNAIO 2019 - NON VENDIBILE SEPARATAMENTE DAL NUMERO DI FOCUS STORIA IN EDICOLA, *PREZZO RIVISTA ESCLUSO

SPECIALE VOL.2

MARZO 2019

€ 6,90*

DAI TEMPLARI AI COMMANDOS LE ARMI E LE UNIFORMI DI RAIDERS, CONQUISTADORES E FANTI DI OGNI EPOCA, CON GLI ELEFANTI DA GUERRA E I GUERRIERI GIAGUARO


UNIFORMI ED EQUIPAGGIAMENTI 6 12 18

IV secolo a.C. -XIX secolo AFRICA E ASIA VII-XVIII secolo ITALIA IX-XX secolo RUSSIA

22 24 30 32 40

XIII secolo EUROPA XI-XVI secolo EUROPA, MEDIO ORIENTE XVI secolo EUROPA XVI secolo AMERICHE XV secolo ASIA

42 48 54 60 68 70 78 80 82 92

XVIII secolo EUROPA XIX secolo ITALIA XIX secolo EUROPA XIX-XX secolo AFRICA XX secolo EUROPA XX secolo LA GRANDE GUERRA

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Pittori di battaglie

XX secolo EUROPA XX secolo EUROPA XX secolo REPARTI SPECIALI Ieri e Oggi VITA MILITARE

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IV SECOLO A.C-XIX SECOLO AFRICA E ASIA

PRIMA DEI TANK E DELLE ARMI TECNOLOGICHE, A SCOMPIGLIARE LE FILE NEMICHE C’ERANO LORO

ELEFANTI DA GUERRA

IV-III SECOLO A.C. ELEFANTE INDIANO DELL’ESERCITO SELEUCIDE

Alessandro Magno fu il primo generale occidentale a scontrarsi con una divisione di elefanti, quella del re indiano Poro alla battaglia dell’Idaspe. Da allora i pachidermi divennero parte degli eserciti ellenistici seguendo i Diadochi, i generali di Alessandro, nei loro regni mediterranei. Gli animali erano bardati con armature in bronzo per renderli spaventosi alla vista e resistenti ai colpi; le torrette in legno protette da scudi bronzei potevano ospitare 3 o 4 guerrieri con armi da lancio e lunghe sarisse (aste).

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n epoche premoderne, nulla come l’elefante rappresentava la forza grandiosa della natura prima di quella fredda e spietata della tecnologia, o riusciva a vincere il terrore che incuteva la carica di questi giganti maestosi. Già in piena Età del bronzo (III millennio a.C.), nella valle dell’Indo l’uomo era in grado di domare gli elefanti: giganteschi come dèi ma placidi e intelligenti, divennero indispensabili per i lavori più duri e per definire lo status delle classi dominanti. Sempre in India, i pachidermi vennero usati per la prima volta a fini militari: le loro unità erano la chiave vincente di ogni battaglia. Antichi manoscritti in sanscrito ne tratteggiano i lineamenti: “La vittoria dei sovrani dipende soprattutto dagli elefanti. Immensi, addestrati a uccidere, travolgono interi battaglioni, fortificazioni e accampamenti militari nemici”.

Spaventavano. Massa d’impatto, erano anche potenti armi psicologiche, perfette per suscitare il panico tra gli avversari, soprattutto tra chi li fronteggiava per la prima volta. L’elefante poteva però diventare un’arma a doppio taglio: privato del suo addestratore, il mahut, con il quale aveva un rapporto simbiotico, il pachiderma perdeva ogni controllo e cominciava a vagare feroce e impazzito per il campo di battaglia, travolgendo amici e nemici. Considerati “pari del re”, vennero portati in Occidente dai successori di Alessandro Magno, diventando il simbolo militare del periodo ellenistico, dei Cartaginesi e della parabola di Annibale. Ammirati e temuti dai Romani, rimasero per tutto il Medioevo il simbolo dei monarchi orientali: Sassanidi, Musulmani, Khmer, Thailandesi, Mongoli e Moghul, fino all’età moderna. d Giorgio Albertini

V-IV SECOLO A.C. ELEFANTE DA GUERRA INDIANO

In età classica l’elefante era una delle parti integranti degli eserciti indiani, anzi era la prima linea, il baricentro da seguire per il resto delle truppe. L’animale ideale doveva avere intorno ai 60 anni, l’età giusta per esperienza e autocontrollo. L’attrezzatura principale consisteva in una hatthatthara, una coperta pesante, spesso imbottita, assicurata al pachiderma con grandi corde. Campane e ornamenti di cuoio e oro ne arricchivano l’aspetto. L’equipaggio era composto da 2 o 3 guerrieri armati di archi, giavellotti, lance e picche.

