Copertina e grafica Lucia Moschella
IPOCENTRO NUMERO ZERO
a cura di
GABRIELLA DAL LAGO
PREFAZIONE di Gabriella Dal Lago
Cinque scrittori esordienti e un maestro si riuniscono in sessioni di lavoro collettive, chiamate writers’ room. Come quelle fatte da sceneggiatori di film o serie tv; il principio è lo stesso. Solo che da queste writers’ room escono dei racconti, e questi racconti vengono raccolti in un libro. Le sessioni di scrittura ed editing vengono riprese e caricate online, su una piattaforma appositamente progettata. Il risultato è un libro e allo stesso tempo la sua costruzione, un’occasione di lavorare insieme a un maestro, per chi scrive, e di guardare dall’interno come si costruisce un racconto, per chi legge. Questo è Ipocentro. 5
Per costruire questo numero zero il maestro ha portato un proprio racconto in writers’ room, e lo ha letto agli scrittori esordienti. Da questo racconto gli esordienti hanno scelto un personaggio secondario, uno scorcio di paesaggio, un oggetto capitato sulla scena: e hanno costruito un altro racconto, figlio del racconto del maestro e insieme universo a parte. Così, da un racconto che parla di tre ragazzi che commettono un omicidio, sono nati un racconto su due anziani in auto, su una bici, su un cane, su degli attentati esplosivi, su una valle invasa da conigli. Dall’Ipocentro si è scatenata una forza narrativa: questo numero zero è il risultato del sisma. Il numero zero è solo il primo passo di un percorso editoriale che prevede sei numeri, con altrettanti maestri e nuovi scrittori per ciascun volume. Penso che questo sia un modo di promuovere gli esordienti sul mercato, di valorizzare l’idea di scrittura come mestiere attraverso il lavoro di bottega, di contaminare la narrativa con nuovi mezzi e meccanismi grazie alle writers’ room e alla piattaforma online. È un progetto ibrido e innovativo, ma che ha come risultato un oggetto tradizionale, solido e di qualità: il libro, l’antologia di racconti.
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NUMERO ZERO
POMERIGGIO D’AUTUNNO di Elena Varvello
I ragazzi uscirono dal boschetto spuntando sulla massicciata – li vedeva, tre sagome scure sullo sfondo degli alberi, ad appena un passo da una lunga striscia di sole che bordava il binario. Si guardarono intorno, come se una direzione valesse l’altra, come se fosse indifferente. Uno dei tre, quello più basso, che poco prima se n’era stato in disparte, calciò la terra, uno sbuffo di polvere denso e vibrante che fiorì e poi ricadde al suolo, lentamente. Quello che gli stava accanto diede un paio di colpi di tosse – “Smettila di alzare la polvere, Zio” – e si passò il dorso della mano destra sugli occhi e sulla 9
fronte. Il più grosso li ignorò, fece un passo avanti e fu dentro la luce. La valle era calda, anche se presto il sole sarebbe calato. Immaginò sua madre guardare fuori dalla finestra della cucina e scrutare la strada, in cerca della sua bicicletta, e si chiese di nuovo come avesse fatto a cacciarsi nei guai, anche se lo sapeva, lo sapeva benissimo. Fino a un istante prima, fino a che quei tre non erano spuntati fuori dal boschetto, si era detto che l’avrebbero lasciato perdere, se ne sarebbero andati. E invece eccoli lì, al di là del binario. Ostinatamente determinati. Volevano fare a botte. Volevano fargli rimangiare quello che gli aveva detto – ma cosa, cosa di preciso? Li aveva già visti un paio di volte, nella valle. Sempre insieme, come se una corda invisibile li tenesse legati l’uno all’altro. Sapeva che il fratello minore di quello più basso lavorava in una ditta d’imballaggio del legno e che, a ventidue anni, aveva già una moglie e tre bambini; doveva essere per questo che i suoi amici lo chiamavano così: lo Zio. Quello più grosso – ora guardava nella sua direzione, verso la stazione abbandonata, verso la luce morente – aveva un occhio cieco. Dell’ultimo non sapeva niente, solo che le sue labbra si erano distese in un sorriso mentre il tizio con l’occhio cieco lo spingeva a terra, premendogli con forza i palmi delle mani contro il petto. Che hai detto? Vediamo se hai il coraggio di ripeterlo.
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“Ehi, la sapete una cosa? Mio padre ci ha salvato una ragazza, quassù”. Non l’ha mai detto a nessuno, ma, chissà perché, quello gli sembra il momento giusto. “Una che si voleva buttare sotto il treno. Se ne stava lì, vicino al binario, e lui si è avvicinato e ha cominciato a parlarci, e a un certo punto lei gli ha detto, vattene, e lui l’ha capito, cosa aveva intenzione di fare, e ha continuato a parlarci, e, alla fine, lei si è messa a piangere e gli ha detto che la vita faceva schifo, era uno schifo, e poi hanno visto arrivare il treno e lui le ha stretto un braccio e sono rimasti così. Diceva sempre che era l’unica cosa buona che aveva fatto in vita sua.” Fausto e lo Zio sono dietro di lui, alle sue spalle, nell’ombra. Per un po’ non dicono niente, e la valle è un grumo di silenzio. Immobile, se non fosse per una lingua di vento e per il canto degli uccelli. Poi lo Zio dice: “Forte”, e Fausto dice che il nonno di suo nonno l’ha costruita con le sue mani, questa linea ferroviaria che doveva andare fino al mare, e invece no, non si è mai spinta oltre la valle. “L’ha fatta con le sue mani”, ripete, ma a lui non frega niente. Acqua passata, ormai, un’altra possibilità andata in malora, un ramo secco che attraversa la valle. Gli pare di vedere suo padre, adesso, oltre il binario, mentre stringe il braccio di quella ragazza. Si chiede se sia successo davvero e se se lo sia inventato. Raccontava un sacco di balle, suo padre, e lo prendeva in giro per quel suo occhio cieco, lo guardava e scuoteva la testa. 11
Non valeva un soldo bucato. Oh, ma chi ne se importa: ha voglia di menare le mani, gliel’ha messa addosso quel ragazzino in bicicletta, e, quand’è così, non può più farci niente. Con la punta della scarpa sinistra colpisce il binario, un rumore sordo che gli ricorda qualcosa, suo padre chiuso in garage che batte con un martello contro la portiera ammaccata di un’automobile che ha comprato dallo sfasciacarrozze. Sul ponte, poco più a valle, passa un furgoncino su cui è stampato un nome, in viola. Secondo sua madre, quell’occhio è un regalo di Dio. Secondo sua madre, dovrebbe cercarsi un altro lavoro. Suo cugino è appena stato assunto su alla cava, un bello stipendio, e allora, forse, non potrebbe anche lui? Si è messa davanti alla porta, gli ha poggiato una mano sulla spalla. “Togliti di mezzo”, le ha detto lui, prima di uscire. Lasciami andare. Lo Zio dice: “Qui non c’è nessuno. Sarà scappato”. Fausto dice: “Tanto se l’era già fatta sotto. È solo un moccioso”. La stazione è un guscio vuoto accarezzato da cespugli secchi, erbacce. Chiusa ormai da anni. Il profilo delle montagne è una lunga e frastagliata macchia d’inchiostro. “Diamoci un taglio”, dice uno dei due, “torniamo alla macchina, comincia a fare freddo”, ma la sua voce è appena un sussurro. E poi qualcosa si muove, là, dietro il muro della stazione, e lui fa un gesto con il braccio, come 12
a dire chiudete la bocca. Ha sentito il cuore sobbalzare nel petto di quel ragazzino, seppure si trovi al di là del binario, nascosto dietro quel guscio vuoto. Uno dei due dice: “Dai, ché non ce n’è bisogno”, ma lui poggia il piede fra due traversine, proprio perché ne ha bisogno, ed è un’ombra che si spinge un po’ più in là, nel cuore della valle quando manca poco al tramonto, mentre suo padre lo guarda e scuote la testa. Spostandosi – non ce la faceva più a stare lì accucciato – aveva calpestato qualcosa, una lattina di birra, e fatto rumore. Stupido. E tutto questo perché gli avevano tagliato la strada e lui gli aveva urlato: “Vaffanculo”. E poi la macchina ferma, oltre la curva, e quello più grosso che gli si parava davanti e lo costringeva a frenare, a fermarsi, e gli diceva: “Non ho capito bene quel che hai detto”. Era sceso dalla bici, non aveva potuto fare altrimenti, e ora la bici se ne stava in fondo a un fosso. Ripetilo, ripeti quel che hai detto se hai il coraggio. Era riuscito a sgusciargli via da sotto le mani, però, aveva attraversato di corsa il boschetto e oltrepassato il binario. A quel punto, si era dato un’occhiata intorno. Avrebbe potuto continuare a correre, e invece era andato a nascondersi lì, perché voleva, non appena si fosse sentito al sicuro, recuperare la sua bici. Non gliene importa niente di me, si sono già divertiti abbastanza, aveva pensato. E invece 13
quello più grosso stava attraversando il binario. Lo vide raccogliere un ramo e saggiarne la consistenza. Gli altri due sembravano stanchi e perplessi, ma poi la corda venne tirata e loro lo seguirono. Anche allora, comunque, col cuore che gli balzava in gola, le gambe indolenzite, le mani fredde, si disse che sarebbe andato tutto bene. Aveva appena tredici anni e una bicicletta nuova. Era un bel pomeriggio d’autunno, e sua madre lo stava aspettando. “Una volta, ero sicuro che me ne andavo via di qua.” Il ramo taglia l’aria come l’ala di un uccello che non riesca più a spiccare il volo. Fausto e lo Zio, che stavano pensando ad altro – il bar del paese, il videopoker, una ragazza bionda che hanno visto camminare sculettando sul ciglio della strada – si lanciano un’occhiata. Che cosa sta dicendo? Si conoscono da quando avevano sette, otto anni, e con il padre di Fausto andavano in montagna a camminare. Bei tempi. Il padre di Fausto era sceso giù, dentro la terra, aveva perlustrato le grotte, era una brava persona, e adesso stava al cimitero. A loro piace, la valle, gli è sempre piaciuta. Dove altro potrebbero andare, comunque? Il ramo cade sul palmo della mano e le dita gli si serrano intorno, la ghiaia scricchiola sotto le scarpe. Ci sono cose che non è in grado di dire, cose che se ne stanno sprofondate dentro di lui, lungo chilometri di cunicoli, nell’oscurità. La 14
voglia di menar le mani, per esempio, la voglia di fare del male a qualcuno. Così, dice semplicemente: “Una volta ero sicuro che me ne andavo via di qua”. Come se dipendesse da questo. Qualcosa contro cui non può combattere. Un fiume carsico. È di fianco a suo padre, adesso. Se solo potesse, proverebbe quel ramo su di lui. Si appoggiò contro il muro, ancora caldo – per quanto? Pochi minuti, probabilmente. Tese le orecchie sperando di sentire lo sferragliare del treno, ma sentì soltanto lo scricchiolio delle scarpe sulla ghiaia e poi il silenzio. Presto sarebbe caduta la neve, una luce azzurra sulla cima delle montagne azzurre. Pensò che avrebbe potuto sgusciare via di nuovo e correre lungo il binario. Adesso, prima che sia troppo tardi. Posso farlo, si disse, e poi pensò alla bicicletta, abbandonata in fondo al fosso, e alla neve che lentamente l’avrebbe coperta, mentre quei tre erano ormai a poco meno di una decina di metri, scarpe pesanti e un ramo. Un uomo stava attraversando il ponte, portava un cane al guinzaglio. Lo vide formarsi un istante e guardare nella sua direzione, gli pareva di conoscerlo, ehi, sono qui, poi chiuse gli occhi e ricordò un altro pomeriggio d’autunno, lui e sua madre su un sentiero, zaini in spalla, e lei che alzava un braccio e gli indicava le cime dei pini e poi diceva: “Guarda, tesoro, 15
non è bellissimo?”, e restò così, con gli occhi chiusi, serrati, la schiena poggiata al muro della stazione, le ginocchia raccolte al petto, a immaginare le cime dei pini e la neve e la vecchia motrice e i vagoni, davvero bellissimo, mentre la luce azzurra si chiudeva in un pugno – i loro passi ormai troppo vicini – e precipitava nel buio.
