Pietro

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“L’ebrezza dell’avventura” Le onde del mare si infrangevano sugli scogli lontani dell’Oceano Pacifico, nella spiaggia silenziosa di Puerto Vilamin, cittadina marittima delle Isole Galapagos, regnava la quiete. L’alba sorgeva all’orizzonte e, rispecchiandosi nel mare, creava riflessi scarlatti e rosacei che tremavano in balia della marea. Il grido dei gabbiani in lontananza coprivano gli scrosci delle increspature sulle grosse pietre poste al confine tra il mare calmo e placido e quello burrascoso. A poco a poco la spiaggia si riscaldava col tepore del sole mattutino, che saliva lento nel cielo terso, indistinto dal mare cristallino. Daniel Valdez, socio del Museo Nazionale di archeologia di Lima, camminava lentamente sulla sabbia fine e raccoglieva le rare conchiglie che si trovavano sulla riva dell’Oceano. Gli era stato raccomandato di ricercare il famoso tesoro delle Galapagos per portarlo al museo ed era subito partito per ricercarlo all’Isola Isabela, dove avrebbe esplorato le foreste tropicali e le profonde grotte che si trovavano sull’isola. Era stato accolto da una guida del posto chiamata Miguel che gli avrebbe mostrato la antica mappa ritrovata poco tempo prima in uno scavo archeologico del villaggio. Secondo la leggenda il tesoro era stato seppellito nel luogo più remoto e irraggiungibile di tutto l’arcipelago, durante il periodo delle conquiste spagnole nel Sudamerica, per mettere in salvo tutte le ricchezze del popolo indigeno, prima di essere conquistato. Il giovane sobbalzò quando la sua guida lo raggiunse: piccolo, abbronzato, silenzioso, si muoveva come un serpente tra le dune. Miguel indicò il tratteggio sulla cartina scolorita, la mappa indicava di proseguire verso nord, nell’insidiosa foresta tropicale. Le Passiflora erano sbocciate e si distinguevano nella foresta per i loro colori brillanti, come piccole croci colorate, sopra le rocce muschiose dove piccole lucertole sfrecciavano. Le iguane si erano appartate all’ombra e fissavano i due esploratori, avevano scaglie ruvide e grigiastre che le facevano assomigliare a grandi rocce. Un dolce profumo si sentiva nella foresta e il rumore degli uccelli faceva eco sul silenzio, ma aumentava anche un senso di paura, man mano che il mare si allontanava e spariva alla vista. Tutto intorno colorato e fresco, in realtà nascondeva pericoli sconosciuti, da temere più degli squali dell’oceano. Occhi chiari e brillanti li seguivano da lontano, forse di serpenti, o scimmie, o pantere…Daniel non era coraggioso di animali selvatici nè di terra, né di mare.


Daniel e Miguel attraversarono la foresta senza fiatare, fino a giungere ad un lago, dove trovarono una piccola canoa e per raggiungere la baia sulla costa settentrionale avrebbero dovuto attraversare le acque tranquille di quello specchio verde. Si preparano a salire, quando il silenzio si ruppe improvvisamente. Un enorme leopardo sbucò dalla foresta e balzò verso gli esploratori. Aveva un manto inconfondibile, color oro macchiato di nero pece, occhi fulgidi e attenti, zanne affilate e rilucenti alla luce del sole. L’archeologo venne preso dal panico e rapido come un fulmine si gettò in acqua a cercare rifugio, eppure la bestia per nulla stupita, lo inseguì in acqua come un grosso topo, a zanne scoperte e lingua a penzoloni. Daniel iniziò ad annaspare e invece di allontanarsi dalla riva, iniziò ad affondare tra i flutti color fango. Miguel allora si legò una corda alla spalla e con un coltello si tuffò, superò il leopardo, sparì nell’onda, tirò con forza fuori la testa di Daniel avvolta di mangrovie violacee, tagliò il groviglio e si trascinò sulla corda a cui era legato. La belva, invece sparì sotto l’acqua, in un’intricata trappola di funi assassine. “ Eh sì, disse Miguel- questo lago non restituisce mai ciò che si bagna nelle sue rive, e si può superare solo a filo d’acqua, sopra una canoa…” Daniel non rispose, per lo spavento di quei serpenti verdi che non aveva capito se erano piante o animali…. L’acqua calma ondeggiava al passaggio della canoa e piccole onde si diramavano sulla superficie del lago. Daniel osservava il fondo e i suoi occhi si perdevano nell’abisso buio e profondo. Ombre veloci attraversavano le scure acque del lago: serpenti o mangrovie? Continuarono a remare fino a scorgere la riva sabbiosa della baia. Ma poco prima di scendere, scorsero un branco di pesci tozzi e scuri che guizzava attorno la canoa. I loro occhi iniettati di sangue si muovevano velocemente. I due esploratori remarono più forte che potevano, ma i pesci sembravano sempre raggiungerli, erano piranha e li aspettavano. Poi la barca incontrò la sabbia, incagliandosi sulla riva, e i due sbarcarono velocemente per scappare dal banco dei famelici pesci. Il tratteggio scuro sulla mappa terminava lì, sulla Baia Settentrionale, la più grande barriera corallina di tutta l’arcipelago. Il tesoro doveva trovarsi nascosto tra le rocce e il corallo, sotto l’acqua cristallina della baia. Accorsero alla riva, avanzarono nell’acqua color cielo e senza sosta iniziarono ad immergersi ad occhi spalancati. Daniel poco abituato aveva la gola salata e gli occhi gonfi, ma la paura aveva lasciato posto al coraggio e alla forza e non si stancava mai, mentre Miguel sembrava davvero un serpente d’acqua marino. Poi d’improvviso videro luccicare un piccolo scrigno custodito da un rametto scarlatto di corallo, nascosto dal mare, tra due scogli. Il sole creava riflessi sul fondo dell’Oceano e si sentiva solo l’infrangersi delle onde sulla baia. Piccoli paguri si spostavano in cerca di conchiglie con cui ripararsi. I coralli brillavano alla luce del sole. Daniel si sporse verso lo scrigno e, entrando in acqua, lo raccolse.


Si sedettero sulla sabbia bianca e calda e aprirono la scatola. Dentro trovarono un piccolo biglietto di pergamena arrotolata, con su scritto una frase in una lingua sconosciuta a Daniel. Venne presto tradotta dai vecchi del villaggio, che conoscevano l’antica lingua indigena e ne riscrissero il contenuto sopra ad un foglio di carta: “La vera ricchezza è l’ebrezza dell’avventura”. Pietro Biguzzi


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