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CONQUIST

XVI SECOLO AMERICHE

ECCO GLI EQUIPAGGIAMENTI E LE VARIOPINTE TENUTE CON LE QUALI SI AFFRONTARONO SPAGNOLI E INDIGENI NEL NUOVO MONDO

1570-85 CAVALIERE SPAGNOLO ALLA FRONTIERA CHICHIMECA

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L’illustrazione rappresenta un cavaliere schierato negli anni ’80 del XVI secolo sulla frontiera settentrionale della Nuova Spagna. L’esigenza protettiva di questi cavalieri e delle loro cavalcature era tutta verso le frecce degli indiani Chichimechi, che opponevano una strenua resistenza contro gli occupanti spagnoli. Sopra una cotta di maglia e un bracciale metallico si indossava una protezione trapuntata in cotone, uguale per il cavaliere e per la sua cavalcatura. Anche le braghe erano trapuntate e coperte in parte da alti stivali. Il capo era difeso da un elmo in uso all’epoca, un morione tondo.


ADORES e guerrieri nativi AMERICANI Q

GUERRIERO TUPINAMBA

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Cinquecento i portoghesi e i francesi si scontrarono per il possesso di territori sulla costa brasiliana. Entrambe le parti usarono come ausiliari i guerrieri delle tribù locali: Tupi e Tupinamba. Questi uomini, estremamente bellicosi tra di loro, indossavano l’enduap, un ornamento in piume di nandù (grandi uccelli simili agli struzzi) infisse in una palla di gomma. Le loro armi principali erano le mazze in legno e i grandi archi in legno a sezione pianoconvessa, tirati da una corda in fibra di palma e utilizzati con frecce dalle punte di osso.

uando all’inizio del XVI secolo la definizione di un nuovo territorio mai esplorato e neanche mai immaginato diede coscienza alle monarchie e agli imprenditori commerciali europei delle infinite nuove potenzialità di guadagno e di conquista, si scatenò una corsa per accaparrarsi territori e beni del nuovo continente, l’America. In poche parole si raggiunse il Nuovo Mondo per fare fortuna, per diventare ricchi. La chiave principale di questa tensione fu la superiorità militare tecnica e tattica degli europei. I protagonisti di questa avventura geografico-militare li definiamo proprio con il termine generico spagnolo che ne esplicita la rapacità di conquistatori: conquistadores. In un primo momento a questi uomini era bastato strappare i bottini agli indigeni che incontravano durante le missioni di scoperta. Soprattutto l’oro rappresentava la preda più ambita. Successivamente, con la scoperta delle grandi civiltà continentali, come Aztechi e Incas, si innescò un sistema coloniale che prima di allora mai l’umanità aveva conosciuto. Pietra contro metalli. A questo grande slancio di conquista parteciparono soprattutto le monarchie europee. Ben presto si capì, però, che le condizioni ambientali dell’America, soprattutto nelle sue aree equatoriali, imponevano di adeguare vestiario ed equipaggiamento. I soldati e gli eserciti nelle Americhe abbandonarono quindi le grandi armature che si usavano ancora nel vecchio continente per un abbigliamento più leggero, che permettesse di muoversi con agilità. Anche le armi arcaiche dei nativi americani, soprattutto la totale mancanza di metalli pesanti, influirono nell’abbandono di un sistema di difesa esagerato e inutile di fronte a frecce, bastoni e pugnali di ossidiana. Ai conquistadores furono sufficienti archibugi e cavalli per mandare in rotta gli eserciti indigeni ma, più ancora, bastarono i batteri e i virus portati dall’Europa per spazzare via civiltà complesse e millenarie. d Giorgio Albertini

