Issue #4 // September/October ‘14
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“Come as you are” issue
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ce Bucket Challenge: nobili intenti o pubblicità gratuita? Che voi siate delle fashion blogger, dei patiti di musica punk, degli amanti dei vecchi film, degli intellettuali o dei finti intellettuali, che siate di quelli che postano compulsivamente foto della loro fidanzata, della loro silhouette marmorea o del loro animale domestico, anche se vi sembra impossibile, nell’ultimo mese, un elemento comune ha congiunto le homepage dei social network ai quali siete iscritti. Foto, video, status, post, commenti, tutti ad invadere con prepotenza le nostre pagine iniziali - solitamente popolate da selfie, ricette di torte e gattini - e tutti contrassegnati da un unico, incontrastato tema centrale: rovesciarsi addosso, o lasciarsi rovesciare, secchi di acqua con ghiaccio. Ammesso che, dato l’impatto mediatico del fenomeno, vi stiate ancora chiedendo di cosa stia parlando, non mi sto riferendo ad altro se non all’Ice Bucket Challenge. La “sfida della secchiata di ghiaccio” è un’idea di Pete Frates; Pete era un ambizioso
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capitano della squadra di baseball del Boston College, con grandi progetti per la sua carriera lavorativa. Nel 2012, tuttavia, Pete si ammalò di una malattia neurodegenerativa, la sclerosi laterale amiotrofica. Colpito da questa, Pete si è laureato, si è sposato, e con Corey Griffin ha fondato la Ice Bucket Challenge, finalizzata ad incentivare la raccolta fondi per la ricerca, e sensibilizzare l’opinione pubblica sull’atrocità della malattia. La SLA attacca i mononeuroni superiori e inferiori, e determina, con decorso variabile, una progressiva ed irreversibile perdita del controllo dei muscoli scheletrici, della normale capacità di deglutizione, una paralisi più o meno diffusa che può giungere a comprimere i muscoli respiratori, portando, in poco tempo, alla morte. In sostanza, dunque, mentre il tuo corpo, pian piano, diventa di pietra, la tua mente rimane, nella maggior parte dei casi, perfettamente vigile; così difficile da pronunciare, così facile che la sclerosi laterale amiotrofica ti renda un perfetto estraneo verso quello che ti appartiene, uno spettatore immobile della tua stessa esistenza. Così facile che ar-
rivi ad ucciderti, e mentre sei ancora vivo. Ed è proprio dal tratto distintivo della SLA che nasce l’Ice bucket challenge. Se gettata con forza sulla pelle, l’acqua ghiacciata è in grado, per qualche attimo, di immobilizzare i tuoi muscoli, esattamente come è in grado di farlo la SLA. Lì, però, non parliamo di pochi secondi. La sfida della secchiata di ghiaccio, dunque, consiste nel farsi, anche con modalità molto fantasiose, una doccia gelata; poi, dopo aver fatto una donazione alla ONLUS per la ricerca sulla SLA, si scelgono una o più persone che ripetano la stessa operazione. Alla sfida hanno aderito non soltanto persone comuni, ma anche personaggi del mondo dello spettacolo, per non parlare di esponenti del mondo politico. Pian piano, saltando di home-page in home-page delle più popolose piattaforme virtuali, fino a giungere in televisione, il fenomeno ha acquisito una popolarità tale che l’associazione per la ricerca è riuscita ad ottenere quarantuno milioni di dollari in sole due settimane. Tuttavia, andando a guardare le conseguenze che ha generato la partecipazione a questa sfida, non posso che chiedermi se tutti, ma veramente tutti, vi abbiano aderito per nobili intenti. Vi è davvero un nesso tra la volontà di dare una mano alla ricerca scientifica, anche in maniera scherzosa, e la mossa pubblicitaria della soubrette di turno che, finita nel dimenticatoio, ha accettato la sfida solo per mostrare a tutti una linea impeccabile, rimasta inalterata col passare degli anni? C’è realmente un collegamento tra l’intenzione di sensibilizzare sulla gravità della questione e i commentini dei ragazzini su quanto sia sexy sotto la doccia quell’attricetta minorenne? Che cos’ha in comune una manifestazione di solidarietà con l’espressione di finta contrizione di chi mostra l’assegno che andrà a versare dopo la doccia, con tanto di messa a fuoco sulla cifra segnata? Sul serio c’entrano qualcosa con la soggettività e il carattere personale di un gesto altruistico, le battaglie virtuali, a suon di commenti e tweet al vetriolo, contro chi ha donato una certa cifra rispetto che un’altra, contro chi
ha donato troppo, e quindi è un esibizionista, o contro chi ha donato troppo poco, e quindi è un cafone? Forse, però, un piccolo anello di congiuzione l’ho trovato. Tutto quello che unisce comportamenti simili a quelli che ho riportato, non è altro che, ancora una volta, la volontà di farsi della propaganda, di esporsi, di apparire; anche, nella maggior parte dei casi, svolgendo azioni non perché lo si voglia realmente, ma soltanto per “far vedere” di averle compiute. Anche, nella maggior parte dei casi, mettendosi in mostra per quello che non si è. Lungi da me muovere una critica all’iniziativa dell’Ice Bucket Challenge. In questo caso, ripeto, il “virale” ha permesso all’ associazione per la raccolta fondi per la ricerca di raggiungere, grazie alle innumerevoli donazioni, elevate cifre, e a sensibilizzare notevolmente sull’argomento; questa volta, il “virale” è riuscito a realizzare qualcosa che non fosse storia di oggi e domani dimenticato. La mia critica è rivolta solo a chi se n’è servito semplicemente per farsi della pubblicità gratuita. Che si tratti di una persona qualunque, che si tratti di un personaggio dello show business, che si tratti di un leader diplomatico. Nel numero precedente, esortavo a darci un taglio con l’apparire, e cominciare ad essere. Lo facevo per ricordare che, alla fine, i conti si fanno solo con noi stessi. Adesso, il mio invito è solo finalizzato a chiedere rispetto. Rispetto, perché c’è chi combatte tutti i giorni, e lo fa strenuamente, e con dignità. Rispetto, perché su quella lotta non abbiamo alcun permesso di mettere bocca impropriamente, perché non abbiamo la minima idea di che cosa significhi affrontarla. Rispetto, affinché cominciamo a trattare la questione non più come qualcosa di astratto, di lontano. Non più come qualcosa che, a noi, non può capitare. Rispetto, almeno sulla sofferenza della gente. Almeno sulla morte. Chiara Pizi
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OUTLET ITALY
Fasti e nefasti del Made in Italy, tra acquirenti accaniti ed industrie stremate
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ra il 2008 ed il 2014 ben 830 aziende italiane passano in mani straniere, sullo scontrino degli acquisti é segnato un totale significativo: 101 miliardi di euro. La svendita dei marchi Made in Italy non ha precedenti e continua battagliera non risparmiando alcun settore. Si parte dalle passerelle d’alta moda: Emilio Pucci, Bulgari, Gucci e Loro Piana (celebre azienda di cashmere) finiscono nelle mani dei francesi di Lvmh la compagnia cappeggiata da Luis Vuitton, seguono Valentino in mani inglesi, Salvatore Ferragamo che ha stretto accordi con Hong Kong e Valentino con compagnie del Qatar. Per quanto riguarda il settore alimentare ricordiamo invece Buitoni, San Pellegrino e Motta, finite sotto il radar svizzero, Star e Bertolli controllate dagli spagnoli, la Parmalat che è passata sotto il dominio della francese Lactalis, e poi c’è la Costa Crociere che ha fatto gola agli americani o ancora la Wind finita nella rete russa e molti altri casi analoghi. Qualche cessione sarà stata fatta in silenzio, qualchedun’altra magari avrà causato più scalpore, come nei casi Telecom o Alitalia. La prima, maggiore società telefonica nazionale, con ben 28 miliardi di debiti viene ceduta per il 60% del capitale a Cesar Alierta, presidente del gruppo spagnolo Telefònica, nell’autunno 2013 in previsione di un futuro acquisto al 100%. Siamo nel 2014 e gli spagnoli si dicono insoddisfatti e incapaci di giungere a nuovi accordi con gli italiani. La Telecom si trova ora sul tavolo delle trattative tra Telefònica e Vivendi, compagnia francese che vorrebbe accalappiarsi una fetta delle azioni dell’azienda italiana in cambio della GVT brasiliana che accende gli appetiti degli spagnoli. La seconda invece, Alitalia, da sempre storica compagnia di bandiera è passata dal concedere il 25% delle proprie azioni ai francesi di Air France alla vendita di un’altra grande fetta, il 49 %, a Etihad, compagnia aerea degli Emirati Arabi lo scorso agosto. “E’ la crisi.” Quale migliore risposta da dare da qualche anno a questa parte? Che si parli di disoccupazione, di cassa integrazione, di smartphone, di vacanze e via dicendo, sempre colpa della fatidica CRISI. Se si parla però della compravendita delle aziende italiane nell’arco dell’ultimo quinquennio, rispondere in tale maniera risulterebbe decisamente superficiale, insufficiente e incompleto. Se da un lato è vero che la recente depressione economica ha portato con sé una riduzione dei consumi con un conseguente drastico calo della domanda in più o meno tutti i settori (pensiamo per esempio che tra 2008 e 2013 gli italiani hanno ridotto 26
del 3% i consumi di carne e pesce rispetto al periodo ante-crisi e che le famiglie hanno perso complessivamente il 4.8% del proprio potere d’acquisto) con la conseguenza che solo nell’anno 2013 hanno dovuto chiudere i battenti circa 111mila stabilimenti aziendali in tutta Italia, dall’altro lato c’è da delineare anche la presenza-assenza di uno Stato che non sembra avere più di tanto a cuore il proprio apparato industriale. Le imprese italiane versano al fisco 110,4 miliardi di euro ogni anno, quando all’interno dell’Unione Europea, solo le industrie tedesche versano un totale superiore a quello italiano, ma c’è da ricordare che la Germania presenta livelli d’industrializzazione nettamente più alti rispetto all’Italia e che conta anche 20 milioni di cittadini in più. Colpa di un rifiuto cronico dell’Italia nei confronti dell’industria, diranno in molti, eppure il concetto di impresa è inserito nella nostra costituzione, all’articolo 41, dove si specifica che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Ma perché investire proprio in Italia e non in un altro paese? Perché l’Italia, allo stato attuale non è né carne né pesce, ovvero non rappresenta un paese che cola a picco (si prenda come esempio la Grecia, che continua ad annaspare) e non è nemmeno una superpotenza capace di imporre la propria autorità e dettar legge sulle altre (specialmente non in campo economico). Continua invece con i suoi alti e bassi a camminare all’interno dell’eurozona fornendo all’oceano di multinazionali estere affamate la possibilità di investire in a) compagnie potenzialmente fruttuose che si trovano sul lastrico e si cedono quindi al miglior offerente, costi quel che costi, oppure in b) aziende prestigiose che detengono un marchio storico, dubbiose riguardo la propria capacità di affrontare da sole l’arena del mercato globale, e che scelgono quindi di garantire la propria sopravvivenza entrando a far parte di un maxi gruppo. L’internazionalizzazione delle aziende rappresenta sicuramente una vittoria per la globalizzazione ma è pur vero che manda nelle casseforti straniere miliardi di euro che potrebbero invece tanto giovare al nostrano PIL e, inutile dirlo, sbandiera uno smacco non indifferente del Made in Italy del quale andiamo tanto fieri. Sarah Meraviglia
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PI C C O LO S PA Z I O PUBBLICITA' C
osì cantava il mitico Vasco nel 1983 e nonostante fosse ben chiaro come in alcuni punti della canzone il suo “coca” facesse riferimento a tutt’altro tipo di sostanza, le mitiche “bollicine” (titolo del pezzo in questione) ci hanno sempre ricordato la ben più innocua bevanda che ha accompagnato la dieta nostrana e che è da tempo protagonista indiscussa della tavola italiana. C’è chi la beve per pasteggiare, accompagnando ogni boccone con un sorso, chi se la concede al pub o nei fast food (strascichi del retaggio americano) e chi ne beneficia d’estate, con ghiaccio e limone, fresca ed energetica. Se tralasciamo la pessima abitudine alimentare del sostituire spesso e volentieri l’acqua con una bevanda zuccherina e ipercalorica come la Coca Cola perchè “tanto disseta uguale”, possiamo concentrarci su quanto sia diffusa questa abitudine e sopratutto da quanto tempo sia diventata così comune. In poche parole, ci siamo mai chiesti se al cinema i nostri nonni, per esempio, guardando un film, seduti sulle poltroncine, sgranocchiassero pop corn e sorseggiassero una coca? Abbiamo mai pensato a come sia un’istituzione, indipendentemente dai gusti delle nostre papille gustative, nel mondo delle bibite? C’è qualcosa, oltre il sapore dolce e rinfrescante, che ci ha accattivato? John Smith Pemberton, farmacista statunitense, creò la ricetta magica della Coca Cola (allora solo coke) nel 1886, ad Atalanta per la precisione. Nonostante la notorietà conquistata con la scoperta, Pemberton fu costretto dai debiti a vendere la formula ad un noto affarista ed imprenditore, Asa Candler, che con occhio esperto già aveva immaginato una parabola di successo per la bevanda e pianificato di diffonderne l’invenzione con un capillare apparato pubblicitario.
