Issue #3 / July-August 2014 “Reborn”
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anticonformismo. Ah, lo chiamano ancora così? “Colui che non conforma il suo comportamento a quello maggioritario”. E’ questa la definizione che il dizionario offre del termine “anticonformista”. Da che mondo è mondo, l’anticonformista, in quanto tale, è colui che fa del suo stile di vita il manifesto della sua opinione ideologica, politica, culturale o religiosa, che utilizza la sua immagine come esteriorizzazione del proprio mondo interiore, un “bagaglio” personale che spicca tra la folla perché diverso, in quanto suo e di nessun altro. L’anticonformista consacra la sua vita all’essere ciò che vuole essere e non a ciò che i dogmi della massa prescrivono. Sulla base di queste considerazioni, allora, non posso che chiedermi cos’abbia in comune l’anarchico sognatore appena descritto con quella ventenne, espadrillas ai piedi, Canon tra le mani e frangetta alla Giovanna D’Arco, che, davanti al suo caffè al ginseng, discute dello shooting fotografico da lei realizzato, come riflesso profondo della vacuità dell’esistenza umana (e di vacuo, lei, rende solo il portafogli di papà), all’amica senza veli; quella stessa amica che guarda solo film di Woody Allen (ma “To Rome with Love” è l’unico che è riuscita a finire, e solo per le due scene con Scamarcio), così “underground” e scevra dalle futili inibizioni del mondo borghese (disinibizione, la sua, ben nota alle pareti dei bagni dell’Università). Mi chiedo dove si trovi la connessione tra il concetto di spirito libero e le foto su Instagram dello studente di Architettura sdraiato su di una panchina a sfogliare Flaubert (l’unico libro che ha letto al liceo), il quale, per conquistarti, ti porta al concerto di una tribute band di Guccini (e poi lo becchi ad ascoltare Katy Perry su Spotify); ancora, mi chiedo che cosa ci sia di originale e fuori dagli schemi dell’adolescente che scrive status su Facebook sulla globalizzazione (direttamente dal suo I-phone 5) e che non si perde una manifestazione, da quella contro la TAV a quella per l’estin-
zione delle cozze del Nord America (ma solo se si tiene nel giorno del compito di greco). Per elencare i soggetti appena descritti, non a caso ho usato l’articolo indeterminativo: il concetto di “anticonformismo” ha poco a poco abbandonato quello di “autentico”, per far posto a quello di “stereotipo.” L’anticonformista, oggi, ascolta un determinato genere di musica, legge un numero prestabilito di opere, si veste, scrive, parla in un certo modo, ed è quello che gli impone la categoria in cui, impaziente, brama di entrare a far parte. Ecco quindi, gli Hipsters, i classici figli di papà vestiti da clochard, che trovi da Starbucks a twittare pezzi di canzone dei Radiohead, o gli Indie, jeans a vita alta e occhiali da John Lennon, che ascoltano soltanto la musica di sconosciuti artisti metropolitani e la tormentata Boheme dei giorni nostri, i Radical chic. Questa, tuttavia, non è la sede per condannare nessuno; il nostro modo di apparire e di comportarci esprime la maniera in cui vogliamo mostrarci, le debolezze che vogliamo nascondere, l’impressione che vogliamo offrire. Vogliamo essere pensati e percepiti come appartenenti ad una determinata categoria standardizzata dimenticando, talvolta che esistono tipi di abiti, tipi di musica, tipi di criteri secondo cui possiamo sentirci affini ad un’area ideologica rispetto ad un’altra, ma che non esistono tipi di persone. Nessuno è uguale all’altro, e questo ci fa paura. In quanto unici, e quindi diversi, potremmo non esser capiti, potremmo essere respinti, e allora scegliamo la strada più facile, e spesso senza accorgercene: l’omologazione. Ma questo ci rende davvero felici? In Fight Club, Brad Pitt diceva: “Compriamo cose che non ci servono, con soldi che non abbiamo, per impressionare persone che non ci piacciono”. Se non riusciamo mai pienamente ad esprimere ciò che vogliamo e quello che siamo al mondo esterno, facciamoci un favore: scegliamo quello che davvero ci interessa e ci stimola, ciò che davvero ci soddisfa. Per quel che possiamo, scegliamoCi: non scegliamo quelli che plasmiamo per far colpo sugli altri, ma quelli che costruiamo, giorno per giorno, per piacere soltanto a noi. Mentiamo pure, ma non a noi stessi. Chiara Pizi
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VERSO BRASILE 2014 : L’ALTRA FACCIA Dei MONDIALI
Le cifre spese dal governo brasiliano per la edificazioni delle strutture per i Mondiali di calcio pare che non siano state apprezzate dalla popolazione carioca.
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iamo a Cesare quel che è di Cesare: il football l’hanno inventato gli inglesi e siamo tutti d’accordo, ma il futebol, il gioco più bello al mondo, è un’opera a tinte verde-oro. La ragione è nell’essenza e nella storia stessa del popolo brasiliano, per definizione caloroso, passionale, nel bene e nel male istintivo. Dall’invenzione fantascientifica che fa venire giù uno stadio, a quella velleità di troppo che causa le ire di un allenatore. Questo è il Brasile, nei suoi pregi e nei suoi difetti, genio e sregolatezza, nei suoi eccessi e nelle sue pur sempre spettacolari inconsistenze. Dal 12 di giugno al 13 di Luglio, il mondo del calcio si ritroverà proprio lì per la sua rassegna internazionale più importante. La manifestazione si preannuncia una medaglia dal duplice volto: che sarà festa e spettacolo dentro ed attorno al rettangolo di gioco è indubbio, ma fuori degli impianti ci sarà un altro mondiale, quello dell’altro Brasile. Dicevamo degli impianti, i cui costi esorbitanti sono andati progressivamente aumentando nelle proiezioni fatte mese dopo mese dal ministero dello sport brasiliano e che potrebbero, nel bilancio finale, ammontare a circa 15 miliardi di dollari, con ogni progetto che andrebbe a sforare di almeno tre volte il budget iniziale per la sua realizzazione.
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LA STORIA INFINITA DELL’ARENA CORINTHIANS - Esemplare è quanto avvenuto a San Paolo, dove ci sarà la partita inaugurale della competizione: quel Brasile-Croazia che da ormai tre anni è incubo ed ossessione degli addetti ai lavori. San Paolo è una città immensa, contando la periferia fa 20 milioni di abitanti a cui bisogna aggiungere quelli sfuggiti per un motivo o per un altro all’anagrafe: parliamo in pratica di quasi la metà di tutti i cittadini del nostro paese. Le squadre del posto sono tante, come altrettante sono le fedi calcistiche. Spiccano per tradizione il Sao Paulo, visto con parecchia antipatia da chi non lo tifa in quanto considerata la squadra del lato chic e borghese della città, e poi c’è il Corinthians, “l’equipe do povo”, la squadra del popolo. I primi giocano in uno stadio importante, il più capiente della città, chiamato il ‘Murumbi’. I secondi invece, hanno ottenuto da qualche stagione il fitto del ‘Pacaembu’, stadio più piccolo e di proprietà della prefettura, ovvero uno di quegli impianti che da noi definiremmo “comunali”. Il buon senso avrebbe consigliato di apportare le poche modifiche necessarie al Murumbi, impianto già in buono stato, e disputare lì gli incontri previsti per la città di San Paolo. C’è un piccolo problema però, oltre che “l’equipe do povo”, il Corinthians è la squadra del cuore del primo ministro brasiliano Lula! Voi ve lo immaginate Berlusconi 14
che investe per la costruzione o la miglioria di uno stadio dell’Inter? Certamente no. Così, attraverso l’azione diplomatica di tale Andrès Sanchez, ieri presidente del Timao tra il 2007 ed il 2011, oggi ai vertici della federazione calcistica brasiliana e del comitato organizzativo della coppa del mondo, domani addirittura, guarda caso, candidato alle elezioni politiche, si è riuscito ad ottenere che venisse fondato un nuovo stadio, che come il nome “Arena Corinthians” lascerà intedere, sarà tutto Corinthiiano. L’impianto dotato di 68 mila posti, sarà dapprima il fiore all’occhiello della rassegna mondiale, successivamente poi, diventerà la prima casa autentica e stabile del Timao. Come ci ha spiegato benissimo Sabatino Durante, agente FIFA e vero almanacco vivente delle cose calcistiche di terra Brasileira, che dalla sua residenza di San Paolo ha seguito la questione in prima persona scrivendo anche alcuni reportage, edificare un nuovo stadio di quelle proporzioni, piuttosto che apportare piccole modifiche ad un impianto già abbastanza funzionale come il Murumbi, ha fatto lievitare in modo esponenziale sia i costi che i tempi di realizzazione. Per quanto riguarda i primi, si è sforato di tre volte il Budget ed il saldo è stato colmato con ingenti quantità di denaro provenienti dai conti pubblici, soldi sottratti al popolo e che sarebbero stati altrimenti destinati alla sanità e all’istruzione
(si, perchè nello sfavillante Brasile c’è ancora un tasso di analfabetismo del 20%!). Per quanto riguarda invece i tempi, nonostante le somme faraoniche di denaro investite, c’è tuttavia il rischio paradossale che qualcosa possa non funzionare o non essere pronto al 100% per la gara inaugurale. L’Arena Corinthians (o Itaquerão dal nome del quartiere dove è stata costruita), che lo scorso novembre fu teatro di una tragedia che vide la morte di due operai per il crollo di una porzione del tetto, ospiterà quattro appuntamenti dei gironi di qualificazione, tra cui spicca il big match del girone degli azzurri tra Inghilterra ed Uruguay oltre che come già detto il primo match del Brasile. In seguito sarà affollato per un ottavo di finale e una semifinale. Ad ora però, questo stadio forse troppo ambizioso, i cui lavori sono iniziati soltanto nel 2011, è stato testato una sola volta, non più di un mese fa, in occasione di un match di campionato del Corinthians. Tra l’altro il test è avvenuto con soli 40 mila posti messi a disposizione, gli altri 28 mila non sono mai stati provati e “debutteranno” soltanto in occasione della gara inaugurale della coppa del mondo! Lecito a questo punto chiedersi se ne valesse proprio la pena, e ci diremmo proprio di no. Poco male però, ci spiega ancora Sabatino Durante: <<Quanto meno in questo caso è stata bonificata una zona come l’Itaquerão che prima era uno dei quartieri più malfamati e disagiati di
San Paolo ed ora invece sarà un epicentro di crescita e commercio, che potrà godere di una linea metropolitana inaugurata di recente e di nuove strade che lo collegheranno più agevolmente con la capitale Paulista. Inoltre il Corinthians, dopo i mondiali, rimuoverà 20 mila posti a sedere per sviluppare altre attività affiliate al club e quindi in un modo o nell’altro procurerà certamente ricchezza>> <<Piuttosto però – continua Durante – dovrebbero spiegarci che senso abbiano stadi da 70 mila posti a Cuaiabà e Manaus, vere cattedrali nel deserto, città le cui squadre locali disputano la quarta o quinta categoria nazionale e che non riempiranno lo stadio mai più. Si tratta di sprechi folli ed ingiustificati>> IL MALCONTENTO – Intanto i brasiliani non ci stanno, o quantomeno non tutti. E le parole un po’ superficiali di personaggi come Ronaldo (“Coi soldi del mondiale si devono fare gli stadi, non gli ospedali” Ndr.) hanno avvelenato ulteriormente l’umore generale, di cui si sono fatti portavoce icone di solito parecchio istituzionali come Pelè e Zico, che invece in questo caso si sono schierate contro il governo e contro la FIFA.
saranno anche confortevoli, ma fuori sarà puro caos infernale. Le infrastrutture in Brasile sono ancora parecchio deficitarie, le poche arterie degne di questo nome che portano dalle città agli impianti saranno imbottigliate, ci vorranno anche diverse ore per spostarsi da un punto all’altro di città come San Paolo. Gli aereoporti andranno in tilt, addirittura stanno studiando dei voli speciali all’interno dello spazio nazionale, ma spesso in Brasile occorrono due-tre ore per imbarcarsi in condizioni normali, non osiamo immaginare dopo l’invasione degli appassionati di calcio che verranno da tutto il mondo. I 15 miliardi di dollari che alla fine verranno spesi, avranno risolto di una percentuale prossima allo zero questo tipo di problemi. Se dobbiamo aspettarci nuove proteste come quelle avvenute in occasione della Confederations Cup? Certo, ma non preoccupatevi, non faranno fatica ad essere sedate. Le città ospitanti saranno presidiate dall’esercito ed in Brasile non sono come noi, prima ti sparano e semmai dopo ti chiedono il documento, non so se rendo l’idea. Il Brasile è questo, luci ed ombre, una contraddizione perenne.>> LO SPETTACOLO - Ciò che è certo è che la passione dei brasiliani per questo sport ed il loro calore naturale, faranno si che ‘il mondiale dei mondiali’, così come è stato ribattezzato, sarà solo ed esclusivamente un grande spettacolo, come tutti avremmo potuto sin dal primo momento immaginare. Ma fuori dagli stadi, quello che in TV non riusciremo a vedere, ci sarà un umore ben diverso. Ci sarà tutta un’altra storia, ed è una storia molto triste.