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XIX SECOLO ITALIA

L’ESERCITO BORBONICO

1817-1860: LE DIVISE VIVACI ED ELEGANTI DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

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struita e molto bella”. Il generale fancese Oudinot definiva così nel suo scritto del 1835 De l’Italie e de ses forces militaires l’armata borbonica. L’esercito del Regno delle Due Sicilie era dotato di uniformi raffinate, derivate da un mix di influenze differenti. La storia. Fin dalla creazione di uno Stato indipendente, avvenuta nel 1734, le truppe del Regno di Napoli furono fortemente influenzate nell’organizzazione, nell’armamento e nel vestiario dagli eserciti delle maggiori potenze dell’epoca. Molto forte fu l’ascendente di Spagna e Francia, dati i legami dinastici che intercorrevano fra i Borbone di Napoli e i sovrani di queste nazioni. Successivamente, dopo la breve esperienza della Repubblica napoletana nel 1799 e la conseguente invasione francese, le truppe campane cambiarono pelle nel corso del periodo napoleonico sotto la guida del loro re, il maresciallo dell’impero Gioacchino Murat. Nel 1816, con la Restaurazione, il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia (che era rimasto fedele ai Borbone ma indipendente dalla Francia) furono nuovamente riuniti e fusi in un unico organismo statale: il Regno delle Due Sicilie. Cambiamenti. Le esperienze delle guerre napoleoniche portarono una ventata di novità nell’ambito dell’uniformologia. Ai tradizionali modelli spagnoli e francesi si aggiunsero quelli inglese e austriaco. L’Inghilterra si era fatta garante con la sua flotta dell’indipendenza del Regno di Sicilia, equipaggiando le forze armate fedeli alla dinastia. L’influenza austriaca, invece, divenne forte dopo che un’armata imperiale fu inviata per rimettere sul trono i Borbone. I moti carbonari del 1821, con la rivolta del generale Guglielmo Pepe (appoggiato da buona parte dell’esercito) e la conseguente epurazione degli elementi ex-murattiani, misero in profonda crisi l’esercito borbonico. Ma nel corso degli anni ’30 le forze armate napoletane furono gradualmente riformate, fino a ottenere notevoli successi nel 1848 contro le forze secessioniste del Regno di Sicilia. Gli ultimi anni di storia dell’armata del sud si caratterizzarono per un lento ma inesorabile declino, evidente anche nell’arretratezza delle uniformi indossate dai soldati borbonici nella campagna contro Garibaldi del 1860. d Gabriele Esposito. Illustrazioni di Giorgio Albertini

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1817 CACCIATORE ALBANESE

Gli albanesi servirono per decenni nelle file dell’esercito borbonico: un primo Battaglione “Macedone” fu formato sin dal 1735, divenendo poi Reggimento “Real Macedonia”. L’unità qui rappresentata venne formata nel 1796 e poi sciolta nel 1812. Riformato nel 1817, il Battaglione “Cacciatori Albanesi” fu definitivamente sciolto nel 1820 a causa dei moti costituzionali. Il copricapo (qeleshe), la gonna (fustanella), i pantaloni profilati e le scarpe (opinga) sono tutti elementi provenienti dal costume tradizionale albanese. Il fucile rivela una chiara origine balcanicoottomana, mentre la sciabola è di provenienza inglese.


1820 BERSAGLIERE

Per emulare le eccellenti unità inglesi di fanteria leggera, i Rifles, l’esercito delle Due Sicilie si dotò di unità indipendenti, i Battaglioni Bersaglieri. Pertanto furono adottati molti elementi di vestiario tipici del Royal Army: l’influenza è evidente nella giacca verde con alamari e shoulder rolls (le caratteristiche spalline arrotondate) di color nero, ma anche nel copricapo e nell’armamento (una carabina Baker da fanteria leggera).

1821 DRAGONE

Nato il Regno delle Due Sicilie, le vecchie uniformi murattiane (seppur con la coccarda borbonica) rimasero in uso insieme con quelle in stile inglese delle unità del Regno di Sicilia. I dragoni della cavalleria di linea avevano divisa blu scuro con mostre rosse, tranne il Reggimento “Dragoni Ferdinando”, in verde scuro con mostre gialle. L’elmo è di influenza austriaca, la spada è il modello francese 1786 per gli ufficiali di cavalleria pesante.