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Negli anni venti del novecento, la Coca Cola era ormai famosa al livello mondiale e il prodotto, gestito dalla The Coca Cola Company (che rappresentava altre bibite; Fanta, Sprite) ormai reso un enorme buisness, sbarcò anche in Italia nel 1927. Lo strapotere della bibita ha continuato a crescere anno dopo anno grazie all’abilità e alla lungimiranza impiegati nel presentarne l’immagine; - Bevanda da bere in famiglia, sempre ben visibile al centro della tavolata nelle occasioni importanti da trascorrere con chi si ama. Il Natale, rosso e festoso, va a braccetto con la Coca Cola. - Bevanda dal sapore tipicamente yankee. A noi piace cercare l’America un po’ in tutte le cose, dalla moda alla gastronomia. Gli americani hanno conquistato più volte il titolo di “peggio vestiti”? A chi importa. Hanno il più alto tasso di obesità giovanile del mondo? Qual è il problema. Va bene così. - Bevanda analcolica e giovanile. Per intenderci, se andiamo al pub con gli amici e non ci va di bere una birra prendere una Coca Cola di sicuro non attirerà l’attenzione su di noi come se ordinassimo un succo al pompelmo. Se non ti alcolizzi continuamente sei sfigato (purtroppo c’è chi lo pensa), ma va bene anche questo, la Coca Cola è un salvagente in un mare d’ignoranza. Insomma, le hanno dedicato canzoni, musei (ad Atalanta ce n’è uno ispirato al marchio), negozi di merchandising appositi e innumerevoli minuti di celebrità nel palinsesto televisivo. A partire dal 1980 con la diffusione della Coca nella “lattina PET” il progetto di rilanciarne continuamente il marchio non si è mai interrotto; bottiglie di Coca Cola decorate da nomi propri di persona, agghindate all’occorrenza per ogni festività, ricoperte da frasi di celebri canzoni, dietetiche senza zucchero, al limone ecc. Rivali ed imitatrici (su tutte la Pepsi ) se peccano sempre nel gusto, di sicuro sono totalmente perdenti sul piano pubblicitario. L’ultima iniziativa della Coca Cola prevede, in seguito alle accuse ricevute di pubblicità ingannevole e aumento dell’obesità infantile, di aprire in più di 20 paesi (in Africa, Asia e Sud America) degli eco-chioschi per fornire beni di prima necessità alle zone in via di sviluppo e garantire la gestione di queste piccole attività
ad imprenditori locali, in modo da facilitare il rilancio economico del territorio. Ma l’impegno a supportare progetti di sostenibilità globale non finisce qui; la “second life” è infatti una nuova linea prodotta dalla Coca Cola caratterizzata da tappi particolari e divertenti. Avvitati sulle bottiglie questi le trasformano in oggetti di uso comune quali grossi pennelli o pistole ad acqua, con il chiaro messaggio di invitare il consumatore al riciclo della plastica. Capillare in rete è anche il nuovo spot Coca Cola del “tappo dell’amicizia”. Costruito in modo accattivante e spiritoso lo spot ripropone una situazione tipica nel quotidiano giovanile; il primo giorno in un campus universitario. Nell’atrio dell’ateneo, tra le facce spaesate e nervose delle giovani matricole troneggia un distributore Coca Cola. Quale metodo migliore per costringere gli studenti a rompere il ghiaccio se non quello di creare un tappo che si svita solo se posizionato ad incastro con quello di un’altra bottiglia? “Non ci si può bere una Coca da soli”, “Basta comprarsene due e il gioco è fatto” dicono i più cinici e disincantati, ma la stragrande maggioranza ammette che la Coca Cola è sempre un passo avanti agli altri. Noemi Gesuè
“Bevi la coca cola che ti fa bene bevi la coca cola che ti fa digerire, con tutte quelle, tutte quelle bollicine..” 29
ill_ Del Vecchio Vincenzo
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Robin Williams il Capitano che era anche un uomo
“Ha fatto ridere il mondo, e l’ha fatto piangere. Lo ricorderò, e lo onorerò. Un grande uomo, un grande artista, un grande amico. Mi mancherà smisuratamente.” Kevin Spacey
“Non potrei essere più sconvolto per la sua perdita. Un grande talento, un amico, una grande anima.” Steve Martin
“Notoriamente unico, ferocemente divertente, un genio ed un animo gentile. Che perdita.” Michael J. Fox
“E’ stato un aviatore, un dottore, un genio, una tata… e tutto quello che ci passa in mezzo. Ma è stato unico.” Barack Obama
«“Tu, tu solo avrai stelle come nessuno le avrà...In una di queste stelle, io vivrò. In una di queste io riderò. E così sarà come se tutte le stelle stessero ridendo, quando guardi il cielo la notte... Tu - solo tu - avrai le stelle che sanno ridere.“ Antoine de Saint-Exupery. Ti amo, mi manchi, cercherò di continuare a guardare in alto.» Zelda Williams
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olo alcuni dei tweet con cui salutarlo per l’ultima volta. La mattina dell’undici Agosto, nella sua abitazione a Tiburon, nella baia di San Francisco, Robin Williams è stato trovato morto dalla sua assistente personale. Dopo aver trovato tagli evidenti sui polsi, la polizia californiana ha confermato l’ipotesi di suicidio: l’attore sarebbe morto per asfissia, impiccandosi con una cintura. Robin Williams soffriva da anni di ansia e di una grave depressione; il mese prima era stato in un centro di riabilitazione. C’è chi parla di problemi con alcool e cocaina: aveva spesso combattuto contro la sua dipen-
denza, negli anni precedenti. C’è ancora chi sostiene che le cause del suicidio si riscontrino nell’incapacità di fronteggiare una disastrosa situazione economica; altri sono convinti che non fosse pronto ad affrontare pubblicamente la malattia che da poco tempo gli era stata diagnosticata, il Morbo di Parkinson. Tanti sono i sospetti, moltissime sono le voci. Ma è bene lasciare le indagini alla polizia, e il chiacchiericcio al gossip spicciolo. Forse non dovremmo fare altro che esaudire il desiderio di sua moglie Susan, che ai giornali ha dichiarato di aver perso suo marito, e il suo migliore amico. Susan ci chiede di non associare Robin Williams al modo in cui è morto. Ci chiede di ricordarlo per i sorrisi che ci ha regalato, per le cose su cui ci ha fatto riflettere, per le lezioni che ci ha impartito. Ma come si può pensare semplicemente “è andata così. Ci ha donato tanto, ma adesso è andato via.”? Come si può non essere sconcertati, disillusi e anche arrabbiati? Come si può accettare il fatto che quel professore, quello che ti ha ordinato a chiare lettere di non accettare la vita per come ti è capitata, quello che ti ha incitato a continuare ad inseguire quello che vuoi veramente, di non accontentarti e di avere fiducia, quello che ti ha convinto a tentare sempre, e sempre sognare, perché il tempo passato a credere, il tempo passato a sperare non può mai dirsi perduto, quel professore che ti ha invitato ad imboccare la strada più difficile, quella dei tuoi veri desideri, come si può tollerare che proprio lui abbia scelto quella più facile, quella di abbandonare il campo? Come si può non essere infuriati verso quel padre che ti ha rassicurato che, in qualunque modo vada, anche se ti capiterà di assaporare l’amaro dell’assenza, di avvertire la mancanza delle persone che ami, anche se ti 31
capitasse di fare delle scelte che ti porteranno lontano da loro dei kilometri, dovrai essere paziente, perché ovunque ci sia voglia di condividere, ovunque ci sia voglia di lottare per un rapporto, ovunque ci sia amore, lì sempre troverai la tua famiglia, un posto dove sentirti al sicuro, lì sempre sarà casa, come si può non provare profonda collera verso di lui, che quella pazienza l’ha persa, e ha deciso di andare via? Come si può non prendersela con quel dottore, quello psicanalista che ti ha guardato negli occhi e ti ha detto che avresti potuto leggere qualsiasi sonetto, qualsiasi articolo o enciclopedia, che avresti potuto passare ore su ogni polveroso manuale che l’umanità abbia mai scritto e, quindi, saper dire la tua su qualunque tematica, sulla politica, sull’economia, sulle scienze, sulla guerra, sulla medicina, perfino sull’amore; ma che se non avessi sentito piantati nella tua stessa carne gli occhi della donna che ami, se non fossi riuscito a toglierti dalla lingua e dal sangue il gusto acre della perdita, non avresti mai potuto aprir bocca su niente che riguardasse la vita. La stessa vita che ti invitava a cogliere, a succhiare fino all’ultima goccia che ti resta, perché nel giro di qualche secondo qualcuno potrebbe portartela via, come si può non sentirsi traditi da quello psicologo, che la sua, di vita, ha deciso di strapparsela? No, non rispetterò la volontà di Susan Schneider. Non lo giustificherò, non lo perdonerò. Non lo ricorderò con un amaro sorriso. Io lo accuserò di non essere stato all’altezza del modo in cui mi ha insegnato a vivere. Non lo commemorerò con un amichevole
saluto, non scriverò alcun tweet di accondiscendenza, non lo compatirò. E non lo farò, perché se ho capito qualcosa di lui è che quel gesto, quello con cui lui si è tolto la vita, è la cosa più vergognosa che lui stesso avrebbe mai potuto giudicare, oltre la quale non avrebbe mai potuto perdonarsi, oltre il quale non ci sarebbe potuta che essere la morte. E so che il modo in cui vorrebbe essere salutato non è con le lacrime, non è con l’indulgenza, non è domandandosi perché. Non è quello di capirlo solo perché ci ha fatto ridere con i suoi travestimenti, non è quello di scusarlo solo perché ci ha fatto piangere con i suoi monologhi, non è quello di assolverlo solo perché era un genio. Il solo modo in cui vorrebbe essere celebrato non è quello di redimerlo, ma è quello di mettere in pratica la teoria, è quello di agire come ci aveva esortato ad agire, e come lui, questa volta, non ha trovato il coraggio fare. E’ quello di alzarsi su di un tavolo, e riconoscere che il nostro Capitano era un uomo. E come un uomo, a volte ce l’ha fatta, a volte no. Se un uomo non è riuscito a rimanere coerente alla sua idea, questo non significa che non l’abbia portata avanti al punto che si sia radicata in tante altre anime. Togliendosi la vita, ci ha regalato l’ultimo, grande insegnamento. A volte si vince, e si è felici; a volte si perde. Abbiate il coraggio di perdere, e di accettare la sconfitta, e di affrontarla.
Abbiate l’audacia di vivere. Chiara Pizi
Il vello d’oro delle Sturtup italiane Matteo Achilli è il nuovo Giasone?
Q uest’anno è la volta della 71esima Mostra del Cinema di Venezia, una manifestazione unica al
mondo che, a 71 anni, trova ancora il modo di innovarsi ed attirare nuove imprese affinché investano nella Biennale che non a caso fa parte dell’Esposizione Internazionale d’arte di Venezia, tra le più antiche e prestigiose rassegne internazionali d’arte contemporanea al mondo. Quest’anno, per la prima volta, c’è stata una sturtup tra gli sponsor della Mostra, una sturtup diventato caso internazionale: Egomnia. Cos’è Egomnia? Egomnia è un social network, ma a differenza dei più noti brand, è tutto incentrato sulla ricerca del lavoro con un sistema di curriculum e ranking tra le persone che hanno portato il sito a superare i 300mila iscritti. Il proprietario di questa sturtup è Matteo Achilli, un imprenditore romano che nel 2012 fondò questo sito credendo profondamente in questa sua idea partita al liceo. Ad appena 20 anni si è ritrovato sulla storica copertina di Panorama Economy che ha usato parole dolci per il ragazzo, con un paragone che pesa come un macigno: “Italian Zuckerberg”, definendolo simbolo di speranza per l’Italia. Oggi il ragazzo studia alla Bocconi ma per sua stessa ammissione non riesce a seguire i corsi, va a fare solo gli esami: ci mancherebbe. Il ragazzo vale una fortuna grazie ad investimenti diversificati in più continenti e grazie all’esposizione mediatica a cui è sottoposto. La BBC ha girato un documentario previsionista, “The next Billionaires” inserendo solo Matteo tra gli italiani come futuri, possibili, miliardari del mondo. Quella di Egomnia non è una storia comune ovviamente, né come quella delle altre sturtup italiane, ha delle peculiarità come quella della proprietà unica delle quote dell’azienda: Achilli ha il 100% di Egomnia e non solo perché Egomnia non ha mai avuto alcun finanziamento, è partita con 10mila euro messi dai genitori di Matteo, e non ha mai investito in marketing, almeno fino ad ora perché Achilli ha deciso di cominciare col botto presentandosi al fianco di Versace, Renault e Google alla Mostra del Cinema di Venezia rompendo un tabù di internet perché per una piattaforma esclusivamente online, mai prima d’ora si era pensato di fare un investimento su un brand esclusivamente offline come la Mostra di Venezia. Un’altra, la più importante peculiarità di questo sito, è la velocità di espansione. Nel primo giorno di attività subito 1000 iscritti con 20 aziende che, interessate, hanno aderito e creduto in questa idea. 34
Dopo 30 giorni gli iscritti sono 15mila con oltre 100 aziende in contatto. Dopo alcuni mesi viene sfondata quota 200mila con 630 aziende che hanno aperto una vetrina su egomnia.com. È diventato un caso, una delle maggiori realtà del mercato italiano per quanto riguarda le risorse umane con un fatturato che supera i cinque zeri. Il paragone con Zuckerberg di Panorama può reggere per la storia di Achilli e la genesi di Egomnia: un ragazzo brillante con voglia di emergere, un gruppo di amici bravi con la tecnologia, una crescita esponenziale ed irreversibile. Il giovane imprenditore gioca molto su questo ragguaglio infatti il primo spot aziendale si intitola “Storia di uno Zuckerberg italiano” e con un cartone animato di 3 minuti ripercorre la storia del fondatore che ha creato una piattaforma per specialisti di HR, con l’introduzione dello Skills Graph, un pentagono che permette di vedere graficamente le attitudini e le qualità del candidato grazie ad un potente algoritmo che valuta il curriculum del candidato, concentra l’esperienza dell’iscritto e stila un punteggio ed un ranking visibile alle aziende associate. Il curriculum va inserito online, con un form guidato esattamente come se si compilasse il profilo di un social network, in questo modo il sistema prende in considerazione le variabili e poi cede all’algoritmo l’onere di attribuire il punteggio. Cosa calcola l’algoritmo? Il curriculum, il percorso accademico, le esperienze personali e professionali accumulate negli anni, il tempo impiegato per laurearsi, la classifica dell’università in cui ci si è laureati, (se è tra le prime 10 in Italia oppure no), e le lingue che si conoscono. Ogni cosa regala un bonus che fa il punteggio finale. Se il ragazzo, nativo di Formello, sia il nuovo Mark Zuckerberg lo dirà solo il tempo. Ad oggi la sua idea è vincente, gli ha permesso di guadagnare, tanto, ed in maniera pulita e trasparente. Matteo Achilli dimostra di essere intelligente e lungimirante nel momento in cui si rifiuta di assumere, se non un paio di eletti, perché non riesce a garantire un futuro e nel momento in cui si affida ad aziende esterne per fare i lavori deputati. La storia di Matteo Achilli e di Egomnia può solo essere un insegnamento per tutto il Paese perché questo sito, potenzialmente multimiliardario, fu proposto a numerosissime aziende dal romano, all’epoca 19enne, ma nessuno lo ha preso sul serio ed in pochissimi hanno risposto alle mail ed ai curricula mandati. Siamo pur sempre un Paese per vecchi, no? Leonardo Ciccarelli
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entre suo padre Bob, tossicodipendente e schizofrenico, a cinquant’anni stava quasi per rassegnarsi alla vita da senzatetto che aveva succeduto la vetta della celebrità, adesso alla stessa età Terrence Richardson beve Cabernet Sauvignon a cena un giorno sì e l’altro pure. Cosa abbia portato a una fama così incontrastata e salda l’acclamato fotografo californiano è ancora motivo di attualissime controversie; fatto sta che i più famosi marchi e le più lette riviste di moda ormai reputano obbligatorio vantarsi del suo nome per le loro campagne. Bisogna dire, in primo luogo, che nonostante il grande nome che l’ha preceduto – quello del padre - Terry si è fatto da solo: dopo anni di assistenza a Tony Kent, si è messo in proprio fino a raggiungere la vetta su cui adesso, oseremmo dire, sta ballando. Da quindici anni ormai spopola incontrastato nel mondo della fotografia, collaborando spessissimo con Vogue o Playboy, con artisti musicali nella produzione di videoclip o realizzando servizi di moda per nomi dell’importanza di Gucci e Tommy Hilfiger. Ma questo non è bastato a farsi amare da tutti; c’è voluto poco a trasformare il suo nome di genio in quello di demonio. Si dice infatti che lo ‘Zio Terry’, come ama farsi chiamare dalle foto-modelle con cui collabora, sia capace di trasformare l’acqua santa in alcool etilico. E l’abbiamo visto tutti con la produzione del video Wrecking Ball dell’altrettanto discussa Miley Cyrus dell’anno scorso, completamente trasformata dopo l’innocentissima Hannah Montana; oppure con la chiacchierata copertina di V magazine in cui una solitamente castissima Lea Michele posa seminuda e con sguardo fin troppo ammiccante per la fotocamera di Richardson, mentre confessa nell’intervista a Mary Choi di essere spesso apostrofata dai suoi amici come ‘nonna’ e di non frequentare clubs notturni. Perfino il Calendario Pirelli con la co-produzione di Richardson ha visto ritornare in voga scatti di nudo completo e senza veli nell’edizione The Cal 2010. Dalle poche chiacchiere che si agitavano alle sue spalle si è passati poi al vero e proprio scandalo che ha portato specificatamente il suo nome. È scoppiato con la censura al videoclip in cui Lady Gaga si dimena in atteggiamenti spiccatamente sessuali – niente di diverso dal solito – sotto gli scatti di Richardson e R. Kelly stavolta, co-produttori del video. Quello che ha scandalizzato è stato che entrambi erano stati già accusati precedentemente per crimini a sfondo sessuale; riguardo a 36
Terry Ric
a g l i sc at t i d e l
I l n u o vo m u s t d e l l a fo t o g r a
chardson
l c r u d o at t u a l e fia tra genio e sregolatezza
questo video infatti si parla addirittura di istigazione allo stupro e alla violenza non tanto per il contenuto artistico, impudico e con tocchi di indecenza, ma per il passato incriminato di Richardson e collega, a cui inevitabilmente allude. L’accusa legale di crimini sessuali legati alla sua attività lavorativa ha succeduto le testimonianze di alcune foto-modelle più o meno conosciute che hanno lavorato per lui. La danese Rie Rasmussen infatti ha confessato in un’intervista per la rivista Jezebel di aver conosciuto svariate ragazze che hanno posato per i servizi di Richardson e che si sono lamentate dei suoi atteggiamenti poco professionali e inclini alla perversione sessuale; e soprattutto di aver riscontrato lei stessa questa predilizione del fotografo per scatti fin troppo spinti, ragazze molto giovani e poco esperte, che posano completamente nude in scene spesso degradanti. Per non parlare di testimonianze che vedrebbero il fotografo incitare le sue modelle a contatti fisici con lui tutt’altro che innocenti. Le parole della Rasmussen hanno innescato una catena di testimonianze senza precedenti, infatti, che è stata sponsorizzata dalla rivista sopracitata. Si parla addirittura di una ex-fiamma del fotografo che ha ritrovato delle foto – che sarebbero state scattate di nascosto dai collaboratori di Terence e mai autorizzate - dei loro rapporti sessuali pubblicate sul web e su alcuni servizi fotografici a suo nome. Altre ragazze accennano a pubblicazioni non consensuali e all’istigazione a pose troppo esplicite e crude durante i lavori con Richardson o di vere e proprie molestie sessuali sul set. Com’è giusto che sia, il mondo della moda si divide tra chi giustifica tutto questo e chi no: da una parte si dichiara che le modelle sono libere di scegliere se farsi fotografare o meno in una certa posa, dall’altra si difende l’ingenuità di alcune tra le più giovani che non sanno ribellarsi a un nome così importante. Ad ogni modo si è venuta a creare una vera e propria campagna anti-Richardson che vede schierata in pole position l’esordiente fashion blogger quindicenne Tavi Gevinson, già una celebrità nell’industria di moda del web, che definisce la sua difesa ai diritti dell’immagine femminile “non femminismo, ma umanità”. E sarebbe superfluo aggiungere altro.