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VOI di Francesco Bolognesi
Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio. David Lynch
Tutti gli anni, da quando ne abbiamo memoria, c’era una persona che la prima domenica di dicembre, sempre, tutti gli anni, nel nostro paese, in ognuna delle nostre case, a ognuna delle nostre famiglie, muovendosi con un camioncino, lasciava, dentro una piccola gabbia, un coniglio bianco. La notte prima, il sabato, noi, sapendo che sarebbe arrivato, lasciavamo una piccola offerta nel giardino, giusto un pensiero, per lui. Quindi noi, ogni famiglia di noi, per l’intero anno, da autunno a autunno, accudivamo il coniglio, diventava il nostro animale domestico, 17
gli davamo da mangiare; alle volte lo facevamo addirittura stare insieme a noi a tavola: animali educati, i conigli. Poi un giorno, il primo giorno d’autunno, cucinavamo i conigli e tutti insieme facevamo una lunga tavolata che percorreva il paese e mangiavamo i conigli: c’era chi li cucinava al forno, chi alla griglia, chi provava a friggerli, chi sullo spiedo, chi provava a farli in umido. Loro aspettavano quel giorno come si aspetta Babbo Natale, né più, né meno. L’unica differenza con Babbo Natale è che lì ci credevano tutti, adulti e bambini, e tutti non vedevano l’ora che arrivasse. A me i conigli piacciono anche tanto mi piacciono sono animali simpatici i conigli però magari non è vero che lo sono sinceramente non lo so cioè io il coniglio che trovo nel giardino di casa lo tengo con me tutto il giorno fa con me tutto quello che faccio ci divertiamo tantissimo insieme proprio tanto lui diventa il mio migliore amico. Però questa è la mia opinione non so se anche gli altri la pensano così non so come la pensano gli altri riguardo a questa cosa cioè penso di sapere cosa ne pensano gli altri però non ne sono sicuro quindi non lo so forse è meglio che non ci penso perché se poi non è uguale alla loro allora vuol dire che è sbagliata vuol dire che non è giusta. Quell’anno però i conigli non vennero lasciati 18
in ciascuna delle nostre case ma liberati nella nostra vallata, e noi ci svegliammo tutti, quella mattina, senza il coniglio nel nostro giardino e con ancora l’offerta lì. Tutti noi credemmo che quella cosa non era giusta, che non aveva nessun senso, che noi non volevamo andare a catturare il coniglio. Noi credemmo che fosse ingiusto che uno decidesse così, di sua volontà, di cambiare un rito, di spezzare una sicurezza. Tutti noi, il coniglio, capimmo, in quel modo, non lo volevamo nemmeno. Nessuno di loro ci fece caso, ma se qualcuno fosse salito sul campanile e avesse guardato verso la vallata il giorno in cui vennero liberati i conigli bianchi avrebbe visto come tanti pezzi di cotone rotolare e rimbalzare ovunque, da tutte le parti, e forse, quella visione, l’avrebbe potuto far commuovere. A me l’idea di andare a prendere i conigli non è che dispiaccia poi così tanto cioè mi sembra una cosa bella interessante almeno si decide se lo si vuole cioè prima ce lo si trovava lì tutti erano contenti o almeno pensavano di essere contenti cioè non lo so. Non lo so davvero non voglio che gli altri non siano felici però è anche vero che per me all’inizio non è che fossero davvero tutti così contenti cioè da sempre c’è questa cosa dei conigli e tutti la fanno forse più per un rito che per altro però adesso si può decidere cosa fare mi sembra bello, decidere: non tutti lo fanno anzi ma alla fine io che ne so 19
cioè non so mai niente me lo dicono tutti che non so mai niente di certo mi sto sbagliando mi sbaglio sempre non so. Come mi dicono sempre, come puoi pretendere di dire la tua se non sai nemmeno che cos’è la destra. Si sapeva poco o nulla di quello che aveva liberato i conigli. Sapevamo che viaggiava sullo stesso camioncino di sempre, quello che di solito i conigli ce li consegnava, uno bianco con la scritta in viola AZ. AG. VANGELI su un lato, e lo sapevamo perché Luca quella notte non era riuscito a dormire e l’aveva visto passare per la strada principale del paese dalla finestra di camera sua; l’aveva visto passare senza fermarsi, diretto, spedito, verso la vallata. Chi era a guidarlo non lo conoscevamo: quello che consegnava i conigli cambiava negli anni, non sappiamo ogni quanto, ma che cambiava lo sapevamo perché chi era riuscito a vederlo in tempi diversi faceva descrizioni che non combaciavano le une alle altre: Giovanni aveva visto un uomo che camminava con i piedi larghi a papera, basso, grasso e con la chierica; Marco uno spilungone, che ciondolava e aveva le dita molto corte per la sua altezza. Ad ogni modo non si fermava mai, si muoveva di notte, consegnava i conigli e poi se ne andava via; e chi lo aveva visto, lo aveva visto come aveva fatto Luca, perché quella notte non aveva sonno, o perché la sua curiosità era troppo forte. Si riunirono quella mattina nella piazza del 20
paese, il centro della loro comunità. Alcuni erano in pigiama, c’era una donna in vestaglia, altri vestiti con le prime cose trovate, come pantaloni della tuta e camicia a quadri. Si salutarono tra di loro senza lasciare fuori nessuno. Poi i più vecchi si allontanarono per decidere cosa fare. Parlò un uomo con la pancia e un sorriso largo. Dobbiamo fare qualcosa, disse. È vero. Avete qualche idea? No. Io andrei a prenderlo. Giusto! Andiamo a prenderlo! Siamo sicuri? Sì! Hai altre idee? No… E allora, forza! Prendiamolo! Andiamo a dirlo a tutti. Se lo dicono loro allora bisogna andarlo a prendere questo uomo si vede che andare a catturare il coniglietto non gli piace molto come idea cosa che si può anche capire cioè è molto faticoso poi loro saltano a destra e sinistra e tu ti ci devi buttare sopra e rischi di farti male rischi che ti si sbuccino le ginocchia e dopo bruciano. Ci armammo con quello che eravamo riusciti a trovare; per lo più erano attrezzi agricoli: vanghe, picconi, badili, forbici a pressione; o 21
cose la cui pericolosità veniva notata solo in quel momento: mattarelli, gambe di vecchie sedie, pezzi di legno. Solo Giacomo aveva un fucile. Camminavamo spediti e sicuri perché sapevamo dov’era il camioncino, non sapevamo come mai lo sapessimo, ma non ci siamo fatti molte domande. Marciavano come si marcia in guerra in file ordinate, spaventando e allontanando i conigli attorno a loro, calcandoli anche. Uniti, compatti, facendo urli di incitazione ogni tanto, rompendo un silenzio. Uno disse: Forza ragazzi! Un altro: Dai, dai, dai! Un altro ancora: Lo catturiamo! Un altro ancora: Lo facciamo nostro! Raggiunsero la collinetta e su di essa videro il camioncino parcheggiato con il muso dalla parte opposta rispetto a loro. Da lì sotto uno di loro, uno che indossava un gilet da lavoro di quelli pieni di tasche con tanti attrezzi e il nastro isolante, urlò qualcosa. Fatti vedere codardo, urlò. L’unico rumore che udimmo dopo l’urlo fu quello dei corvi nel cielo. Non ricevemmo alcuna risposta e quindi Pietro urlò di nuovo. Se non scendi, saliamo noi, urlò. L’uomo, che forse stava dormendo, o forse aveva davvero paura, aprì la portiera del camioncino e salì sul tettuccio. 22
Da lassù ci parlò con voce decisa. Beati voi, poveri, che ora avete fame, che ora siete in lutto, disse. Non vi è albero buono che dia frutto cattivo, né vi è albero cattivo che dia un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce nel suo frutto. Costruite sulla pietra, può soffiare il vento, cadere la pioggia, ma la casa resisterà. O costruite sulla sabbia, dove cade la pioggia straripano i fiumi, soffia il vento, tutto crolla. Voi pulite il bicchiere e il piatto, ma il vostro interno è pieno di rapacità e avidità. Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi, e quei pesi non li toccate nemmeno con un dito. Guardate gli uccelli: non seminano, non mietono, non accumulano. Voi non valete gli uccelli? Cessate di preoccuparvi dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Con che cosa ci copriremo? Tenne la “o” finale della domanda molto lunga, e quando di colpo la fermò, annuì da solo. Noi ci chiedemmo, dentro di noi, ma anche ad alta voce, parlando a noi stessi, ma anche parlando agli altri che cosa stesse blaterando, se fosse un pazzo e infatti Marco per tutti: Tu sei un pazzo. L’uomo alzò un dito come se chiedesse di parlare, ma non disse nulla. Allora noi ci guardammo ancora più stupiti e concordammo che si doveva fare qualcosa. Ma prima Filippo scoppiò e disse Tu vieni a farci lezione, ma chi pensi di essere? Lui questa volta rispose e lo fece dicendo quelle cose che aveva detto anche prima e 23