<<E’ vero che negli ultimi anni il paese ha avuto una crescita notevole ed il tasso di povertà è sceso sensibilmente, ma alcuni poveri sono ancora più poveri e la classe media soffre ancor di più. I ricchi sono ancora più ricchi, ma il benessere non è equamente distribuito. L’idea dell’accoppiata mondiali-olimpiadi tra il 2014 ed il 2016, è stata concepita proprio per dare la definitiva svolta propagandistica a quest’immagi- Andrea Falco ne del grande e sfavillante Brasile, la presunta nuova super potenza mondiale. Ma è un mito privo di fondamenta e la realtà in fondo in fondo è tutt’altra.>> <<Infine non vorrei essere nei panni di chi verrà in Brasile ad assistere alla competizione.>> Conclude Sabatino Durante. <<Malgrado i ritardi, gli impianti alla fine
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Uragano Hurricane La storia del pugile statunitense che ispirò Bob Dylan
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ubin Carter è meglio conosciuto come Hurricane, uragano. Pugile nato a Clifton e cresciuto in New Jersey, Carter si è conquistato la fama a suon di pugni negli anni 60 ed è tristemente diventato noto all’opinione pubblica anche per l’accusa di triplice omicidio e la successiva condanna a due ergastoli. La giustizia per Rubin ha sempre rappresentato un problema. E’ infatti l’unico dei suoi fratelli ad avere guai con la legge fin da bambino e a passare mesi e mesi nei riformatori della contea. Negli anni 50 Carter si arruola nell’esercito americano e completa l’addestramento a Forth Jackson in South Carolina. Il suo temperamento ribelle ed impulsivo non lo rende certo un soldato accomodante e diligente e i suoi continui problemi disciplinari lo allontanano dagli altri cadetti. L’emarginazione, secondo quanto riportato nella biografia del 74, lo porta inspiegabilmente ad avvicinarsi alla boxe. La carriera militare dura infatti 21 mesi, alla fine dei quali Rubin viene definito “inadatto al servizio militare”. La delusione dell’esperienza nell’esercito ha breve durata. Tornato definitivamente in New Jersey Carter riprende le care vecchie abitudini facendosi schedare e arrestare per continue rapine a donne di colore di mezza età. La prigione, per quanto dura da affrontare, ha sicuramente il merito di riavvicinarlo al mondo della boxe; l’arte del guantone affascina Carter così tanto che uscito di galera il giovane si impegna a suon di pugni per diventare professionista. Pur essendo più basso di un peso medio ( era 1.73 cm) combatte e gareggia esclusivamente in questa categoria. La testa rasata, il fisico tarchiato e possente, i baffi curati, i pugni devastanti e la tenacia complice di tante vittorie
e messe al tappeto hanno presa rapida sul pubblico che è affascinato dal travolgente carisma. Hurricane, uragano, è il nome che urla la platea galvanizzata quando assiste ai suoi match. Nel 1966 Carter viene accusato di omicidio. Tre persone sono state assassinate brutalmente la notte tra il 17 e il 18 giugno in un bar che il pugile era solito frequentare. Tra i testimoni oculari spunta il nome di Alfred Bello, un criminale conosciuto e famigerato della zona, che conferma le teorie degli astanti della palazzina che hanno assistito alla scena; gli assassini in fuga sono due uomini di colore. Carter viene immediatamente fermato con un amico e giudicato colpevole sulla base dei test svolti al poligrafo (nonostante questo fosse ritenuto decisamente poco attendibile). Dopo numerosi e tragici processi che lo vedono, diversamente da quanto avviene sul ring, uscire sempre sconfitto in Rubin si riaccende la speranza quando il suo processo viene dichiarato “non equo per motivi razziali” nel 1985. Il rilascio è difficoltoso anche per via delle numerose ricadute di Hurricane nel mondo della droga e del traffico di cocaina, che contribuiscono a gettare ancora più ombre su un’immagine già ampiamente compromessa. Muore a Toronto il 20 aprile 2014 per via di un cancro alla prostata. L’uragano Hurricane, uragano distruttivo sul ring e autodistruttivo nella vita privata, ha trascinato folle entusiaste e platee in visibilio con una personalità schiacciante quasi quanto i suoi pugni. Bob Dylan gli dedica una canzone nel 1975 e Denzel Whashington lo interpreta in un film epico (“il grido dell’innocenza”) diretto da Norman Jewison nel 1999. Noemi Gesuè
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Nick Fouquet
un bohemien del ventunesimo secolo 18
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reatività, genialità e anticonformismo caratterizzano il cappellaio ribelle. <<I’m a hatter… with the h>>. Così si presenta Nick Fouquet, nuovo pilastro nel trend delle star. Alto, capelli lunghi e biondi, occhi azzurri, aspetto trasandato. E’ facile paragonarlo al più famoso Cappellaio Matto del Paese delle meraviglie, ma più che al personaggio ideato da Carroll, il giovane artista preferisce essere accostato ad un’ altra grande figura del mondo letterario, Tom Sawyer. Spirito libero dalla nascita, è un ragazzo che ha sempre vissuto agli estremi, non ama le comodità. Il suo credo è <<Esci fuori, apri gli occhi, guarda cose diverse, esci dalla tua zona di sicurezza>>. Vive con lo sfrenato desiderio di viaggiare, conoscere, proprio come il protagonista delle opere di Mark Twain. Alla sola età di 17 anni scappò di casa, e andò a vivere in una tenda in Patagonia. Da quel momento la sua vita è stata un continuo spostarsi, alla ricerca di nuove esperienze e di un nuovo modo di vedere le cose. Nepal, Marocco, Brasile, Nuova Zelanda, Australia, sono tutti i posti che hanno formato l’artista che Fouquet è oggi. E’ proprio lungo questo percorso che egli conosce Christophe Laurent, un designer di Los Angeles. Dopo aver lavorato per lui per sette anni, Nick si accosta in solitario a ciò che diventerà la sua ragione di vita, i cappelli. Allontanandosi dalla strada che stava percorrendo- si è laureato infatti in Scienze Ambientali- comincia a cimentarsi in qualcosa in cui mettere tutta la sua passione, le sue esperienze, ciò che lui
aveva vissuto viaggiando. Il cappello non è un semplice accessorio ma un’estensione dell’anima, ciò che prima di tutto ci rappresenta. Per Fouquet gli accessori sono la parte più importante dell’outfit poiché è su di essi che le persone poggiano prima di tutto i loro occhi. Non prendiamo però troppo superficialmente questo discorso, infatti non si parla di semplice apparire ma di ciò che noi siamo e vogliamo trasmettere. Ogni cappello creato dall’artista franco-americano è un pezzo unico, tagliato apposta per la persona che lo desidera. Non ci sono schizzi o prove prima di un lavoro. Si coglie l’ispirazione del momento, ciò che chi crea riesce ad assorbire dall’atmosfera e dalle condizioni che lo circondano, solo così si possono creare vere e proprie opere d’arte. Dopo tanto lavoro, mai faticato per il tanto amore messo in ogni creazione, oggi Nick è sull’onda della ribalta. Si sono presentate a lui star del calibro di Pharrel Williams e Jared Leto, è inoltre stato scelto da Hogan come simbolo della sua nuova campagna “The Rebel Journey”, ma nonostante tutto non si è montato la testa. Trovarlo è facile. La sua piccola bottega è situata all’interno di un bungalow a Venice, California. Non fa distinzioni tra i clienti, anzi, per lui è molto più stimolante lavorare per una persona che ha risparmiato, ha fatto sacrifici per avere ciò che desidera. Per ora si sta godendo il momento, ciò non significa adagiarsi sugli allori, infatti nel futuro di Nick Fouquet ci sono ancora molte cose da vedere e da imparare. Prossima tappa, Ecuador. Fabrizio pinci
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NEW ADVERTISING ERA I
n quindici anni è cambiato il modo di sponsorizzare un marchio o un prodotto, ma è solo questo? Con il termine Società dei Consumi si tende a dipingere una società basata sulla produzione e gli acquisti di prodotti utili ma superflui, una società che ci vuole convincere che il nuovo è migliore del vecchio. Tutto questo ci rimanda al modo di pubblicizzare moderno, dove vengono ingaggiate star improbabili, idealizzate, che ci dicono che “anche loro fanno colazione con i cornetti Mulino Bianco” o che quel rasoio è migliore di un altro (detto, poi, da sportivi da un passato improbabile da scienziati). E così ci ritroviamo a comprare prodotti su prodotti, senza badare al portafoglio o alla qualità vera dell’oggetto o da dove derivi effettivamente tale merce. La Nike, che con le pubblicità con Ronaldo and co. inneggiava a un gioco del calcio più spettacolare, conclusasi con la campagna del torneo della gabbia in tutte le più grandi città d’Europa, capeggiata dall’indimenticabile Eric Cantonà o la Pepsi che utilizza da sempre vere e proprie icone dello sport mondiale , hanno sempre avuto una grande influenza sulla vita di ogni giorno e ci hanno sempre spinto a acquistare i prodotti dei marchi più competitivi nell’ambito della pubblicità ma non della qualità. Oramai pubblicità e psicologia vanno di pari passo. Ci sono veri e propri marchi che investono più sulla pubblicità accattivante che sulla concretezza del prodotto: Coca - Cola e Samsung ne sono un esempio eccellente.
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Nel duemiladodici le due società hanno speso tra i tre e i quattro miliardi di dollari solo per la creazione delle pubblicità; a queste cifre si aggiungono i vari finanziamenti per le sponsorizzazioni e le realizzazioni di eventi. E pensare che sono due aziende che l’una produce una bevanda dannosa per il corpo e l’altra ha un mercato di armi da guerra non indifferente. Tutto ciò si rifà alla “Spirale del silenzio “, teorizzata negli anni settanta del Novecento, la quale afferma che i mass media, oggigiorno, tendano a pubblicizzare , e quindi a rinforzare, l’opinione su un tale oggetto mediante anche il silenzio perpetuo su qualcosa che realmente potrebbe interessarci. E’ il caso delle aziende produttrici di smartphone che ci lusingano con i prodotti che sfornano mese dopo mese, ma non ci avvertono di quanto possano nuocere alla nostra salute le onde radio generate dagli stessi dispositivi e quindi ci convincono a gettare nel dimenticatoio argomenti e valori di questo genere , puntando sulla sensibilità delle nostre reazioni dinanzi a campagne pubblicitarie epiche. Ma ai giorni d’oggi la pubblicità non si ferma qui. Apple e Heineken, che attraverso il proprio logo tendono a persuaderci e quindi a pubblicizzarsi, ne sanno qualcosa. Pochi lo sanno, ma la scritta di una delle birre più consumate al mondo contiene due “smile” proprio nel centro della parola, al posto delle e, risultato? Heineken risulta alquanto accattivante solo leggendola. E per arrivare a ciò, la Heineken ha dovuto condurre degli studi interminabili. Storia simile per la Apple. Nel millenovecentosettantasette il marchio più celebre della Silicon Valley era tutto eccetto che una mela morsicata. Il logo è stato successivamente cambiato per questioni di marketing, per essere più immediato. In più nel millenovecentonovantasette Apple aggiunge una coppia di parole poste in basso al marchio: Think different. Con questo la creatura di Steve Jobs segnò una rivoluzione per il mondo della pubblicità, promuovendo la sua azienda come uno status symbol degli anticonformisti. Ci fu uno spot dove dei personaggi in-
fluenti ( John Lennon, Maria Callas, Alfred Hitchcock, Picasso o il Mahatma Gandhi solo per citarne alcuni) intonano con forza lo slogan Apple invogliando attivamente i probabili acquirenti a emulare i propri idoli. Nel mondo dove ci troviamo tutto è pubblicità, tutto richiama a un marchio. Esistono migliaia di leggi nel marketing che non lasciano alcuno scampo al consumatore. Dalla scelta di un colore alla scelta di una singola parola preposta o postposta ad un’altra. Troviamo pubblicità che ricoprono montagne intere o gallerie, aziende che comprano i nomi delle piazze (Madrid, puerta del sol trasformata in Vodafone sol) o di stadi (fenomeno più inglese che italiano, per ora), marchi che pur di essere sulla cresta dell’onda inventano gare di sport estremi ( Red Bull e Heineken più di tutte). Per non parlare di che ci prospetta il futuro del Belpaese con la vendita del Colosseo ad una cordata cinese intenzionata a sfruttare l’ex anfiteatro per scopi pubblicitari. Negli ultimi anni abbiamo assistito impotenti ad una degenerazione della pubblicità. Possiamo parlare di veri e propri abusi che si ripercuotono sui consumatori di più piccola età. Pubblicità con al centro donne nude, uomini perfettamente muscolosi, immagini di violenza, frasi razziste o che fanno pensare continuamente al mondo del sesso, ricorrono a messaggi estremi per farsi notare risultando diseducativi per il minore. I modelli sbagliati non solo inducono il consumatore ad aumentare il vizio ma anche ad acquistare quel prodotto, che si, sarà anche di ultima generazione , ma che gli è totalmente inutile. Carl Segan diceva così: “la pubblicità insegna alla gente a non fidarsi del proprio giudizio. La pubblicità insegna alla gente a essere stupida”. Francesco Li Volti
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ZWINGER
Un palazzo a Dresda che, attraverso una serie di meccanismi, quando piove, “le suona“ alla città.
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on può piovere per sempre”, la citazione è di quelle celebri. Ma qualora la pioggia non volesse proprio saperne di smettere di venir giù, per gli abitanti del quartiere degli studenti di Dresda (Germania), non sarebbe poi così un dramma. A Neustadt Kunsthofpassage, infatti, nome in madrelingua del suddetto quartiere che tra l’altro sorge su di una valle nominata patrimonio dell’UNESCO, nasce una delle cose più bizzarre ed affascinanti del panorama europeo, grazie al genio di tre artisti locali: la scultrice Annette Paul e i designers Cristopher Rossner e Andre Tempel. Grazie a costoro, la pioggia, che da quelle parti non cade proprio di rado, è stata riscattata dei propri elementi malinconici, irritanti e fastidiosi, diventando piuttosto ispiratrice di una soave melodia. Nasce con questa idea il Fullen Wall, uno degli edifici più strani e pittoreschi con cui potreste avere mai la fortuna di imbattervi. Si tratta di un palazzo dall’architettura strampalata, dipinto integralmente di tonalità in graduazione tra il blu e l’azzurro, la cui facciata è cosparsa da una serie di particolari grondaie di dimensioni diverse tra loro, a capo di ognuna delle quali c’è un grosso imbuto che dà all’insieme le sembianze di una serie di grandi trombe. A causa della sua struttura, il palazzo si mostra alla città come un enorme strumento musicale su strada, un organo per la precisione. Ed in effetti è esattamente questo, perché ogni qual volta che a Dresda piove, il Fullen Wall produce della musica vera e propria, la cui melodia cambia a seconda dell’intensità delle precipitazioni. Un tocco di colore, incanto e magia nel mezzo del grigiore, che ci ricorda del valore allietante dell’arte e di come questa possa nascere dagli elementi più semplici del nostro quotidiano. Andrea Falco
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n a i r e z l i B n a D
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Il re di Instagram è realmente il mito a cui aspiriamo?