Vittoria Pinto
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opo il caso Gonzalez scoppia la polemica tra opinione pubblica e i magnati di Google “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà […]” è così che inizia l’articolo 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE ( proclamata nel 2000 e perfezionata nel 2007). Se il diritto alla privacy è tra i primi contemplati dal diritto europeo, come si spiega allora il polverone alzato negli ultimi mesi dalla tanto animata vicenda passata alla storia con il nome “Caso Gonzalez” o se vogliamo “Diritto all’oblio”? La risposta è che la suddetta normativa europea non è sufficientemente dettagliata in materia di privacy online e contemporaneamente la legislazione dei singoli stati per quanto riguarda la protezione dati in rete è spesso assai debole, talvolta assente. La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, emessa 38
il 13 maggio 2014, mette i motori di ricerca in ginocchio sui ceci imponendo loro l’eliminazione di tutti quei link che rimandano a siti che hanno pubblicato notizie su un individuo ritenute da quest’ultimo inadeguate, irrilevanti o eccessive in relazione agli scopi per cui erano state pubblicate in precedenza. Negli ultimi mesi Google, che detiene il 93% delle ricerche online in Europa, ha ricevuto circa novantamila richieste di rimozione link per un totale di 350.000 URL provenienti in massima parte da Francia, Germania e Regno Unito. Improvvisa presa di coscienza dell’importanza di tutelare la propria vita privata? Decisamente no. Un programmatore statunitense di nome Afaq Tariq ha creato da poco il sito hiddenfromgoogle.com (letteralmente “nascosto da google”) sul quale si possono visionare tutte quelle pagine web che sono state eliminate (o lo saranno a breve) dalle versioni europee del browser di Google. Tali link non riguardano futili storielle di gossip hol-
lywoodiano, come si potrebbe erroneamente pensare, si parla invece di decisioni sbagliate nella politica estera del primo ministro Tony Blair all’epoca dell’attentato terroristico nella metropolitana di Londra (2005), di sabotaggi all’interno di un’illustre associazione di avvocati britannici e ancora, di incidenti causati da guida in stato di ebbrezza, accuse di favoreggiamento della prostituzione, furti aggravati, aggressioni, eutanasia, frodi fiscali. Tutte notizie provenienti da articoli di eminenti testate giornalistiche o emittenti ( quasi tutte britanniche) come bbc, dailymail, thetelegraph, the guardian. Il caso più vicino all’Italia risulta invece essere quello delle pagine wikipedia per le quali è stata richiesta la rimozione, che riguardano Renato Vallanzasca, storico criminale degli anni ’70 e la sua associazione criminale, la Banda della Comasina. Si tratta insomma di argomenti scottanti e scomodi ai protagonisti, che hanno pensato bene di ripulire la propria coscienza con un click. “Se qualcuno può dire ai motori di ricerca che una data informazione su un individuo deve essere eliminata poiché costui non vuole essere trovato, gli effetti possono essere drammatici, è il crollo di Internet” afferma Jules Polonetsky (direttore del Future Privacy Forum statunitense). In effetti è contraddittorio che vengano posti vincoli alla rete, da sempre emblema di assoluta libertà di espressione e di conseguenza d’informazione. Scegliamo spesso di googlare una notizia piuttosto che ricorrere ad altri strumenti d’informazione, proprio per avere quell’imbarazzo della scelta di pagine web che ci permettano di leggere notizie da fonti differenti, di confrontare, di integrare con contenuti video o audio per ottenere un quadro quanto più nitido possibile riguardo una certa informazione. Ma pare proprio che questa assoluta libertà stia subendo delle limitazioni. C’è da dire che l’uso eccessivo e spropositato di internet ha portato negli ultimi anni a considerare con sempre maggiore negligenza la protezione dei dati privati; pensiamo a quanto facilmente accet-
tiamo termini di contratto e trattamento dei dati privati per scaricare software o iscriverci su una pagina, per non parlare poi della piaga dei social, di tutte quelle persone che sembrano non conoscere affatto la sezione delle impostazioni di facebook chiamata “Privacy settings” e che per affermare pienamente la propria persona nella vita reale sentono il bisogno di una conferma virtuale, dell’esistenza di un io-social che urla al mondo chi è, quali sono i suoi gusti dal campo musicale a quello della biancheria intima, qual è il suo credo religioso o il suo orientamento sessuale e cosa fa ogni secondo della sua vita. Tuttavia c’è da aggiungere che non tutti i mali vengono per nuocere: proprio nel bel mezzo della bufera, Google ha mostrato al mondo il suo lato buono segnalando alle autorità statunitensi un caso di pedopornografia riguardante un uomo texano che aveva inviato tramite Gmail foto sospette. Grazie all’algoritmo di Google che intercetta contenuti ed immagini privati nelle mail dei propri iscritti è stato possibile individuare ed arrestare l’uomo. Il più grande motore di ricerca al mondo ha messo a disposizione degli utenti un forum nel quale è possibile esprimere la propria opinione in materia di diritto all’oblio ed ha organizzato inoltre un tour europeo in 7 capitali per chiedere agli esperti quale sia secondo loro il giusto equilibrio tra diritto alla riservatezza dei dati personali e diritto d’informazione. Tra dichiarazioni di esperti ed opinioni di utenti comuni, il metro di valutazione di ciascun caso dovrebbe essere e rimanere solo uno: la salvaguardia e la tutela della società in toto, anche a discapito talvolta del singolo individuo. Sarah Meraviglia
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luglio, ore 18.35 (orario cinese). Il mio aereo atterra all’aereoporto internazionale di Shanghai, Pu Dong. Ero esausto, ma allo stesso tempo molto emozionato. “Sono a 9000 chilometri da casa” pensai mentre aspettavo che arrivasse il mio bagaglio. Appena mi assicurai di non aver perso nulla, uscii dall’aereoporto per cercare un taxi, e la prima cosa che notai è la netta differenza climatica: un caldo così insopportabile non l’ho mai provato! Trovato un taxi senza troppe difficoltà, mi diressi alla SISU Shanghai, il college dove ho sostenuto un corso intensivo di cinese. Non riesco ancora a decifrare quel mix di emozioni che mi assalì durante il tragitto: stupore, emozione, ansia, preoccupazione. Quando arrivai a destinazione, dopo più di un’ora di tragitto, notai con mio grande stupore che l’ammontare della corsa era di soli 20 euro! In hotel, il mio approccio non fu dei migliori: non c’era alcuna possibilità di collegarmi ad internet e solo una minima parte del personale era in grado di capire l’inglese, per non parlare poi di tutti i negozi nei dintorni, che avevano usanze a dir poco arretrate. “Bene” pensai “come farò a restare qui un mese?!”. Intanto mi accorsi che erano già le 22.45, quindi decisi di andare a letto, saltando la cena. Il mattino seguente visitai un po’ il quartiere, ma anche in questo caso l’impatto non fu esaltante: mi accorsi subito che il paesaggio circostante non era un vero e proprio Postcard Scenery, essendo situato sotto ad una sopraelevata, e il frastuono incessante dei clacson non era per nulla piacevole. Nonostante tutto però, trovai un bar molto vicono all’hotel munito di wifi, dove poter chiamare i miei genitori: posso assicurare che la gioia che provai in quel momento, sentendo la voce di mia madre fu un’ emozione mai provata prima. In quei primi giorni infatti, la città non mi affascinava molto, e la gente del posto, seppur molto cordiale e disponibile, aveva usanze palesemente diverse (troppo diverse) dalle mie. “Sono qui per studiare, nonostante tutto” continuavo a ripetermi, quasi come se volessi farmi coraggio. Così, andai in facoltà per la presentazione e già all’entrata del college mi accorsi di quanto la struttura fosse ordinata e soprattutto moderna. Girando per le classi mentre cercavo la mia, notai un gran numero di strumenti didattici all’avanguardia: banchi e sedie nuove, lavagne luminose e computer di ultima generazione. Questi fattori per un italiano, abituato a materiali scolastici a dir poco antiquati e composti del minimo indispensabile, risaltano sempre all’occhio. Conobbi subito ragazzi provenienti dalle più svariate parti 40
del mondo: Russia, Egitto, Australia! Tutti nella mia stessa condizione, lontani da amici e parenti, eppure cosi sereni e rilassati. Bastò poco per far sparire tutte le mie preoccupazioni e i miei malesseri. Gli stessi, dopo il test d’ingresso, mi invitarono a pranzo in uno dei classici ristoranti cinesi nei pressi del college: qui il cibo era molto buono e salutare, in più il prezzo medio di un pasto completo era di 2 euro circa. “Saranno prezzi per studenti” pensai subito incredulo, ma con il passare dei giorni mi resi conto che quello era il vero prezzo medio di un pasto completo a Shanghai. Incredibile, ma vero. Non dimentichiamo però che ero in Cina, uno dei paesi più rinomati per la folkloristica cucina. Nonostante fossi molto esitante inizialmente mi sono fatto coraggio e, ad occhi chiusi, ho mangiato un boccone di pipistrelli e cavallette, i primi serviti a coppie su spiedini alla griglia. Bisogna dimenticare ciò che si sta addentando per non vomitare! Piatti così esotici eppur così economici, ma i più fortunati possono anche provare il prelibato cervello di scimmia, a soli 600 euro. Man mano che passavano i giorni, conoscevo persone sempre più interessanti e scenari mozzafiato, un mix tra l’antica cultura cinese e il moderno centro finanziario (meglio conosciuto come “Bund”). Anche la vita notturna offriva davvero tanto: nel cuore di Shanghai, ci sono un infinità di locali ai piani alti dei grand hotel, strutture super-moderne e con molta classe. Ogni volta che entravo in una discoteca mi innamoravo del gusto con il quale erano arredate e del servizio eccellente che garantivano, basti pensare che ogni privèe aveva un suo cameriere personale, incaricato di versare da bere.Visitando la città, però, gli occhi più attenti noteranno sicuramente la mole di lavoro asfissiante alla quale si sottopongono la maggior parte dei lavoratori: gli operai ad esempio, lavoravano almeno 16 ore al giorno, e per la maggior parte dei negozi, durante la settimana non esistono giorni festivi. Nonostante gli orari ferrei, che potrebbero far rabbrividire un lavoratore occidentale, tutti portano a termine il proprio compito, lavorando sodo e in maniera eccellente: questo fa capire l’alto senso del dovere del cittadino cinese. Anche questo è un fattore che notai subito, visto che in Italia, chi lavora 8 ore al giorno, lavora troppo. Ad ogni modo, il difetto maggiore della città è sicuramente l’inquinamento, che raggiunge quotidianamente livelli altissimi. Ma d’altronde, cosa ci si poteva aspettare da un paese che, in poco più di un decennio, ha fatto aumentare il suo PIL del 560% ? Francesco Granieri
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iù o meno a metà del 2012 è iniziata a circolare in maniera più o meno ufficiale una voce su un non molto ben specificato Sin City 2 ad opera, ancora una volta, di Robert Rodriguez. C’era chi parlava di prequel, chi di sequel, nessun accenno a un ritorno delle tette di Jessica Alba e in generale più che di hype si poteva parlare di terrore, lo stesso terrore che avevamo visto negli occhi di Endrio Manicone quando uscì Fantozzi 2000 – La Clonazione. Il panico che solo un fan può provare, quella brutta sensazione che si avverte quando c’è il rischio di rovinare qualcosa di molto bello con qualcosa di molto merda. Comunque siamo tornati a respirare quando è stato confermato in blocco più o meno tutto il vecchio cast, purtroppo Brittany Murphy era già stata vittima della terribile “muffa della vasca da bagno” che come tutti sapete ha decimato la popolazione di Los Angeles nel 2009. A Dame To Kill For. È questo il titolo che un giorno ci siamo sentiti piovere addosso come una bomba, Una Donna Per Cui Uccidere. Che bello, hanno continuato a pescare dal fumetto di quel simpatico cadavere di Frank Miller, noto soprattutto per essere un tifoso sampdoriano dall’altroieri. Ma ecco d’incanto la prima balla clamorosa: il film sarà nelle sale il 4 Ottobre 2013. Sappiamo tutti com’è andata a finire, qualche addetto stampa doveva avere una tastiera fallata col 3 e il 4 invertiti. Ma noi che siamo pazienti, alti, belli e con gli occhi azzurri, ci siamo messi l’anima in pace e abbiamo aspettato. Il 6 Marzo 2014 esce il primo trailer ufficiale. Annunci in pompa magna e immagini frenetiche a tutto spiano. “No, non ci deluderà, non lo farà... Guarda, guarda il trailer”, un mantra. Saltano fuori le definitive indicazioni sulla trama: soliti episodi intrecciati, storie prese dalla graphic novel, altre rea-
lizzate per l’occasione dallo stesso Franky. Iniziano però le coltellate: c’è di nuovo Jessica Alba ma a ‘sto giro ha detto che non vuole passare per una maiala quindi niente pose esagerate, c’è di nuovo Dwight McCarthy ma per qualche motivo Josh Brolin ha preso il posto di Clive Owen. E i recasting sono la cosa più brutta del mondo insieme alla tubercolosi e Man Of Steel e su questo siamo tutti d’accordo. Arrivano anche buone notizie: rivedremo il vecchio sergente pedofilo-che-non-sa-di-esserlo John Hartigan aka Bruce Willis, ma soprattutto uno dei ruoli principali sarà affidato alla top gnocca Eva Green e qui le ischemie nei nostri uffici sono arrivate con la pala meccanica. Abbiamo fatto un sondaggio a tema tra gli italiani chiedendo se Eva Green potrebbe realmente essere una donna per cui uccidere e il 97% degli intervistati ci ha interrotti durante la domanda per uccidere la moglie a colpi di 50 Sfumature Di Grigio sull’epistrofeo. A quanto pare eravamo passati di nuovo dal terrore all’hype, molto bene. Riprendere in mano il lavoro originale di Miller è sempre un piacere, rileggerlo come attività propedeutica alla visione del film è un po’ da psicolabili ma in fondo lo siamo e quindi va bene. Stiamo parlando di un fumetto al limite del minimalista. Bianco e nero, fine. Il buio viene scavato dalla luce per delineare i personaggi e la luce è macchiata dalle ombre per i dettagli, gli sguardi e il sangue, il molto sangue che cola a Sin City. Nel film del 2005 è stato fatto un lavoro pazzesco, per la prima volta si tentava e si riusciva a portare sul grande schermo un certo tipo di fumetto, certe inquadrature e un linguaggio che fino a quel punto non si era visto. Colori iper desaturati, al limite del bianco e nero, fatta eccezione per il rosso, sempre presente, fortissimo. Un risultato che a un occhio attento può ricordare a trat43
ti Schindler’s list di Spielberg ma in questo caso si è osato di più. Sono passati nove anni da allora e le tecniche viste in Sin City sono state scopiazzate in altre pellicole, spesso poco riuscite, sono stati fatti molti passi avanti, l’uso del digitale si è evoluto, il 3D si è affermato e di conseguenza è lecito aspettarsi quantomeno dal punto di vista estetico un risultato notevole. In effetti dal trailer le impressioni sono abbondantemente confermate. A questo punto però, una piccola, minuscola ombra ha iniziato ad annerire le nostre luminose aspettative. Il film è uscito nelle sale statunitensi il 22 Agosto 2014 quindi c’è stata la possibilità di guardare qualche clip ma soprattutto, leggere qualche impressione. L’idea generale che si è fatto il pubblico americano è, per essere rapidi e indolori, che il film sia un tremendo flop. Si parla di “un film che copia il primo Sin City, senza però averne lo stesso brutale impatto”, “storia che pur vertendo su omicidi e decapitazioni annoia in fretta”, in generale viene lodato il cast, in particolare la performance della Green ma il film convince molto poco. Il film negli USA al momento ha incassato solo 28 milioni di dollari contro i 65 che sono serviti per realizzarlo, si potrebbe parlare di violenta débâcle se non fosse però... Che anche il suo predecessore al box office non si comportò benissimo in un primo momento. Il primo Sin City, oggi considerato quasi un classico e ben apprezzato quasi all’unanimità, incassò solo 29 milioni in apertura, chiudendo la sua avventura negli States con un totale di 74 milioni contro i 40 spesi per realizzarlo. Il fatto è che il film ha incassato poi altri 85 milioni nel resto del mondo. Allora per quale motivo dovremmo andare a vederlo? Semplice. Sul fatto che sia un film tecnicamente valido sembrano esserci delle garanzie e in ogni caso vale la pena vedere come sia stato sfruttato il 3D con questo tipo di immagini. Il cast è strapieno di bei nomi e le performance sembra che siano state ben accolte. Rodriguez avrà fatto diversi passi falsi ma col primo Sin City ha fatto qualcosa che ancora oggi dopo nove anni riesce ad impressionare. Il caro vecchio Miller si merita di più che una maglia della Sampdoria. I vostri Ladri Di VHS in collaborazione coi migliori bookmaker e allibratori del paese vi consigliano di scommettere su questo film, che in fondo non sarà poi così male.