dicendole in quel modo; disse Io sono un malato e non cercherò di farmi passare per il medico. Come se giacessi in un letto del vostro medesimo ospedale, chiacchierando con voi del nostro male comune, e condividendo con voi i farmaci, per quel che possono valere. A me le sue parole sono piaciute avevano un qualcosa di bello vero sincero ma di sicuro sono io che ho sbagliato sono io che non capisco è sempre così sono io che non capisco che non so ma hanno ragione è vero che non so non so chi sono non so da dove vengo non so perché sono non so perché penso non so e quello che dico è sbagliato lo so che è sbagliato ma mi capita a volte di non sapere bene che cosa sia giusto o sbagliato quindi io lo dico e lo capisco che è sbagliato solo dopo che l’ho detto per questo quando mi dicono che ho sbagliato io lo capisco che ho sbagliato e annuisco non perché voglia dargli ragione ma perché capisco che ho sbagliato che non è giusto che non è vero che è tutto così strano io annuisco perché penso che hanno ragione a dirmi che ho sbagliato ma quanto annuisco loro mi dicono che faccio male ad annuire perché devo rispettare il mio pensiero e seguire la mia strada perché non sempre loro hanno ragione, ma io lo so che loro hanno ragione lo so forse meglio di loro perché alla fine non sono poi così scemo, un giorno è stato deciso così, che io ero scemo e quindi ho preso la parte dello scemo del paese e alla fine mi stava anche bene cioè non era male come 24
cosa perché la gente scherzava con me, ma poi le parole sue non è che io le abbia capite tanto secondo me ha preso un po’ di cose a caso, ecco secondo me nemmeno lui sa che cosa vuole davvero dire, sì mi sa che è proprio così nemmeno lui lo sa, forse solo io lo so. Noi urlammo Basta! e corremmo tutti verso di lui, distaccandoci i primi da quelli più indietro, come si dilata una corda tirata. Lui scappò all’interno del camioncino, mise in moto, noi vedemmo uscire fumo dallo scarico, lui fece manovra e premendo sull’acceleratore, ci venne incontro. Alcuni di noi scapparono, ma pochi, gli altri abbassarono il capo e gli corsero contro. Alcuni corpi saltarono a destra e a sinistra abbattuti; pochi, due o tre, vennero presi sotto, ma la maggior parte di noi riuscì a compattarsi e a rallentare il camioncino, giusto due secondi, per permettere a quelli in possesso di forbici di squarciare gli pneumatici per rallentarlo, così che tutti noi, insieme, potessimo salire su di esso e come piccole formiche conquistarlo. Lo portarono verso il paese reggendolo sulle teste, dopo avergli legato mani e piedi. Stavano in silenzio, a uno di loro prudeva un’ascella e dovette chiedere il cambio più volte. Poi lo posizionarono al centro della piazza e i più vecchi di loro si allontanarono per decidere che cosa farne. Non c’era un carcere o niente del genere. Un tempo, molto tempo prima, si diceva che un uomo era stato chiuso nel 25
campanile della chiesa per tanti anni e che fosse diventato sordo e che le voci che si sentivano di notte, gli urli disperati che ogni tanto si sentivano, erano i suoi. Ma forse era solo una storia che si raccontava ai bambini. No, proprio no. Cosa ce ne facciamo? Non lo so. Ma poi perché? Eh, perché, perché… Ho capito, lo tengo io a casa mia. E cosa te ne fai? Mi dà una mano con la terra. Allora lo voglio io, ho più terra di te da lavorare. L’ho detto prima io. A me è mancato mio figlio, ne ho più bisogno io. Ragazzi! Nessuno se lo prenderà in casa, bisogna pensare a qualcos’altro. Ma perché ha dovuto fare così, mi chiedo io. Eh, perché, perché… La smetti? Di fare? Di dire: “eh, perché, perché…” Ma che problemi hai? Manteniamo la calma. Altre idee? Ucciderlo? No. Ammazzarlo? Non sia mai. Massacrarlo? 26
No no. Decapitarlo? La vuoi smettere?! … Ma se lo liberassimo? Scusa? Sì, lo liberiamo. Liberare dove? Dove vuole. Ma se poi ritorna? Ritorna per…? Non so, per vendicarsi. Non mi sembra il tipo. Nemmeno a me. È vero, non è il tipo. Sono d’accordo. Okay ragazzi. Lo liberiamo quindi? Liberiamolo. Andata! Adesso sto meglio. Più rilassato. Andiamo? Poi ad un certo punto ci dividemmo, o meglio, uno di noi si divise da noi, si allontanò, agì, da solo, di sua volontà. Non eravamo abituati. Strappò il fucile a Giacomo e lo rigirò tra le sue mani, si vide che pensò a qualcosa, perché aggrottò le sopracciglia, perché aveva gli occhi vuoti, e poi lo puntò contro l’uomo nella piazza, mirò prima sulle mani e poi sul viso. 27
Nessuno di loro lo notò ma aveva mani bellissime, ingiustificatamente, stranamente, senza giudizio, belle. Dita lunghe, affusolate, delicate, senza peli, di un colore chiaro, di una sfumatura di rosa che solo alcuni grandi pittori riescono a ricreare e forse nemmeno esiste in natura. La loro bellezza risaltava anche, se non soprattutto, vista a confronto con la pelle del resto del corpo, più scura, più sporca; ma le mani erano bellissime. Aveva le unghie pulite, tenute bene, non come una donna, ma come le unghie di un uomo che se le tiene bene, e poi c’era la lunula del mignolo, che nessuno saprebbe dirvi perché ma era commovente, piccola e dolce. Loro sanno più di me se per loro è giusto che stia lì allora è giusto così loro lo sanno io non so niente proprio nulla di nulla. Lo faccio per loro perché qualcuno lo deve fare e lo faccio io perché sono il più adatto perché valgo meno di tutti perché sì. Una donna si avvicinò e gli accarezzò i capelli. Capelli molto folti, scuri, unti in lunghe ciocche che gli si erano attaccate alla fronte. Tra i capelli si vedeva un solo orecchio con un lobo molto largo e carnoso. Le sopracciglia erano rade e proseguivano al centro, sopra il naso adunco, ancora più rade. Gli occhi, che teneva chiusi, mettevano in evidenza ciglia irregolari, con delle mancanze. Dal naso usciva un pelo dello stesso colore e grosso come quelli della 28
barba; una barba che gli copriva tutta la parte inferiore del volto e aveva dei buchi. Alcuni peli di questi finivano sulle sue labbra, sottili anch’esse, di un rosso scuro, e quando le aprì per proferire parola mostrò denti storti, ma bianchi, e disse: Forse avete rag— L’uomo aprì la bocca per parlare, ma non udimmo nulla, perché partì lo sparo. Poi cadde al suolo, morto, con un colpo dritto nella testa. La donna vicino a lui scoppiò a piangere. Sono uno di loro. Il rinculo lo fece indietreggiare e per poco non lo fece cadere. I più vecchi di loro proprio in quel momento erano ritornati alla piazza. Si lamentarono. Ma perché? Non è possibile. Non ci voleva proprio. Ma proprio no. E quindi? Adesso? Cosa facciamo? Che nervoso. Io non lo so proprio. Nemmeno io. Vabbè, seppelliamo? Dici? Secondo me, avrebbe voluto essere seppellito. Ma come fai a saperlo? Eh, perché, perché… 29
Lo si vedeva. Se lo dici tu. Fate voi. Io me ne tiro fuori. Okay. Seppelliamolo. Crediamo in noi, nella nostra forza, nella nostra unione. Ci sono cose che vanno rispettate, sempre, in ogni modo. Nonostante questo, oggi, ci mancano i conigli bianchi.
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BOLIDE di Alessio Angioni
Ăˆ cominciato tutto con la denuncia di un furto. Qualche giorno dopo le macchine della Polizia si sono fermate in un punto della provinciale e alcuni agenti hanno transennato l’area. Ci siamo goduti la scena nascosti dentro la cascina abbandonata. Odore di polvere da sparo e una manciata di polli squarciati, abbandonati poco lontano dal bordo della strada. Le penne impiastricciate di schizzi di sangue disposte sul prato come in un disegno da terza elementare. Una nuvola al tramonto riflessa sulle acque verdi di un lago. Plasma su 31
clorofilla. Finalmente qualcosa di cui parlare. La settimana seguente è stata la volta di un cane nella zona industriale. I padroni stavano tornando all’ora di pranzo dalla ricevitoria in cui avevano affisso la fotocopia di una schedina vincente del Superenalotto. Hanno trovato la bestia in cortile con la testa esplosa, i denti seminati per il prato, schizzati dalla mascella in ogni direzione, schegge impazzite. Sul giornale hanno scritto che la figlia di sette anni piangeva dalla finestra del primo piano con le mani a coprirsi gli occhi. Uno di noi ha detto che non era per lo spavento del botto o per le urla della madre, ma per il colore grigiastro del cervello liquefatto che colava dalle narici del cadavere. I vicini non avevano visto né sentito nulla. Occupazione dei territori domestici. Era così che l’avevamo chiamata. Ce n’eravamo scordati, di come fosse avere i genitori in giro per casa. Addormentati sul divano con la tv accesa sulla diretta di un quiz a premi, intenti a temperare matite per cerchiare annunci di lavoro stagionale. Padri desolati che innaffiano il prato tre volte al giorno, madri avvizzite nella pulitura delle pesche bianche per la marmellata. Ce n’eravamo dimenticati, avevamo rimosso. Li preferivamo quando non c’erano, assenti giustificati, quando tornavano dalla fabbrica la sera tardi, giusto in tempo per lavarsi e preparare la cena e sedersi a tavola in silenzio. Volevamo tornassero così, ce lo 32
dicevamo, osservando da sotto un albero la gente entrare e uscire dalla drogheria. Spodestati, confinati sul suolo pubblico. Ridotti a profughi. Prima che chiudessero il cotonificio e la laneria e la cava di pietra, era tutta un’altra storia. Prima che mettessero le catene all’ingresso del campo sportivo, giocavamo di notte sotto la luce di un solo lampione. Prima che smettessero di tagliare l’erba nei parchetti vicino al municipio, sapevamo dove andare dopo cena, per evitarli. Uno di quei giorni soffocati dal sole, mentre giravamo in bici rimanendo vicini alle recinzioni, seguendo l’ombra degli alberi nei viali di villette a schiera, qualcuno alla radio disse che era colpa di certa gente se era finito tutto in malora. La voce veniva dalla finestra aperta di una mansarda e diceva che era il tipo di gente che girava in Bmw, frequentava circoli privati, passava le vacanze al mare. Un manifesto elettorale denunciava le loro infiltrazioni nel sindacato. Durante il consiglio comunale a qualcuno era scappato un cognome. Seguire una di quelle macchine scure, scoprire dove andava. Decidemmo sarebbe stata la missione. Giusto per verificare le voci che giravano, per vedere anche solo una volta in faccia quella gente che aveva rovinato tutto. Andare in fondo alla cosa. Trovare un colpevole. Gli stavamo alle costole, ma stando attenti a non farci vedere. 33