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erano una volta i miti e i modelli di riferimento. Michael Jordan, Jim Morrison, Woody Allen o Nelson Mandela. Quegli uomini di cui imitare le gesta e farne proprie le citazioni, sognando di poter essere come loro per almeno un giorno della propria vita. Oggi, per le nuove generazioni, c’è Dan Bilzerian: ‘figlio di papà’ - di professione - “Attore, astronauta, cazzone. E talvolta giocatore di poker”, come egli stesso si definisce nelle info del suo profilo instagram, nel tempo libero. Nato in una reggia, figlio di un vecchio volpone di Wall Street colluso un po’ qua e un po’ là, la vita del buon Dan spazia tra alcuni punti cardine imprescindibili cui fa quotidiano riferimento attraverso l’ostentazione fotografica delle sue fortune a mezzo instagram. Innanzitutto denaro: fiumi di banconote bloccate con gli elastici in perfetta linea con la miglior tradizione del cinema gangster americano. Donne dalle curve sinuose, mai le stesse della sera prima, un parco automobili da paura e armi da fuoco incastonate di diamanti, fanno il resto. Non chiamatelo dolce far niente, sopravvivere di festino in festino, tenendo per altro testa a pericolose modelle assatanate, non è mica una cosa da tutti, ma è roba esclusivamente da duri, duri come i suoi addominali di pietra, che al pari della barba lunga ormai di comune tendenza, completano (finalmente) il lungo elenco degli stereotipi dell’uomo che vince nel 2014. Al di là del bigottismo e delle morali perbeniste, ciò che è ribaltato in modo evidente nell’epoca dei social network, è il rapporto tra le opere di un uomo e la fama che ne deriva. Un tempo era necessario sfondare in qualche ambito, per poterne poi raccogliere il conseguente successo. Ora, è esattamente il contrario: si diventa prima di tutto
famosi, potendo arrivare nelle case di chiunque con l’auto-pubblicità in rete, senza particolari meriti e di conseguenza riuscire strappare un ruolo nella società, nel cinema, nella TV. Dan Bilzerian non è stato però così fortunato. Per avere un ruolo da comparsa in “Lone Survivor” infatti, pellicola di Peter Berg dedicata alla storia di cinque Navy Seal che vengono uccisi in missione, ha speso un milione di dollari che gli sarebbe fruttato “ben” 8 minuti di luci della ribalta, se non fosse che poi l’hanno tagliato, riducendo la sua partecipazione a un cameo di un minuto. Perchè di tanto in tanto capita anche di annoiarsi ovviamente e tocca così inventarsi qualcosa, che possa essere magari l’assassinare un coccodrillo; oppure, ultima genialata di Dan, lanciare una pornostar diciannovenne dal tetto di una villa per cercare di fare “canestro” nella piscina sottostante, finendo poi per romperle un piede ed incappare in una denuncia: “Non mi hai mai neanche chiesto scusa” dichiarerà lei qualche settimana dopo. Ma non ditegli che la sua vita sia tutta rosa e fiori per favore, che altrimenti si arrabbia. Finirebbe per raccontarvi di come in realtà si sia fatto da solo, quando giocando in modo “stupido e compulsivo e sotto l’effetto di alcool” finì ‘rotto’ (perdere fino all’ultimo centesimo in gergo pokeristico, ndr.) e dovette vendere le sue amate pistole per guadagnarne soli 750$ dollari, dai quali, secondo la sua fantasia, ha ricostruito da capo il suo patrimonio fino al giorno in cui le ha ricomprate ed ha celebrato su instagram il ritorno delle sue piccole allegando alla relativa immagine la struggente didascalia: “finalmente, dopo sei mesi siete tornate da me”. Forza Dan, non mollare mai. Andrea Falco
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The Tutù Project La storia di Bob Carey, l’uomo che per amore ha indossato un tutù
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l protagonista di questa storia singolare e commovente è il fotografo americano paesaggista Bob Carey che ci insegna a rivalutare l’importanza dell’amore affrontando con l’arma affilata dell’autoironia un nemico distruttivo e indistruttibile: il cancro. La moglie di Bob, Linda Carey ,è infatti affetta da una forma tumorale al seno e ricoverata in un ospedale newyorkese. Consapevole dello scarso potere che l’essere umano ha disposizione quando si trova di fronte a qualcosa che sfugge al suo controllo e che lo getta nella più totale e angosciosa disperazione, Bob riesce in un’impresa tanto impossibile quanto scontata offrendo alla moglie l’incomparabile medicina del sorriso. Indossando un adorabile e ridicolo tutù rosa, Bob ha dato il via al suo progetto; il
Tutù Project, che lo vede improvvisare danze d’amore per le strade di tutto il mondo. La fedele macchina fotografica lo immortala in pose improbabili e di dubbia eleganza e le foto che lo ritraggono indossare il tutù (e molto spesso solo quello) sono poi spedite alla moglie immobilizzata in un letto d’ospedale. Come resistergli? Bob riesce con sapienza e professionalità a renderci impossibile trattenere un sorriso e al tempo stesso a farci apprezzare i paesaggi che gli fanno da contorno. Lo vediamo improvvisare movimenti da etoile tra le mucche che pascolano, su un ponte di una metropoli, sulle montagne rocciose e su una spiaggia con un mare in tempesta. Bob Carey è il simbolo dell’uomo comune che combatte come può un ostacolo insormontabile. Non vince un Nobel per la
medicina, non è alla ricerca disperata di un’improbabile cura e non tenta spasmodicamente di proiettare sulla sua situazione personale l’attenzione pubblica, conscio del fatto che fin troppe persone si trovano a viverla ed affrontarla quotidianamente. Con tenerezza e devozione il fotografo offre alla moglie la possibilità di allontanare per un momento, per quanto possibile, il pensiero maligno che la corrode dall’interno per ridere con lui, per ridere di lui. L’ostacolo insormontabile del cancro, che rende l’essere umano frustrato, piccolo e impaurito, impallidisce di fronte alla grandezza dell’amore e dell’arte e soprattutto ci regala un sorriso che sa tanto di speranza. Noemi Gesuè
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Luce
del
Sole
in
bottiglie
di
plastica
Alfredo Moser illumina Uberaba. M
inas Gerais, Brasile. No, non discuteremo di mondiali. Stiamo per parlare dell’intuizione di un umile cittadino, come i tanti che popolano la piccola Uberaba. Si chiama Alfredo Moser e, secondo Gibby Zobel, può essere considerato il Thomas Edison dei nostri giorni. Ispirato dai frequenti blackout del 2002, i quali lasciavano senza energia elettrica le case dei suoi concittadini, il meccanico ha dato forma all’idea che l’ha reso “inventore per caso”, costruendo la Solar Bottle Bulb. Utilizzando il meccanismo di rifrazione della luce solare attraverso una bottiglia di plastica, Moser ha dato prova che sia del tutto possibile riuscire a illuminare le case fino a 60 hz. Servirsi dell’energia del Sole per dar luce alla propria abitazione è sorprendentemente semplice: basta versare due litri d’acqua in una bottiglia di polietilene tereftalato e, per scongiurare il rischio che diventi torbido, aggiungere al liquido due capsule di candeggina. In seguito, la bottiglia dovrà esser chiusa con il suo tappo e venir ricoperta con del nastro isolante nero. La Solar Bottle Bulb potrà, quindi, essere fissata al soffitto mediante un foro, sul quale verrà applicata della resina: la “luce in bottiglia” è pronta per essere sprigionata, e la sua luminosità sarà proporzionale all’intensità della luce solare. L’ambiente circostante verrà prontamente illuminato, e nel totale rispetto dell’ecosistema: le bottiglie PET, infatti, sono facilmente riciclabili dalla comunità e non rilasciano anidride carbonica. La sbalorditiva trovata di Moser, che poco ha in comune con un’innovazione tecnologica, ha entusiasmato i maggiori ingegneri ed è stata presa d’assalto da ben 16 Paesi, tra cui le Isole Fij, Bangladesh, Tanzania, India e Argentina. La portata
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dell’intuizione avrebbe condotto Moser ad un arricchimento certo: avrebbe potuto munire la sua idea di brevetto e venderla, ma non è il profitto la sua meta. Per il meccanico, non c’è compenso più gratificante se non stare a guardare come la sua invenzione abbia permesso alle famiglie di Uberaba di provvedere ai bisogni essenziali dei propri figli, facendo economia sulla costosissima energia elettrica. Alfredo Moser è riuscito ad aiutare non soltanto la sua piccola cittadina: nelle Filippine, dove un quarto della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno, le “lampade di Moser” danno attualmente luce ad oltre 140.000 abitazioni. Sicuramente le bottiglie PET, almeno nelle abitazioni moderne, non sono in grado di sostituire le lampadine elettriche. Non essendo capaci di immagazzinare energia, funzionano soltanto in presenza di luce naturale; ma non è illuminare ambienti vasti e sontuosi il fine che mirano a perseguire. Risparmio e innovazione, in piena linea con la difesa dell’ambiente: questi sono gli obiettivi della Solar Bottle Bulb, quasi a regalare, oltre alla luce, prospettive di crescita, miglioramento, speranza. Chiara Pizi
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A volte ritornano: il cult di reinventare il cult.
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onne lunghe, pantaloni a vita alta, Rayban modello goccia e stivaletti Dr Martens ovunque si posi l’occhio; e, ancora, tagli di capelli alla Brigitte Bardot, fermagli alla Janis Joplin, stampe animalier su t-shirt e borse, i chewing gum e i loro zuccherosi palloncini rosa. A girare per le strade, ci si sente come il protagonista del film Midnight in Paris, quando salì su di una carrozza e, una volta sceso, si ritrovò nel secolo precedente. Le nostre città sembrano piombate di colpo negli anni ’60, per la gioia di chi non ha mai familiarizzato con i jeans a vita bassa e per il sollievo del portafoglio il quale non si ritrova a dover affrontare i prezzi eccessivamente alti delle boutique nostrane. L’epidemia vintage sembra non aver lasciato scampo a nessuno, ma non solo i nostri amici sono stati contagiati: moltissimi artisti, come Adele, i Radiohead e i Beady Eye, non sono riusciti a resistere alla tentazione di ritornare ad incidere su vinile, regalando ai propri fan il privilegio di ascoltare musica alla “vecchia maniera”. I The Black Keys, dopo essere diventati il duo blues-rock più famoso al mondo, ven-
dendo più di un milione e mezzo di copie del loro penultimo album, El Camino, hanno presentato l’ultimissimo Turn Blue esclusivamente su vinile. I dati statistici della vendita dei dischi in vinile hanno dato buone speranze ad artisti e ad intenditori: più del 27% delle vendite di dischi, infatti, riguarda i vinili, soprattutto per la musica jazz e pop. Questo vuol dire che, nonostante sia stato dato per spacciato a partire dagli anni ‘80, quando è stato rimpiazzato dalle musicassette e successivamente dal compact-disc, il vinile gira ancora, gracchiando sulle puntine dei cento milioni di giradischi ancora funzionanti al mondo. E, per rimanere in tema, che dire della musica dance anni ‘80, immancabile nelle serate sempre più revival delle discoteche di tutto il mondo? Il passato fa tendenza, ed infuria inesorabile, facendosi strada tra acconciature, gadgets, accessori, fino a giungere addirittura alle automobili: era il 1957 quando il classico della cara e vecchia FIAT 500 imperversava tra i poco più che ventenni italiani e adesso, a quasi sessant’anni di distanza, ecco la geniale trovata di trasformare
la macchina del nonno in una moderna e dinamica cabriolet. Il richiamo del passato si fa sentire anche in campo di stile: peccato che l’eleganza di indossare vertiginose minigonne non sia sopravvissuta con queste. Ma quali saranno le reali e profonde motivazioni che, nel duemilaquattordici, ci spingono a guardare con occhio ammirato e malinconico un passato ormai distante? In Seta, Alessandro Baricco scriveva: “E’ uno strano dolore, morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai”. Che la “nostalgia canaglia” sia dovuta al rimpianto di non aver contemplato con i propri occhi i colori di un’epoca in cui tutto era più semplice, tutto pareva possibile e nessuna prospettiva inarrivabile, dove le cose nuove avevano fascino, dove il passato faceva da modello e il futuro non faceva paura? Beh, non possiamo porci interrogativi di tal portata senza sorseggiare un classico Bloody Mary, brindando ai tempi in cui “si stava meglio, anche se si stava peggio”. Vittoria Pinto Chiara Pizi
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Coachella Valley Music and Art Festival. 32
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ole, musica e divertimento per un perfetto Spring break! Indio, tranquilla cittadina circondata dal deserto californiano, ospita per due weekend l’anno uno dei più grandi festival di musica e arte dei giorni nostri, il Coachella festival. Organizzato nell’omonima valle della California, da quindici anni quest’evento riunisce molti dei più grandi artisti musicali della scena e migliaia di ragazzi, guidati dallo spirito del famoso “Spring break” americano. Vi partecipano artisti di ogni genere, suonando dall’indie al rap, alla musica alternativa ed elettronica e si esibiscono su ben otto diversi palchi all’interno del campo. Il festival non si concentra però sulla sola musica, infatti vengono esposte, in occasione, molte opere scultoree di artisti emergenti e non. La prima edizione fu nel 1999 ma ebbe scarso successo, tanto da far saltare l’edizione del 2000. L’organizzazione riprese nel 2001, con artisti del calibro di Iggy Pop e i Jane’s Addiction. Da quell’anno è stato un susseguirsi di popolarità e grandi eventi. Negli anni si sono incontrati gruppi come gli Oasis, i Red Hot Chili Peppers, i White Stripes, i Muse e artisti appartenenti a diversi stili musicali, da SnoopDogg a Skrillex. Simpatica particolarità del festival è che ogni anno un vecchia band sciolta, si riunisce e torna a suonare per un’ ultima grande festa insieme. Le regole per partecipare al festival sono poche e semplici: rilassarsi, sentirsi liberi e divertirsi. Tutto questo, però, nel massimo rispetto degli altri. La sicurezza è infatti molto curata dagli organizzatori. C’è una presenza tanto capillare quanto serena della polizia, la quale controlla consumo di droghe e alcool, quest’ultimo consentito però in alcune aree adibite. Primo comandamento del Coachella sono gli abiti con cui ci si presenta. Lo stile principale è quello dei Seventees ma chi più ne ha, più ne metta. Sono soprattutto le star, le quali gironzolano nella valle insieme a tutti gli altri partecipanti, a dare il meglio di sé, e spesso si ha a che fare con una vera e propria gara per l’abito più originale (quest’anno Jared Leto, voce dei Thirty Second to Mars e neo premio oscar è sttao votato da MTV come fashionfail dell’evento). E’ dato libero sfogo alla creatività, tanto che si possono trovare stand in cui creare i proprio souvenir. Per passare la notte è data possibilità di montare delle tende, così da vivere un’esperienza unica a 360 gradi. Nota molto importante è che la maggior parte degli incassi sono devoluti per la salvaguardia del pianeta. Non si può non fare a meno di paragonare questo festival al famoso Woodstock, anche se un vento di quella portata difficilmente si ripeterà negli anni a venire. Ciononostante gli organizzatori di Goldenvoice puntano ancora molto su questo evento, tanto che i rumors dicono che la Coachella Valley ospiterà il festival almeno fino al 2030. Fabrizio Pinci
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CUCINA UNDERGROUND
La nuova tendenza degli home restaurant Dall’America
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e si vuole mangiare bene, sentirsi a proprio agio, spendere poco e fare amicizia, nel 2014 le trattorie e i ristoranti alla mano trovano una validissima alternativa:consultare internet e trovare le migliori offerte dei ghetto gourmet in città. Ma si possono chiamare anche supper club o meglio home restaurant.
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must
per
i
culinari
modaioli.
cucinava per tutti, il vino scorreva e i sigari erano sempre accesi. Alla fine della grande abboffata, i commensali lasciavano un’offerta a piacere ai cuochi, a seconda della qualità del pasto. Da usanza parentale, la moda si è diffusa a diversi livelli fino a essere etichettata come la nuova anti-ristorazione; gli home chef hanno adibito i propri garage a ristorantini chic, creato dei blog in cui offrire menù fissi a casa propria e hanno cominciato a riscuotere un successo inaspettato.
