430…..la nostra casa “Ecco!” Ci mancava così poco che già lo vedevo. Il sole. La luce. Ma … dov’era mio padre? Magari si trovava ancora là sotto, nel buio, nelle tenebre. Ad un tratto vidi una mano fuoriuscire dal terreno. Era lui, lo riconoscevo. Lo aiutai ad uscire. Ci guardammo attorno, ci trovavamo in una radura, qua e là spuntavano pietre con strane incisioni. Io mi chiamo Alan e mio padre John, era l’unica cosa che ci ricordavamo oltre ad un numero …. 430. In quel momento non lo riuscivo a collegare a niente, come se nella mia mente ci fosse un vuoto. Proprio in quel momento mio padre vide a terra un mazzo di fiori con un biglietto: “La vostra assenza è stata dolorosa, a tutti noi
mancano i momenti trascorsi insieme nella vostra piccola, ma graziosa dimora. Il 430 è ormai un vago e lontano ricordo, rimasto sepolto nell’incendio di quella tragica notte.” Adesso era tutto chiaro, c’era stato un incendio. Cos’era realmente successo in quella luminosa, ma buia notte? Chi aveva provocato l’incendio? Le uniche certezze che avevamo per rispondere alle domande si trovavano nella nostra vecchia casa. Nel cuore della notte, fredda e nebbiosa, ci incamminammo alla ricerca di risposte sul nostro passato. Attraversammo il fiume da una sponda all’altra e, in men che non si dica, ci trovammo nel bel mezzo del paese e fu proprio in quel momento che il suono delle campane scandì le tre di notte e uno stormo di piccioni prese il volo … In lontananza scorgemmo una luce fioca provenire da una casa a noi famigliare. Ci avvicinammo alla finestra, era lui, il signor
Drowien che, con la televisione accesa dormiva sul divano. Istintivamente mi girai al lato opposto della strada. Come non riconoscere quella vecchia quercia con l’altalena appesa che ad ogni folata di vento, strideva? Accanto si trovava il luogo dei nostri ricordi ‌. la nostra casa. Era ancora leggibile il numero 430. La parte destra era ancora intatta, di colore chiaro, con un terrazzo che la rendeva unica nel suo genere grazie a quella ringhiera in ferro battuto. La parte opposta al contrario, sembrava una visione infernale. Ci inoltrammo: si percepiva ancora l’odore pungente della cenere, era un ammasso di macerie accatastate e bruciate. Si scorgevano alcuni oggetti un tempo a noi cari, sepolti dalle assi e macerie. Ci guardammo in faccia e improvvisamente ci venne in mente l’accaduto di quella tragica notte.
Ero a casa con mio padre, mentre studiavo, lui preparava la cena, ricordo ancora l’odore dell’arrosto provenire dalla cucina. Si sentiva la pioggia cadere, il temporale non cessava, fu proprio a questo punto che si sentì un tuono al quale seguì un fulmine che colpì la nostra casa. Luce, lampi, fuoco, caos, ci invasero. Tentai di raggiungere mio padre, ma non ci fu nulla da fare. Ora ci era tutto chiaro! Esausti decidemmo di trascorrere lì la notte. Al sorgere del sole , notammo il paese riprendere vita.Udimmo il rumore di un camion, di uno scavatore, betoniere e tanti operai che iniziarono a ricostruire la casa.
Eravamo stati partecipi alla sua devastazione, ma ora eravamo partecipi alla sua ricostruzione. Passarono tre mesi e quell’ammasso di ruderi, si trasformò in una bellissima casa. Una mattina di primavera udii una palla rimbalzare sul pavimento. Era un bambino che giocava, ma fu chiamato dai suoi genitori per il pranzo. I giorni passavano e ci rendemmo conto che quella famiglia viveva lì e non aveva nessuna intenzione di andarsene. Ogni giorno si sentivano risate, schiamazzi, chiacchierate che ci facevano ricordare il passato. Come permettere a degli estranei di impossessarsi della nostra casa! Perché erano lì? Con quale diritto? Scese la notte. Eravamo ormai certi di come agire …
Io e mio padre eravamo sdraiati l’uno accanto all’altro, con i muscoli tesi, nel buio pesto, e non osavamo fiatare. Lo spazio era angusto e puzzava. Eravamo distesi sulla schiena, potevamo a malapena sollevare il capo. Sopra di noi, la cosa si rigirava inquieta sul suo letto, e borbottava. Speravo si calmasse al più presto. Infine la cosa smise di muoversi. Contavo i secondi. Dormiva? O era semplicemente distesa lì, sveglia, in attesa? “Adesso” mi sussurrò all’orecchio mio padre. E lentissimi allungammo le braccia verso l’alto per afferrare le caviglie del bimbo con le nostre gelide, morte mani. Fu facile, lo soffocammo con il suo candido cuscino …. Il giorno successivo per i genitori , quando videro il figlio morto, iniziò un lungo periodo di depressione.
Furono costretti a lasciare la casa perché per loro era impossibile vivere nel luogo in cui il loro figlio aveva perso la vita. E fu così che io e mio padre ci impossessammo ancora della nostra casa. La nostra morte non era stata la fine della vita , ma l’inizio di una nuova. In qualunque casa con il numero civico 430 non entrate, POTREMMO ESSERCI NOI.