Quando la macchina scura si è tuffata nel parcheggio alzando una nube di calce, ci siamo lanciati giù dal sellino e abbiamo deviato a sinistra evitando lo spiazzo. Abbiamo sdraiato le bici nell’erba alta. Unendo gli incisivi masticavamo i granelli di polvere, sentendoli incollati al palato e sulla punta della lingua. Quello di noi in testa al gruppo fece segno di abbassarsi e seguirlo nella pineta. Finalmente l’ombra. Per terra una distesa fluorescente di palline da tennis su un tappeto di pigne e agi bruciati dal sole, dall’alto il giro di basso di una cover dei Cure accompagnato da uno schiocco, come di una bottiglia stappata, fuori tempo ma regolare, pulito, costante. Poco prima di ogni schiocco un ansimare gutturale. Proprio davanti a noi, una rete metallica alta tre metri coperta da teloni verdi in PVC. Nessuno di noi aveva mai visto un posto così. Il più grande del gruppo tolse le scarpe, si tirò le maniche della maglietta sulle spalle. Lo guardammo arrampicarsi su un albero, quello più vicino alla recinzione. Fece una smorfia e inspirò a denti stretti quando una scheggia gli si conficcò in un dito. Si doveva mettere una mano davanti agli occhi per vedere, spostava la testa nel tentativo di schivare il riflesso del sole sulle vetrate. Cosa vedi?, disse uno di noi. Delle persone, rispose lui sottovoce. Che fanno? Non rispose. 34
Allora? Un cazzo di niente. Stanno seduti sotto degli ombrelloni. E poi? E poi ci sono delle ragazze con dei vassoi in mano. Delle ragazze? Si. Hanno tutte in testa un cappellino da baseball. Aspetta. Che succede? Una delle ragazze ha lasciato qualcosa a un tavolo e uno degli uomini seduti sembra stia scrivendo su un pezzo di carta. Sono qui davanti a noi? Cazzo, no. Sono più su. C’è un edificio sulla collinetta. E questo rumore? Il figlio del ferramenta, che si portava sempre dietro un coltellino svizzero, tentò di tagliare il telone. La punta della lama si storse. Allora insistette con il seghetto, pugnalando la superficie spessa fino ad aprire una piccola fessura. Incise verticalmente fino a che non riuscì a scostare i lembi e a vedere dentro. Fanculo, disse. Sono solo due grassoni. E non fece in tempo a dire altro, che lo prendemmo per la maglia e lo scaraventammo in mezzo alla polvere. Cominciò a lamentarsi. Gli frugammo nelle tasche, ma niente. Uno di noi lo tirò per i capelli, ma non aprì bocca. Il coltellino era ai sui piedi. Ricavammo altre feritoie. Di fronte a noi c’era un campo di terra rossa 35
segnato da linee bianche con una rete bassa nel mezzo. Due uomini sudati impugnavano delle racchette. Non si muovevano mai, se non per fare un mezzo passo in avanti, un maldestro balzo laterale. Distendevano i gomiti cercando con gli occhi la pallina e una volta che li aveva superati restavano qualche secondo piegati sulle ginocchia, guardando nel vuoto. Sopra il campo, un edificio a due piani dalle pareti bianche. Uomini in camicia con al polso orologi luccicanti. Donne in polo e pantaloncini corti. Occhiali scuri. Scarpe sportive. L’aria si riempì di un sibilo acuto. E questo?, chiese uno di noi. Veniva dalla nostra sinistra. Impossibile vedere in quella direzione. È la sputa-palline, disse quello sull’albero. La sputa-che? La macchina che sputa le palline, stupido. Nell’ altro campo. C’è un altro campo? Certo, coglione. Non si è mai visto un posto così con un solo campo. Che cazzo ne so. Se non stai zitto ti ammazzo, ruggì quello sull’albero guardando di sotto. Anche sforzandoci di farlo, cercando di strappare con le dita qualche centimetro in più di telone, premendo il torace contro la rete metallica, non riuscivamo a vedere che di fronte a noi. I grassoni se n’erano andati. Il campo era deserto. Sentimmo un altro suono acuto, un segnale acustico, ma questa volta più 36
lungo, e subito dopo come uno sparo attutito e un rumore di cespugli, uno sparo attutito e uno schiocco e qualcosa che finisce sulla rete metallica, uno sparo attutito e uno scivolare di passi, e così via. Una delle palline uscì dal campo e rotolò fino in mezzo alla pineta. Così, mentre alcuni rimasero sotto l’albero e altri attaccati alla rete, altri ancora corsero in quella direzione, con le facce annegate nel riflesso verde dei teloni di plastica. All’angolo del campo la rete era rotta. Tornammo il sabato seguente. Nascosti nell’erba alta, tra i binari del treno e il parcheggio del Tennis Club gremito di macchine scure, aspettammo il passaggio del treno per coprire gli spostamenti. Uno di noi tirò fuori un pacchetto di sigarette industriali che diceva di aver rubato alla madre. In effetti, i suoi genitori erano gli unici ad avere ancora un lavoro. Secondo un paio di noi, le sigarette non le aveva rubate, le aveva comprate o, al massimo, poteva averle barattate con il cugino più grande per le palline che avevamo raccolto nella pineta. Mentre restavamo accucciati pancia a terra, lui lanciava le sigarette e raccontava questa storia, diceva che aveva letto da qualche parte, non si ricordava dove, che era possibile costruire una specie di mina a pressione tagliando in due con un seghetto una pallina da tennis e mettendoci dentro una testa di fiammifero. Una sorta di granata, pronta ad esplodere a una forte sollecitazione esterna. La chiamava 37
bolide. Aveva letto che lo avevano già fatto, che funzionava. Una nuvola si fermò sopra le nostre teste. Sentimmo i vagoni sferragliare in lontananza. Quel pomeriggio sull’albero ci salì un altro. Coltelli, feritoie. Era tutto come l’ultima volta. Solo che al posto dei due grassoni c’erano due signore di mezza età con la visiera in testa. In compenso sotto gli ombrelloni c’erano molte più persone. Quello di noi che stava sull’albero tentò di raggiungere un ramo più alto, e quando ce la fece si spinse ancora più su. Si accese la sigaretta. Sbuffò. Dev’esserci qualcosa oltre, disse. Oltre cosa? domandammo. Oltre la collina. A casa non potevamo tornare e non c’era più molto da vedere. Il resto del pomeriggio lo passammo al ponte della ferrovia ad est della provinciale, a colpire vagoni merci con qualsiasi cosa ci capitasse sotto mano. Pietre, ossa di animali morti, spazzatura, saliva. Facevamo questo gioco. Legavamo una corda alla base di un palo e la facevamo passare sui binari. Poi la fissavamo alla vita di un ragazzino del paese che voleva girare con noi. La maggior parte delle volte, quando i binari cominciavano a vibrare e si sentiva arrivare il treno, l’aspirante cominciava a tremare e poi pregare. Desisteva, voleva andare via. Quando urlava mestile, la parola di sicurezza, uno di noi tagliava la corda con delle forbici da giardino. Non era una 38
grande prova. La maggior parte delle volte le ruote del treno tagliavano la corda dopo un bello strattone. Altre volte si veniva trascinati per qualche metro prima che il nodo cedesse. Qualcuno era rimasto indietro. Altri erano tornati a casa. Legato alla corda ci stava uno che non avevamo mai visto. Uno che non era del paese. E prima ancora che le rotaie si scuotessero e che sentissimo il fragore del treno, il ragazzino si mise a urlare. Mestile. Come dici? Lo prese in giro uno di noi. Mestile, mestile, urlò quello. Non si sente niente. Ho detto mestile, cazzo. Mestile. Sentimmo qualcuno che rideva, e dall’erba alta spuntarono tre o quattro di noi. Il primo si fermò e incrociò le mani dietro la nuca, quelli dietro lo raggiunsero affannati e cominciarono a ridere. Mestile. Vi prego, ho detto mestile, insisteva il ragazzino. Dove cazzo eravate?, ha chiesto uno. Che ti frega?, ha risposto il primo. Poi abbiamo sentito il sibilo, e qualcuno ha pensato che fosse il treno. Il primo si è voltato. I grilli in sottofondo. Un’esplosione. Delle grida si sono alzate dal Tennis Club. Uno stormo di beccaccini se ne è gracchiato via. Il giornale diceva che la pallina era esplosa in 39
mano a un delegato sindacale. Gli aveva fatto saltare la mano sinistra. Tre dita di netto, mignolo, anulare e medio, e la falange dell’indice. Tutto sotto gli occhi di commercialisti e farmacisti in pensione, di gestori di nightclub e venditori di veicoli agricoli, una pioggia di piccole gocce allungate di plasma dentro ai bicchieri, le urla isteriche delle cameriere con i capelli legati, la corsa all’ossigeno e ai kit di pronto soccorso, alle tovaglie nuove, alle sigarette al mentolo. Una signora era svenuta alla vista della pozza di urina e sangue sotto l’uomo svenuto. Un medico che al momento dell’esplosione beveva sotto un ombrellone aveva provveduto a raccogliere e conservare con tempestività le dita recise in una vaschetta di ghiaccio, che però presto si era sciolto, lasciando galleggiare quattro piccole stecche di carne pallida di diversa lunghezza in un liquido denso e colloso. Raccontaci, abbiamo detto. Lui ha tastato i pantaloni per cercare il pacchetto, ma quando l’ha trovato era vuoto. Aveva le unghie nere e si asciugava il naso con il dorso della mano. Sono entrato dal buco nella rete. Si, figurati, è sfuggito a uno di noi. Se non mi credi, stupido, allora non ti racconto un cazzo. Fatti furbo, gli ha detto un altro. Giuro, vi prendo a calci in culo, ha detto lanciando il pacchetto vuoto. 40