La tendenza nasce, come la logica vuole, a New York, dove, in tempi di crisi, amici e parenti si riunivano nelle sale da pranzo luminose e ariose che affacciavano sui La ristorazione privata è diventata subigiardini delle villette in periferia; qualcuno to europea, e uno dei primi e più famosi
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esempi è il Miss Marmite lovers: un delizioso appartamento londinese in cui una chef dall’identità segreta intrattiene i commensali con manicaretti d’eccezione, musica soffusa e tante chiacchiere. Il blog di Miss Marmite è diventato un vero e proprio sito web, ‘The english can cook’, dove scambiare opinioni su ricette, discutere sui nuovi cibi di tendenza e, ovviamente, postare i menù fissi che settimana dopo settimana fanno arrivare nel suo supper club folle di inglesi e di turisti. <Le persone amano frequentare il mio locale, il nostro modo di fare ristorazione è nato come un fenomeno di controcultura ed è diventato cultura>, dice lei stessa. E nonostante a Londra la cucina alternativa si trovi dietro ogni angolo, il suo ristorante riscuote sempre più successo, sera dopo sera; quello che attira di più di questa nuova ristorazione non è tanto l’essere economicamente alla mano, ma la stravaganza, la possibilità di mangiare allo stesso tavolo di persone che non conosci, socializzarci e -che ne sai- magari trovarci l’amico di una vita o la tua futura moglie. L’esperienza è estremamente intima e personale, è tutto una sorpresa tranne il prezzo sul conto; la pratica dei menù fissi rilassa i clienti che sanno già quanto spendere e non ricevono batoste a pancia piena. E in alcuni pop-up restaurant ci si può anche portare il vino da casa, per risparmiare. La qualità del cibo, manco a dirlo, è ottima: gli ingredienti sono tutti genuini
e freschi di giornata – le cucine seppur creative sono ristrette e possono contenere solo il necessario per la serata –, e i cibi vengono tutti preparati al momento. Ma è sempre in agguato il rovescio della medaglia: questo fantastico e innovativo food service è, ovviamente, completamente illegale. Gli chef sono perseguibili per motivi fiscali così come per motivi sanitari. Nessun controllo accerta la qualità effettiva dei cibi né la sterilità delle loro cucine, così come il pagamento avviene senza ricevuta di alcun tipo. Questo è il classico risvolto di un’attività che è cominciata alla inter nos ricavando pochi spiccioli e che si è trasformata fino a diventare una vera e propria attività retribuita; una cosa normalissima, se si pensa al disperato bisogno che la gente ha di crearsi un lavoro da sé. Ma l’illegalità non spaventa, dichiarano i fruitori del servizio. Anzi, ammettono che forse è proprio l’illegalità che ha alimentato questo nuovo fenomeno. Gli chef possono permettersi di offrire il loro servizio a prezzi più bassi non pagando il fitto di un locale né una tassa per la loro attività e in questo vanno a guadagnarci i clienti che si affezionano e tornano volentieri. È una vera e propria società segreta che si viene a creare tra i piccoli imprenditori e i buongustai in cerca di novità; non resta che entrare a farne parte per gioire dei piaceri della cucina underground. Vittoria pinto
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PARIDE MIRABILIO “Flowers inside me”
Grazie a: Alfonso, Pablo, Giuseppe, Manuel, Gian Marco, Andre, Mauro Mariotti, Filippo Sorcinelli, & Jamie McDermott per essersi prestati a tutto ciò.
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FLOWERS INSIDE ME
Forza interiore che viene ricercata all’interno di se stesso, cercando di farla emergere, rappresentata dai fiori. Il senso di sospensione tra la delicata fioritura e l’essere umano, c’è silenzio, lirismo, c’è attesa. La fioritura, equilibrio compositivo tra gli elementi, è scheletro dell’anima. In un capovolgimento del ruolo di protagonista avrebbe lo stesso potere. È fiore dentro o umano fuori? La vacuità della bellezza diventa tappezzeria che forma in un attimo infinito il senso estetico della morte.
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Robot Rock sotto i riflettori
Il tribute-project che ha clonato i Daft Punk ci concede un’intervista Intervista a cura di Andrew Aleotti
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arlano di vera e propria “clonazione” i Robot Rock quando si riferiscono al modus operandi che li caratterizza. Un termine che lascia chiaramente intendere che siamo ben oltre l’ispirazione e la mera e semplice imitazione e che se è pur vero che quasi tutti hanno un idolo è altrettanto vero che sono pochissimi i tentativi di emulazione che raggiungono un così ragguardevole successo. Da semplici ma appassionati fans dei Daft Punk i due dj italiani hanno più volte omaggiato dal vivo l’elettronico duo parigino, rappresentando un palliativo più che soddisfacente per tutti gli appassionati del genere. Come i Daft Punk i Robot Rock indossano i caschi e non si mostrano a viso scoperto sul palco. Non si definiscono una coverband poiché non suonano strumenti,affermano di sentire il termine Tributo molto più vicino al loro modo di lavorare.
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NEL PANORAMA MUSICALE ITALIANO E STRANIERO COS è CHE HA FATTO DEI DAFT PUNK IL VOSTRO MODELLO DI ISPIRAZIONE? Siamo amanti della musica elettronica. Ovviamente i Daft Punk per noi sono i Beatles dell’elettronica. Stiamo parlando di 2 persone che hanno rivoluzionato il mondo della musica portando al massimo del successo quello che un tempo era un fattore di nicchia. L’elettronica era, e per certi aspetti lo è ancora, vista come un dogma per pochi eletti. Per molti se non sei intenditore non ti puoi permettere di ascoltare e parlare di elettronica. Ecco loro hanno sfatato questo mito. Hanno fatto arrivare (in passato altri con loro, Prodigy, Chemical Brothers, Fatboy Slim) in forma definitiva questo genere al grande pubblico! Hanno superato quella barriera che divideva la nicchia dal popolare. COME è NATA L’IDEA DI UNA TRIBUTE BAND? Tribute Band ci sta un po’ stretta come concezione. Primo perché non siamo una band, secondo perché il lavoro che c’è dietro è molto diverso. Noi non riproduciamo gli originali ma personalizziamo quello che i Daft Punk hanno fatto nel loro percorso. Prendiamo smontiamo e rimontiamo a nostro gusto e personale visione un set da proporre al pubblico, certe volte più spinto altre più soft, remixiamo e facciamo mash up, cerchiamo di costruirlo spesso per coinvolgere la dancefloor, insomma è diverso da quello che fanno le “tribute band”. Ma se per comodità la gente preferisce identificarci così ne prendiamo atto. J COSA NE PENSATE DELLA MUSICA ITALIANA ? La musica Italiana è vasta. Ci sono cose di assoluta qualità, persone con capacità elevatissime. Diciamo che però noi preferiamo altro... L’UTILIZZO DEI SOCIAL NETWORK PER VOI è STATO FONDAMENTALE? Il social è stata una vetrina importante. Wired e Undernoise sono stati i primi ad intervistarci e darci in “pasto” al grande pubblico. Ma quello che ci ha dato tantissima visibilità è stata la critica. Siamo stati presi di mira più volte dai “talebani” di settore. Quando abbiamo pensato all’idea dei Robot Rock eravamo consapevoli che qualcuno non l’avrebbe presa bene, ma non pensavamo di attirar così tanta attenzione. Tanto che siamo anche stai “nominati” su Radio Deejay. La critica, le offese ma soprattutto la condivisione dei link di articoli come “quasi.rock.it” (oltretutto chi ha scritto su di noi ha ottenuto più attenzione del solito e sicuramente come spesso accade siamo stati l’articolo più letto, quindi portiamo fortuna anche a chi ci vuole “male”.) ci ha dato una visibilità verso un pubblico meno purista, meno chiuso a chiocciola sulle proprie idee e ha messo in moto un po’ tutti i promoters che hanno fiutato il successo dell’idea (vogliamo ricordare che ad ogni singola data c’è stato un SOLDOUT). Insomma quello che doveva esser un aspetto negativo si è rigirato a nostro favore. Noi abbiamo capito fin da subito che quello che abbiamo fatto non avrebbe mai interessato un certo settore, certi promoters e certi club, ma quest’ultimi si sono prodigati con impegno a denigrare l’idea, a tramutarla in quello che non è ottenendo poi l’effetto contrario. Attirare attenzioni su di noi. Darci ancora più visibilità. Ecco questa forse è stata la parte più importante del nostro “successo”.
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COME è NATO IL VOSTRO RAPPORTO PERSONALE E PROFESSIONALE? Siamo amici da tempo, entrambi con la stessa passione per la musica. Siamo entrambi dj ed entrambi produttori. Essendo amici oltre che colleghi ci siamo sentiti e visti spesso e abbiamo condiviso più volte la voglia di vedere i Daft Punk insieme. (uno dei 2 li ha visti nel 2007 a Torino, l’altro no). Essendo fan di livello quasi maniacale abbiamo comprato i loro caschi. In casa poi con un gruppetto di amici abbiamo improvvisato con gli stessi caschi un miniset, li, quasi per gioco è nata l’idea ( che poi non siamo gli unici, in America ci sono gli ONE MORE TIME che riproducono il live del 2007,con oltre 130 date l’anno, senza personalizzare il set però..) . Oltre questo continuiamo a far il nostro singolo lavoro, produciamo per conto nostro, facciamo le nostre serate come dj e viviamo la nostra vita in modo tranquillo, visto che nessuno o quasi sa chi siamo.. J QUALE CANZONE DEI DAFT PUNK PENSATE VI RAPPRESENTI MAGGIORMENTE? Robot Rock QUANDO SIETE SU UN PALCO E INDOSSATE I CELEBRI CASCHI DI SCENA,CHE SENSAZIONI PROVATE DINANZI A UN PUBBLICO COSì ENERGICO? Dobbiamo prima di tutto ricordarci che abbiamo una responsabilità enorme sulle spalle. Tributare i Re indiscussi dell’elettronica. E già questo ci mette non poca ansia. Poi sopra il palco le cose cambiano. Ma non sempre funzionano. Spesso il pubblico di ora, quello più giovane conosce i Daft Punk per Get Lucky e quindi una volta passato l’entusiasmo della prima entrata si “irrigidiscono” un
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po’. Ovviamente le prime volte è stato panico, ora abbiamo capito che possiamo invece giocarcela con mash up o remix e portar il pubblico dove vogliamo. Magari delle volte siamo più pesanti se il pubblico è più giovane e commerciale e altre volte siamo più ricercati quando troviamo persone più mature e preparate. Abbiamo notato sono i più “anzianotti” ad apprezzare il format. Conoscono i Daft Punk, li hanno vissuti in passato e non si limitano a Get Lucky, quindi sono molto più coinvolti in pista dei ragazzi giovani. Poi ovvio abbiamo quella base sicura che tutte le volte viene che son quel paio di centinaia di persone fan dei Daft Punk e di conseguenza anche nostre che si divertono come pazzi. Passano magari il tempo più a guardarci che a ballare ma sono quelli che ci danno più soddisfazione perché capiscono quello che stiamo facendo. E applaudono. E apprezzano. QUAL’è IL VOSTRO BACKGROUND MUSICALE E LE VOSTRE INFLUENZE MAGGIORI? Background musicale è vasto. Abbiamo lavorato in radio, siamo dj da anni e consolidati nel settore, abbiamo avuto produzioni di un certo successo. Uno dei 2 ha un animo sicuramente più rock l’altro invece è più vicino alla disco di un tempo. Spiegare in poche righe il nostro background non è facile. E neanche ci piace farlo. Diciamo che siamo 2 vecchi furboni, che conoscono bene la scena, che hanno visto molte piste e sanno come far ballare il pubblico.. VORREMMO SAPERE QUALCOSA SULL’ ALTEREGO DEI ROBOT ROCK. QUANDO NON SIETE SULLA SCENA, COME TRASCORRETE LE VOSTRE GIORNATE? Come avrete ben capito ci teniamo all’a-
nonimato. Svelare le influenze potrebbe far capire a molti chi siamo J. Specialmente dalle città da dove proveniamo. Sai, per tornare al discorso di prima, molti che ci hanno criticato sono nostri colleghi, anche vicini a noi, che non sapevano però che fossimo noi a far questo “show”. Quindi evitiamo di entrare nei dettagli personali J. Altrimenti il gioco finisce. QUALI SONO I VOSTRI PROGETTI PER IL FUTURO? Robot Rock è un tributo, dubitiamo si trasformi in altro. Poi la vita riserva tante sorprese. Stiamo avendo molte
richieste all’estero, anche da booking manager di un certo livello quindi vuol dire che l’attenzione aumenta, e il concept piace. C’è anche chi dall’estero si è azzardato a chiedere dei remix. Per cui non lo sappiamo. Diciamo che ad oggi rimaniamo una “tribute band” come piace a tutti chiamarci (anche se non non amiamo quest’appellativo) . Ma in futuro magari, dopo aver varcato un certa onda nessuno vieta di togliersi i caschi e continuare il nostro percorso in modo diverso. Magari diventando qualcos’altro. Questo mondo è bello proprio perché è vario e permette, se si è capaci e si ha un po’ di fantasia di far tante cose. Vedremo.