1821 CACCIATORE ABRUZZESE

Nel 1820 buona parte dell’esercito borbonico si schierò con Guglielmo Pepe e gli ufficiali ex-murattiani promotori dei moti carbonari. Al loro fianco ci furono unità di Guardie nazionali e di regolari, ma anche volontari, come questo Corpo franco di cacciatori (fanteria leggera) formato da 300 montanari abruzzesi. Si notino il taglio “civile” dell’uniforme e i tre pennacchi rosso, blu e nero, i colori distintivi della Carboneria.

1822 GRANATIERE DELLA GUARDIA REALE

Come per tutti i reparti della Guardia, i colori principali erano il rosso e il blu. Il primo sergente mostra poi gli aspetti peculiari della specialità: il berrettone di pelo (con placca frontale recante una granata fiammeggiante) e la gallonatura in bianco su colletto, polsini e parte frontale. Il taglio e il rosso sono di chiara influenza inglese, come le spalline “a nido di rondine”. Nel 1833 anche i Granatieri della Guardia adottarono il blu scuro.

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COMM

XX SECOLO REPARTI SPECIALI

AGILI E CATTIVI: I PRIMI RAIDERS ENTRATI IN AZIONE DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE DOVEVANO AVERE QUESTE CARATTERISTICHE. DA ALLORA SI SONO EVOLUTI IN UNITÀ MILITARI DI ALTISSIMA SPECIALIZZAZIONE

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ell’ora più buia, quando il nemico sembra vicino alla vittoria, bisogna dimostrare di essere vivi. Occorre usare intelligenza e audacia; trovare idee nuove per superare difficoltà enormi. Inventare, osare. Di fronte al gigante Golia era necessario riscoprire le virtù di Davide. Il 4 giugno 1940, ultimo dei nove giorni dell’Operazione Dinamo (l’evacuazione del corpo di spedizione britannico dalle spiagge di Dunkerque), il tenente colonnello Dudley Clarke – assistente del capo di Stato maggiore John Dill – prese carta e penna e stilò un memorandum per proporre la costituzione di unità d’assalto speciali. Quattro giorni dopo l’idea fu approvata dal primo ministro, Winston Churchill, da sempre favorevole a sperimentare unità e tattiche non convenzionali. Churchill pose una sola condizione: che nessun reparto esistente fosse distolto dai propri compiti specifici, perché l’invasione tedesca poteva cominciare in qualsiasi momento. Per il resto Clarke avrebbe avuto carta bianca per formare i suoi “commandos”. Il nome aveva una storia, di cui proprio Churchill era stato testimone nei suoi anni giovanili: durante la Seconda guerra anglo-boera i coloni afrikaaner che avevano combattuto l’esercito britannico si erano organizzati in unità mobili denominate appunto “kommandos”. L’idea di Clarke era simile: sarebbero stati formati reparti scelti, di consistenza numerica limitata ma capaci di operare autonomamente, che avrebbero fatto della rapidità nel colpire – e possibilmente dileguarsi pri82

ma di essere agganciati dalle forze superiori del nemico – la loro arma vincente. Con una caratteristica specifica, vista la situazione strategica contingente: si sarebbero specializzati nel condurre operazioni di assalto anfibio, dal momento che nell’estate del 1940 buona parte d’Europa, dalla Norvegia ai Pirenei, era in mani tedesche. «Datemi gli uomini migliori». I commando, in realtà, sono sempre esistiti, scelti tra i migliori elementi disponibili: lean and mean, come dicono gli inglesi, ovvero snelli, agili e cattivi. In tutti gli eserciti e in ogni epoca sono stati selezionati gli uomini migliori per portare a termine colpi di mano, incursioni oltre le linee nemiche, o missioni difficili e rischiose; la genialità di Clarke e Churchill fu quella di trasformare un uso comune ma estemporaneo in un’istituzione permanente, per di più nel momento di maggior difficoltà, intuendo le grandi possibilità strategiche dei commando. Bisognava dimostrare alla propria gente e al mondo intero che l’Inghilterra non accettava passivamente la sconfitta: per farlo era necessario attaccare con audacia, compiendo azioni utili a essere propagandate come prova di coraggio e volontà di resistere allo strapotere nemico. Ci volevano gli uomini adatti. Nel bando del giugno 1940 in cui si chiedevano volontari per “un servizio speciale di natura rischiosa” venne specificato che i candidati dovevano “essere di costituzione robusta, abili nel nuoto, e del tutto immuni dal mal di mare”; inoltre dovevano possedere “coraggio, resistenza fisica, spirito d’iniziativa e