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Le Neo Jihadiste Quando la guerra non è più una prerogativa degli uomini
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le. Sono foto che mostrano la donna operaia hi sono io?”, “Qual è il mio posto nel a lavoro in fabbrica, la madre che sfama i mondo?”, “Cosa farò mai nella vita?”, sono figli e attende con trepidazione il ritorno domande esistenziali che hanno sempre ca- del marito. Difficilmente l’idea della “donna ratterizzato l’essere umano, condannato a che aspetta e intanto provvede alla famiglia” veleggiare per i mari dell’incertezza, soprat- uscirà dall’immaginario collettivo. E ci piatutto quello di sesso femminile, da sempre ce immaginarla anche così, la donna. In un per storia e tradizione impelagato in percor- mondo che durante la guerra si carica di cosi più tradizionalistici, costretto a risponde- lori grotteschi e disumani, la figura femmire a canoni sociali diversi, incatenato a re- nile legata alla casa, alla pace e alla sicurezza è un punto fermo intriso di speranza. taggi primitivi. Chiaramente, nella cultura occidentale, og- Eppure qualcosa è cambiato, e ancora sta gigiorno, la differenza di genere è quasi del cambiando, anche per le donne. La ricerca tutto inesistente, nel bene e nel male; sono di un proprio ruolo nel mondo si sta tracondivise sfere professionali, cariche am- ducendo, per alcune giovanissime donne, ministrative, impieghi ai vertici del potere, nell’abbracciare estremismi ideologici e reoccupazioni di grande responsabilità e che ligiosi che conoscono poco e ai quali sono culturalmente del tutto estranee. richiedono prestanza fisica. La guerra però, pensata anche nel suo aspet- E’ il caso delle nuove jihadiste, ragazze spesto più antico e rudimentale, è un concetto so occidentali, che hanno deliberatamente che, anche nell’evoluto XXI secolo, asso- scelto di imbracciare un fucile e schierarsi ciamo alla figura maschile, all’uomo, al sol- in prima fila al seguito dei guerriglieri dell’ dato. Nessuno di noi immagina una donna Isis. alla guida di un carro-armato (sebbene ne Molto difficilmente l’ Isis permetterà a queesistano eccome) o tantomeno la immagina ste donne di ricoprire ruoli di spessa rileaccucciata nel deserto a disinnescare mine. vanza, tuttavia l’impatto mediatico e accatLe immagini storiche delle due Grandi tivante che caratterizza una giovane donna Guerre, raccontate tramite fotografie, mo- con un’arma in mano è qualcosa a cui non strano come il ruolo delle donne nei grandi eravamo preparati. conflitti mondiali sia stato di primaria im- Ragazze di 16, 17 anni (perlopiù inglesi) si portanza in patria, affinché l’economia pro- sono proposte come nuove spose per i comgredisse in assenza di manovalanza maschi- battenti dell’Isis con l’intenzione di affian-
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care i futuri mariti in Siria e in Iraq per partecipare alla “guerra santa”. Decine di migliaia di tweet che inneggiano alla violenza contro l’Occidente e che sottolineano la volontà di queste giovani ragazze di partecipare al conflitto nella sua essenza più violenta. Una 22enne inglese convertita all’islam e madre di un figlio, avrebbe commentato su Twitter la decapitazione del reporter americano James Foley (giustiziato per l’appunto il 19 agosto 2014 nel deserto siriano da un boia dell’autoproclamato Isis) esaltandone il gesto e affermando che : “UK must b shaking up ha ha. I wna b da 1st UK woman 2 kill a UK or US terrorist” (l’Inghilterra deve scuotersi. Voglio essere la prima donna ad uccidere un inglese o un americano). Con un’immagine molto lontana dalla concezione comune della donna musulmana sottomessa, queste guerrigliere sono state paragonate a dei cani sciolti; riottose, violente e del tutto insofferenti a qualsiasi tipo di autorità, anche quella maschile. L’unico obbligo tradizionale al quale sembrano adempire è l’immancabile velo, che viene però sfoggiato come un segno di rabbiosa emancipazione e non più come maschera coercitiva. Crudeli killer professioniste, capaci di compiere efferati assassini nel nome della religione o semplici macchiette da copertina,
fenomeni da baraccone, manichini di facciata per attirare attenzione e adesione su larga scala? Non so voi, ma io un po’ ci spero che sia tutta una montatura, tutto un teatrino e un polverone fallace, perché forse è ora che la donna capisca che emancipazione è anche rivendicazione della differenza di genere, del proprio ruolo. E’ forse ora che capisca che il sesso debole non diventa forte con un mitra in mano. Donne, la violenza lasciamola agli uomini. Noemi Gesuè
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Let’s talk Beats
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miliardi di dollari per le cuffie più famose del mondo: Cupertino acquista Beats E’ la più grande acquisizione di Apple di sempre; è stata elogiata, è stata criticata, è stata oggetto di dispute e dibattiti tra esperti in campo tecnologico e in campo economico-aziendale. Parliamo di quanto successo il 28 maggio 2014, quando per ben 3 miliardi di dollari Apple, celebre compagnia informatica statunitense, regina della Silicon Valley nonché la mela più famosa del globo, acquista Beats, marchio con sede a Santa Monica, compagnia famosa worldwide per la produzione di speakers, software audio e naturalmente le sue cuffie super alla moda e super costose. La compagnia rappresenterebbe per Apple una gallina dalle uova d’oro per la sua ultimissima innovazione, cioè Beats Music, il servizio di musica in streaming che ha raccolto in pochi mesi numerosi adepti. Sembrerebbe una semplice compravendita ma dietro l’accordo c’è molto di più.
The deal
L’accordo era nell’aria già dagli inizi dello scorso mese di maggio, quando anonimi portavoce avevano iniziato a diffondere la notizia che Apple avrebbe iniziato a sedurre la compagnia Beats detenente attualmente il 59% del mercato di cuffie negli States. L’8 maggio la testata Financial Times pubblica la notizia della trattativa in corso. All’annuncio ufficiale dell’acquisizione è seguita la comunicazione della cifra esorbitante: 3 miliardi di dollari, dei quali 2.6 da consegnare in contanti e 400 milioni in azioni. E’ la prima volta che la compagnia della mela morsicata compra un prodotto finito. L’intento è chiaro, con la forza di itunes alle spalle il colosso ha in mente di sfondare nel campo musicale per battere la concorrenza di software potenti come Spotify, Pandora o Deezer.
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L’accordo prevede l’investitura come membri Apple dei due co-fondatori di Beats sotto la guida dei successori di Steve Jobs: Tim Cook (amministratore delegato) ed Philip Schiller (dirigente d’azienda).
More about Beats
“Meriti di ascoltare la musica in modo fedele a come vorrebbe l’artista. Adesso puoi farlo nel modo in cui non avresti immaginato”, questo lo slogan della compagnia. Beat in inglese significa“ritmo”ma si riferisce anche ad un preciso genere di musica diffusosi nel Regno Unito negli anni ’60. Il gruppo nasce nel 2008 quando i due co-fondatori Dr Dre (attualmente il rapper più ricco al mondo, nonché uno dei massimi produttori musicali in America) e Jimmy Iovine (presidente del colosso discografico Interscope-Geffen-A&M) ottengono l’appoggio ed i finanziamenti di un’altra società, la Monster, per la produzione di cuffie audio. Nel 2012 forte del successo ottenuto, in particolare con il modello di cuffie che hanno poi preso il nome di “ Studio”, Beats decide di non rinnovare il contratto con la Monster e di imparare a camminare con le proprie gambe. Nel proprio curriculum la compagnia annovera inoltre insigni collaborazioni, ricordiamo che la Fiat ha lanciato sul mercato la sua 500L in versione speciale con casse audio firmate Beats, lo stesso è successo con la Chrysler 300S e ancora con l’azienda HTC, produttrice di Smartphone. Nel gennaio 2014 però Beats lancia l’amo e tenta la scalata nel campo della musica streaming con Beats Music, un servizio su abbonamento che mette a disposizione dei propri utenti venti milioni di brani da scaricare o ascoltare per un numero illimitato di ore. Tale servizio è per ora valido esclusivamente negli Stati Uniti ma con qualche magagna online è possibile accedervi anche da altri paesi. La particolarità di Beats Music sta nella selezione dei brani per la cre-
azione di una playlist. Tale operazione, che parte dalle informazioni personali dell’utente e da quanto egli pubblica sui social network, non viene affidata solamente ad un freddo calcolo algoritmico (come succede per esempio su Spotify) bensì anche a dei curatori specializzati per esempio le riviste Rolling Stone e Downbeat o famosi DJs.
Windows Phone. Il connubio Itunes (con i suoi 800 milioni di utenti) e Beats Music potrebbe portare la Apple al dominio completo della scena streaming musicale da qui a poco tempo.
What Apple says
Tim Cook spiega in un’ intervista che la sua azienda ha visto in Beats talento e compe tenza. Continua dicendo che quando ha La neonata Beats Music ha raccolto nel giro provato per la prima volta Beats Music, soldei primi mesi di vita circa 250mila utenti. lecitato da Iovine, era un po’ scettico,ma A fronte dei 24 milioni di iscritti di Spoti- dopo aver ascoltato un’intera playlist si è fy, i miliardi spesi dalla Apple per acquisire sentito “completamente diverso”. Lo scorBeats sembrerebbero lanciati fuori dalla fi- so 16 agosto Apple ha annunciato che Beats nestra, considerando inoltre che nell’ambi- Music è stata promossa la “Best new app” to degli addetti ai lavori, il materiale audio dopo esser stata scaricata milioni di volte in prodotto da Beats è rinomato più per il desi- pochissimo tempo. gn alla moda tra i giovani che per l’effettiva “The future is in subscription, the future is qualità. La compagnia di Cupertino sembra in streaming” conclude Cook. invece decisa più che mai, per lanciare subito il prodotto appena acquisito Apple ha Sarah Meraviglia infatti reso disponibile gratis su App Store l’applicazione Beats Music, utilizzabile non solo con Ios ma anche con Android e
Pros & cons
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Nick Wooster,
la misteriosa figura dell’alta moda internazionale
“Hi, I’m Nick Wooster and I like things in pairs, like these […]”. Esordisce così Nick Wooster in uno dei suoi ultimi mini-spot sul social network Instagram, per autoannunciarsi come ambasciatore di una nota boutique. Ma chi è Nick Wooster? Per la maggior parte dei suoi followers è un semplice Well Dressed Man (definito da GQ USA “Il maschio alfa dello street style americano”), ma dietro questa figura c’è molto più di una giacca classica e tatuaggi coloratissimi. Nickelson Wooster infatti, per oltre 25 anni ha collaborato con i principali colossi del lusso americani come Berneys New York, Neiman Marcus e Bergdorf Goodman. Spiccano le collaborazioni con Calvin Klein, Polo Ralph Lauren e Jhon Bartlett.
La sua carriera inizia nel 1984, dove lavora per un anno come account executive per “New York Magazine”, ma il primo importante traguardo arriva nel 1993, quando ottiene l’incarico di Director Retail Merchandising per Calvin Klein, dove lavorerà per quasi due anni. Subito dopo, nel ’95, inizia la collaborazione con Polo Ralph Lauren nel ruolo di Design Director, che occuperà per quasi un anno e mezzo. Un trampolino di lancio davvero niente male, che lo proietta nell’alta moda non solo americana, ma anche internazionale. Fino all’anno scorso ha diretto JC Penny, continuando a osservare le nuove tendenze prendendo spunto ovunque dal mondo intorno a lui, sia per strada che sul web.
“ W e l l , let’s say some people know how to dress themselves...” Nick Wooster
Il 27 maggio 2014, il gruppo Lardini, azienda con base a Filottrano nelle Marche, produttrice di abbigliamento di lusso per uomo e donna, all’insegna del vero Made in Italy, ha annunciato la sua collaborazione con Nick Wooster (già ambasciatore di Lardini in America), il quale ha realizzato una “capsule collection” dedicata non solo al mercato americano, ma anche a quello europeo e asiatico, in particolare Giappone e Korea del Sud. La collezione è stata presentata il 18 giugno durante l’ 86° edizione del Pitti Uomo. Insomma, un curriculum vitae del genere toglie ogni dubbio che dietro lo stile classico ma mai banale di Nick Wooster ci sia tanta esperienza nel mondo dell’alta moda. Francesco Granieri
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E m p a t i a e c o n n e s s i o n e i s e g r e t i d e l s u c c e s s o
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Empatia e connessione umana: i segreti del successo secondo Stuart Diamond. Quante volte ci è capitato di sentirci insoddisfatti dopo aver concluso un affare, di aver stipulato un contratto che, ripensandoci, non era poi così conveniente, di aver accettato un’offerta che, a differenza di quella del celebre colossal, avremmo potuto tranquillamente rifiutare? Quante volte abbiamo pensato che se fossimo stati più insistenti e fermi nell’esporre le nostre condizioni, forse ne avremmo negoziate di diverse, magari a noi più favorevoli, e che forse, adesso, non ci sentiremmo come se avessimo perso ad un gioco con la controparte, che invece ha vinto? Eppure, la soluzione che non lascerebbe prevalere l’interesse dell’altro sul nostro, la strategia che non vedrebbe un solo vincitore nella trattativa, ma chiunque vi partecipi, è davanti ai nostri occhi. Non riusciamo a scorgerla, però, e non ne siamo capaci perché è quella che meno ci aspettiamo. Non ci aspetteremmo mai, infatti, che per ottenere il massimo del vantaggio da un affare, non dovremmo fare altro che essere disposti a dare il massimo all’avversario. Ci sembra un concetto da moralismo spicciolo; eppure, la chiave del ricevere non è altro che dare. E ce lo dice Stuart Diamond, ex giornalista del New York Times, premio Pulitzer dell’ ’86, che ad oggi collabora con clienti come Google, Facebook, Yahoo!, Microsoft e le forze speciali dell’esercito statunitense. Il suo lavoro? L’ex giornalista di Philadelphia lavora come motivatore, affiancando le aziende più autorevoli di tutto il mondo nella negoziazione delle condizioni più vantaggiose al loro calibro, invitandole a conoscere e adottare al meglio la strategia che l’ha reso celebre in tutto il mondo, la human connection. Connessione umana. Nella sua opera “Ottenere di più” (Getting more nell’originale, ndr), Stuart Diamond ci pone davanti ad una verità che molto spesso non siamo in grado di cogliere. Ogni volta che interagiamo con qualcuno tramite la comunicazione, che sia o meno verbale, che sia o meno consapevole, in qualche modo apriamo una negoziazione. Quando facciamo un acquisto, quando ci mettiamo in auto, quando parliamo con i nostri figli, la trattativa è sempre in atto. Questo non significa che dobbiamo sempre essere vigili e condurla perennemente in modo attivo; dobbiamo soltanto imparare a gestirla al meglio. E, per riuscirci, per ottenere il massimo del profitto, non dobbiamo fare altro che indurre la parte opposta a pattuire spontaneamente, in modo sereno e cosciente, quasi come se fosse felice di farlo, le condizioni per noi più vantaggiose. E come possiamo “ottenere di più”, se non facendo in modo che l’altra parte si fidi di noi? Con dati alla mano, il motivatore di Google ci presenta dei numeri da capogiro: studi recenti della Banca Mondiale hanno rilevato che meno del 30% degli italiani si fida l’uno dell’altro, circa la metà rispetto alle percentuali raggiunte dalle nazioni più potenti del mondo. E, se manca stima e cooperazione, l’entità del danno economico schizza alle stelle: gli affari vengono conclusi in modo più faticoso, più 52
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lentamente, e più lento è il rinnovamento, e il progresso. Secondo la Banca Mondiale, l’assenza di fiducia costa all’Italia un milione di posti di lavoro l’anno, e ottanta miliardi di dollari. Ma come stabilire un rapporto di fiducia reciproca, che conduca ognuno a risultati favorevoli? Il punto di forza di una buona negoziazione non è altro che l’empatia. Entrare a contatto con le proprie emozioni, e con quelle della controparte, lasciando che prevalgano queste sulla logica della prevaricazione, questa è la chiave: guardare chi ci sta di fronte, e domandargli: “Come posso, io, esserti utile?”. Le necessità dell’altro, quelle, in quel momento, devono essere la nostra priorità, lasciare che l’altro ne parli, estrapolando più informazioni possibili sui suoi standard, sui suoi metodi di valutazione, sulle sue esigenze. E’ proprio dimenticando il tradizionale approccio win-lose di John Nash, in cui si punta tutto sulla vittoria individuale, che Google è riuscito ad ottenere uno sconto del 99,9% su delle costosissime fibre ottiche. Ha risparmiato e poi guadagnato milioni di dollari, semplicemente chiedendo: “Che cosa posso fare per te?”. A Google è stato chiesto di scrivere una lettera di referenze e, in cambio, da sei milioni di dollari, la controparte ha ridotto il prezzo dell’operazione a seicentomila dollari. Tutto questo grazie all’interazione umana; tutto questo tenendo a mente che non si acquista solo da aziende, ma in primo luogo da persone. Persone con desideri, aspettative ed esigenze, persone che hanno a cuore il proprio benessere e quello dei propri cari, esattamente come noi. Soltanto esponendoci, soltanto solidarizzando, soltanto ricordando che noi e l’altra parte non stiamo mettendo in gioco il denaro, ma il tempo che, per guadagnarlo, non abbiamo dedicato ai nostri sogni, alle attività che ci rendono felici, alle persone che amiamo, possiamo giungere alla conclusione più conveniente per tutti. E non è forse più dolce la vittoria, se condivisa? In un’epoca in cui la connessione Internet si è innalzata a bene primario e con cui, ogni giorno, possiamo metterci in comunicazione con migliaia di utenti in tutto il mondo, dobbiamo tentare con tutte le nostre forze di non trascurare un altro tipo di connessione. La connessione umana, con cui, ogni giorno, possiamo metterci in comunicazione con migliaia di persone in tutto il mondo. Chissà che Stuart Diamond non voglia dirci proprio questo: ricordiamoci che dietro le imprese ci sono famiglie, che dietro gli account ci sono individui che aspirano al successo, al meglio, proprio come noi, e che saranno disposti ad offrircelo, se dimostriamo, in quanto esseri umani, di essere in grado di saperlo di ricevere, e di donarglielo a nostra volta. Coltiviamo le relazioni interpersonali; o rischieremo che sia la mancata connessione umana, e non un guasto alla rete, a renderci off-line. Chiara Pizi
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Time isIllmatic