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ichael Jackson è stato e continua ad essere uno degli entertainer più amati ed uno degli artisti più influenti della storia della musica. Ad oggi ha venduto un miliardo di dischi in tutto il mondo, ha totalizzato 13 singoli n.1 in classifica ed è entrato per ben due volte nella Rock and Roll Hall of Fame. Il Guinness Book of World Records ha decretato Michael l’entertainer di maggior successo di tutti i tempi e Thriller l’album più venduto di tutti i tempi. Jackson ha vinto 17 Grammy, 8 dei quali nello stesso anno e 26 American Music Awards, tra cui il premio come Artista del Secolo. Tra i protagonisti dei Billboard Music Awards 2014 (uno è Justin Timberlake, con ben sette premiazioni tra cui i riconoscimenti come Miglior Artista e Miglior Album) abbiamo il King of Pop, Michael Jackson, il cui regno continua post-mortem, con l’album Xscape. Il Re del Pop si è “esibito” sul palco grazie ad un ologramma, cantando e ballando Slave to the Rythm, un brano tratto dll’ultimo album Xscape. La performance, avvenuta tramite l’utilizzo di un’ologramma, nei giorni precedenti allo show, era stata oggetto di polemiche da parte delle società Hologram USA Inc e Musion Das Hologram che detengono il brevetto (e sono stati i primi ad aver usato il metodo con Tupac Shakur per il Coachella Festival 2012), ma un giudice federale ha dato l’approvazione, rendendo possibile l’esibizione del grande Jackson, che canta e balla come una volta, circondato da ballerini che lo hanno accompagnato nei suoi movimenti tipici. L’esibizione è apparsa ad alcuni troppo surreale quindi di cattivo gusto, mentre per altri è stata motivo di commozione ed ammirazione. Il 13 maggio 2014, a cinque anni dalla scomparsa del cantante, viene pubblicato il secondo album di inediti dal titolo Xscape, contenente 8 brani inediti riesaminati; prodotto da L.A. Reid e Timbaland, con cui Jackson ha collaborato in passato, ed altri grandi nomi del mondo della produzione: Darkchild, Stargate, J-roc e John McClain. “Senza lo straordinario contributo di Michael, la musica e gli artisti contemporanei non sarebbero quelli che conosciamo”, ha commentato L.A. Reid. “Michael ci ha lasciato delle performance musicali che oggi siamo orgogliosi di presentarvi nella rilettura di alcuni produttori che hanno lavorato direttamente con lui o che hanno espresso il forte desiderio di farlo. È un onore per noi offrire queste canzoni al mondo intero”. Si tratta di un vero e proprio ritorno per uno dei cantanti più amati della storia della musica mondiale. I fan hanno la possibilità di riascoltare la voce del loro idolo con delle novità ed è, inoltre, un modo per attirare una nuova tipologia di pubblico. Il primo brano del nuovo album, presentato al pubblico, è stato Love Never Felt So Good; lanciata in anteprima mondiale il 1° maggio 2014 sul palco degli iHeartRadio Music Awards, la presentazione è stata accompagnata da un’esibizione di Usher. Oltre alla Xscape Version, abbiamo anche la Remix Version con lo straordinario Justin Timberlake il cui videoclip è stato pubblicato sul canale Youtube del re del pop il 14 maggio scorso. Il disco è disponibile in edizione standard contenente gli 8 brani, ma è disponibile anche in versione “deluxe” con le registrazioni originali lasciate in eredità da Jackson e un Dvd che propone le testimonianze di tutti coloro che hanno lavorato al progetto. 55
I brani sono: 1. Love Never Felt So Good – Scritta e coprodotta nel 1983 da Michael Jackson, Paul Anka e John McClain, e riproposta oggi in un duetto virtuale con Justin Timberlake. 2. Chicago - Il brano, scritto nel 1999 da Cory Rooney, ex vice presidente del colosso Sony, fece innamorare Jackson; la nuova produzione porta la firma di Timbaland e J-Roc. 3. Loving You - scritta e prodotta da Jackson durante la lavorazione di Bad, rivive oggi grazie ad una post produzione firmata Timbaland e J-Roc. 4. A Place With No Name - Rivisitazione di Jackson di un classico degli America intitolato “A Horse With No Name” (1972), venne realizzata nel 1998 da Jackson e dal giovane produttore new-jack Dr. Freeze. Oggi la produzione è del duo norvegese Stargate. 5. Slave To The Rhythm - Questa up-tempo porta la firma di L.A. Reid e dei suoi vecchi soci nella fortunata avventura LaFace Records, vale a dire Babyface e Daryl Simmons. Il brano, realizzato nel 1991, rivive oggi nell’inedita versione di Timbaland e J-Roc. 6. Do You Know Where Your Children Are - Scritta, prodotta e registrata da Jackson e riammodernata per Xscape da Timbaland e J-Roc; è una canzone che parla di abusi sui minori, tema che entrò drammaticamente nella vita del re del pop per la prima volta all’inizio degli anni Novanta e che costrinse il cantante a difendersi da dieci gravi capi d’imputazione dei quali, soltanto nel 2005, dopo un lungo e doloroso processo che di fatto ne distrusse la carriera, venne dichiarato non colpevole. 7. Blue Gangsta - è frutto del rapporto artistico di Michael Jackson con Dr. Freeze. La nuova veste è di Timbaland e J-Roc. 8. Xscape - Alla fine degli anni Novanta, Jackson si innamorò del lavoro del produttore molto Rodney Jerkins, detto
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“Darkchild”. La nuova versione porta la firma di Timbaland e J-Roc. L’album prende il nome dal brano Xscape, inciso da Michael Jackson nel 2001 per l’album Invincible e mai inserito nella tracklist definitiva. Il titolo è un tributo al modo in cui Michael Jackson sceglieva il nome dei suoi album; ogni suo disco prendeva il nome da uno dei brani in esso contenuti. Scritta e prodotta da Jackson e Fred Jerkins, la title track “Xscape” è l’unico brano che è stato “modernizzato” dal produttore che l’aveva originariamente inciso in studio con Michael. John Branca e John McClain, esecutori testamentari della Estate of Michael Jackson, hanno dichiarato: “Michael era sempre un passo avanti a tutti, cercava sempre di lavorare con nuovi produttori e creare nuove sonorità. Era sempre attuale. Per molti aspetti, questi brani riescono a cogliere quello spirito, e siamo grati a L.A. Reid per aver seguito questa strada”. Il 18 settembre 2014 uscirà Bad 25, un doppio Cd commemorativo con le tracce originali rimasterizzate, ma anche un “bonus Cd” con 13 tracce inedite, tra le quali alcuni demo realizzati all’epoca da Jackson. Il Dvd, invece, conterrà il documento integrale del concerto tenuto da Michael Jackson il 16 luglio 1988 alla Wembley Arena di Londra. Non resta che dire che il sound, lo stile ed i passi di danza di Michael Jackson continuano ad ispirare i performer di oggi, mentre nuove generazioni di fan in tutto il mondo iniziano a scoprire il suo insuperabile talento. È e resterà sempre il King of Pop!
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lla scoperta del nuovo prodigio della musica francese. La storia della musica è piena di bambini prodigio, meritevoli di aver posto le basi o radicalmente modificato ciò che la musica era al loro tempo, basti pensare alle figure di Mozart, Chopin e Beethoven. Hugo Pierre Leclercq, meglio conosciuto col nome d’arte “ Madeon “, rappresenta il genio musicale dei giorni nostri. Francese di nascita, alla sola età di 10 anni ha cominciato a produrre brani e mix, diventando punto fermo del genere electro-house e nu-disco. Il primo brano ufficiale del bambino prodigio viene pubblicato all’età di 15 anni, sotto il nome di “Gold” ma la fama vera e propria arriva subito dopo. Sono due gli eventi critici per il suo lancio internazionale: la vincita di un contest grazie ad un remix del singolo Island dei Pendulum, e la grandissima notorietà raggiunta dal suo video postato su YouTube in cui crea un mashup con 39 brani, il tutto in diretta. Nel Maggio 2011 viene addirittura trasmesso un suo brano in anteprima alla radio BBC Radio 1. Il giovane artista è particolarmente vicino alla French-house, ed ha inoltre dichiarato che i Daft Punk, i Beatles e Martin Solveig sono gli artisti che più lo influenzano. Ora a soli 20 anni è diventato un DJ ed un producer di fama internazionale. Ha curato la produzione del terzo album di Lady Gaga, in particolare i brani “Gypsy” e “Mary Jane Holland”, ed è addirittura arrivato a collaborare con i Muse per una versione alternativa del brano “Panic Station”. Tantissima esperienza, con ancora tanta strada da percorrere. Insomma, il futuro di questo giovane francese è più che roseo. Ora Madeon è in giro per l’America per il suo tour internazionale, prossime tappe: Seattle e Las Vegas. Si prospetta un futuro in discesa per il ventenne, genio francese. Fabrizio Pinci
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Stromae:
la nuova frontiera della musica.
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padre può avere su un figlio; con Tous le mêmes, la dodici anni di età aveva già cominciato gli stu- sua impressionante interpretazione schizofrenica di presso l’accademia musicale di Jette, a Bruxelles. in cui da voce a un uomo e a una donna con due parti diverse del viso; e anche con Formidable, che A diciotto ha composto il suo primo singolo e a probabilmente è l’apoteosi delle sue performance. venticinque è uscito il suo primo album, Cheese, Il videoclip ha raggiunto i 75 milioni e mezzo di nel 2010. visualizzazioni su Youtube, le immagini sono divenLa carriera musicale di Paul van Haver lo ha portate virali nel giro di poche ore: un uomo, lui stestato verso una vetta di risultati tra cui la vincita a numerosi premi e la cima della classifica dei dischi so, ubriaco, nelle piene ore di punta alla stazione del tram Louise a Bruxelles che urla la sua storia più venduti in Italia lo scorso marzo con il second’amore andata in frantumi, si dimena, canta e se do e ultimo album, Recine Caree. la prende con i passanti. Ma probabilmente pochi lo riconoscerebbero con Soltanto successivamente l’artista ha dichiarato questo nome. Il fenomeno Stromae sta dilagando senza frontiere che la scena era stata creata apposta per il suo videoclip e che lui non era effettivamente ubriaco fino a raggiungere qualsiasi parte del pianeta; e il ma soltanto attore della sua canzone; ma rimane il tour del 2014 ne è un perfetto esempio. Durante fatto che chiunque l’abbia vissuto dal vivo avrebbe l’intero anno spazierà tra numerosissime perforpotuto scommettere sulla sua veridicità. E questo mance in Francia e in Belgio, e decine di date intercontinentali in quasi tutta Europa e oltreoceano perchè Stromae sta dando inizio a un nuovo tipo di arte, in cui musica e interpretazione del testo si negli USA e in Canada. fondono in una scena esplosiva in una performance che con la sua potenza espressiva, lega il tutto e Quella che era cominciata come la carriera di lo rende estremamente vivo. un musicista che spaziava in un mix di tendenze tra cui l’R&B, la salsa, l’hip-hop e il rap – un mix Ed è proprio questo tutto che Stromae vuole porcome il suo stesso Belgio può essere considerato tare sul palco, che vuole trasmettere al suo pubbli- è diventata quella di un perfomer nel senso più co in totale onestà, senza alcuna eccezione. Le sue ampio di quest’accezione; e questa trasformaziostorie sono dure, crude, spesso anche le sue parole ne è avvenuta con la creazione del nuovo album, lo sono; e sono storie che devono essere interpreRecine Caree, che in pochi mesi ha venduto quasi tate, con la loro personale commedia. due milioni di copie. Il Maestro – significato dello Lui stesso si definisce il più realista dei realisti: la pseudonimo Stromae in gergo verlan, che crea vita non è affatto tenera con noi, e allora io non parole nuove dall’inversione sillabica di quelle esagero ma nemmeno minimizzo le cose, le mostro precedenti – ha dichiarato in prima persona, tra semplicemente per come sono – ha dichiarato. l’altro anche all’intervista con Fabio Fazio del 23 Riconosce che è necessario uno schizofrenico febbraio scorso a Che tempo che fa , che il suo per poter essere tutto quello che deve, in tutti nuovo album contiene una manciata di pezzi forti quei momenti diversi, e la performance di Tous le di denuncia alla società. Paul ha canalizzato all’interno delle sue canzoni la sua visione distorta della mêmes ne è una dimostrazione lampante. Il suo personale trasformismo, il suo sapersi calare nei comunità, e della sua mancata presa di posizione nei drammi che affliggono la società. Ed è proprio panni dei personaggi che ci porta alla luce, paradossalmente lascia che i suoi pezzi diventino nostri di questi drammi che Stromae si impegna a parsecondo una nostra personale visione. In questo lare nei suoi nuovi singoli; l’alienazione da social network, la paura delle malattie mortali, i problemi caso, in questo tipo di arte, l’autobiografia non è necessaria, ci dice anche. familiari e quelli di coppia, la violenza. Il tour 2014 di Recine Caree prevederà le tappe di luglio a Milano e di fine anno nella capitale. Ma la vera rivelazione-Stromae non consiste solNon resta che farsi persuadere dalle coinvolgenti tanto nei sorprendenti testi delle sue canzoni. narrazioni della crisi esistenziale che continuaQuello che colpisce di più della sua capacissima mente vive la nostra generazione perduta, non abilità di arrivare diritto al pubblico è il connubio resta che lasciarsi trasportare dallo spettacolo del tra testi ad effetto, melodie che diventano facilmente proprie all’orecchio e videoclip decisamen- figlio spirituale di Jacques Brel, come molti hanno osato definirlo. te geniali. Non resta che entrare a far parte del fenomeno Lo abbiamo visto con Papaoutai, in cui l’artista Stromae. mostra il difficile rapporto filiale, spesso pieno di Vittoria Pinto incomprensioni e l’importante influenza che un 61
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“What’s Up Doc?”
Photo: Giuseppe Morales Styling: Flavia De Luca Model: Elda Scarnecchia @2r Comunicazioni Model With Mask: Alessia Graziano@2r Comunicazioni Make up: Fabiana Castaldo Hairstyling: Luca Aterrano Special Thanks to: Giuseppe Cotugno, Alessandra Maglioli, Gennaro Velotti, Lindas’Studio.
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Alessandra Maglioli - Sacra dissolution Collection
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AMYGDALA collezione MORS | atra 68
Alessandra Maglioli - Sacra dissolution Collection k-way in chiffon e abito in cady di sera e chiffon
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Maglia “sportmax”, Slip “intimissimi”
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Mantello Vintage, Body “Imperial”
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A L E X A N D E R WA N G FOR H&M
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&M è da considerarsi una delle più grandi aziende di abbigliamento low cost, che propone collezioni alla moda, di buona qualità ad un ottimo prezzo. L’azienda apre il primo negozio nel 1947 e col passare degli anni inaugura circa 2700 punti vendita in tutto il mondo. Molte sono state e sono le top model che prestano la loro immagine per le campagne pubblicitarie del brand; tra queste troviamo Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Daphne Groeneveld e numerosi “angeli” di “Victoria’s Secret” come Gisele Bundchen, Miranda Kerr, Joan Smalls e molte altre. Nel 2006 l’azienda ha dato poi il via a collaborazioni con grandi star, prima fra tutte Madonna con la linea “M by Madonna”, l’hanno seguita Kylie Minogue e David Beckham con la campagna pubblicitaria di intimo maschile e beachwear che ha lasciato tutte le donne letteralmente a bocca aperta. E’ stato poi il turno di Anna dello Russo, la “fashion maniac”, che ha proposto una linea di accessori estremamente eccentrici rispecchiando a pieno il suo essere ed in ultimo, ma non per questo meno importante, la collezione Summer Beachwear 2013 che ha avuto come testimonial la sensualissima Beyoncè che con le sue forme da paura ,
ha fatto girare la testa a molti uomini. Dal 2004 ad oggi il brand collabora con famose case di moda realizzando delle collezioni “limited edition” create per dare ad un pubblico più vasto la possibilità di poter acquistare ed indossare un abito, una creazione di un grande stilista. Primo fu Karl Lagerfeld la cui collezione era caratterizzata dalla prevalenza del black&white, rispecchiando totalmente la personalità del grande stilista. In seguito sono state presentate collaborazioni con alcuni dei più importanti esponenti del mondo della moda: Stella McCartney, Viktor&Rolf, Roberto Cavalli, Comme des Garcons, JimmyChoo,Lanvin, Versace, Marni, Maison Martin Margiela e l’ultimissima con Isabel Marant che ha proposto una collezione etnica ma raffinata con capi da indossare sia nel quotidiano che per occasioni particolari. Il 12 aprile 2014, durante il Coachella Music Festival di Palm Springs, il brand di moda svedese ha annunciato che la prossima “Capsule Collection” avrà come protagonista “uno dei più importanti esponenti della moda del momento, Alexander Wang, che capisce alla perfezione i desideri del pubblico e li realizza con energia e passione,contagiando tutto il team”.