ingegnosità; dinamismo, precisione nel tiro, fiducia nelle proprie capacità e spirito bellico aggressivo”. Clarke stava chiedendo ai reparti della British Army gli uomini migliori. Nel giro di poche settimane vennero formati un centinaio di troops – una sorta di plotoni – ciascuno su un organico di 3 ufficiali e 47 uomini, designati con lettere dell’alfabeto; 10 troops costituivano un commando, a sua volta distinto da un numero progressivo. Prima della fine di giugno il Commando n. 3 era riunito a Plymouth, e diciannove giorni dopo la formazione delle nuove unità d’assalto venne tentata la prima puntata oltre la Manica. La lotta continuava. I reparti speciali britannici vennero riorganizzati nel febbraio 1941: da allora ogni commando sarebbe stato formato da 5 troops di 3 ufficiali e 62 uomini ciascuno – ovvero il massimo degli effettivi trasportabili su due mezzi da sbarco tipo LCA (Landing Craft Assault) – più un plotone con armi pesanti. La loro storia, da allora, fu un susseguirsi di incursioni sempre capaci di cogliere di sorpresa il nemico. Le “special ops”. Ci si è chiesti spesso quale sia il significato strategico delle operazioni speciali. I detrattori sostengono che selezionare, addestrare e mantenere in servizio reparti di commando sia uno spreco di risorse non giustificato dai risultati conseguiti. Senza dubbio per vincere le guerre sono decisive le grandi formazioni regolari; ma oggi, in un orizzonte sempre più affollato da soggetti capaci di sostenere un conflitto usando tattiche non convenzionali (guerriglia, ter-


ANDOS rorismo), le operazioni speciali hanno acquisito un’importanza decisiva, perché consentono di intervenire contro obiettivi specifici anche lontanissimi dalle proprie basi, usando pochi uomini capaci di operare in segreto. I commando – o come si preferisce dire oggi le Special Operations Forces – sembrano destinati ad avere un posto nel futuro prossimo. Ma compito della storia militare è giudicare anche la loro efficacia nei conflitti del passato: dopo l’incursione del 1941 contro l’isola di Vaags, Hitler si mostrò tanto preoccupato della situazione in Norvegia da ordinare alla marina di trasferire nelle acque scandinave il grosso delle unità di superficie, e alla Wehrmacht di rinforzare le guarnigioni costiere, che finirono per raggiungere 372.000 effettivi nel 1944. Solo questo giustificherebbe le azioni di alcune centinaia di uomini. Costi e benefici. I commando non vincono le guerre; dal punto di vista tattico le loro incursioni ottengono risultati limitati, che fanno sorgere dubbi sui costi materiali e umani. Ma dal punto di vista strategico una piccola serie di punture di spillo può ottenere l’effetto di una vittoria convenzionale, perché provoca una reazione sovradimensionata in chi le subisce. C’è poi l’aspetto morale: i reparti speciali sono capaci di suscitare l’entusiasmo della popolazione amica con imprese che mettono a nudo le debolezze del nemico. E questo nei momenti più critici di un conflitto è un risultato che non ha prezzo. d Gastone Breccia e Fabio Riggi Illustrazioni di Giorgio Albertini

1900-SUDAFRICA BOERO DEL TRANSVAAAL

I commando, così erano chiamati anche i singoli combattenti, indossavano abiti di taglio civile, di colori naturali come tutte le gradazioni dell’ocra, del marrone e del grigio per mimetizzarsi. Calzavano stivali e cappelli che li facevano somigliare ai cowboy del West americano, barbe fluenti ed equipaggiamento a vista. Le armi. Erano fucili di varia provenienza, come gli inglesi Westley Richards, Henry-Martini e SniderEnfield, il Winchester americano e il Vetterli svizzero. Combattevano come cacciavano, appostandosi dietro alture e cespugli, tendendo imboscate, sparando da lontano sul nemico visibile per via delle uniformi rosse. E quando gli inglesi si avvicinavano troppo minacciando un combattimento corpo a corpo con le loro lunghe baionette, saltavano a cavallo e si allontanavano al galoppo. Erano guerriglieri moderni.