“ ip means to know / it’s a form of intelligence / To be hip is to be up-date and relevant / Hop is a form of movement / You can’t just observe a hop / You got to hop up and do it / Hip and hop is more than music / Hip is the knowledge, hop is the movement / Hip and hop is intelligent movement” così comincia un famoso brano di KRS-One, e trovare una definizione pù adatta di questa per descrivere l’hip hop è davvero difficile, se non impossibile. Tutto nasce agli inizi degli anni ’70, nel Bronx, quando Dj Kool Herc e Dj Africa Bambaataa trovano un nuovo modo per esprimere la realtà che li circonda, la mediocrità nella quale vive la maggior parte della popolazione nera e latina degli Stati Uniti, e allo stesso tempo creare un qualcosa che unisca tutti i ragazzi della periferia, lasciati in balia del loro destino dalle istituzioni. L’ hip-hop è un vero e proprio movimento culturale che in brevissimo tempo si diffonde in tutto lo Stato e che, tra gli anni ottanta e novanta aveva già varcato i confini statunitensi per correre oltreoceano. La Grande Mela non è solo il luogo in cui tutto ebbe inizio, ma è anche la città che ha dato i natali ad alcuni dei rappers più grandi della storia, tra i quali vogliamo ricordare Nas. Nasir Jones nasce il 14 Settembre 1973 nel distretto del Queens, New York. Figlio di Olu Dara, noto musicista blues, resta fin da piccolo influenzato dalla musica del padre, inserita in numerose basi dei suoi album. Le alte mura grigie del Queensbridge racchiudono le innumerevoli storie che quel ragazzino vuole raccontare e trasmettere al mondo esterno. E’ proprio questa sua indole da story-teller che lo differenzia dagli altri. In quegli anni la musica rap aveva avuto un notevole successo e mentre lui portava avanti temi sociali e politici, molto maturi per la sua età, la scena si caratterizzava di una continua ostentazione di lussi ed eccessi. A soli 20 anni, Nas lancia il suo primo disco 56
solista Illmatic, considerato da molti uno degli album più belli mai prodotti, una vera e propria pietra miliare del genere, sia per i contenuti sia per le musiche. Prodotto dalla Columbia Records, il disco è stato seguito dai più grandi produttori musicali del tempo come Dj Premiere, Pete Rock e Large Professor. L’enorme seguito ricevuto dal suo lavoro porta la East Coast di nuovo ai vertici del mercato musicale americano, in quel momento occupato in gran parte dal fenomeno West Coast (il conflitto tra la due fazioni supererà poi i confini musicali fino a sfociare nei famosi omicidi di Tupac Shakur e The Notorious B.I.G, nda). Non è solo il gruppo della costa atlantica a beneficiare del successo di Illmatic, lo stesso Nas infatti acquisisce un’enorme fama che lo porterà ad una grande rivalità col rapper Jay-Z per la nomina di T.O.N.Y. (Top Of New York). Quest’ultimo lo accusa di essersi discostato dai suoi iniziali temi e di aver lavorato ai successivi album con un flava (gusto, sapore) diverso. La risposta non si fa attendere e qualche mese dopo Nas pubblica Stillmatic (titolo chiaramente provocatorio), il cui brano d’apertura Ether è una risposta aperta al rivale, ancora oggi considerato uno dei diss migliori di sempre. Sono passati ben vent’anni dall’uscita di Illmatic, l’album che ha fatto storia, e in occasione il profeta del Queens ha programmato per Ottobre di quest’anno l’uscita di un film-documentario dal titolo Time is Illmatic. Sarà lo stesso Nas a raccontarci le sue origini, la sua storia, ripercorrendo le strade che da piccolo lo hanno accompagnato e formato. Un vero e proprio viaggio nel tempo, il quale però si trasforma in una denuncia dei disagi che tutt’oggi affliggono i cittadini di quei castelli grigi che tanto hanno ispirato il giovane Nasir. Fabrizio Pinci
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Ed Sheeran, “Blooming Out Loud” rlanda, 2002. Tra la folla delle ultime file che assisteva a uno dei primi live di Damien Rice, spuntava la testolina rossiccia di un bambino poco più che undicenne, accompagnato dai genitori. Nessuno dei tre immaginava che una decina di anni dopo Edward Christopher Sheeran avrebbe riempito le arene di tutto il mondo così come avrebbe fatto Damien alla vetta del successo.
primo e quest’ultima: i brani sono molto più veloci e ritmati, il sound è più frizzante e coinvolgente a livello ritmico, i motivi sono contagiosi. E capiamo subito il perché dando un’occhiata ai credits: Pharrel Williams, l’icona pop del momento, condivide la produzione di più che un paio di brani. Non ha voluto però deludere i fan più affezionati al suo stile; le ballate soul non mancano, e le più belle e romantiche sono Il cantautore originario del West esplicitamente dedicate alla sua attuale Yorkshire dice di aver ricevuto proprio in fidanzata Athina Andrelos. D’altronde quell’occasione il colpo di fulmine che gli lo stesso Ed ha ammesso in una recente ha chiarito quale sarebbe stato il suo futuro: intervista il luogo comune che “se esci scrivere poesie, metterle in musica e incantare con un cantautore, devi essere preparato milioni di persone con la sua dolcissima voce. a sentire canzoni scritte su di te”. Con l’esordio del suo primo album + (Plus) nel 2011, Ed si era già creato una cerchia La parola d’ordine di questo nuovo album di fans più che corposa; tutti i continenti è stata il rinnovo; Ed ha saputo mixare il pochi mesi dopo l’uscita del disco già ritmo lento e romantico delle sue ballate canticchiavano i motivetti delle orecchiabili a un frizzante pop che sfocia nell’electropop ballads e imparavano a memoria il testo folk, contagioso e ballabile. Non ha voluto di Lego House. La sua produzione ha scalato ripetersi, quindi, e l’esperimento è andato le chart mondiali, avendo un incredibile bene: ancora più del suo primo disco, X successo soprattutto in Australia, fino a (Multiply) ha ripetutamente raggiunto la vincere per sei volte di seguito il disco di vetta di innumerevoli top ten mondiali, platino e facendo acquistare al fortunato letteralmente sbancando alle radio. cantautore sempre più ingaggi. Lo abbiamo La dolcezza del suo sound e della sua voce, visto cantare alla cerimonia conclusiva poi, gli hanno fatto conquistare l’ingaggio delle Olimpiadi 2012 e aprire i concerti del per la scrittura della colonna sonora di uno Red Tour di Taylor Swift l’anno seguente. dei film più attesi del 2014 – All of the stars Così ha giustamente deciso di ritentare la per The fault in our stars –, una commovente fortuna, e si direbbe che ha fatto più che bene. espressione del suo inconfondibile stile. Due anni dopo il suo fortunato esordio musicale, Sheeran si dedica alla produzione del suo secondo LP, uscito poco prima di quest’estate: X (Multiply). I più attenti conoscitori del cantante hanno subito notato la differenza tra l’impostazione musicale del
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Tutto ruota intorno all’amore, ci dice il ventitreenne inglese, che sembra già portarsi dietro un bel carico di esperienze, e per questo c’è bisogno che se ne scriva. Vittoria Pinto
I numeri giusti per una somma vincente “...Con l’esordio del suo primo album + (Plus) nel 2011, Ed si era già creato una cerchia di fans più che corposa.”
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Il grande e bianco Nord alla conquista dell’hip-hop internazionale
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egli ultimi anni l’hip-hop si sta facendo sempre più largo nel mercato musicale e non, relegando generi come il pop e il rock a ruoli sempre più marginali. Figura di spicco in questo mondo polimorfo ed in continua evoluzione è senza dubbio Aubrey Drake Graham, meglio noto semplicemente come Drake. Nato a Toronto, in Canada, è riuscito ad imporsi nel panorama americano e mondiale in pochissimo tempo, diventando pilastro portante di quella complessa struttura chiamata rap. Dopo l’enorme successo avuto con l’album Take Care, è nel 2013 che la sua figura domina la scena musicale con l’uscita di Nothing was the same, suo terzo studio album, il quale ha ispirato numerosi artisti e lanciato un nuovo modo di fare musica. Molto eclettico, si è inizialmente imposto con uno stile Rhythm and blues che ha sancito la sua musica come “romantica e d’atmosfera”. Con l’ ultimo album, però, Drake ha voluto scrollarsi di dosso questa sua immagine. E’ cambiato, si è evoluto musicalmente, tanto che in un’intervista al magazine XXL dice di non vedersi più allo stesso modo, ha capito di non dover nulla a nessuno e che puntando solo sulle proprie forze sta facendo bene. L’ intraprendente canadese, però, non si pone limiti. All’inizio del 2012 fonda, in collaborazione con l’amico e producer Noah “40” Shebib, l’etichetta OVO Sound (October’s Very Own). Non tardano ad arrivare i primi patrocini della label la quale mette sotto contratto i producers Boi-1da, T-Minus e Mike Zombie, e i rappers Majid Jordan e PARTYNEXTDOOR. In particolare
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quest’ultimo, classe ’93 dell’Ontario, conquista subito un notevole successo con i suoi primi due mixtape, PARTYNEXTDOOR e PARTYNEXTDOOR TWO, i quali scalano velocemente le vette delle classifiche americane, sancendo per il giovane artista il ruolo di miglior emergente del genere RnB. L’enorme seguito avuto dalla OVO ha subito stimolato l’interesse di grandi aziende, fra tutte la Warner Bros. Records, la quale ha firmato un contratto di distribuzione con la label. Il lavoro del gruppo si evidenzia nel già citato album Nothing was the same di Drake, distribuito e prodotto sia dalla OVO sounds, con la compartecipazione della Warner Bros. Records, che della Young Money Cash Money, nel quale troviamo la presenza di PARTYNEXTDOOR nei singoli Own it e Come thru. Il progetto messo giù da Drake è ben chiaro: non fermarsi al solo ambito musicale, ma creare un vero e proprio “movimento”. Ogni anno, dalla nascita del gruppo, Graham organizza l’ OVO Fest, un grande concerto in collaborazione con il Caribana weekend, col quale porta nella sua città numerosi artisti di rilievo nella scena hip-hop internazionale. Negli anni si sono susseguiti Eminem, Jayz, Nas, Lil Wayne, the Weekend, ASAP Rocky e con grande sopresa finale, Kanye West. Nonostante il notevole successo il gruppo canadese non si concede vacanze, a luglio di quest’anno è stato infatti annunciato il nome del quarto album del talento di Toronto, Views from the 6. A noi, invece, non resta che aspettare godendoci lo straordinario lavoro fatto fin’ora. Fabrizio Pinci
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a compiuto da poco 33 anni, ha venduto milioni di dischi in tutto il mondo e si è aggiudicata importanti premi tra cui lo stimatissimo Michael Jackson Video Vanguard consegnatole agli ultimi Mtv Video Music Awards dal marito JayZ e dalla figlia Blue Ivy. E’ considerata la regina del R&B Pop ed è la grande stella che ogni donna vorrebbe diventare, nonché straordinaria mamma e moglie; una vera e propria musa ispiratrice. Con l’accentuazione di una vocazione femminista che ha sempre avuto e l’incoronazione di Forbes come celebrità più potente al mondo, Beyoncé ha regnato incontrastata anche quest’anno. Dalla performance ai Grammy 2014 a quella sul palco del Superbowl e all’ultima degli Mtv VMAs, Beyoncé ha vissuto il 2014 in giro per il mondo e negli stadi con l’On The Run Tour in compagnia del marito JayZ. Sul magazine The New Yorker, il critico di musica Jody Rosen ha descritto Beyoncé come “la più importante e convincente musicista del XXI secolo”. The Guardian l’ha nominata artista dell’ultimo decennio; Llewyn-Smith ha inoltre aggiunto che “Beyoncé è senza dubbio la migliore live performer degli ultimi dieci anni”. Nel 2013 è entrata nella Top 100 dei personaggi più influenti della rivista Time; Baz Luhrmann ha detto di lei: “Nessuno ha quella voce, nessuno si muove come fa lei, nessuno mantiene l’audience alta come lei. Quando Beyoncé fa un album, quando canta una canzone, quando fa qualsiasi cosa, è un evento. In questo momento è lei la diva degli USA, è la voce nazionale regnante” . Nel 2014 Beyoncé ha fatto di nuovo parte della Top 100 del Time ed è inoltre apparsa sulla copertina del numero. Durante la sua carriera Beyoncé ha ricevuto numerosi premi ed onorificenze: nel 2007 divenne la prima artista donna a ricevere l’International Artist Award durante gli American Music Awards. Nel 2008 durante i World Music Awards vinse il premio per Outstanding Contribution to the Arts, oltre che il Billboard Millennium Awards durante i Billboard Music Awards, come riconoscimento alla sua carriera e per la sua influenza nel mondo della musica. In tutta la sua carriera ha vinto 17 Grammy Awards (14 da solista e 3 con le Destiny’s Child), diventando così la terza artista fem-
minile più premiata e la donna con più nomination nella storia dei Grammy Awards. Queen B ha portato la sua musica ad un livello superiore con l’uscita del suo ultimo album intitolato proprio “BEYONCE’”. Un visual album in cui è evidente come l’artista si rende conto di aver superato la fase del desiderio di accettazione e si vede ormai come una donna adulta, libera di sbarazzarsi di vecchi trofei sapendo di poter ottenere conquiste ben più importanti. Il disco è un’analisi interiore della sua personalità mostrando il desiderio di scrivere l’opera che rispecchia il periodo della vita in cui si trova. L’album mostra il percorso di vita di Beyoncé, di come da una comune bambina di Houston che inseguiva il suo sogno esibendosi in gare canore, sia diventata una donna adulta, moglie e madre. L’accostamento di brani musicalmente e significativamente diversi tra loro, mostra la molteplicità di anime del disco che si alterna, come nella vita dell’artista, tra momenti di fierezza e di fragilità. Il disco si chiude con un brano più dolce che mai, un omaggio alla persona che più ha ispirato quest’album, sua figlia Blue. Mai un album di Beyoncé è stato così completo nell’esplorare il mondo interiore. Dal 2011 al 2014, grazie all’enorme differenza tra gli ultimi due album, possiamo notare come si è passati da una donna che riassume il proprio progetto gridando di essere la regina del mondo, ad una madre che conclude il proprio album sussurrando di essere la regina del proprio mondo, ritrovando una dimensione intima con momenti di ira, debolezza, gioia e fierezza. Il suo lavoro ha influenzato e continua ad influenzare numerosi artisti tra cui Adele, Rihanna, Rita Ora e Nicki Minaj. Beyoncé è anche un’icona di stile motivo per cui i designer fanno a gara per vestirla. I costumi indossati per le ultime esibizioni e il Mrs Carter World Tour e l’On The Run Tour sono stati creati unicamente per lei da nomi importanti del mondo della moda come Versace, Givenchy, Alexander Wang, Elie Saab, Gucci, Kenzo, Emilio Pucci e tanti altri. Inoltre Mrs Carter è una delle artiste i cui look sono i più attesi dei red carpet che risultano sempre iper sexy e curati nei minimi dettagli, abiti spettacolari che solo poche dive come lei sono in grado di portare. Giulia Fabbrocini
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il grande e atteso ritorno di Lenny Kravitz
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eonard Albert Kravitz … chi di voi non scommetterebbe sul fatto che si tratti di un lord? O data l’altisonanza quasi aristocratica del nome, un esponente dell’alta nobiltà? Si tratta invece del nome per esteso di uno dei musicisti più chiacchierati, poliedrici e senza dubbio sexy del rock dei nostri tempi: Lenny Kravitz. Kravitz è un cantautore, polistrumentista e produttore discografico statunitense che si ispira ad artisti come Jimi Hendrix, Elton John, John Lennon e Prince. Oltre ad avere una voce dal timbro inconfondibile, suona chitarra, basso elettrico, batteria, pianoforte, armonica a bocca e sitar, con più di 30 milioni di dischi venduti è considerato uno degli artisti pop rock di maggior successo della storia della musica. Lenny è un’artista che ha sperimentato molto nella sua carriera, se pensiamo a successi come If you can’t say no, Thinking of you, I belong to you, Fly away, Believe in me, Again, Stillness of Heart, Where are we running?, California, American Woman nonché alle sue collaborazioni con P.Daddy, Pharrel Williams e alla OST di Austin Powers, solo per citare alcune delle hit più conosciute dal grande pubblico, non possiamo non notare una grande varietà di influenze che hanno caratterizzato il suo percorso musicale. Ogni musicista vero sperimenta, cerca nuove strade, rischia e senza dubbio Lenny, probabilmente per la sua grande energia e carica innate e per la continua voglia di esplorare ogni sfumatura del pop-rock, non s’è mai adagiato sugli allori. Il rocker sta per presentare il suo prossimo album, per l’esattezza il suo decimo disco in studio che si intitolerà Strut, in uscita il prossimo 23 Settembre in Italia (un giorno prima negli altri paesi). The Chamber, il primo singolo estratto dall’album e disponibile su iTunes dal 24 Giugno, è
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entrato immediatamente in classifica con numerosissimi passaggi nelle più note radio Italiane e non solo. Tutti gli amanti del genere, anche chi lo segue più sporadicamente, e i suoi fan ovviamente fremono per poter finalmente ascoltare i nuovi brani, e considerando l’ecletticità dell’artista, come dargli torto? Dodici le canzoni scelte da inserire in Strut: 1. Sex 2. Dirty White Boots 3. The Chamber 4. New York City 5. The Pleasure and the Pain 6. Strut 7. Frankenstein 8. She’s a Beast 9. I’m a Believer 10. Happy Birthday 11. I Never Want To Let You Down 12. Ooo Baby Baby. Per mixare le tracce inserite nel disco Lenny si è avvalso della collaborazione di Bob Clearmountain. Nel suo curriculum ci sono i re indiscussi del Rock, gli Stones, nel brano Tattoo You, il Boss (Bruce Springsteen) col suo celebre classico Born in the U.S.A e per non farsi mancare nulla anche il Duca Bianco (D. Bowie) per Let’s Dance. “Questo disco mi ha portato di nuovo in un posto che amo tanto nella musica. Torna alle sensazioni che ho avuto quando ero al liceo. E’ un disco veramente rock & roll, è crudo, c’è l’anima ed è venuto insieme molto velocemente”. Così Lenny descrive il viaggio che lo ha portato a comporre e incidere i pezzi del suo nuovo lavoro, e come tutte le cose istintive, dettate dagli impulsi più veri, i suoi fan non potranno che amarlo. Questo disco potrebbe riportare il rocker newyorkese a scalare le vette delle classifiche di tutto il mondo, ed è quello che davvero gli auguriamo, ma non prima di esserci accertati della high quality del prodotto consumando timpani e stereo nell’ascoltarlo a ripetizione e sperando che il nuovo album lo riporti a esibirsi in un Tour che tocchi, magari nel 2015, anche il “Bel paese”. Sara Esposito
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68 ILLUSTRATION. LUCA D’ALENA
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È adorata sul palco, sul red carpet ed ora anche come designer. Rita Ora è tra le star più fotografate del momento; i suoi look sporty chic vengono copiati e studiati da molti appassionati di moda. Dopo essersi fatta conoscere a livello internazionale, riuscendo addirittura a farsi paragonare a grandi star del pop, Rita Ora si appresta a diventare stilista per uno dei marchi leader nel settore dell’abbigliamento sportivo. La cantante inglese di 23 anni attribuisce il suo essere eccentrica ed unica a tutto ciò che fa, quindi non sorprende che la collezione per Adidas Originals sia grandiosa. Quando l’artista ha dovuto prendere il ruolo di designer per la collezione, l’ha ritenuta più di una sfida: “Ora ho una forma di rispetto totalmente differente per gli stilisti, afferma, " C’è così tanto in ballo che non ci ho mai pensato quando mi limitavo semplicemente ad indossare i vestiti”.