parole usate da Margaret van den Bosch, Creative Advisor di H&M. Americano di origini taiwanesi, Alexander Wang a soli 31 anni ha già una Maison con il suo nome ed il ruolo di Creative Director per Balenciaga. Lo stilista ha pubblicato sul social, “Instagram” , alcuni video ed immagini riguardanti la collaborazione; Wang ha affermato inoltre che la collaborazione sarà un’ottima occasione per rendere noti al grande pubblico gli elementi caratterizzanti del suo marchio e del suo stile di vita. Ha dichiarato “è un onore partecipare ad una designer collaboration per H&M e lavorare con questo team è un’esperienza interessante e divertente. Sono felice di essere il primo brand americano con cui H&M collabora e siamo pronti a testare i limiti e a dare spazio alla creatività, inoltre questa collaborazione presenterà qualcosa di mai visto prima e perciò siamo eccitati. Bisogna indossare cosa si ama e cosa ci fa stare bene “. La collezione comprenderà capi ed accessori sia maschili che femminili, e sarà in vendita in 250 negozi in tutto il mondo ed online a partire dal 6 novembre 2014.Attendiamo con ansia i primi bozzetti e le prime immagini del backstage che H&M è solito regalarci. Giulia Fabbrocini
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Alcoolique è un viaggio, un sogno, un orizzonte che si sposta di continuo. Alcoolique è una ricerca, un percorso, un amore. Per la moda nell’arte, per l’arte nella moda, a servizio della donna. Per disegnarla, esaltarla, accarezzarla, accompagnarla.Per coniugarla all’essenza della sua bellezza. Così descrive il marchio Adriano Rocco Galuccio , direttore cretivo di Alcoolique, brand emergente, che semepre più si sta affermando sul mercato italiano ed esetro. Protagonista della prima edizione di Project Runway italia, Rocco ci ha colpito per l’interssante lavoro sul corpo femminile, e per l’uso di colori importanti e tessuti preziosi. -iniziamo con project runway, come ha cambiato la tua vita/il tuo lavoro? Non ha cambiato molto la mia vita, nel il mio lavoro, sono stato felice dei complimenti che ho avuto da molte persone super competenti della moda, che sono stati felici della mia coerenza con i capi che realizzo nella mia collezione, ma soprattutto project runway ha arricchito tantissimo il mio bagaglio di esperienze, infondo non capita a tutti di vivere chiusi con 12 estranei che hanno 12 idee di moda diverse, quella è stata la vera crescita e il vero cambiamento, perché molte cose dopo si vedono in modo diverso. Cosa ci racconti della tua ultima collezione? Ispirazioni? Mi sono ispirato alle 2 regine Giovanna di Napoli, una saggia e pacata, una matta e sessuomane, questo è visibile nelle asimmetrie e nei mix di tessuti, stampe e colori, ed infondo credo siano i 2 lati di ognuno di noi! Provieni da Napoli; cosa ti porti dietro delle tue origini? Beh, mi porto tutto, in ogni cosa che faccio e che penso, sono sartoriale e tradizionale ma in modo estremamente diverso dal convenzionale, lo si può capire solo toccando e vedendo un capo da vicino. Spesso ritornano le immagini dei santi e collezioni ispirate a vecchie storielle tramandate, e soprattutto non ho mai perso il mio accento (ride). Parliamo di stile, qual è per te la capitale della moda donna, la città in cui trova lo stile che più le piace? Sicuramente le sfilate Milanesi sono tra le migliori, le parigine le trovo troppo teatrali
e le londinesi troppo street… se parliamo invece di street style credo che lo stile delle donne Francesi sia bellissimo… anche se molto lontano da me… diciamo che la mia donna perfetta potrebbe essere un’italiana che vive a Miami, o comunque una donna abituata a girare il mondo. A che donna pensi quando inizi a disegnare una collezione? Icone di riferimento? Penso a tutte le donne forti e audaci, che non hanno paura di osare e mettersi in mostra, le prime icone sono le donne della mia vita, mia madre e mia nonna… ovviamente non immaginate mia nonna con uno spacco vertiginoso.. (ride)… lei è solo il punto di partenza. Come hai iniziato la carriera da stilista? Ho lavorato fin da piccolo come stylist (e ancora oggi lo faccio per progetti che mi piacciono particolarmente) dopo l’università ho iniziato a lavorare per un po’ di brand, come stilista interno e come consulente… poi un bel giorno ho capito che per esprimermi al meglio dovevo creare il mio brand , senza paletti e senza regole imposte da qualche boss… forse proprio la voglia di indipendenza estrema mi ha spinto a buttarmi a capofitto in questa avventura, che fortunatamente man mano cresce e mi da molte soddisfazioni. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Sono decisamente tanti, ma essendo scaramantico non dirò nulla!
Luca D’Alena
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PITTI UOMO 2015: ABOUT Con un evento di rilievo
dedicato alle collezioni di abbigliamento ed accessori uomo, che si tiene due volte all’anno nella Fortezza da Basso a Firenze, Pitti Immagine Uomo si conferma l’evento leader fra quelli riservati al mondo della moda maschile sullo scenario mondiale. La moda Made in Italy come elemento di successo internazionale nasce a Firenze all’inizio degli anni Cinquanta e da allora la città mette le proprie risorse al servizio del lancio della moda italiana nel mondo. Bisogna ricordare che proprio Firenze è la città in cui è nata la moda italiana con la prima sfilata organizzata da Giovanni Battista Giorgini per promuovere il Made in Italy nel mondo. Inoltre il tema centrale del Pitti Uomo è stato il ping pong, una metafora dello
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sport che si mescola sempre più con la moda. Il ping pong è una disciplina quasi zen che ha unito culture e personalità diverse; questa è quindi un’edizione che rimanda all’eterno scambio di battute (tendenze). 1086 i brand accreditati, il 40% dei quali stranieri (Australia, Nigeria e Finlandia, tra i nomi nuovi). La Corea del sud è la guest nation di Pitty Discovery, mentre Marcelo Burlon County of Milan partecipa a Pitti Italics. Al Pitti Immagine Uomo le grandi firme del mondo della moda e degli accessori lifestyle uomo presentano le proprie collezioni, per presentare sul mercato internazionale le ultime tendenze di un settore sempre alla ricerca di novità. Buyer stranieri, provenienti da tutto il mondo, apprezzano in
modo particolare l’evento per l’originalità degli allestimenti, l’attenzione alle scelte estetiche e per la splendida cornice che offre la città di Firenze, dove moda e arte si sposano alla perfezione. In occasione di Pitti Immagine Uomo 86 (svolto dal17 al 20 giugno 2014) e per celebrare i 60 anni di attività del Centro di Firenze per la Moda Italiana , la città è stata il centro di eventi speciali che hanno avuto come protagonisti i grandi della moda internazionale “born in Florence”: Salvatore Ferragamo inaugura nel suo museo la mostra "Equilibrium"; Gucci propone sfilate ed eventi al Museo e l’opening dello storico negozio fiorentino di Richard Ginori, rinnovato; Ermanno Scervino rende omaggio a Firenze con un ritorno alle origini della moda, una rivisita
tazione contemporanea della Sala Bianca, luogo storico della Moda Italiana; Emilio Pucci riveste il Battistero con un iconico disegno della Maison fiorentina, ‘Monumental Pucci’ ispirato al foulard di archivio; e per finire un concerto di Andrea Bocelli per celebrare la nuova illuminazione di Ponte Vecchio, fatta di 102 led all'interno e di altre 16 luci all'esterno. Molte le novità ed i progetti speciali. Dal rientro di alcuni brand come Borsalino, Brooksfield e Custo, al lancio del progetto firmato G-Star in collaborazione con Pharrell Williams, al programma Pitti Italics che quest’anno ha promosso Marcelo Burlon County of Milan con una performance al parterre di Piazza della Libertà. Con l’86esima edizione di Pitti Uomo emerge che per la prossima stagione Primavera/Estate ci sarà una forte attenzione all’accessorio. Non è più eccessivo, pop, borchiato; ora l’uomo presenta nei dettagli il segreto del proprio stile. Infatti le sezioni dedicate a ciò che completa l’abbigliamento danno il tocco finale ad ogni collezione. Dal classico all’urban passando per lo street style, l’uomo ricerca accessori curati, preziosi, da nascondere o far intuire. Curata ed artigianale la pelletteria: le borse o si
riducono ad organizer dal design minimale per la città o si ingrandiscono alla misura di comode sacche per il viaggio. All’eyewear è stato dedicato uno spazio speciale. Le montature conservano forme classiche ma con soluzioni in legno e un mix di lenti specchiate e sfumate; sempre presente l’artigianalità e la produzione in serie limitata. Fra i produttori di orologeria, c’è la tendenza all’orologio da tasca o del cinturino passante sotto la cassa, più casual e con materiali di ricerca. La calzatura si concede, nuovamente, suole importanti con orli a contrasto e forme che tendono ad essere vicine a quelle delle sneakers. Immancabile, a completare l’outfit, il cappello: mentre per il classico le forme restano invariate e aumentano o diminuiscono giusto di qualche millimetro, nell’informale, Béton Ciré passa dal mare alla città, proponendo un modello retrò, un piccolo berretto da marinaio, in diversi tipi di tessuto, per un look urbano. Guardandoci attorni, negli Street style, il focus è sull'uomo che si mostra nel pieno del suo "Pitti Style" : completi di alta sartoria, dettagli curatissimi dalla cravatta al gilet ,alla pochette da taschino, al
calzino. Niente è lasciato al caso ma si incontra anche chi mostra uno stile punk-contemporaneo, chi mostra uno stile punk-contemporaneo, chi indossa una semplice t-shirt accostata a jeans e cappello in raffia per proteggersi dal sole. Le donne, invece, lasciano splendere i propri compagni preferendo mises semplici e lineari oppure, in netta contrapposizione, indossano abiti maschili, bretelle, pantaloni e camicie. Giulia Fabbrocini
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RESORT 2015
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iovane,estrosa,dettagliata,colorata…ecco come si presenta la nuova collezione Cruise di Fendi 2015.Se non fosse risaputa l’esperienza di chi c’è dietro a tanto lavoro,tutto farebbe pensare alla creatività di menti fresche di giovani stilisti talentuosi e originali,caratteristiche che non mancano di certo al grande Karl Lafergeld e a Silvia Venturini Fendi. La nuova collezione,è un mix tra oriente e occidente,tra graffiti ethno-pop e un’attitude sport-chic,il che conferisce ai capi una simpatica variazione basata su forti contrasti. «Ho trovato negli archivi di Fendi alcuni bozzetti che ho fatto nel 1988 e ho pensato che sarebbe stato divertente utilizzarli per ricreare un gioco di cutouts con nuovi tagli e proporzioni. Quello che ne è risultato è stato molto di più di una collezione resort». ;ecco come descrive l’intera collezione Karl Lafergeld,direttore creativo della maison Fendi. Personalmente,la cosa che più mi ha colpito,è stato il concetto con il quale quest’ultimo ha definito il significato della collezione: praticamente, i temi chiave, sono i grafismi e la street art,che indicano ciò che arriva dalla strada ,qualcosa che è destinato a tornare poi sulla strada. Le linee sono grintose,energiche,ricche di dettagli innovativi che innescano una radiosa promiscuità tra materiali,tessuti,spessori,colori e forme dei capi. Una sola parola: meraviglia! C’è da dire che l’azienda Fendi,merita ulteriore stima ,per il suo intervento nell’ambito sociale,ovvero i fondi che ha stanziato per la ristrutturazione del monumento a piazza di Trevi e le rispettive quattro fontane.