Dai, sputa fuori, ha ordinato il più grande. Come hai fatto? La rete era rotta all’angolo. Mi sono infilato dentro e ho messo tre bolidi nella sputa-palline. Cazzate. Giuro. Mi ci gioco quello che vuoi che non sei stato te. Il parcheggio era deserto, il cancello sigillato. Erano passati tre giorni e l’erba era cresciuta ai lati della terra rossa e nel giardino. Non era passato nessuno a bagnare il campo. Gli ombrelloni erano chiusi, le serrande abbassate. Qualcuno della polizia aveva riparato con del filo spinato il buco nella rete. Nessuno aveva il coraggio di guardare dalle fessure, tranne me. Fammi vedere dov’è successo, ho detto. Nel campo più a sinistra. Non vedo un cazzo. Ti dico a sinistra, ha insistito. C’è ancora la pozza di sangue? E che ne so. Se non lo sai tu, stronzo. Dai, fagli vedere il sangue, ha detto il più grande di noi. Per me va bene, ha detto con aria di sfida. Perfetto, ho detto io. Abbiamo mandato qualcuno sull’albero per controllare che non ci fosse nessuno. Alla prima avvisaglia di pericolo, la vedetta avrebbero lanciato un segnale. Al via libera siamo corsi verso il cancello e abbiamo scavalcato. Io e lui, uno dopo l’altro. C’era un sentiero di pietre 41
che terminava in una scalinata. Lui ha virato a sinistra e si è messo a correre. Quando ho girato l’angolo era già fermo in mezzo al campo più lontano. Ho sentito un frusciare di passi alle mie spalle e mi sono voltato. Il figlio del ferramenta aveva scavalcato. Ci siamo radunati attorno alla pozza di sangue. Sembrava vernice secca, fatta di scaglie dure, crepe sottilissime su una pellicola croccante. Odore di ferro bagnato. Il figlio del ferramenta ha fatto come per inginocchiarsi a toccarla, ma poi quando l’ha vista da vicino ha cambiato idea. Cosa ti avevo detto? Sta’ zitto, ho risposto. Altrimenti che fai?, mi ha provocato. Il figlio del ferramenta ha scalato la salita che portava dai campi alla sommità della collinetta. Ha provato ad aprire le porte dell’edificio, ma erano chiuse. C’era una scala di legno che portava direttamente al tetto. Poi ha visto una manopola e l’ha girata. Un tubo giallo è schizzato sul prato e ha cominciato ad agitarsi come una vipera. Il cemento caldo ha sbuffato vapore, tempestando l’aria di umidità. Altri due di noi hanno preso coraggio e scavalcato. Hanno corso verso le reti del campo da tennis, saltandole come ostacoli. Uno dei due è caduto e si è scheggiato un incisivo. I più furbi tra noi hanno usato un tronco per rompere il filo metallico e riaprire il buco nella rete metallica. Quindi? Altrimenti che fai?, ha ripetuto. Ti faccio il culo, ho detto. 42
Sei più basso di me, stupido. Fa lo stesso. Non mi fai paura. Forse dovrei fartela, secco come sei. Forse dovrei chiuderti la bocca, ho detto avvicinandomi. Mi ha guardato dall’alto in basso. Ha inarcato la schiena all’indietro e mi ha spinto con entrambe le mani a terra. Sono caduto di schiena e non ho potuto rialzarmi che me lo sono trovato addosso. Con le mani gli ho bloccato i polsi. Gli ho sferrato una ginocchiata nel fianco, ma non ha fatto una piega. Sentendo le urla, gli altri si sono radunati. Rompigli il culo, sbraitavano. Ammazza questo stronzo. Dagli una lezione. E, con il passare del tempo, il corpo che tenevo a distanza ha cominciato a pesarmi sulle braccia e a scaldarmi il petto. La sua testa mi faceva ombra. Più passavano i secondi più si avvicinavano i suoi occhi, le sue dita a qualche centimetro dalla mia faccia, sbavando dagli angoli della bocca in un fermento di rabbia. Sempre più vicino. Un centimetro alla volta. Con un colpo di bacino, mi è arrivato con le mai al collo e ha cominciato a stringere. Prima piano, come cercasse la forma. Poi sempre più forte, spremendomi la gola. Che cazzo stai facendo, urlavano gli altri. Sei una femminuccia, gracchiavano. Muovi il culo, merda. Fagli vedere chi sei. Quando la vedetta ha ululato, tutti gli altri si sono dileguati. Ho sentito la stretta intorno al collo 43
allentarsi. Il corpo sopra di me ha smesso di fissarmi e ha alzato la testa. Ho succhiato una manciata di ossigeno e subito dopo ho preso a tossire. Gli occhi mi lacrimavano. La prima cosa a cui ho pensato tornando lucido, l’unica che mi è passata per la mente, è stata di sferrargli un pugno, e così ho fatto. Sulla mascella. Lui è rotolato di lato. Mi sono alzato e ho dato un’occhiata in giro. Il pastore tedesco è spuntato da un angolo. Stavo già correndo verso il cancello. Me lo sono trovato sulla strada. Si è fermato a fissarmi, ha ringhiato. Uno di noi lo ha distratto battendo un sasso sul cancello. Vieni bello, diceva. Vieni da questa parte, stupido cane. Così sono corso dalla parte opposta, su per la scalinata che portava in cima alla collina artificiale, alla fila di ombrelloni chiusi e tavolini piegati. Per di qua, ho sentito dire. Presto. Il figlio del ferramenta era quasi in cima alla scala di legno e guardava verso il basso. Sali. Muoviti. Che dici? Sei stupido, ho urlato. E poi come scendiamo? Sbrigati, ha detto scomparendo. Il cane è riapparso dal pendio correndo nella mia direzione. Sono saltato più in alto che potevo, afferrando un piolo. Quando è arrivato alla base della scala, ero a circa due metri da terra. Non guardare sotto, mi sono ripetuto. Giunto alla sommità della scala, mi sono aggrappato alla grondaia e issato sul tetto. Una tegola è volata giù. Solo allora, guardando 44
verso il basso, mi sono accorto che mi avevano lasciato solo. Potevo vedere tutto da lì. Potevo vedere quelli che scendevano dagli alberi e correvano alle biciclette, e poi via, pedalando al massimo, verso casa. Quelli che attraversavano di corsa i binari e si buttavano nei campi di granturco fino alla provinciale. Potevo vedere il tetto di casa e il palo del telefono che ci attraversava il cortile. Più a sinistra, le fabbriche chiuse, il cotonificio, la laneria. Tutto a destra, sul fianco della montagna, la cava di pietra. Dal tetto vedevo la macchia di sangue sulla terra rossa. Lo stronzo del bolide che correva fino al cancello, scavalcava e fuggendo verso l’erba alta mi faceva il dito medio. In mezzo al prato, usciva ancora acqua dalla pompa gialla e il giardino si era allagato. Alla base della scala il pastore tedesco, seduto, guardava verso l’alto. Pensavo: stupido, direbbe mio padre. Troppo stupido. Figlio mio, devi crescere, direbbe. Devi farne di strada, ragazzo. Devi capirne di cose della vita. Sciocco, ragazzino. Ne hai di merda da mangiare, direbbe, prima di diventare un uomo. Il tempo non ti manca. Usa quella testolina che hai. Pensa, direbbe. Rifletti. Da lì sopra, potevo vedere tutto. Mi sedetti sul comignolo. Oltre l’edificio, dopo la collina, c’erano altri campi da tennis, una piscina, fontane e tendoni bianchi. Siepi con forme strane. E da quella parte, incastrata nella grondaia, c’era una pallina fluorescente finita lì chissà come. Camminai basso cercando di abbassare il baricentro, 45
evitando di scivolare sulle tegole. Allungai il braccio. La afferrai. Mi venne voglia di calciarla. La tenni in mano, con il braccio disteso parallelo al terreno. Con l’altro mi ressi al comignolo. La guardai. Un calcio per la gente che ha mandato tutto in malora, un calcio per i genitori tutto il giorno a casa. Chiusi gli occhi e inspirai a pieni polmoni, soffiando fuori aria sporca. Distesi la gamba all’indietro, caricai al massimo, piegando il corpo in avanti ma mantenendo gli occhi fissi sulla palla. Un calcio per lo stronzo del bolide, un calcio per il pastore tedesco. Aprii la mano e la pallina iniziò la discesa. La coscia si tese, spostai il peso indietro, riportando la testa in asse. Il ginocchio scomparve, femore e tibia disegnarono una sola retta. Colpii la pallina con il collo del piede. Il viso vicino alla zona dell’impatto. Un calcio per chi è rimasto solo. È cominciato tutto con la storia dei polli, dissi. Poi è stata la volta di un cane. La polvere da sparo l’avevamo rubata alla cava. Mi chiesero del sindacalista a cui era esplosa la mano, e io risposi quello che sapevo. Non avevo visto nulla. Nessun volto, nessun nome. Solo delle voci. Magari era stato qualche ragazzo annoiato, un cane sciolto, nulla a che vedere con il mio gruppo di amici. Non scherziamo. Fecero delle ipotesi, dissero che c’entravo qualcosa. Che ci facevo sul tetto? Un giro, ero curioso. Poi il poliziotto più giovane prese uno 46
specchietto e mi afferrò il mento. Tirò via la garza protettiva e per la prima volta vidi il viola del mio occhio tumefatto. Le palpebre erano incollate, mi faceva male muoverlo. Bruciava per la luce. Se restassi guercio, non vorresti che prendessimo chi è stato?, chiesero. Se l’occhio non tornasse normale, non vorresti conoscere il colpevole?