Impaziente di fare il giusto, Rita Ora ha immerso se stessa nel mondo Adidas, visitando le fabbriche del brand in Germania per creare la collezione. “Essendo la mia prima collezione, è stato un grande momento per me. Ho creato moodboard da quando ho memoria, quindi quello è stato facile, ma entrare in questa nuova realtà è stato diverso. Ho studiato perché volevo rendermi conto di ciò che facevo. Per l’ispirazione sono tornata indietro nel tempo a quando sarei andata a fare shopping al mercato di Portobello e comprato magliette da 3 sterline, strappandole e trasformandole. Quando ci siamo occupati della scelta dei tessuti pensavo ‘voglio la vera pelle, voglio la pelliccia’ così mi hanno guardata ed hanno detto ‘non so dove pensi che siamo ma questo è un brand di sport’. Ho imparato molto anche sul budge t.” Rita Ora ha inoltre affermato: ..... 69
RITA ORA FOR ADIDAS ORIGINALS
“sono una grandissima fan del marchio; sono cresciuta lavorando in un negozio di scarpe e adoro le sneakers; è straordinario avere l’opportunità di collaborare con un brand che vendevo quando ero piccola. Ho studiato tutte le loro scarpe ed i loro archivi degli ultimi 50 anni. Prima di cominciare ho voluto incontrare il team con cui avrei collaborato, così mi sono esibita alla loro festa di natale ed ho conosciuto tutti. Sono stata lì per quattro ore, abbiamo parlato e ci siamo scambiati idee. Da quel momento ci siamo incontrati ogni 2 settimane ed i meeting duravano 5 ore.” Riguardo la collezione ha detto: “c’è un look basato su uno dei miei tatuaggi di colomba.,è il più delicato, la parte più femminile di me con i suoi colori delicati ed i tagli sulle mani che con la pelle scamosciata, cose che sono piacevoli da toccare e sentire” Anche il direttore creativo del marchio, Josefine Aberg, ha espresso tutto l’entusiasmo per la collaborazione con la popstar. “Rita è una persona meravigliosa, solare e simpatica, possiede un grande senso dello stile e un grande amore per il nostro brand. Era ovvio che prima o poi dovessimo lavorare insieme!” .Il design di Rita Ora ritrae il suo stile tipico: eccentrico, colorato ed unico; look creati per una donna originale che trascorre le giornate con grinta ed energia, tenendo in forma il proprio corpo e, allo stesso tempo, restando al passo con la moda. La collezione uscirà in cinque linee differenti, con date di uscita separate:
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la linea "Black", caratterizzata da un look streetwear con shorts e bomber neri ed in pelle, personalizzati con applicazioni che ricordano la moda della vecchia Londra; il "Pastel Pack" che ha alla base i colori pastello con fantasie che ricordano la colomba che Rita ha tatuata dietro la schiena; mentre con il "Colorblock Pack" vengono ravvivati i colori pastello aumentando il tono del rosa, del blu e del giallo, accostandoli ad un nero intenso. Le tre collection includono capi d'abbigliamento, scarpe e accessori e sono già in vendita online e negli store selezionati, mentre si dovrà aspettare il primo novembre per le collezioni "Spray" e "Roses". Questo nuovo contratto è la conferma di quanto in alto sia arrivata; un traguardo davvero importante che impegnerà la cantante inglese per i prossimi tre anni. Ha dichiarato: "Sono sempre stata una grande fan di Adidas, della sua originalità e spregiudicatezza; ho lavorato a stretto contatto con il brand affinché ogni capo avesse un mio tocco personale, con strette connessioni alla mia vita, la mia carriera e la mia musica. Sono molto orgogliosa della collezione e non vedo l’ora che tutti i miei fan possano acquistarla.” Giulia Fabbrocini
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HOOD BY AIR SPRING/ SUMMER 2015 Un momento di vero show sulla passerella della recente New York Fashion Week. L’impronta creativa del marchio streetwear Hood By Air continua con l’approccio al design all’avanguardia per la Spring-Summer 2015. Con l’unico obiettivo di esprimere la propria creatività anche se ciò comporta non seguire le norme, il designer Shayne Oliver presenta un repertorio impressionante che fonde l’hip hop e i riferimenti punk in una linea futuristica. Quando si segue in diretta una sfilata Hood by Air, si sa che ci sarà qualcosa oltre la massima teatralità, vestiti selvaggi ed innovativi e nel caso di questa Primavera-Estate 2015, la presenza di un cane ed accessori alquanto stravaganti. Per la nuova collezione Oliver ha puntato sui “collari” e stampelle, come parte di un esempio del degrado del maschilismo. "Una chiave del tema dello show" ha spiegato lo stilista "è stato porsi un interrogativo su cosa significhi essere un uomo." Maglie lunghe, camicie abbottonate con grafiche impressionanti (una sorta di radiografie degli organi interni di un cyborg), jeans stracciati e pittati, il tutto accostato a blazer smontati e bomber in pelle. Ci vengono quindi presentati una serie di look che si distinguono per l’unione di grafiche, tessuti diversi e accessori in metallo e plexiglass, con la caratteristica dell’iconico logo “HBA”. La passerella si è quindi trasformata in uno show punk nichilista ma molto glamour. Ma i veri protagonisti della sfilata sono stati gli accessori: ogni look è arricchito con zaini in pelle, borse con zip, frange e tubi, collane di catene e lucchetti ed infine i collari in plexiglas che hanno fatto tanto discutere. Le calzature saltano all’occhio, caratterizzate da alcune sneaker del colosso Nike (le Nike Air Force 1 e le Nike Air Foamposite One “Wheats”),
modificate con elementi come strappi in velcro, zip o l’aggiunta di tessuto. C’è da aggiungere che il marchio Hood By Air è stato finalista del premio LVMH 2014 (il premio speciale per i giovani stilisti) e l’evento ha rappresentato per il designer un’esperienza utile a modificare la sua concezione di brand. Oliver ha sempre considerato che fosse importante vedere la creazione di una sua collezione come una sfida per migliorarsi come creatore, ritenendola inoltre, un’ottima opportunità per richiamare l’attenzione del pubblico in modo da poterlo guidare nel suo mondo. L’integrazione della gogna tipica dell’età medievale derivata dal plexiglass, la musica corale, il modello che ha sfilato con un alano gigante a macchie al guinzaglio e il modello con le stampelle, di certo hanno portato la gente a farsi delle domande sullo show e su cosa avesse ispirato il designer. Hood By Air continua a spingere il limite di cosa sia accettabile nel regno della moda e dell’arte, seguendo e rafforzando, di anno in anno, il mood ribelle del marchio.Lo show è stato un chiaro momento di rottura, che ha dato la sensazione che lo scenario della moda newyorchese stia ricominciando a crescere con una new generation di talentuosi stilisti pronti a correre ogni rischio. Mettere alla prova il mondo della moda è chiaramente ciò che Oliver sta facendo con le sue collezioni. Il tratto distintivo del brand è proprio la creatività e la stravaganza; l’abbigliamento sportivo che incontra la pelle, gli accessori singolari, e l’inserimento di alcuni elementi futuristici ed altri medievali ci mostrano la visione urbana dinamica che Oliver ha desiderato presentarci. Tutto questo è stato senza dubbio un Hood By Air show. Giulia Fabbrocini 83
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Versace rilancia su Versus con Anthony Vaccarello
“Versace è più di un brand. E’ la tribù globale che condivide le mie passioni per la musica,la moda,la creatività e la vita.” Ecco come si esprime Donatella Versace riguardo il proprio marchio alla vigilia della presentazione del brand giovanile Versus di Versace. Quest’ultima è stata pensata e realizzata da una collaborazione che non teme rivali,la stessa Donatella Versace e lo stilista italo-belga Anthony Vaccarello.
Tra le tante novità,gli stilisti hanno puntato ad una strategia di marketing abbastanza insolita,che vuole richiamare maggior attenzione sul target della clientela interessata; si tratta del fattore commerciale nello specifico,infatti fin dalla presentazione avvenuta nella sfilata a New York,c’era la possibilità di guardare in diretta,in streaming la stessa sfilata,in modo tale da poter subito acquistare i capi online sul sito ufficiale.
L’esordio della collezione,è avvenuto questo mese con l’inizio della fashion week a New York,nello scenario del Metropolitan west. Il set creato per Versus era molto particolare,impreziosito da numerosi pilastri e muri di rivestimento a specchio,una “pista” di fantasia in stile Art Deco. Tra il pubblico,ospiti d’eccezione,quali Nicki Minaj , Rihanna e Jennifer Hudson.
Come potete notare dalle immagini,i colori utilizzati si alternano maggiormente tra nero,bianco e oro,così da mantenere quella classicità senza tempo simbolo della maison. Alessia Maisto
Capi giovani,freschi,abiti scollati o con spacchi vertiginosi,il tutto ricco di dettagli forti come borchie e ricami di pizzo,che accennano senza esagerare i lontani anni 80;una collezione mirata a dare nuovo volto alla donna Versace,la quale mantiene la propria sensualità come arma vincente,ma è meno aggressiva e più sofisticata.