infatti che intorno al monumento dove avverrà la fase di restauro,vi siano stati installati dei pannelli trasparenti,in modo tale da consentire a chi è di passaggio,come turisti o gente del posto stesso,di ammirare lo svolgimento del tutto. La sinergia tra moda e ambito sociale,è sicuramente ciò che rende una griffe tanto illustre, maggiormente ”credibile” e amata,ma va riconosciuto ed evidenziato il fatto che la maison Fendi è incentivata a collaborare come mecenate unico di tale operazione dalla sua estrema passione per l’arte e la città di Roma,alla quale è particolarmente legata. La fine dei lavori è stabilita complessivamente entro il mese di Marzo 2015 e sicuramente tutti non vediamo l’ora di verificarne il risultato finale. Alessia Maisto
I lavori sono già partiti lo scorso 5 Giugno,e la modalità con la quale vengono affrontati è alquanto originale e coinvolgente; pare
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Ventunesimo “Cinema Against AIDS”
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Giovedì 22 maggio si è tenuta a Cap d’Anti-
bes, in occasione del festival di Cannes, la 21esima edizione del gala “Cinema Against AIDS”, organizzata da amFAR, un’associazione benefica fondata nel 1985, che finanzia la ricerca contro l’HIV e l’AIDS. Questa serata, riproposta ogni anno a partire dal 1993 quando fu Liz Taylor la prima “padrona di casa”, ha permesso all’associazione di raccogliere più di 120 milioni in 21 anni e anche quest’anno, grazie alle donazioni e alla sfilata-evento diretta da Carine Roitfeld, quasi 28 milioni di euro sono usciti dalle tasche dei selezionatissimi benefattori. Alla serata, nell’ambito del festival del cinema di Cannes, hanno partecipato attori, modelle e cantanti, da Jane Fonda a Marion Cottillard, da Lana del Ray a Conchita Wurst; durante la serata si sono esibiti la stessa Lana del Rey, Robin Thicke e Andrea Bocelli, che ha dedicato My Way a Elizabeth Taylor. A condurre l’asta e occuparsi di “The Red Collection”, il fashion show di Carine Roitfeld dedicato a Marilyn Monroe, Sharon Stone. La ragione di questa dedica d’onore, è che la Monroe ha cercato l’amore per tutta la vita e sarebbe sicuramente stata una grande supporter dell’associazione, spiega l’ex direttrice di Vogue Paris, che sceglie il rosso come colore guida della passerella di quest’anno. La sfilata, che ha visto protagoniste le più famose top di ieri e di oggi e gli abiti di designer quali Alexander McQueen, Burberry, Cavalli, Chanel, Fendi, Giorgio Armani, Givenchy, Gucci, Max Mara, Missoni, Miu Miu, Versace e molti altri, ha raccolto quasi 5 milioni di euro. Tra le opere d’arte spiccavano invece un ritratto di Marilyn Monroe realizzato da Andy Warhol, venduto per 350 mila euro, un Picasso del 1968 venduto per 380 mila euro, e un fossile di mammut di 10 mila anni rivestito di acciaio
da Damien Hirst, all’asta per 11 milioni di euro. Come rinunciare infine alla proposta di Leonardo DiCaprio resosi disponibile ad accompagnare il migliore offerente in un viaggio sulla luna, a bordo della Virgin Galactic? Gli sponsor che invece ce l’hanno messa tutta per organizzare al meglio l’evento alll’Hotel du Cap Eden Roc sono Worldview Entertainmen, Bold Films, Mercedes-Benz, The Weinstein Company e Bulgari. Proprio Carla Bruni, l’ex premiere dame e Bulgari Ambassador, ha presentato il collier Serpenti di Bulgari in oro bianco, acquamarine e diamanti, omaggio a Liz Taylor, e venduto per 550.000 dollari. Il brand Moncler, organizzatore dell’after party, ha regalato a tutti gli ospiti un paio di occhiali della nuova collezione Moncler Lunettes featuring Pharrell Williams. Riprendendo le parole di Carine Roitfeld, "Charities are so sad, you often feel guilty attending them. But it's a party, and we are celebrating life". Alice Capetta
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Lo strumento: La macchina fotografica come mezzo per fissare nel tempo, con un click, trend e attimi di bellezza. Il veicolo: Internet che da al proprio lavoro una fruibilità visiva senza limiti. lo studio: Forma, prepara e allena il proprio gusto estetico. Dona un metodo e la capacità di vedere e parlare con cognizione di causa. Riesce a far si di donare alle “cose belle” oltre che una forma anche una sostanza. La spinta: Una sola, la Passione…senza di essa tutto sarebbe vano. Luigi Frajese
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BURN MY SHADOW photographer: Luiza Lehtinen model: Heidi Mustonen/Fondi Models Agency, Finland makeup & hair / fashion stylist: Natalja Mountian
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Alter Ego Photographer: Luiza Lehtinen Makeup & hair/fashion stylist: Natalja Mountian Models: - img 2, 4, 5, 6 - Elina Isokangas / Eneas Model Agency - img 1, 3 - Saana Kuusela Wardbore credits: - img 1: dress First Crush, acessories Anne-Mari Pahkala - img 2: blouse First Crush, leggings H&M, necklace Laura Vartio - img 3: vest First Crush, top First Cruch, leggings Gina Tricot, bracelet H&M - imd 4: vest First Crush, top First Cruch, leggings Gina Tricot, earring Anne-Mari Pahkala - img 5: vest First Crush, top First Cruch, leggings Gina Tricot - img 6: vest First Crush, top First Cruch, leggings Gina Tricot, ring Anne-Mari Pahkala
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AMAZON LANCIA LO SMARTPHONE 3D
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razie alla tecnologia avanzata voluta da Jeff Bezos, il fondatore e CEO di AMAZON vuole sfidare i giganti del mondo degli Smartphone, creando un nuovo tipo di mercato. Era nell’aria da un po’ e la voce non ha esitato a arrivare, seppur in modo contenuto, anche al Wall Street Journal, a cui pare non siano scappati alcuni incontri nei laboratori di Seattle e di San Francisco, tenutosi con alcuni sviluppatori. E così dopo la nascita di Amazon Mp3,l’applicazione che sta seriamente impensierendo I Tunes e Spotify, Amazon ha intenzione di compiere qualcosa di ancora più sorprendente. L’ufficialità del primo Smartphone di casa Amazon dovrebbe essere per la fine di giugno mentre l’uscita è prevista sotto Natale, ma il gioiellino di Jeff Bezos pare abbia già allertato quei colossi come la Apple e la Samsung ( le quali detengono il 61% delle vendite negli USA ) di mettersi in guardia. Dopo il mercato delle TV 3D e degli smartphone tutto-fare e super sensibili, Amazon vuole provare a spostare il mercato sulla fusione di entrambi creando un qualcosa di unico, ancora mai visto. Questo Smartphone 3D, il secondo dispositivo cellulare mobile con la tecnologia 3D (il primo è l’Optimus 3D della coreana LG ) di cui ancora non se ne conosce il nome, utilizzerebbe una tecnologia basata su quattro fotocamere anteriori capaci di proiettare veri e propri ologrammi, grazie all’a-
iuto di un complesso sistema capace di rintracciare il movimento della retina dell’occhio, riproducendo così le immagini visualizzate dall’utilizzatore. Le icone createsi saranno sul modello del film Minority Report del 2002 per intenderci, una vera e propria rivoluzione per il mondo degli smartphone. Sulle caratteristiche tecniche c’è ancora un po’ di mistero: lo smartphone 3D dovrebbe usufruire di un chip montato sull’hardware Qualcomm utile per la connessione Lte e il sistema operativo dovrebbe essere Android ma con una versione forked già utilizzata sul Fire TV e i tablet Kindle Fire; il display integrato probabilmente sarà lo stesso che utilizza Apple, Japan Display e si parla di una lunghezza fino a 4,7 pollici. Di sicuro si sta assistendo a un livello di tecnologia avanzata mai impiegata e che inizialmente potrà non soddisfare pienamente le nostre aspettative, ma bisogna sperimentare e dare fiducia a questi pionieri dell’hi tech. In questi ultimi anni l’azienda simbolo della vendita dei libri on-line aveva perso un po’ il passo soprattutto a causa della feroce competizione. Ed è proprio questa che Jeff Bezos adesso ha intenzione di sbaragliare mettendo sul commercio un prodotto singolare dalle qualità più uniche che rare. Francesco Li Volti
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Nokia Lumia 630 e 930 saranno gli ultimi prodotti della casa di telefonini finlandese con su scritto il nome dell’azienda. Già, perché sin dalla fine dell’estate fino a dicembre 2015, sulla base dell’accordo stipulato tra Nokia e Microsoft il tre settembre 2013, quest’ultima otterrà il beneficio di timbrare su ogni
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dispositivo mobile prodotto il nome “MICROSOFT MOBILE”. Nokia avrà il piacere di vedere il proprio nome solo sui dispositivi di serie 30 e 40 (meno evoluti), ma il patrimonio dei dispositivi mobili moderni è tutto nelle mani dell’azienda americana. Questione di marketing ? “Ai posteri l’ardua sentenza”. Francesco Li Volti
MICROSOFT MOBILE Microsoft trasforma il nome di Nokia
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SPOTIFY ABBATTE ITUNES I
l servizio di musica on demand spodesta l’applicazione integrata Apple dalle app più utilizzate. Mentre nel duemilasette Steve Jobs intratteneva la platea del Moscone di San Francisco, portando alla luce il primo I Phone e, di fatto, I Tunes su un dispositivo mobile cellulare, la svedese Spotify AB era già alla ricerca di chiudere i primi contratti con le case discografiche indipendenti, per dar vita a un servizio più unico che raro. Daniel Ek, fondatore dell’azienda milionaria, di sicuro non aveva in mente di raggiungere tale successo visto che attualmente il servizio musicale è attivo in ventotto paesi diversi. Spotify è un servizio arrivato in Italia in maniera gratuita dal duemilatredici e offre l’ascolto in streaming on demand di una cernita di brani di diverse etichette discografiche. Questa sua particolarità sembrerebbe aver messo in crisi i possessori di Smartphone, ai quali le caratteristiche e l’usabilità della app sono privilegiate alla chiusura e alla non immediatezza della applicazione di casa Apple. Pare che in Italia sia arrivato già a quota dieci milioni di abbonati. Milano è la città con più utenti mentre Roma è quella che più utilizza il servizio a pagamento. Ma non finisce qui, perché l’azienda svedese praticamente per ogni trimestre ha in serbo una sorpresa, uni novità per gli utenti. Forse, sarà questo rinnovamento continuo la chiave del successo di Spotify, che con un design elegante e semplice, in poco tempo ha conquistato coloro che di I Tunes non avevano mai apprezzato
il fatto di dover pagare per ascoltare della buona musica. Musica ,tra l’altro, che non cambia anche per le grandi etichette musicali; la Universal, la EMI, Sony e Warner Music Group credono nel progetto Spotify e ne fanno parte dal duemiladieci. E’ possibile utilizzare il servizio tramite app su smartphone e tablet, come webplayer e come app desktop per pc. Inoltre questa app si divide in tre tipologie di offerta: la versione FREE prevede l’iscrizione al portale musicale tramite un account Spotify o l’account di facebook e l’utente può godere di un servizio illimitato di musica ma sottoposta a tre minuti di pubblicità a ogni ora; la versione UNLIMITED si basa sulla fruizione di musica identica a quella offerta del servizio FREE ma senza interruzioni pubblicitarie al prezzo di 4,99 euro mensili; mentre la versione PREMIUM, a 9,99 euro al mese, comporta l’occasione di scaricare fino a 9999 tracce audio su ben tre terminali, aggiungendo la possibilità di ascoltarli anche con la versione offline. Ma la grande innovazione deriva dall’utilizzo delle Playlist, le quali possono essere condivise anche sui social network o tramite messaggi istantanei. Ma c’è da dire anche che se da I Tunes gli artisti non traevano alcun profitto, con Spotify la musica non cambia: 0,79 centesimi è il ricavato per l’artista di ogni traccia scaricata. Una nota triste per un servizio così completo e aggiornato che ha letteralmente portato nel dimenticatoio il figliol prodigo di Apple. Francesco Li Volti
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Photographer: Lynn Theisen Model: Marilen Meyhoff Mua: Agata Karas Artmission Mo del: Oliver Spre er Mu a : L iza Fi lt hit st y list: L iza Fi lt hit 153
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Capitolo 3 Erano passate da poco le 23, quando entrammo nella prima sala della Zero Hall. L’ambiente era buio, ravvivato soltanto da flebili fiamme distribuite ai lati della stanza, e da una lingua di fuoco più imponente, che si mostrava alle spalle del tavolo col buffet. Una musica lounge accompagnava i nostri passi tra il resto degli invitati, camerieri vestiti di rosso si impegnavano a servire finger food e drink. L’atmosfera era surreale, e per un attimo mi sembrò di essere fuori dal mondo. Mi guardai intorno, cercando di cogliere più particolari possibili. Ci misi poco a notare quello che contraddistingueva le donne: tutte indossavano una piccola maschera in stile veneziano, che le copriva gli occhi e una parte del naso. «Un’altra trovata dell’organizzatore quella delle maschere?» esordì Lorenzo. «Sì. Il loro invito forse prevedeva queste istruzioni.» risposi. «Io riconosco le più belle ragazze dalle curve e dalle scollature. C’è una ampia offerta in pochi metri quadrati!» aggiunse il solito Michele. La maggior parte degli invitati uomini aveva la nostra stessa età, ed indossava come noi una giacca, alcuni anche la cravatta. Non ero il solo ad aver scelto quell’accessorio in più. Il ricevimento aveva un’aria di tutto rispetto, come quelli dei gran gala londinesi, e la presenza delle donne mascherate aggiungeva un tocco di mistero e fascino alla villa di Notting Hill. Afferrai un bicchiere dal vassoio di un cameriere, facendo un bel sorso. Riconobbi subito il sapore fruttato e leggermente amaro di quella bevanda: il Pimm’s, uno dei più famosi cocktail made in British a base di gin. «Io mi avvicino al tavolo, ho sentito dire che ci sono dei muffin salati buonissimi, guagliù!» «Non mangi niente Daniele?». Non avevo ancora fame, ero troppo concentrato a capire. Capire chi c’era dietro quelle scelte così particolari, qual era il motivo di quell’invito, perché eravamo stati scelti proprio noi. Lorenzo seguì Michele, io rimasi appoggiato al pianoforte bianco poco distante da loro, finii il mio cocktail in poco tempo e ne presi subito un altro. La freschezza di quella bevanda distese i miei pensieri, e l’alcol cominciò a sciogliere la mia aria spaesata. Continuai a lanciare lunghi sguardi ad ogni angolo della grande stanza, cercando informazioni utili per un ragionamento. Un gruppo di ragazzi rideva a più non posso, sfidandosi a suon di battute in lingue inglese. Anche loro erano all’oscuro di tutto? Un cameriere visibilmente sudato chiedeva ad un altro quale cibo mancasse al tavolo. «Caviar, as soon as possible!». Il caviale era il piatto forte del momento, pensai, anche se a me non piaceva. Due ragazze in abiti succinti si complimentavano dell’organizzazione, definendo però scomodo indossare quelle maschere. Erano italiane, così decisi di avvicinarmi. «Scusate l’interruzione, ragazze. Ho sentito che parlavate nella mia lingua e…» fui investito dal loro sguardo mascherato, che mi mise a disagio. «Io però so parlare anche giapponese e cinese se ti interessa!» mi interruppe sorridendo una di loro, con i capelli raggruppati in una vistoso fermaglio dorato. «Preferisco la cucina orientale alla lingua parlata, a dire il vero.» ribattei prontamente. «Come puoi ben sentire siamo italiane. Come possiamo aiutarti?» fece l’altra, con un ton irritato. «Accontentando gentilmente la mia curiosità…» diedi un altro sorso al bicchiere prima di riprendere a parlare «…perché tutte voi ragazze portate questa maschera?» Le ragazze quasi contemporaneamente si guardarono l’un l’altra, in segno di complicità. «E’ un segreto, non possiamo dirlo. E’ un indicazione precisa dell’invito.» continuò la ragazza meno simpatica. «Non essere così rigida, anche tu secondo me sei curiosa di farmi qualche domanda. E poi mi sembrava che la ragazza con lo chignon volesse dirmi qualcosa. O sbaglio?»