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RAGAZZINO di Gabriella Dal Lago
Il giorno più felice della sua vita inizia con il rumore del chiavistello dentro la toppa, la gabbia che si apre e poi i passi del sorvegliante con le scarpe da ginnastica che s’arrestano proprio davanti al suo muso. Alzati, ché te ne vai da qui, gli dice, e lui non se lo fa ripetere. Il sorvegliante sgancia la catena dal collare che gli cinge il collo: ora il cane può muoversi senza che le maglie d’acciaio della catena inibiscano il suo desiderio di avanzare. Uscito dalla gabbia lancia uno sguardo ai compagni del canile: molti si sono avvicinati alle reti delle gabbie per guardarlo andare, 48
così come anche lui ha assistito alla sfilata di quelli che se ne andavano: abbaiando. Le porte delle gabbie – se ne accorge solo ora – sono in maggior parte reti di materassi. A vederle da fuori, illuminate da una luce che non c’è dentro, le riconosce seppure in posizione verticale, come non le ha mai viste prima: ha già appreso come è fatto il letto di un essere umano, quando era cucciolo, perché ha già avuto un padrone in passato. L’uomo a cui viene consegnato porta delle scarpe di cuoio marroni e un paio di pantaloni scuri che lasciano intravedere i calzini: ha forma e voce diverse da quelle del sorvegliante con le scarpe da ginnastica – più profonda la prima, più rotonda l’altra – ma pare essere come quello un uomo adulto, quasi vecchio. Dal basso, il cane vede la pancia premere contro i bottoni del camiciotto a quadri. L’uomo firma le carte e saluta il sorvegliante, che si raccomanda con lui dicendo cose come Fallo mangiare, eh, oppure Mettilo nel bagagliaio per il primo viaggio; l’uomo annuisce, poi, fa salire il cane in auto, una macchina alta e lunga: l’ha appena sistemato nel bagagliaio quando lo guarda e Ma vaffanculo dice, e lo fa sedere sul sedile del passeggero, quello accanto al suo. È mattina, fa fresco: l’uomo guida tenendo il braccio sinistro poggiato fuori dal finestrino, e fischietta. Il cane titubante annusa la coperta su cui è seduto, sa di sudore e di caldo. Abbaia in direzione dell’uomo, che con una mano, senza timore, lo tocca sulla nuca: anche in quella mano sente sudore, terra, 49
sole. Smette di abbaiare; si guarda intorno, volta il muso verso il finestrino abbassato: il vento gli rimpicciolisce gli occhi a due fessure, mentre il paesaggio sfila via. Mugola. Il cane capisce che sono arrivati quando l’uomo parcheggia l’auto vicino a una casa bassa, di pietra grigia. Un orto cresce vicino a un capannone di legno, sulla destra dell’edificio. L’uomo spegne il motore e il rumore che li ha accompagnati per l’intero viaggio – un viaggio lungo, dal limitare del bosco al centro abitato – s’interrompe. Il cane lo segue con lo sguardo mentre scende dall’auto, apre la portiera del passeggero e si ferma a osservarlo: l’animale fa per saltare giù dal sedile, No, aspetta, dice l’uomo. Dalla tasca posteriore dei pantaloni sfila un collare nuovo, rosso, con una targhetta di metallo: lo sostituisce a quello del canile. L’uomo smette di essere uomo e diventa padrone. Il cane e il padrone entrano in casa e in cucina c’è una donna in ciabatte, girata di schiena verso il lavello. Ha in mano un coltello che usa per tagliare qualcosa. La donna si volta e chiede Cos’è questo. Cosa vuoi che sia, dice il padrone, è un cane. La donna Intendo dire se è nostro, dice. No che non è nostro, è mio, l’ho preso per me. La donna abbassa la testa e il padrone dice Volevo dire che non te ne devi occupare perché ci penso io. Lei torna a guardarlo, Sai che non mi piacciono gli animali. E il padrone Ci penso io, ripete, Ci penso io perché il dottore ha detto che mi fa bene pensare a un cane. La donna si volta e riprende ad affettare, Come vuoi, 50
dice. Il cane sta vicino alla porta e memorizza l’odore della donna che è anche l’odore della stanza, dissimile da quello del padrone e dell’auto: acre e stantio, di vecchiaia. Vieni bello, dice il padrone uscendo dalla stanza, Vediamo se in casa c’è qualcosa che può essere utile. Il cane gli trotterella dietro, deve ancora prendere agio con il proprio corpo tra le pareti di quella casa; la nuova disposizione degli spazi, del tutto differente dalla piccola porzione di mondo che gli era concesso esplorare nel canile, impaccia i suoi movimenti: così accade che vada a inciampare in un tappeto, sbatta contro gli spigoli, faccia cadere oggetti posati sul tavolino basso della sala. Sta’ attento bello, gli dice il padrone che entra e esce dalle stanze. Non ho mai avuto un cane, gli racconta, Non credo di essere ancora ben attrezzato, ho solo comprato il collare e una ciotola, stamattina. Il padrone si accuccia e i loro occhi si trovano per la prima volta alla stessa altezza e il cane pensa che il padrone non deve preoccuparsi perché un cane e un padrone, lui lo sa, sono legati da un rapporto di fiducia profonda e questa fiducia nasce prima di tutto dal cane stesso, che sempre deve affidarsi alle scelte del padrone. Pensa che tutto andrà bene. È il giorno più felice della sua vita. A pranzo la donna inizia a fare domande al padrone. Come pensi di chiamarlo, gli chiede. Non ci ho ancora pensato, dice il padrone. Il cane è accucciato ai piedi del tavolo e sta con il muso poggiato sulle zampe anteriori, vede le gambe delle sedie, del tavolo, dell’uomo e della donna, 51
sente le loro voci. Poi il padrone dice, Ragazzino. Lei sta zitta un attimo, poi Ma si può sapere che nome è, Ragazzino, chiede. Uno come un altro, le dice lui. E poi sono io il padrone, aggiunge. Lo chiamo come voglio, e voglio chiamarlo così. Si chiama Ragazzino e me ne prenderò cura. Il cane smette di essere cane e diventa Ragazzino. Inizia dal giorno più felice della sua vita il periodo più felice della vita del padrone e di Ragazzino. La mattina si svegliano e vanno a passeggiare nei boschi; esplorano la valle, guadano i fiumi, si fermano a sedere su massi e prati, vanno in paese e il padrone compra il giornale, poi guardano le vetrine del macellaio, del venditore di formaggi, le cassette della frutta al mercato in piazza. Spesso il padrone trascorre i pomeriggi nel capanno accanto a casa e lavora il legno. Ragazzino si accuccia sotto il tavolo da lavoro e i trucioli si poggiano sul suo muso e lo fanno starnutire. Questo fa ridere il padrone, dunque fa felice Ragazzino. Un pomeriggio a settimana il padrone prende l’auto e va via senza Ragazzino, che ha l’ordine di rimanere in cortile o nel capanno della falegnameria fino al suo ritorno, e di non disturbare la donna in casa. Torno presto, Ragazzino, gli dice il padrone accarezzandogli la nuca, Vado dal dottore. Ragazzino scodinzola e perdona l’assenza, fidandosi della promessa del padrone: consuma poi l’attesa scavando buche nel cortile o inseguendo lucertole nel 52
capanno. La donna non va mai a cercarlo, ma se lo incrocia non gli nega una carezza: Ragazzino sa che non lo ama ma lo ha accettato, e questo gli basta. Quando il padrone torna Ragazzino gli fa le feste e insieme fanno una breve passeggiata in paese, prima che sia ora di cena. Durante quei giri serali, il padrone si fa taciturno e pensieroso; solo una volta dice Il dottore è molto felice che io mi prenda cura di te, Ragazzino. Tornano a casa per cena. Poi un giorno accade qualcosa che sorprende Ragazzino, una cosa che Ragazzino non si aspetta né capisce, fatto sta che stanno camminando per la valle, come tutti i giorni, e stanno seguendo il solito sentiero lontano dalle case, quando il padrone si ferma, dice Ragazzino, oggi si va per di qua e prende una strada che non hanno mai preso insieme, che passa attraverso gli alberi e conduce in un posto abbandonato con una casa e, di fronte alla casa, dei binari. è il padrone a chiamarli così, Ecco i binari, dice ad alta voce: li raggiunge, gira su se stesso, osserva il posto. Ragazzino lo segue, con le zampe s’infila nei vuoti dei binari. Il profumo dei pini lo stordisce. Era un po’ che non venivo qui, dice il padrone. Ragazzino pensa che sia il momento di fare un gioco quando il padrone raccoglie un ramo da terra e va verso di lui. E invece, invece di giocare, invece di lanciare il ramo e aspettare che lui lo riporti indietro, il padrone inizia a dare il ramo sulla schiena di Ragazzino, prima piano poi sempre più forte, e mentre lo 53
fa, mentre lo picchia con il ramo, si mette a piangere. Ragazzino lo vede che piange mentre lo picchia. La schiena gli fa male, ma ancora di più gli fa male vedere il padrone in quello stato, con la faccia rossa e le guance bagnate: è per quello che guaisce, non per il dolore fisico ma per fare compagnia al padrone. Quando poi smette di picchiarlo, il padrone cade sulle ginocchia e nasconde il viso tra le mani, Che cosa ho fatto Ragazzino, l’ho fatto di nuovo, dice Scusami Ragazzino andiamo via. È Ragazzino a fare strada verso casa, a portare al guinzaglio il padrone fino al centro abitato; lui non parla, si chiude in camera e non risponde ai colpo battuti sulla porta dalla donna, che s’arrende e va a dormire sul divano. Ragazzino rimane tutta la notte a vegliare la porta del padrone. Ha così inizio il periodo triste della vita del padrone e insieme di Ragazzino, che è un cane fedele e per questo sente ciò che il padrone sente. Vanno per i boschi e meno spesso in paese, e niente è come prima: il padrone ogni tanto piange, ogni tanto picchia Ragazzino che guaisce insieme a lui. Ragazzino capisce che il posto abbandonato fa male al padrone, che lo fa diventare violento e risveglia un dolore che il padrone ha nascosto da tempo, e per questo cerca di opporsi quando il padrone lo porta per il sentiero che conduce ai binari: ma a nulla servono le sue resistenze, il padrone è forte e se 54
è costretto lo trascina per il guinzaglio. Il collare gli taglia il collo. I giorni in cui viene lasciato da solo sono sempre meno frequenti, fino a quando il padrone smette del tutto di andare dal dottore, diventa ancora più rabbioso, e quando una volta a cena la donna gli chiede Perché non stai più andando dal dottore, Sta’ zitta bagascia, le risponde lui, Te non ti devi impicciare ché non sai niente, devi farti gli affari tuoi. La donna gli dice di calmarsi e lui urla più forte e allora lei si spaventa, Sei andato alla ferrovia, vero gli chiede e lui ora è paonazzo e sbraita Lurida troia ti ho detto che non devi impicciarti e mentre lo dice rompe un bicchiere a terra e i vetri arrivano fino alle zampe di Ragazzino che guarda la scena accucciato vicino al lavello, poi il padrone si alza da tavola spingendo indietro la sedia che cade sul pavimento e si butta addosso alla donna. Così al pianto del padrone e al guaito di Ragazzino s’aggiunge il pianto della donna, che tenta di proteggersi con le mani sulla testa, neppure riesce ad alzarsi mentre il padrone la picchia e urla e piange e la graffia e urla e piange più forte. Ragazzino guaisce e non sa cosa fare, perché un conto è essere fedele al padrone quando lo picchia, quando se la prende con lui, ma come si deve comportare quando il padrone fa male alla donna, questo si chiede Ragazzino mentre la donna singhiozza. Ragazzino non ha più dubbi nel momento in cui il padrone afferra il coltello: si avventa sul polpaccio destro del padrone e morde e ringhia. I denti di Ragazzino trovano la carne e il padrone 55
urla di dolore e lo caccia con un calcio e si volta verso di lui impugnando il coltello, Bastardo sei solo un bastardo, il punto in cui il padrone lo ha colpito fa male, Ragazzino schiuma dalla bocca e il padrone sta per piantargli il coltello in gola quando Fermati, dice la donna. È per terra, le mani ancora alzate sulla testa come le teneva prima, per proteggersi. Lascialo stare, ha la voce rotta, Cosa c’entra il cane. Sta tutto nella tua testa. Il padrone blocca il movimento in aria. Non ha smesso di piangere ma non urla più. Lascia cadere il coltello a terra. Andiamo, dice, Andiamo Ragazzino. Ragazzino ha paura ma sa che allontanare il padrone dalla casa in cui c’è la donna è la cosa giusta da fare. Lo segue. Il padrone continua a piangere. Chiude la porta dietro di sé, accelera il passo: ha preso il guinzaglio ma non l’ha legato al collo di Ragazzino. È sera, la valle già buia. Ha piovuto, c’è umidità nell’aria e le piante, la terra, la pioggia, tutto si uniforma in un odore spesso, dolciastro. Percorrono il sentiero che va verso i boschi, lasciandosi alle spalle il centro abitato. Piegano per una collina, raggiungono la stazione abbandonata. Il padrone si ferma accanto a un albero e aspetta Ragazzino. Ragazzino indugia perché lo teme. Vieni qui, dice il padrone, Non ti voglio fare del male. Il padrone lega il guinzaglio al collare. Poi con una mano gli carezza la testa, la schiena, arriva fino alla coda: Ragazzino lo sente tremare. Mi dispiace che non sono riuscito 56
a prendermi cura di te, Ragazzino, gli dice, e Ragazzino gli crede. Ti ho portato qui per salutare, aggiunge. Passa il guinzaglio attorno al tronco dell’albero, poi stringe con un nodo. Non puoi venire con me, Ragazzino. Ragazzino sa che ora gli sono permessi solo pochi passi nel mondo. Il padrone lo guarda, Ragazzino abbassa le orecchie mentre lui si volta e va verso la ferrovia. Il padrone mette i piedi sui binari, cammina un po’ in equilibrio con le braccia aperte: ci riesce per un tratto breve, Ragazzino lo vede in lontananza grasso e vecchio. Oltre la ferrovia s’infittisce il bosco: il padrone va lì, senza voltarsi. Ragazzino guarda il padrone, che smette di essere padrone e ridiventa uomo ed entra nelle braccia degli alberi e sparisce tra i tronchi. Poi Ragazzino guaisce, s’accuccia, aspetta.