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Capitolo 4 «E
cco il tuo drink…» dissi rivolgendomi a Barbara, «…la conversazione con i miei amici è stata di tuo gradimento?» le chiesi in tono ironico. «Sì, certo. Non preoccuparti.» mi rispose col suo consueto tono brusco. Addentai qualche pezzo di sushi per riprendermi da quella collezione di drink a stomaco semivuoto, mi avrebbe aiutato a mettere a fuoco i miei pensieri. Mentre mangiavo, mi si avvicinò Lorenzo con aria curiosa. «Come va? Sembri affamato…” «Devo mettere qualcosa nello stomaco. A proposito, ho scoperto qualcosa in più…» «Sei riuscito a scucire qualche informazione ad Elena?» «Mi ha fatto leggere il suo invito. C’era una frase dove si capisce chiaramente che è stata una donna ad invitarci. » Ci guardammo per alcuni secondi, per andare più in profondità di quelle semplici frasi. Lorenzo non esitò a chiedermi quello che mi aspettavo. «Pensi che possa essere lei?» Sapevo a chi si riferiva, ma volli essere sicuro che le nostre idee combaciassero. «Letizia? Sì, ho una sensazione più che un sospetto.» Lorenzo conosceva tutta la vicenda legata a quella persona, e rappresentava chi mi conosceva meglio in quella villa. A quel punto mi appoggiò la mano sulla spalla, e mi invitò a sederci poco distante per parlare. «Visto che abbiamo aperto l’argomento, credo di poter alimentare i tuoi sospetti». Capii che sapeva qualcosa, e mi sentii invadere dall’inquietudine. Ci accomodammo su due poltrone vicine all’ingresso della Bedroom 5. Estrasse il suo smartphone dalla tasca interna della giacca, tocco un paio di volte lo schermo, e poi lo rivolse verso di me, mantenendolo col palmo della mano. «Questa è Greta, la mia fidanzata di cui vi ho accennato prima quando eravamo in treno. Ci siamo conosciuti due anni fa tramite un amico in comune!» esclamò pieno di fierezza. Allungai lo sguardo verso quell’immagine, notai i lunghi capelli neri ed il sorriso radioso di quella ragazza. «E’una donna molto bella, complimenti!». Ma non capivo: perché mi faceva vedere la sua ragazza? Che nesso aveva con Letizia?» «Stiamo insieme da circa due anni e stiamo bene, presto andremo a convivere. Ma c’è una cosa che non ti ho mai detto, l’ho scoperta per puro caso all’inizio della nostra relazione.» Con un cenno del capo lo esortai a continuare. «Anche lei dopo la laurea aveva seguito un master in economia a Stanford…» Feci un faccia stupita, mentre Lorenzo si spiegava: «Il mio primo pensiero fu quello di chiederle a quale istituto era stata, e in che periodo. E le informazioni coincidevano con quelle di Letizia. Guardammo insieme alcune foto di gruppo dei partecipanti ai corsi, e in un paio riconobbi Letizia, indicandogliela. Greta si ricordò di lei, non avevano stretto una vera amicizia, erano semplici conoscenti, ma mi disse che si era trovata a parlare con lei diverse volte durante i corsi dell’ultimo semestre…» «Hai saputo qualcosa su di lei? Dimmelo.» chiesi impaziente. Annuì, poi riprese il discorso “Alla fine del corso disse che aveva trovato un lavoro come marketing manager in un multinazionale chiamata Urnet Trade. La sede principale è proprio qui a Londra.» Ci fu una pausa del dialogo, guardai l’elegante pavimento in legno con aria confusa, e cominciai a grattarmi nervosamente i capelli dietro la nuca. Poi Lorenzo 149
richiamò la mia attenzione con un “ehy” in tono preoccupato, e io gli rivolsi nuovamente lo sguardo. «Non te l’ho detto perché conoscendo il periodo che hai trascorso per colpa di quella ragazza, non volevo risvegliare inutilmente dei pensieri scomodi alla tua tranquillità. Anche per questo prima in treno non approfondito la mia relazione con Greta, non avrei resistito alla tentazione di dirti quello che sapevo su Letizia. Quando mi hai detto che c’era la possibilità di incontrarla stasera, sapevo che queste informazioni potevano essere un ulteriore conferma alle tue aspettative.» «Perché dovrebbe averci invitato proprio lei qui, Lorenzo? Non è il suo compleanno oggi, non capisco i motivi che l’hanno spinta a fare tutto questo!» ero alla disperata ricerca di un confronto di idee. «Non lo so, amico. Ma se come pensiamo sarà lei a festeggiare qualcosa, potrai chiederglielo personalmente.» Masticai amaro quella verità, tutto mi sarei aspettato tranne questa nuova sfida con me stesso. Dovevo restare calmo, non farmi prendere dall’ansia. «Apprezzo la tua sincerità, mi sarei comportato ugualmente con te.” gli dissi convinto di quella frase appena pronunciata. «Anche io ho sofferto d’amore , Daniele. Quando hai un esperienza negativa del genere, riesci a capire quando qualcuno sta avendo lo stesso malessere. In quei giorni io e te parlavamo poco, ma io leggevo ciò che riusciva a scrivere il tuo viso... » Quei giorni, quei maledetti giorni, forse fu il periodo più brutto della mia vita. Non volevo pensarci, avevo bisogno di distrarmi. «Vado in bagno, aspettami qui» gli dissi, alzandomi di scatto dalla poltrona. Arrivai nel corridoio, aggirai la fila che era fuori il bagno femminile, e spalancai la porta del bagno maschile. Dovevo pisciare, e volevo darmi una sistemata, sciacquarmi il viso e guardarmi allo specchio, per convincermi che ero pronto a rincontrarla. Appena entrato in bagno, vidi Michele. Era in piedi di fronte al lavandino di marmo che caratterizzava quell’ambiente così elegante. Mi rispose con un espressione attonita, e fece qualche passo all’indietro. «Ehy Ruiz, ehm… vieni anche tu dai... » Michele era visibilmente euforico, sudato e strafatto. Il mio sguardo severo lo fece soprassedere da quel tono così ebete. Notai lo specchio ingranditore sistemato in maniera orizzontale, il suo sguardo perso nel vuoto, il suo frenetico sfregarsi il naso, e capii. «Hai sniffato? Vero?» Cominciò a ridere senza alcun senso prima di parlarmi «Quella ragazza è straordinaria, non solo bella, ma anche matta… come me…. Abbiamo anche tante cose in comune, sai? Mi ha offerto dello zucchero per movimentare la serata, che c’è di male Ruiz?» «Quale ragazza? Di chi stai parlando?» «Barbara… Barbara… Barbara, l’amica di quella Elena. Barbara mi ha dato la bamba da sniffare. Che problema hai, Ruiz? Vuoi polemizzare su quello che faccio?» Ero già nervoso per il dialogo appena concluso con Daniele, non volevo continuare quella discussione. «Puoi fare quello che vuoi, non sono di certo tuo padre o tua moglie, per dirti quello che è giusto o sbagliato.» Mi diressi dietro la parete dove erano sistemati gli orinatoi. Lo sentivo ancora borbottare mentre mi abbassavo la zip. «Uno invita un vecchio amico a farsi una sniffata in compagnia, e viene anche risposto male. Sei proprio strano Ruiz, e sei anche maleducato!» Gli tornai vicino, aprii il rubinetto e mentre mi sciacquavo le mani, lo vidi ripetere l’operazione che aveva fatto pochi minuti prima che entrassi. Appoggiò la cocaina sullo specchio tondo, chiuse una narice con una mano e aspirò con forza dal naso la polvere bianca. Per un momento barcollò poi scosse la testa freneticamente. «Cazzo, ho scelto proprio un bagno raffinato per drogarmi, Ruiz. Guarda quanto marmo c’è dentro questo bagno!» Continuavo ad ignorarlo, raccolsi dell’acqua con le mani congiunte, e mi sciacquai il viso per due volte.
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Slacciai la cravatta, sbottonai i primi tre bottoni della camicia, passando le mani bagnate anche dietro al collo e sullo sterno. «Rimetti quella roba a posto, se entra qualcuno e ti vede rischiamo di fare una brutta figura.» dissi a Michele mentre mi asciugavo con i kleenex posti affianco al lavabo. Mi guardò con occhi spiritati, l’avevo irritato «Perché tu credi che qui dentro io sia l’unico che si è fatto una botta? Ma dove vivi Ruiz, cazzo…» «Magari un altro non lo fa in un bagno che per quest’occasione è pubblico… ci vuole un minimo di decenza, Michele!» Continuava a sudare, aveva un alone scuro sulla sua camicia all’altezza del petto. «Ruiz, dovevi prenderne un po’ anche tu, è colpa tua se sto così… me l’hai fatta prendere tutta a me, che amico sei? Vergognati Ruiz!» L’alcol e la cocaina stavano facendo un brutto effetto sul suo umore, mi stava provocando. «Non sono tuo amico, mettiamola così. Datti una sistemata ed esci da qui!» Stavo per andarmene, ma le parole di Michele mi bloccarono. «Quella ragazza ti ha fottuto il cervello, Ruiz. Tre anni fa eri diverso, adesso sei la brutta copia di te stesso.» Mi fermai di spalle, era riuscito ad innervosirmi questa volta. «Dovevi ascoltarmi quando ti dissi che non era un buon affare starle dietro. Io ho esperienza con le donne, Ruiz. E poi se non l’ha data a me, figuriamoci se la dava a te, ahahaha!» disse ad alta voce, terminando quella frase con una risata isterica. A quel punto mi voltai, lo raggiunsi velocemente. Eravamo faccia a faccia. Lo spinsi con tutta la forza che avevo, con entrambe le mani sul petto. Michele inciampò su sé stesso, e cadde rovinosamente a terra, sbattendo la schiena contro la parete. «Siamo diversi, è vero, ma non considerarti migliore di me, e non provare mai più a giudicarmi…» gli urlai contro. Poi strinsi la mano in un pugno. Volevo colpirlo, dargli una lezione, ma proprio in quel momento entrarono due ragazzi nel bagno, che vedendo la scena sgattaiolarono nel retro del bagno dove c’erano gli orinatoi. Ripresi il controllo, desistendo. Lo guardai mentre si alzava con fatica in piedi, guardandomi con aria impaurita. «A proposito di Letizia, mi meraviglio di come ti abbia rivolto la parola, ti ha sempre definito una persona patetica. » Lo lasciai senza degnarlo di un ultimo sguardo, senza pentirmi di quello che avevo appena fatto. Uscii dal bagno, il corridoio era gremito, ma dopo poco trovai Martina, Lorenzo, e Barbara. Avevo la battuta pronta, ero in fiume in piena. Mi affiancai a Barbara, e le parlai dritto all’orecchio. «Adesso ho capito perché sei così tesa stasera. Ho apprezzato il regalo che hai fatto a Michele, dovresti andare a trovarlo in bagno, cercava qualcuno con cui condividere una sniffata…» Barbara ammutolì, si guardò in giro, poi spense la sigaretta buttandola a terra e schiacciandola con la scarpa, e si defilò senza proferire parole. «Cosa è successo?» chiese Martina, che aveva assistito solo alla fuga concitata dell’amica. «Nulla di rilevante. Non mi va di parlarne, scusami» risposi seccato. Ero smanioso, ero alla ricerca di qualcosa da fare per allentare la tensione che si era creata intorno a me. La luce delle candele e dei bruciatori bastava solo ad illuminare le forme del viso e dei corpi. Ma a pochi metri da me, vicino ad un tavolo con un elegante candelabro, riconobbi una sagoma che mi era alquanto nota. Era di spalle, e parlava con un ragazzo di colore. Riconobbi la sua figura snella, le sue braccia sottili, il suo tatuaggio indiano sulla spalla destra, i suoi capelli ondulati mogano. Dentro di me si scatenò un esplosione di sensazioni, qualcosa mi pizzicò il cuore, e il respiro mi bruciava in gola. Il mio viso era pietrificato, fu Martina a farmelo notare. «Ti senti bene? Sembra che hai visto un fantasma…» Non sentivo più la musica intorno a
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me, sentivo solo il battito del cuore, potevo vederlo battere i pugni contro la mia camicia. Ormai tutti i miei pensieri erano indirizzati verso quella ragazza, la ragazza che avevo sognato per tante notti, la ragazza che avevo perso e che adesso avevo incontrato. Ci voleva uno shot, ci voleva qualcosa di forte. Mi feci passare la miglior Tequila dal barista, che me ne riempì un bicchiere, cosparse di sale il palmo della mia mano e mi diede uno spicchio di limone. Avevo appena finito di avvelenarmi la gola con quel pesante distillato, poi la vidi di nuovo. E lei vide me. Abbassò la mano con la quale teneva il bicchiere, sporse il mento e accennò un sorriso per richiamare la mia attenzione, senza sapere che era già tutta sua. Sapevo che si sarebbe avvicinata. Sbattevo gli occhi nervosamente, quasi a voler allontanare quell’immagine. Erano le 2. Così come nel precedente occasione, il pendolo alle spalle del bar cominciò a suonare ritmicamente, e il suo suono fu amplificato dalle casse disposte lungo tutto il corridoio. Il diabolico piano del destino aveva colpito ancora. Dopo pochi secondi la persi di vista, le persone che erano con lei la richiamarono, e lei si unì alla calca di gente, che cominciò ad andare in direzione delle scale per poter accedere al piano superiore. Anche se si fosse voltata per lanciarmi uno sguardo, non sarei riuscito a vederlo, era lontana dalla luce, ed era in mezzo alla folla. La vidi scomparire dietro l’uscita della Bedroom 4. «Credo di averla vista…» dissi a Lorenzo ancora turbato, mentre lo spazio intorno a noi si stava svuotando rapidamente. «Sei sicuro che era lei? Con questo buio non riesco a vedere niente…» “Sì. Mi è bastato poco per riconoscerla.» «Allora cosa aspetti? Saliamo! » Mi disse prendendomi amichevolmente per un braccio, prima di aggiungere “Ma dov’è finito Michele?» «L’ho visto in bagno prima, ma sono sicuro che adesso è in compagnia di Barbara» Avevo le gambe quasi pesanti, e mentre salivo mi resi conto che avevo bevuto troppo. In cima alle scale, c’era un grande baule in pelle aperto ed illuminato dalla solita lingua di fuoco di un braciere. Affianco a quell’insolito oggetto, c’era la donna vestita di rosso che ci aveva accolto all’ingresso della villa. Stava invitando tutte le ragazze che passavano al terzo piano a togliersi la maschera e a riporla nel baule accanto a lei. Come indicato nell’invito di Elena, era arrivato il momento della serata in cui tutte le ragazze avrebbero dovuto mostrare i loro visi. Tutte facevano quanto richiesto senza nessuna esitazione, e la donna le ringraziava con un “thank you” in perfetto accento inglese. Quando le passai davanti, ci riconoscemmo e ci scambiammo un occhiolino. “Secondo me hai fatto colpo su quella donna” scherzò Lorenzo. “Stavo giusto pensando di chiederle se conosce Letizia…” Erano le 2:10 ed eravamo al terzo piano. Apprezzai subito il bellissimo scenario che avevamo di fronte. C’erano tanti lampadari in ferro battuto sui quali erano disposti circolarmente candele bianche, che questa volta riuscivano ad illuminare ampi spazi della sala. Sul loft c’erano sofà scuri, ed alcuni tavoli squadrati in cristallo, ornati di candelabri. All’esterno un bellissimo roof garden, dal quale si potevano ammirare il gioco di luci e l’incantevole paesaggio notturno di Londra. La zona interna ed esterna era divisa da ampie vetrate, notai anche alcuni dei camerieri indaffarati nei preparativi dell’ennesimo buffet. Avevo perso di vista sia Michele che Barbara, ma non mi interessava. Affianco a me c’erano Lorenzo ed Elena, che sotto la luce di quei lampadari antichi, senza maschera confermava di avere dei lineamenti quasi perfetti. «Finalmente ti vedo senza maschera.» le dissi. «Sì. Non la sopportavo più sai?» mi rispose arricciando il naso scherzosamente. Era stato davvero uno spreco nascondere quel viso sotto quella maschera tutto questo tempo, pensai. Dopo qualche minuto ero nuovamente alla ricerca di Letizia. C’erano diversi gruppi di persone anche fuori al roof garden, allungavo lo sguardo ma non riuscivo ad
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individuarla. Ero impaziente di rivederla, ma mi resi conto di essere anche molto nervoso. «Credo sia arrivato il momento di cercare Michele… mi aspettate qua?» «Daniele mi accompagna a fumare una sigaretta, ci vediamo fuori. Ok?» Lorenzo si allontanò poco dopo, Martina sfilò una sigaretta dal pacchetto e la mise tra le labbra, poi inclinò leggermente il capo verso l’uscita, come a dire “andiamo”. «Ma io non fumo, lo sai vero?» le domandai retoricamente. «Non credo che lasceresti andare una ragazza da sola a fumare fuori un terrazzo dove non conosce nessuno» mi rispose in tono sicuro.» «Ti va un Martini?» le chiesi, allungando la mano sulla bottiglia che era sul tavolo vicino a noi. «Certo.». Preparai due bicchieri, e con entrambe le mani impegnate, uscii fuori con lei. La temperatura fuori non era così bassa, ma c’erano fastidiose folate di vento ogni tanto, per cui decidemmo di ripararci dietro una colonna di pietra che caratterizzava un lato del terrazzo. «Ho notato che sei diventato irrequieto… » esordì mentre faceva un lungo tiro alla sigaretta. «Di cosa parli?» «Del tuo sguardo. Non sei più tra noi da quando ti ho fatto leggere il mio invito, ho notato che sgrani gli occhi ritmicamente per cercare qualcuno » «Sì, è vero, cercavo una persona. L’ho riconosciuta poco fa al secondo piano. » Dovevo sembrare parecchio turbato per farla arrivare a quella conclusione. «Se l’hai vista solo per un attimo e ha avuto questo effetto, allora è una persona che ha un certo valore per te, giusto? Almeno sarebbe così per me» Feci un bel sorso di Martini, abbozzai un mezzo sorriso a Elena, ma non risposi. «Forse più che persona potremmo definirla una ragazza che ti ha spezzato il cuore?» Probabilmente aveva parlato con Lorenzo, intuendo qualcosa. Ma non le chiesi nulla a riguardo. «Non ha avuto il tempo di spezzarmelo, soltanto il tempo di sparire.» le dissi facendo spallucce. «Ti vai di raccontarmi com’è andata?» «Non credo sia una buona idea…» «A volte è più facile sfogarsi con un estraneo che con un amico. L’amico conosce i tuoi punti deboli, conosce le tue esperienze passate, ed ha sempre un occhio critico nei tuoi confronti, a maggior ragione se ti vuole bene. Saresti più restio a parlare nuovamente di qualcosa che ti fa male con un amico, perché non vorresti essere giudicato, preferiresti essere solo ascoltato. E per avere questo stasera ci sono io, mi piace ascoltare le storie degli altri!» Mi aveva convinto. «Non ne parlo da quasi un anno, sai? » «Forse è arrivato il momento di farlo, Daniele!» esclamò facendo un sorso dal suo bicchiere. La mia mente si riavvolse come un nastro di un vecchia pellicola cinematografica, tornai agli anni dell’università, ai corsi e agli esami, agli amici della tavola calda, agli appuntamenti al cocktail bar. E poi cominciai a raccontarle di Letizia. «Eravamo un bel gruppo di studio, insieme a me c’erano anche Michele e e Lorenzo. A turno mettevamo a disposizione le nostre case per riunirci e scambiarci gli appunti delle lezioni e preparare gli esami, ma spesso capitava anche di pranzare insieme in facoltà o di ritrovarci qualche sera per bere un drink tutti insieme. Come in ogni gruppo, c’è sempre una ragazza più bella delle altre, quella che tutti sognano di conquistare. Per quella ragazza ci si accontenta di un amicizia sincera ma debitamente distaccata, si cerca ogni tanto di farsi notare, si apprezzano anche le piccole attenzioni ricevute distrattamente. Ma tra me e