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«Sbagli. Anche perché questa acconciatura è giapponese e si chiama shimada, non è uno chignon. Ed io preferisco essere chiamata Elena.» «Piacere Elena, mi chiamo Daniele. E’ un peccato che abbiano messo anche a te una goccia di antipatia nel drink come alla tua amica» le sorrisi nuovamente mentre le tendevo la mano, che strinse con delicatezza. «Ci sono tante altre ragazze più simpatiche di noi che forse risponderanno alla tua domanda» rispose lapidaria l’amica di Elena. Me l’ero cercata, ma non volli cedere. «Non me lo dite neanche se vi faccio leggere il mio invito?» chiesi estraendo il prezioso cartoncino grigio dalla tasca della giacca. «Che cosa avrebbe di così speciale, scusami?» «Lo stesso motivo per cui è speciale per te.» Le ragazze mi guardarono stranite. «Ancora non avete capito che qui dentro nessuno conosce nessuno, nessuno conosce chi ci invita e soprattutto perché ci invita?». Passarono alcuni secondi, il tempo giusto per masticare mentalmente l’informazione. «Io l’avevo intuito» rispose Elena «e comunque tu a me sei simpatico.» L’amica di Elena rimase molto colpita dopo quel confronto, e finalmente cominciò a prestarmi attenzione. “Facciamo uno scambio equo allora, se mi fai leggere il tuo invito ti farò leggere il mio…» «Ci sto. Deponiamo le armi» dissi, allungando la mano aperta in segno di accordo. L’amica di Elena la strinse con vigore, mi guardò dritto negli occhi e in aria di sfida aggiunse: «Prima però portaci due drink, perché come vedi siamo a mani vuote e bocce asciutte.» «Va bene, amica di Elena. Sarà fatto. Pimm’s?» Mi allontanai da quelle due strane ragazze, dirigendomi verso il tavolo del cibo e dei rinfreschi. Trovai Michele e Lorenzo impegnati a rifocillarsi senza sosta. «Eccoti, ti è venuta fame anche a te vero?» «Sì. Cosa c’è di buono?» «Prendi quella tartina al salmone per iniziare, poi almeno due pezzi di quiche, ti farà impazzire. I muffin salati non sono male, e se ti piace il caviale ho sentito dire che “is magnificent”.» «Il problema è capire a cosa vi riferite, qua è tutto così buio.». Mentre aspettavo che si liberasse il cameriere addetto ai drink, addentai tutto quello che potevo velocemente. Le mie scelte dovevano essere veloci. Non vedevo bene cosa stavo prendendo, i piatti erano illuminati da candele disposte con un certo criterio sul tavolo, ma mi piacque tutto fortunatamente. Nel frattempo preparai anche un piatto con del patè e delle tartine per le mie informatrici segrete. «Allora Ruiz, quando pensi che ci faranno salire ai piani alti? Non credo che il ricevimento duri ancora a lungo in questa sala» «A momenti Michele. Stanno divorando anche i tavoli!» Presi i due bicchieri e mi voltai velocemente alla ricerca delle ragazze. Dovevo sforzarmi per allungare lo sguardo nel pieno della penombra di quella stanza, presi come punto di
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riferimento il pianoforte bianco dove le avevo lasciate. Mi incamminai con i due bicchieri tra le mani e il piatto appoggiato sull’avambraccio, sperando che nessuno mi avrebbe scambiato per un cameriere. Con quella mossa attirai l’attenzione dei miei due amici. Mentre mi allontanavo sentii infatti farfugliare Lorenzo «Perché Daniele ha due cocktail in mano?» ma non mi voltai a dare spiegazioni, dovevo trovare Elena e l’amica. Mi destreggiai tra la folla animata, stando attento a non versarmi o rovesciarmi niente addosso. Girai la testa a destra e sinistra per individuarle, cercai le loro maschere, qualcosa che me le ricordasse, ma fu tutto inutile: non c’erano più. La mia concentrazione fu interrotta bruscamente da Michele «Ruiz, hai già conosciuto una ragazza e non volevi dirmelo? Che ci fai con due cocktail in mano, vecchio marpione, eh eh!» Con un misto di rabbia e delusione, appoggiai l’abbondante piatto sulla base del pianoforte, sfilai il mio terzo Pimm’s dal vassoio di un cameriere di passaggio, e diedi i due bicchieri a Lorenzo e Michele. «I cocktail sono per voi, offro io. E qui c’è un abbondante piatto per accompagnare i nostri drink, servitevi pure. Avevo scelto questo angolo per noi tre!» Mascherai la mia figura da quattro soldi proponendo un brindisi privato. «Brindiamo a questo insolito incontro dopo tanti anni!» Lorenzo non fece alcuna domanda, forse aveva capito che mentivo. Fu un brindisi veloce e quasi distaccato. «Ragazzi datemi precedenza per il cibo, altrimenti mi ubriaco prima ancora che la festa inizi» dissi. Un brano chillout faceva da sottofondo ai nostri scambi di opinioni, e ai vari commenti alle ragazze che passavano, alla cura del servizio e all’atmosfera troppo dark creata da quelle piccole luci naturali. Dopo qualche minuto Il brusìo delle persone che ci circondavano cominciò a diventare assordante: saliva l’attesa, i drink cominciavano a fare effetto, la gente aumentava, c’era sempre meno spazio tra noi e gli altri invitati. Fu in quel preciso istante che le musiche si abbassarono. Sentimmo chiaramente il dong di un orologio a pendolo, che cominciò ritmicamente a scandire i secondi. Vidi il dispositivo oscillante incassato in una elegante colonna di legno, posizionata tra due divani in pelle, e lo indicai con la mano a Daniele e Michele. Il suono era amplificato da un microfono che era stato collegato all’impianto delle casse. Una semplice ma intelligente mossa che lanciava un segnale a tutti noi: era mezzanotte, e sarebbe cambiato qualcosa. Puntuale infatti i camerieri che prima giravano tra la folla con i vassoi ornati da piccole candele profumate, ci invitavano a proseguire nella successiva stanza, dove avremmo salito le scale per accedere al primo piano. Ci ritrovammo in un grande atrio, largo almeno dieci metri, ai cui lati erano appesi delle vere e proprie torce inclinate. Sotto di noi un lungo tappeto scuro che ci conduceva alla scalinata. Scorrevamo in piccoli gruppi, e mi accorsi che eravamo accompagnati da alcune ragazze con eleganti candelabri in argento. Capii che facevano parte del personale perché avevano il volto
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scoperto e non portavano quelle strane mascherine scure, come la donna in rosso che avevamo incontrato all’ingresso. Fui il primo ad arrivare in cima alle scale, collegai visivamente alcuni angoli di quel primo livello a ciò che avevo visto e rivisto piú volte sul sito web di quella location. Da un lungo corridoio si diramavano tanti ingressi in delle stanze, che secondo i miei calcoli dovevano corrispondere alle camere da letto. «Quello sará sicuramente la toilette delle donne, diamo un occhiata alle camere» dissi, vedendo una fila di ragazze mascherate fuori una porta. Entrammo nella prima stanza sulla destra. Ancora una volta rimasi davvero colpito. Lo spazio occupato dai letti era stato coperto da lunghi piani in cristallo, sorretti da due pilastri di pietra bianca. Ogni stanza era organizzata nello stesso modo, ma con una variante diversa : su ognuno di questi tavoli organizzati per l’occasione c’era un buffet di una cucina tipica. Nella prima camera infatti gustammo dei piatti tipicamente italiani, nella seconda invece trovammo la cucina americana. Anche qui c’era musica, questa volta piú movimentata. «Ah, finalmente un genere che mi piace: questa é deep house, guagliú!» commentò Michele. “Dopo la pasta e la pizza italiana, ecco i classici hamburger e hot dog americani. Chissà nelle prossime stanze cosa ci offrono!» disse soddisfatto Lorenzo. Ogni stanza era servita da camerieri, che offrivano piatti e calici di vino. In fondo al corridoio invece c’era un vero e proprio bancone da bar, illuminato da una fila di bruciatori ad etanolo posti all’interno della struttura stessa in vetro. All’uscita dalla seconda stanza, Lorenzo, col boccone ancora in bocca, mi picchiettò ripetutamente la spalla per richiamare la mia attenzione. Mi indicò con un movimento della testa un capannello di poche persone che guardava qualcosa vicino la parete. Mi avvicinai anche io, incuriosito. Ai lati di tue torce c’era un lungo papiro di carta affisso sulla parete. Era molto semplice ed intuitivo: Bedroom 1 : Italian Food. Bedroom 2: American Food. Bedroom 3: Chinese Food. Bedroom 4: Japanese Food Bedroom 5: Indian Food. «Vai a recuperare Mister De Caro. Io vi aspetto nella 4.» dissi a Lorenzo, vedendo conversare Michele in un inglese sbiadito con una ragazza all’uscita della stanza 2. «Sushi? Buona idea» In realtá i motivi che mi spinsero ad andare in quella stanza erano altri. Cercavo nuovamente Elena a e l’amica, e la stanza dove servivano cibo giapponese era il luogo ideale per cominciare. Mi guardai in giro, ero deciso a ritrovarle. Superai due gruppi di ragazze, presi con le dita un california roll dal tavolo, poi le vidi di spalle. Riconobbi il fermaglio dorato di Elena. «Non siete state di parola, ho dovuto offrire i vostri cocktail ad altre due fanciulle piú gentili di voi.» «Ti abbiamo reso piú difficile il gioco, in realtà.» «È stato facile trovare una ragazza con lo shimada in una stanza dove servono giapponese.» «Ti ricordi anche il nome esatto della mia acconciatura? Comunque riconosco che sei stato bravo.» «Quindi adesso dovremmo scambiarci gli inviti secondo te?» sbottò l’amica di Elena, pungente. «Sì. Ma questa volta propongo io a te qualcosa.» dissi vedendo entrare in quel momento Lorenzo e Michele nella stanza. «La tua amica Elena mi accompagnerà al bar. Tu rimani con i miei amici, cosí se decidi di
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allontanarti ci sarà qualcuno che ti terrà d’occhio!» le dissi, facendo l’occhiolino. «E chi sono i tuoi amici?» Michele sbucò al momento giusto, e sentita quella domanda non potè fare altro che cogliere l’attimo. «Buonasera, mi chiamo Michele De Caro. É un piacere conoscerti. Tutta questa tua bellezza avrá un nome, vero?» «Ehm, buonasera…» ci fu un attimo di imbarazzo, ma Michele riuscí a rompere il ghiaccio, agitando su e giù la mano aperta di fronte a lei, come un segnale di attesa. «Mi chiamo Barbara» disse lei, arrendendosi. Strinse la mano prima a Michele poi a Lorenzo, poi mi guardò in segno di rimprovero. «Visto? Andate giá d’accordo! È riuscito a sapere il tuo nome alla prima battuta.» «È stata pura fortuna.» Mi posizionai tra lei e Elena «Allora accetti la mia proposta? Prenderemo da bere anche per te se vuoi! Che bevi? «Vodka Lemon, grazie.»” disse con un sorriso al veleno, voltandosi di spalle, pronta a conversare con i miei amici. Mi avvicinai di più a Elena, prendendola sotto il braccio: chiaro segnale che ero già brillo. «Comincia la nostra missione. Ti conduco al bar…» «Sei subito cosí affettuoso con tutte?»” «Non direi. Soltanto con le ragazze che scappano.» Il bancone era servito da tre ragazzi che indossavano un papillon, visibilmente indaffarati. Ci confondemmo tra la folla impaziente. «Il mio livello alcolico è giá sopra la media. Farei meglio a passare il giro questa volta…” «Riesci a portarmi al bar e poi mi fai bere da sola? Che strano…» La seduzione di quelle parole mi fece cambiare idea immediatamente . Feci un cenno ad uno dei bartender , e quando alzò gli occhi verso di me feci la mia ordinazione. «Two Vodka Tonic, and one Moscow Mule!» Sapevo che quel drink mi avrebbe messo ko. «So a cosa stai pensando… “Ecco il classico ragazzo che si offre di andare a prendere da bere solo per poter flirtare liberamente con me, dopo avermi allontanato dalla mia amica»” «In realtá, non ne sono sicura. Ho anche un altro sospetto...» «Vediamo se è lo stesso?» chiesi. Lei annuí, divertita. «Sospetti che io ti abbia allontanata dalla tua amica perchè è con te che voglio scambiare gli inviti. Ci guardammo per qualche istante, il suo profilo era illuminato da un candelabro poggiato sul bancone. «Sei curiosa quanto me di capirci qualcosa in più!» aggiunsi, curvando leggermente un angolo della bocca. Aveva un taglio d’occhi molto sottile, e ciglia lunghe e curate. Sorrise, confermando la mia teoria. «Credo di aver indovinato. E siccome sono un gentiluomo, precedenza alle donne.» Avvicinai la mano alla tasca interna della giacca e le porsi il cartoncino grigio del mio invito, poi presi i nostri drink. «La tua curiosità è quasi ossessiva, ti sei avvicinato a noi solo per sapere delle maschere.» «Può darsi.» Bevvi per placare la sete. Vedevo la sua faccia scrupolosa mentre leggeva le parole del mio invito. «Questa persona sembra la regista di un film thriller. Non mi sorprenderei se ci fosse un finale a sorpresa» Mi fece ridere, le passai il bicchiere del suo drink, poi lei tirò fuori dalla borsa un cartoncino di
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uguali dimensioni, ma di colore rosso. «Il mio ha un indizio in piú. Sarai soddisfatto. Sempre se non sei ubriaco!» «Ci provo!» Finalmente ero riuscito nel mio intento. Mi accorsi che mi trovavo in un punto quasi buio, sgranai gli occhi per focalizzare al meglio quelle parole. Ciao Elena, sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo visti, ma non potevo dimenticare di scriverti per questa occasione. Ho scelto il metodo più antico di comunicare affidandomi alla posta, senza sapere se il tuo indirizzo è corretto, e se leggerai mai queste parole. La sera del 7 aprile ho il piacere di invitarti ad una serata speciale, in cui vorrei salutare tutte le persone che hanno fatto parte della mia vita, anche se solo di passaggio. All’interno di questa busta troverai un codice di prenotazione, un biglietto da visita e una mascherina in stile veneziano. Con il codice potrai registrare i dati del tuo documento sul sito della compagnia aerea, per convalidare il biglietto che ti ho prenotato. Sul biglietto da visita, invece, troverai l’indirizzo del luogo da raggiungere una volta atterrato. Per noi ragazze è obbligatorio portare una maschera fino ad un certo punto della serata. È importante che tu non fornisca questo particolare dettaglio a nessuno degli altri invitati, aiuterà a tenere viva la particolare atmosfera della serata. L’invito è strettamente riservato, quindi se accetterai di venire non potrai essere accompagnata. So che può sembrare tutto uno scherzo, ma non lo è. Ho semplicemente deciso di non dare ulteriori dettagli per rendere tutto più misterioso ed originale. Se mancherai, non ti cercherò nuovamente, e molto probabilmente non capirai mai chi sono.” Rilessi ancora una volta la frase che mi aveva colpito di piú. “Per noi ragazze è obbligatorio portare una maschera fino ad un certo punto della serata.” Affissi una prima certezza al muro della mia mente. «È una donna. È stata una donna ad organizzare tutto questo!» dissi con tono sbalordito,
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prima di restituire il cartoncino ad Elena. «Esatto. Te l’ho fatto leggere perché Barbara non te l’avrebbe mai permesso.» Mi fermai davanti ad uno specchio, con la scusa di sistemare la cravatta. Ragionavo su me stesso. Appena avevo messo piede in quella villa mi ero sentito emotivamente coinvolto, anche senza averne motivo. Dentro di me si faceva strada una strana sensazione, come una voce che mi parlava dall’inconscio, che solo io potevo sentire. In quel momento nacque un sospetto sull’identità di quella persona. Forse era una persona che avevo perso e che non avevo mai dimenticato. E quel sospetto aumentava col passare dei minuti. E più ci pensavo, più ci speravo. Guardai l’orologio, le lancette segnavano l’1.00. Tornai dai ragazzi con un indizio più e tante certezze in meno. Ci attendevano altre porte da aprire, ma tra qualche ora la notte avrebbe dato il suo benvenuto al mattino.
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