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IL METODO È TUTTO di Lucia Moschella
Ancora con il completo scuro della chiesa, Stefano è sceso nel garage del nonno, nella Stanza del grasso. Niccolò lo guarda dalla porta. Anche lui è ancora vestito elegante e ha un gran mal di testa e gli occhi gonfi. Di certo, la Stanza del grasso è l’ultimo posto dove sarebbe andato lui. Ma la gente dentro casa è tutta grande e c’è una brutta aria: non è un posto per loro. Niccolò guarda il fratello al centro della stanza: la porta vetrata è chiusa, e dal vetro opaco entra forte la luce del giorno. Stefano ha capovolto la bici a terra, su manubrio e sellino, in modo che stia ben salda, come ha insegnato loro il nonno. Tocca le ruote e le fa girare. 58
“Che fai?”, chiede Niccolò a voce bassa. Stefano sospira un attimo. “Eh, che fai?”, ripete. “Devo aggiustarla.” “Che è successo?” Stefano non risponde. Allora Niccolò entra e si mette dall’altro lato della bici a guardarlo. Fa caldo e Stefano, sudaticcio, continua a far ruotare le gomme su se stesse, a osservarle, come in trance. Poi le preme con le dita. Niccolò sente le voci basse chiacchierare dentro casa, qualche rumore di sul pavimento sopra di loro. “Quindi?” “La gomma. Ha un problema.” “Ieri era perfetta, l’ho guidata. E da ieri non l’abbiamo usata.” Ovviamente da ieri non l’hanno usata. Sono rimasti chiusi in casa tutto il giorno, tutti quanti. La ruota non sembra avere nessun problema. Stefano sbuffa. Niccolò sa che il patto per rimanere lì con suo fratello è non dire, non commentare. Respirare appena è più che sufficiente. È il manuale di sopravvivenza dei fratelli minori. Stefano ha sempre curato molto quella bici, e a maggior ragione oggi. Perciò sono eleganti nella Stanza del grasso. E nonostante sia un po’ strano trovarsi lì adesso, Niccolò si sente molto più a suo agio che in salone al piano di sopra, per esempio. È inizio giugno: l’aria è calda e la luce chiara. C’è un odore di grasso e gomma e sporco, come 59
sempre. Tutto è in ordine: le chiavi appese al muro, gli scaffali con le vernici, ordinate per colori. Il metodo è tutto, si sente ripetere in testa Niccolò. Nonostante sia stata pitturata quasi un anno fa ormai, la mano di vernice rossa della bici che loro tre insieme, lui, Stefano e il nonno gli avevano dato, è ancora accesa. Una Mountain Bike: quando il nonno l’aveva portata a casa dopo averla trovata in un vallone, lui e suo fratello avevano litigato per ottenerla. Alla fine il nonno aveva detto che spettava a Stefano, che era più grande. Quindi era lui che aveva deciso il nuovo colore, il nuovo sellino, tutto. Stefano prende la cassetta degli attrezzi, estrae le chiavi inglesi e ne prova diverse sul bullone che unisce la ruota posteriore al telaio. L’aria è una cappa. Da sopra i passi si sono fermati, e adesso c’è una voce sola, di qualcuno che parla a voce più sostenuta. Niccolò sa che la ruota posteriore è molto più difficile da togliere della ruota anteriore. Sa anche che per svitare la ruota di quella bici bisogna svitare contemporaneamente i bulloni da tutte e due le parti. E mentre Stefano ha incastrato la sua chiave inglese nel bullone dal suo lato, Nicolò prende una chiave 15, la incastra nel bullone e guarda il fratello per aspettare che dia il via. “Che cazzo vuoi?” Niccolò rimane un attimo a guardarlo. È così che hanno sempre fatto. In due. “Ti volevo aiutare.” 60
“Non c’è bisogno.” Niccolò si allontana dalla bici, lascia cadere la chiave inglese a terra e senza dire una parola va a sedere sulla poltrona di pelle consumata all’angolo del garage. Toglie la giacca e rimane con la camicia bianca, che sente appiccicarsi alla pelle. Stefano raccatta la chiave da terra, prende quella che aveva usato per ultima e tenta di svitare i bulloni contemporaneamente. La bici si muove. Niccolò fa uno scatto sulla poltrona come per intervenire. Fanculo, pensa poi, e torna a sedere. Stefano riprova ancora: niente. Quindi scavalca la canna della bici dall’interno e stringe le ginocchia sulla ruota. A cavalcioni su di essa ricomincia ad allentare i bulloni. Stavolta sembra farcela, anche se i bulloni forse sono troppo stretti, perché il viso gli si contorce e lui mostra i denti per lo sforzo. “Vuoi che…?” “No”, risponde secco Stefano, che continua, continua, stringe la bocca, fa forza sulla chiave e fissa un punto vuoto sul pavimento. A Niccolò batte il cuore, perché saprebbe davvero come aiutarlo, per via del tempo che ha trascorso a guardare il nonno, ma lui non vuole aiuto. Nel garage quasi non si respira più. I suoi avambracci poggiati ai braccioli s’incollano alla pelle del divano, che ha sempre puzzato di vecchio. Stefano ce la fa. I bulloni cedono e le mani scivolano giù insieme alle chiavi. Dà un altro paio di giri per allentare, ricaricando il movimento, 61
poi butta le chiavi a terra e continua a svitarli a mano contemporaneamente. Gli ospiti di sopra ridono. A quel punto Stefano prende la ruota in mano per tirarla fuori. È incastrata al freno, ovviamente, ma lui tenta di tirarla. Stringendo il telaio con una mano tira la ruota in direzione opposta, senza muoverla. “Il…” “Zitto. Lo so.” Quindi Stefano posiziona di nuovo la bici, lavora ad allentare i freni con forza. Non cedono. Riprova. Non cedono. Riprova. Riesce. Niccolò, sprofondato sulla poltrona, riesce a caricare sulla schiena il peso del suo corpo, a darsi una spinta, e quando è in piedi si avvicina alla porta per aprirla. Fa tutto con passi lenti e silenziosi, come quando Stefano dorme e lui deve alzarsi, in mezzo alla notte, per andare a bere un bicchiere d’acqua. Quasi alla maniglia, sente un “Oh!” di suo fratello. Si gira e lo trova a fissarlo con le labbra contratte, ostile. Si muore, qui, Niccolò vorrebbe dirglielo, ma deve rimanere lì, e per rimanere lì deve star zitto, quindi non ribatte né apre la porta. Torna alla poltrona e vi si accascia. Stefano stacca le mani dalla bici, coperte di grasso e nero. Ci si stringe il naso, da cui cava forse del moccio, annerendo tutto, poi le passa sulla fronte, che si annerisce, e sui capelli, che per il sudore rimangono all’indietro. Leva la giacca scura. Sbottona i polsini della camicia, li ripiega alla meno peggio e ricomincia. Smuove 62
la ruota con follia, nervosismo. “La catena”, riesce a sussurrare Niccolò, prima che il fratello sganci la catena, la butti giù, e afferri la ruota, Niccolò che si rannicchia sulla poltrona e si protegge il viso, Stefano che scaglia la ruota in direzione della poltrona dov’è seduto lui. La ruota becca lo schienale della poltrona, appena accanto a lui, gli rimbalza addosso e casca per terra. Quando ritorna il silenzio, Niccolò trova il coraggio di parlare. “Sei cretino?”, lo accusa, mentre il cuore batte all’impazzata ed escono delle lacrime. Stefano respira rumorosamente, il petto si raddoppia e si dimezza, poi chiude gli occhi e inghiotte. Va a sedersi a terra con le spalle al muro dall’altra parte del garage. Niccolò aspetta immobile sulla poltrona. Piange. La gente continua a ridere. “Devo cambiare la camera ad aria”, dice poi Stefano. Niccolò pensa che vorrebbe ammazzarlo e farebbe bene. Pensa che potrebbe salire su dalla mamma e lei scenderebbe e lo metterebbe in punizione in camera sua. Poi pensa che l’unica cosa che vuole è rimanere con lui, adesso, e che restare solo sarebbe una punizione più per lui che per suo fratello. Si alza in piedi, raccatta la ruota. Svita il cappelletto, preme e la sgonfia. Prende la forchetta, ne infilza il manico tra cerchio e gomma, facendo leva nel tentativo di farla fuoriuscire, ma è durissima e non riesce nemmeno a scostarla. Forza più che può, senza cavarne niente. 63
Sente il corpo di suo fratello dietro di sé. Ha paura che possa fargli del male, anche se sa che non è cattiveria: sono tutti un po’ nervosi. Respira più velocemente per un attimo e poi Stefano si allontana leggermente dal suo corpo e gli parla con voce calma: “Spiegami cosa devo fare”. Niccolò lo guarda. Quella è una frase che di solito dice lui a Stefano. È una frase che si dice a qualcuno di più grande. Lui non ha riparato più bici di suo fratello. Nessuno dei due ha mai riparato una bici. Hanno solo visto il nonno farlo. “S’infila la forchetta tra la gomma e il cerchio”, dice Niccolò, e, mentre tenta di farlo, muove le mani intorno alla bici, simulando, quando non riesce, i movimenti con le dita, che scopre nere. “Poi si fa leva, così la gomma esce fuori e si continua a fare tante volte, in modo che la gomma esce tutta.” Stefano continua quello che Niccolò stava facendo. Lui, avendo sei anni in più del fratello, diciassette, ha più forza, e riesce meglio. Sganciata la gomma dal cerchio, porge a Niccolò la camera ad aria. Niccolò la rigonfia con la pompa e la mette a bagno in un catino d’acqua, che s’ingrigisce presto. Tasta la camera dentro l’acqua, perché il punto in cui è forata sarà quello da cui usciranno delle bollicine. Pigia bene e lento su tutta la circonferenza, senza trovare nessun buco su tutta la superficie. Cerca Stefano per farsi spiegare, lo ritrova alla bici che preme la ruota anteriore. 64
Niccolò avvicina gli occhi al catino d’acqua per guardare meglio. Con entrambe le mani a cingere la camera ad aria, preme lentamente, ma l’acqua non si muove né c’è traccia di fuoriuscite d’aria. Continua per tutta la circonferenza. Accosta l’orecchio per sentire dove sia la perdita. Anche stavolta non sente niente. Quindi la estrae dal catino e l’asciuga con un panno. Si volta verso Stefano, sta quasi per dirgli Hai visto, avevo ragione io, ma Stefano sta gonfiando la ruota anteriore della bici con la pompa e sembra più sereno. Sente solo il sibilo dell’aria riempire la gomma. Niccolò prende il tubetto di mastice e lo spreme in più punti della camera ad aria. Stefano ha svitato il campanello della bici e lo sta pulendo con un panno: Niccolò continua. Fa tutto come se stesse davvero riparando un buco, o venti buchi, quello lo sa fare, perché il nonno gli aveva sempre chiesto di farlo, sin da molto piccolo. Prende il mastice, suo fratello fa scattare il campanello della bici, facendolo risuonare nel garage, Niccolò lo ritrova accovacciato a terra che sorride. Ritorna alla camera ad aria. Versa il mastice a presa rapida su un punto e tappa con una striscia di gomma, che taglia dal rotolo per le riparazioni, versa dell’altro mastice e taglia un altro lembo di gomma e versa mastice e taglia gomma, copre e tappa, e continua, un buco dopo l’altro, come faceva insieme a suo nonno, mentre il campanello continua a suonare. 65