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IERI E OGGI VITA MILITARE

IN ALTA UNIFORME NESSUN TESSUTO TECNICO NELLE DIVISE DI GALA, MA CURA E RISPETTO DEI COLORI NAZIONALI, DELLA TRADIZIONE E DI UN GLORIOSO PASSATO

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ai come oggi l’uniforme militare è stata tanto vicina alla radice etimologica del termine. Le tenute da combattimento e da lavoro dei soldati contemporanei, pur nella loro evidente ipertecnicità, sono immancabilmente mimetiche. Questo comporta che le differenze tra le divise nazionali siano quanto mai azzerate: uniformi appunto. Di variabile resta poco, giusto la differenziazione in base alla latitudine e allo scenario in cui vengono impiegate. Nostalgia per un tempo. Per ritrovare la ricchezza dei colori tradizionali e lo sfarzo delle gloriose uniformi “di una volta” dobbiamo ormai guardare solo alle uniformi di gala, a quelle speciali usate in ambiti cerimoniali, o comunque alle alte uniformi relegate ai servizi di rappresentanza e di guardia ai palazzi di presidenti e sovrani. In queste piccole oasi di magnificenza la stratigrafia dei secoli si sedimenta sugli abiti raccontando di come le antiche tradizioni, i costumi nazionali, i cambiamenti di regime si integrino scambievolmente tra di loro a formare simboli, icone in cui si possono identificare con orgoglio gli appartenenti a quel dato reparto, ma anche interi popoli. Esaminiamo alcuni magnifici esemplari di alta uniforme, auspicando che mantengano intatti, insieme alla loro bellezza, anche lo spirito di trasversalità, il senso di integrazione e i rapporti di interscambio tra le culture che le hanno prodotte. d Giorgio Albertini

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GRANATIERI DI SARDEGNA

Con una linea diretta che corre fino alle Guardie Reali sabaude degli anni ’50 del XVII secolo, i Granatieri di Sardegna sono l’unità militare più antica dell’Esercito italiano, protagonista di tutti gli eventi bellici della penisola. L’uniforme storica ricalca l’abbigliamento degli anni ’40 dell‘800, con il caratteristico panno turchino scuro dei Savoia e il grande colbacco di foggia francese in pelo d’orso, con la granata fiammeggiante in argento.


CAMEL REGIMENT BORDER SECURITY FORCE

La principale guardia di frontiera indiana ha un attivo di più di 250.000 soldati in organico e, nelle feste ufficiali della Repubblica, è rappresentata dal contingente cammellato. Il reggimento è stato fondato negli anni ’80 dell’800 nell’attuale Rajasthan, per poi partecipare a molti dei conflitti coloniali dell’Impero britannico. Ha mantenuto le forme vittoriane della sua uniforme di gala anche nel passaggio alla repubblica.

MONGOLIAN HONORARY GUARD

Il Battaglione delle Guardie d’onore delle forze armate mongole è stato fondato nel 1955 e ha sede a Ulan Bator. L’uniforme è caratterizzata da elementi tradizionali che guardano al passato imperiale e di conquista dei guerrieri mongoli medievali, come l’elmo a placche dorate e la piccola vestigia d’armatura sul pettorale. Ogni membro della Guardia deve essere alto almeno 180 cm, non poco per la popolazione mongola.

GUARDIA SVIZZERA

I soldati della Guardia Svizzera pontificia rivaleggiano in notorietà con la Queen’s Guard britannica. Vero reperto archeologico della storia militare, ricordano, nella loro appartenenza etnica e nel costume, l’epoca in cui gli svizzeri erano i mercenari per eccellenza al servizio di quasi tutti i monarchi europei. In organico allo Stato della Chiesa a partire dal 1506, non hanno mutato molto il loro costume, che annovera ancora corazza, morione (elmo) e armi bianche.

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