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lei era diverso. Tra me e Letizia era un continuo inseguirsi, ogni settimana rompevamo un mattone del muro che divideva le nostre vite. » «Parlami di lei, aiutami a capire che tipo era…» «Lei era la classica ragazza piena d’attenzioni, una studentessa modella, proveniente da una famiglia ricca. Frequentava solo ragazzi molto più grandi di lei, che bazzicavano tra gli ambienti più mondani di Napoli. Io mi limitavo solo ad ammirarla, mi godevo la sua compagnia le mattine all’università, o la sera a qualche cena organizzata dopo lunghe sedute di studio. » «Per quanto tempo avete mantenuto questo rapporto, questa intesa speciale? “Quasi 4 anni, praticamente dall’inizio alla fine del conseguimento della nostra laurea” «E non ti è mai venuto voglia di invitarla ad uscire? Non hai mai avuto il desiderio di farci sesso?» «Capisco che una ragazza mi piace veramente quando non voglio andarci a letto subito, quando passare il tempo con lei diventa altrettanto piacevole come una notte passata a fare sesso» «E’ una bella frase, me la posso annotare? » «E’ da repertorio, me la sono bruciata con te» cercai di sdrammatizzare. «Ahahah, scemo. Dai continua» mi rispose divertita. «Fui travolto da lei subito dopo la nostra laurea. Quasi tutti noi riuscimmo a ottenere la stessa data per la discussione finale, così organizzammo i festeggiamenti tutti insieme. Io avevo finito la mia relazione da qualche mese, lei aveva scaricato il figlio di papà di turno. E mi chiese di andarla a prendere per andare al locale dove ci aspettavano tutti. Da quella sera il nostro rapporto cambiò, ogni giorno ci avvicinavamo sempre di più. Cominciammo a vederci da soli, un giorno per un caffè, un giorno per andare al cinema, un giorno per fare shopping insieme durante i saldi, furono tre settimane intense e molto importanti. Scoprii lati del suo carattere che non conoscevo, era una ragazza con uno spiccato senso dell’umorismo, molto sensibile, romantica. » «Come te? » «Eravamo la giusta combinazione di aggettivi da cui poteva nascere un sentimento. » «Vai avanti…» «Non avevo mai provato a baciarla, ma dalla frequenza dei nostri contatti e dal modo in cui ci sorridevano gli occhi, sapevamo entrambi di piacerci. Purtroppo lei aveva già deciso di partire per specializzarsi alla Stanford Graduate School of Business, negli Stati Uniti. Il suo programma prevedeva di trascorrere l’intera estate con la sorella in giro per gli States, cercare una sistemazione a Stanford, per poi cominciare il master a Settembre» «Quando partì?» «Era la fine di luglio. Mi chiese di accompagnarla all’aeroporto, ci fu un lungo commovente ed abbraccio. Sapevo che probabilmente le mie speranze di un rapporto con lei finivano quel giorno. Dopo il check-in, a pochi metri dei nastri di controlla, Letizia, la ragazza più bella che avessi mai conosciuto, la ragazza che tutti avevano desiderato come fidanzata, cominciò a piangere per me, per noi. Ricordo ancora cosa mi disse: “Mi dispiace di essermi accorta così in ritardo della splendida persona che sei, è il rimpianto più forte che porterò con me su quell’aereo”. In quel momento mi sciolsi.» «Quale fu la tua risposta a quelle parole?» «Le dissi “Non lasciarmi come se non fosse cambiato nulla tra noi.” » “Mi stai coinvolgendo molto, mi sembra di vedere la scena di un film romantico…» Elena sembrava davvero rapita dal mio racconto. «L’ultima frase che mi disse fu “Vediamo se il destino riuscirà a far convivere la nostra distanza ed i nostri sentimenti.” Poi si girò verso i nastri, mi accarezzò la guancia e mi stampò un bacio sulle labbra, mentre le lacrime le rigavano ancora il volto. Mi sorrise, le nostre
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mani si staccarano, indossò gli occhiali da sole per nascondere il viso segnato dal pianto, e scomparse tra la folla. Tornai a casa, non cenai, non avevo fame. Fu così anche il giorno dopo. Il terzo giorno capii di essere innamorato di lei, e che perderla era stato il peggior affare della mia vita. » «E non vi siete mai più sentiti? » «Adesso arriva la parte più brutta della vicenda. La sua reazione fu molto simile alla mia, ci furono lunghissime mail con parole veramente significative, e riuscimmo entrambi a ritrovare la nostra serenità. Sapevo che il 21 dicembre sarebbe tornata a Napoli. Quattro mesi passarono in fretta, non vedevo l’ora di vederla. Avremmo potuto viverci l’amore che ci teneva uniti a distanza. Ma non andò così» «Cosa successe?» Dedicai alcuni secondi alla vista panoramica della city, strinsi il bicchiere più forte tra le mani, e deglutii amaramente prima di ricominciare a parlare. «La aspettavo all’aeroporto con un mazzo di rose, in piedi fuori alla zona degli arrivi. Dal suo aereo uscirono tutti i passeggeri, tranne lei. Dopo pochi minuti mi arrivò questo messaggio… » Presi il cellulare, avevo ancora memorizzato il suo vecchio numero con quell’ultimo sms. «Ho disdetto il mio aereo, perché starei male all’idea di lasciarti di nuovo. So che non mi perdonerai, ma già sono qui da sola e non sto bene, non posso permettermi di piangere tutte le notti per la tua mancanza. Forse un giorno ci ritroveremo ancora. Non dimenticarmi mai, perché tu sei l’amore» Elena mi guardò intenerita, mentre si accendeva un’altra sigaretta. «Adesso capisco perché hai avuto quella reazione…» «Quando lessi quel messaggio mi venne un attacco d’ansia. Il primo della mia vita. La mente mi rapiva il fiato, il cuore era un tamburo, e mi sentii svenire. Anche io avevo assaporato cosa significa star male per amore, una sensazione che ignoravo, a cui non credevo quando qualcuno me ne parlava… » «Mi dispiace molto. Non hai provato a cercarla?» «La tempestai di telefonate, ma non mi ha mai risposto. Il giorno dopo cambiò numero, scomparse da ogni social network, lasciandomi senza neanche più una traccia della sua vita.» «E’ terribile, davvero!» «Sì, ci ho messo un bel po’ a riprendermi, ma la vita mi ha presentato il conto cinque minuti fa». «Non gli hai ancora chiesto nulla? Che ci fai ancora qui? » «Bevo Martini con una bella ragazza, raccontando le mie pene d’amore» glissai. «La ragazza che è la causa delle tue pene d’amore è in questa villa, e la bella ragazza in questione che sarei io, e ti ringrazio del complimento, capirebbe se tu ti allontanassi!» «Ho paura. Ho paura della sua indifferenza, ho paura di respirare aria di niente mentre conversiamo…» «Meglio la paura che i rimpianti. Forse non la rivedrai mai più, Daniele. Va da lei!» mi disse guardandomi dritto negli occhi. Prima di allontanarmi da Martina, mi balenò un pensiero che avevo stupidamente trascurato in tutta quella conversazione. Le feci una domanda che probabilmente attendeva. «Non so nulla di te, non so dove vivi, non so quanti anni hai, non so sei hai un fidanzato. Ma di una cosa sono sicuro: anche tu conosci Letizia, vero? » Mi sorrise spontaneamente, come ad interpretare quella domanda come un traguardo. «Mi chiamo Elena Wilson, mio padre è inglese, mia madre è italiana. Ho 27 anni, e vivo a Londra da quasi dieci anni. Non ho un fidanzato, l’ho mollato qualche mese fa. E lavoro come product manager alla Urnet Trade, la stessa azienda dove lavora Letizia…» «E’ lei che ti ha invitato, è lei che ha organizzato tutto questo. Che stupido, potevo pensarci
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prima! » «Hai altro a cui pensare adesso. Ed io non te l’ho detto perché non volevo condizionare il tuo racconto. Siamo colleghe di lavoro, c’è una reciproca stima professionale, ma non ci frequentiamo al di fuori dell’ufficio.» L’ultimo livello di Martini nel bicchiere mi suggerì un ultimo sorso alla goccia. Mi avvicinai a Martina, le appoggiai la mia giacca sulle spalle, baciandola vicino agli occhi. «Grazie per aver ascoltato un ragazzo che è ancora innamorato di qualcuno che non ha mai più rivisto» Elena mi guardò quasi con ammirazione, mi cinse il fianco con una mano, e mi guardò con tutta l’intensità di uno sguardo femminile. «Avrei voluto essere io quella ragazza che ti sta aspettando all’altro lato del terrazzo.» Le sorrisi, poi capii. Mi girai e la vidi nuovamente. Letizia era sola, e mi aspettava. Feci un lungo respiro, lasciando la mia nuova amica al panorama del terrazzo e alle sue idee positive sul mio conto. Adesso eravamo a pochi metri di distanza, il suo viso era illuminato dalla luce di un braciere posto sul davanzale poco distante da lei. Potei notare solo il suo sguardo imbarazzato che non perdeva la traiettoria dei mie occhi. Mentre mi avvicinai la vidi sistemarsi i capelli che il vento le aveva mosso, facendoli cascare davanti agli occhi. Avrei bevuto un altro Martini, per placare la mia irrequietezza. Ma era troppo tardi, adesso era di fronte a me. Erano passati circa tre anni dall’ultima volta che ci eravamo visti all’aeroporto. «Ciao Daniele». La sua voce mi irrigidì, la guardai senza parlare per pochi secondi, che sembrarono minuti. Impattai con troppa velocità nel suo viso pieno di splendore. Ero preoccupato del mio stato alcolico, non volevo sembrarle stonato. Lei avanzò di qualche passo, non riuscivo a trovare le parole per cominciare, vedevo solo la ragazza che egoisticamente aveva tagliato il filo che ci legava. «Non c’era bisogno di toglierti la maschera. Ti avevo già riconosciuta quando eri in fondo alla camera giù al secondo piano» «Mi ero accorta di te, ma volevo che parlassimo da soli. Come stai? » «In questo momento sorpreso di vederti. » «Io sono molto emozionata. E vorrei.. » «Qualsiasi cosa tu voglia spiegarmi, sono sicuro che avrai avuto i tuoi motivi più validi di me e di tutto il resto. » la interruppi. «Non è così, Daniele. Aspetta…» «Ho aspettato, Letizia. Sono tre anni e quattro mesi che aspetto risposte. Ma adesso è troppo tardi, non trovi?» senza accorgermene avevo marcato il timbro della mia voce con ira. Ero arrabbiato con lei, ero deluso da tutto. Vidi che intorno a noi lo spazio si riempiva di altre persone uscite anch’esse per fumare, ci guardammo intorno e poi tornammo a studiarci con gli sguardi. «Hai conosciuto Elena? E’ davvero in gamba.» «Sì, mi ha detto che siete colleghe di lavoro. Mi sembra una ragazza a posto. » «Ti trovo bene, come al solito. Come sta andando la tua vita a Napoli? » «Va tutto bene Letizia, a parte che non riesco ad avere una relazione stabile da tempo, non faccio il lavoro che mi piace e adesso mi trovo di fronte ad una persona che fino a pochi minuti fa era come se fosse morta... » Si prese del tempo prima di rispondermi, toccandosi nervosamente il bracciale sul polso. «Non avrei avuto la forza di interrompere quello che stava nascendo tra noi vedendoti Daniele. Lo so, sono stata una vigliacca, ma era l’unica soluzione per salvarci da una tormentata relazione, che sarebbe finita per diventare una sofferenza. Mi dispiace che le tue cose non vanno come vorresti…Daniele, le nostre vite non si sarebbero incastrate... E tu lo sai…»
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«Valeva la pena provare, Letizia. E se avessi deciso di trasferirmi in America? Mi hai illuso, lasciandomi solo con fantasie e sogni. Avrei preferito una dura realtà da affrontare…» «Non volevo nuovamente condizionare la vita di qualcuno, come già accaduto in passato. So che non ci riuscirai mai, ma vedila come un atteggiamento protettivo nei confronti di una persona a cui ero… a cui sono affezionata, ti prego.» «Dovevi lasciare a me la scelta di compromettermi il futuro. Si parlava di me, ed eventualmente di noi. » «Ho semplicemente pensato che era troppo tardi, che non era più il tempo giusto. A malincuore…» «Pur non essendo ancora nato un sentimento, è come se avessi sminuito quelle tre settimane di complicità che avevamo costruito entrambi. E non te lo perdonerò mai» «Mi dispiace, Daniele… Mi dispiace…» «Adesso non serve dispiacersi, sono passati tre anni, e ormai ti sei dimenticata di me! » «Non è così…» «E poi avrei preferito una telefonata piuttosto che un invito anonimo, un invito che hai tra l’altro inviato anche alle poche persone che conosco qui dentro». Ero anche polemico, le avrei rinfacciato qualsiasi cosa. «Ho preferito fare così, affidarmi al destino. E per fortuna sei venuto. » «Sì eccomi qua, Letizia. Adesso che so che sei tu il mittente degli inviti anonimi... Dimmi, cosa festeggiamo?» Un lungo soffio di vento ci coinvolse, i suoi capelli volavano verso un lato, e fece un espressione di disagio per il freddo. «Perché sei così brusco con me, sto cercando di mantenere una conversazione tranquilla, nonostante sia nervosa e agitata quanto te.” Fece un gesto che riconobbi, quello di mordersi le labbra. Lo faceva spesso, avevo imparato a riconoscere i suoi segnali durante gli ultimi giorni insieme. Decisi di placare momentaneamente il mio cattivo umore. «Hai ragione scusami. Non mi aspettavo tutto questo.» Ritrovò tranquillità, curvò le labbra, poi riprese a parlarmi. «E’ la mia festa d’addio alla città in cui ho vissuto per gli ultimi due anni, volevo salutare i vecchi ed i nuovi amici, e tutti i miei colleghi di lavoro. Andrò a lavorare in America, a New York. Mi trasferisco là…» L’avevo appena ritrovata e già sapevo che l’avrei persa di nuovo, aveva una relazione e sarebbe andata a vivere in una città con un fuso orario di 6 ore in meno. Era tutto sbagliato. «Almeno questa volta so dove sarai, posso ritenermi soddisfatto. Facciamo progressi... » Altra smorfia, avevo colpito qualcosa dentro. «Ho sbagliato con te, è vero... Ti chiedo scusa…» Non mi bastavano le scuse, non volevo compassione. L’alcol che avevo nello stomaco accelerava le mie sensazioni. «Stai con qualcuno?» La mia domanda fu scomoda. Lei rispose annuendo, senza guardarmi negli occhi. «E non c’è stasera? Potresti presentarmelo, non trovi? » Questa volta mi guardò seccata, aggiungendo un sospiro infastidito. «Anche lui vive a New York, lo raggiungo domani. » «Andate a vivere insieme? » Letizia non rispose, e fece un passo indietro. Dovetti richiamarla per farla continuare. “Non ha più importanza adesso, parlami Letizia... » «Sì, mi trasferisco nella sua residenza a Manhattan, ci siam….” “E’ una storia importante?” le chiesi interrompendola nuovamente. “Sì… stiamo insieme da un anno circa, ma lo conosco da tanto tempo. Cercavo lavoro da
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diversi mesi in America, inviavo curriculum quasi tutti i giorni… ho fatto un colloquio il mese scorso, e finalmente sono riuscita a trovare un eccellente lavoro… sono proprio contenta… Vivere nella stessa città ci aiuterà a ritrovare la serenità… la lontananza stava uccidendo i nostri sentimenti…» «Capisco. Guarda caso a lui hai dato la possibilità di vivere una storia a distanza…» “John vive tra Londra e New York, ogni due settimane è qui per lavoro. E poi adesso ho 30 anni, Daniele, sono cambiata, sono una donna che…” «Sei felice? » continuavo ad interromperla, ero spazientito da ogni cosa che mi raccontava. “Io…sai… non credo che io debba confidarmi con te, è tutto diverso adesso, Daniele…» “E’ tutto diverso perché tu lo hai voluto cambiare. Non hai mantenuto una promessa, non mi hai dato la possibilità di dimostrarti che ero pronto a tutto per te. Se solo avessi creduto in me…» Aveva lo sguardo piantato a terra, la testa china, le braccia raccolte per ripararsi dal vento. Quando rialzò lo sguardo verso di me, rimasi colpito. Le lacrime le avevano rigato il viso, aveva cominciato a piangere, e la sua voce era diversa. «Spero solo che tu un giorno possa perdonarmi» mi disse sorridendomi. Ci fu un flashback, qualcosa mi ricordò il nostro ultimo abbraccio, e ritrovai la bruciante rabbia che avevo sopito tutto quel tempo, continuando il mio tono accusatorio. «Anche l’ultima volta che ti ho visto piangevi, te lo ricordi? » Mi guardò ancora una volta, senza parlare. Poi si voltò, mentre si portava la mano agli occhi per asciugarsi le lacrime e mi lasciò, affrettando i suoi passi verso l’interno. Potevo fermarla, inseguirla, ma non lo feci. Si confuse nuovamente nella folla che riempiva il salone interno, lasciandomi in balia di un uragano di pensieri. Ero ancora troppo scosso per affrontare una conversazione costruttiva con lei, ma rivederla aveva rispolverato lo scintillante sentimento che custodivo gelosamente dentro. Il tempo passava velocemente, erano le 3 passate. Avevo messo piede da più di cinque ore in quella villa, ma adesso sapevo perché mi trovavo là: per dire nuovamente addio alla donna che amavo.
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