SEMPRE DRITTO, CON ETERNA CURA di Luca Vallese
Sono in auto e per Lei il silenzio è come un laccio. È la passeggera che tamburella sul poggiagomiti della portiera mentre Lui guida con le mani alle dieci e dieci ben strette sul volante e il sedile troppo indietro rispetto alla schiena curva. E la portiera scotta e ha l’odore acido di plastica lasciata al sole. Il condizionatore ci mette un po’ a raffreddare l’aria, che ora sembra provenire dal centro della terra. 66
“La prima macchina che ho comprato era una Fiat 1100 D blu, cinquanta anni fa”, ha detto Lui al venditore con cui ha firmato il contratto di acquisto, due settimane prima. “Non ce l’aveva l’aria condizionata.” Lo ha detto tenendo stretta la mano del venditore che è piegato in avanti sopra la scrivania e ha le spalle della giacca sportiva che a causa del braccio teso si sono alzate e formano un angolo strano, incassandogli il collo e facendolo sembrare goffo. “Ma lei è giovane, che ne sa lei dei sacrifici.” Forse è una battuta, ma Lui non sorride. L’addetto alle vendite ha quarantacinque anni e una figlia di sedici anni affetta dal Sarcoma di Ewing, a causa della quale passa cinque notti su sette all’ospedale ed è troppo stanco e contento di aver concluso la lunga trattativa di vendita per smettere di sorridere e provare a ribattere qualcosa. Lei è seduta sulla sedia di fianco, con la borsa in grembo, guarda entrambi con un’espressione di disarmante normalità che il venditore ha già deciso, dal Loro quinto incontro-esplorativodi-raccolta-informazioni, tre settimane prima, di non cercare più di interpretare o decodificare in alcun modo, rimanendo piuttosto nei comodi limiti previsti dal proprio mestiere. Per cui nell’abitacolo insonorizzato l’aria è ferma e calda. Il paese di mare dove hanno la casa estiva da cui sono appena partiti in fretta e furia, due minuti or sono, scorre ai lati della 67
lunga strada dritta che da lì va fino in città, a un centinaio di chilometri nell’entroterra; per i primi cinquanta metri Lei ha fatto finta di sistemarsi la gonna sul sedile bollente in modo da riuscire a sbirciare nello specchietto di destra quella casa a un piano, con le pareti color caffè e il tetto marrone, che hanno costruito quando il paese di mare era ancora molto più vicino ad assomigliare all’aperta campagna che a un’affollata località balneare. Precisamente, tre settimane prima della firma del contratto, durante la quinta delle dieci visite totali della coppia in concessionario dedicate alla raccolta a tappeto di informazioni riguardo a un particolare modello di auto a cui sono interessati, l’addetto alle vendite ha provato a coinvolgerla improvvisando sul momento una variazione sul tema a uno dei discorsi affabulatori standard riguardo le qualità generali dell’auto che lui, dopo gli ultimi sei mesi di carenza di sonno passati a contatto coi clienti nel Reparto Vendite, ormai, per così dire, rappa. “Avrete notato che il bagagliaio è di grandezza sproporzionata rispetto a quello che ci si aspetta guardandola da fuori.” Si è girato verso di Lei, verso la tinta fresca di parrucchiere e la sua espressione che lui è riuscito a definire solo come normale, neutra anche se in modo così fisso da sembrare vagamente angosciante. “Ha dei nipoti, signora? Con tutto questo bagagliaio potrebbe fargli la spesa per una settimana.” Lei lo ha guardato e si è messa a ridere, ma 68
solo con la bocca. Quindi il finestrino della nuova auto attraverso il quale guarda fuori è impolverato a causa della brezza serale carica di polvere di sabbia, che viene su dritta dal mare, e dello smog, particolarmente concentrato nella via. Da molti anni Lui e Lei sono soliti passare, nella casa al mare, tutti i mesi estivi fino al primo di ottobre. È la Loro valvola di sfogo a qualcosa che si accumula durante l’inverno nel paese dell’entroterra in cui avevano messo su famiglia, una sensazione a cui, dopo tutto quel tempo, nessuno dei Due sa ancora dare un nome. Sul parabrezza invece i tergicristalli hanno pulito con efficienza e accumulato un misto di sapone e grumi di polvere al limite del loro raggio d’azione. Così davanti la visuale è quella di una cornice di terra bagnata che si apre su una strada illuminata da un sole impietoso, sorto dall’acqua da circa tre ore. Se nel senso di marcia dell’auto la strada è significativamente sgombra lo stesso non può dirsi per il senso opposto, in cui i semafori creano lunghe file di auto, e soprattutto non può dirsi per ambo i lati non carrabili, dove due fiumi di bagnanti seminudi, carichi di ombrelloni, borsoni, giocattoli e bambini passano davanti alle auto parcheggiate e ai cancelli delle case cercando di approfittare di una delle ultime giornate di sole della stagione. È domenica e il caldo sembra aver stordito le persone e sbollentato gli oggetti, con il risultato 69
che tutto, pur muovendosi a velocità normale, sembra avere la stessa consistenza delle cose lavate troppo, e a temperature troppo alte. Lei alterna occhiate inespressive a ciò che avviene fuori a occhiate inespressive alla vena che spunta e pulsa dietro l’occhio destro del marito e alle goccioline di sudore che dalla sua tempia scivolano giù e si raccolgono in un’unica grande goccia sotto il mento, che da alcuni minuti pende sul colletto aperto della camicia a righe che Lei gli ha stirato in fretta e furia circa un’ora prima. Lui tiene lo sguardo fisso al semaforo successivo e accelera quanto e quando può. Due ore prima Lui è spuntato in sala direttamente dall’orto che hanno dietro casa, “Andiamo via”, ha ruggito, e poi è andato a lavarsi. Lei lo ha inseguito per il corridoio fino al lavandino del bagno solo per sentirlo borbottare, mentre era intento a lavarsi le ascelle, frasi sconnesse su qualcosa riguardante la lunga diatriba che suo marito e il fratello di suo marito hanno con i proprietari dei terreni agricoli vicini, nell’entroterra, cose che Lei, in fin dei conti, ci ha riflettuto quando Lui ha cominciato a sbattere le porte e tirare giù le serrande, non ha davvero nessun intenzione di ascoltare. Così è andata in camera e ha fatto le valigie, poi è rimasta in sala ad aspettarlo. La prima estate che si erano stabiliti lì Lei aveva ricoperto i mobili con foto incorniciate 70
del figlio, come d’altronde era nella casa principale. Poi una mattina si era svegliata e il marito le aveva tolte tutte. Questa è la casa del mare, aveva detto. E allora le Loro natiche si incollano ai sedili in mezzo alla calura e al silenzio dei rumori del traffico e delle persone attuttite dalla buona insonorizzazione, ottima per il rapporto qualità/prezzo, che garantiscono le guarnizioni dell’auto per la quale hanno a lungo risparmiato, lesinando su un sacco di cose come l’utilizzo degli elettrodomestici e della luce in generale, sugli spostamenti. Hanno risparmiato e continuano a farlo perfino sulla dispensa, che Lei cerca da sempre con orgoglio di mantenere variamente fornita e al sicuro dai commenti sarcastici del marito, che comunque si ostina a distribuirle a tal proposito una quantità sempre più risibile di euro. Così spesso è costretta a lunghe camminate per raggiungere il lontano hard discount, fuori città, invece dell’emporio di quartiere; camminate che, unite al peso dei sacchetti della spesa, alla lunga l’hanno portata a mantenere un livello di forma fisica e resistenza tutto sommato invidiabili per una persona di settant’anni, e che adesso fanno sì che mentre il marito boccheggia con la faccia paonazza rivolta alla strada congestionata, in tutte le direzioni tranne che davanti, Lei sia tutto sommato a suo agio nell’aria lavica che esce da tutti i bocchettoni spalancati. Comunque l’isolamento acustico dell’auto è 71
davvero ottimo, e dentro, il silenzio promesso dalla pubblicità, è veramente quasi silenzio. Dal portaoggetti sotto la plancia centrale dell’auto spunta un vecchio coltello a serramanico Opinel, un oggetto a cui il marito è affettivamente molto legato per misteriose ragioni di gioventù anteriori al Loro matrimonio e quindi ai fatti legati al Loro unico figlio, il cui volto campeggia anche nei Loro portafogli e, pressoché continuamente, nelle Loro menti. Ciò nonostante il coltello ha incisa sul manico di legno lucido proprio la data precisa di quel fatto particolare riguardante Loro Figlio, che è il motivo per cui tutti quelli che sono a Loro vicini pensano, senza mai dirlo, che esso sia una specie di voto di vendetta violenta nei confronti delle persone coinvolte in quello che è successo. Nessuno si è mai azzardato a chiederlo a Lui. Dalla camicia aperta si intravede il luccichìo di una catena d’oro a cui è appesa la fede nuziale, fede che Lei porta al dito, anche se per una banale questione di immagine. Lei pensa che le brevi occhiate che Lui lancia al coltello chiuso, e in generale il suo attaccamento per quel coltello in particolare, siano una specie di tic che non ha nulla a che vedere con la reale volontà di compiere azioni violente contro terzi, né per i fatti passati né, nonostante la sua furia evidente, per i problemi di spartizione coi vicini delle riserve idriche per l’annaffiatura estiva delle terre che ogni tanto mandano letteralmente ai matti suo marito, e che hanno 72
fatto sì che facessero armi e bagagli e partissero alla volta di casa un mese prima del previsto, senza salutare nessuno. Comunque è proprio in uno di questi momenti, in cui suo marito sta prestando una rapida ma solida attenzione al coltello e non alla folla di persone che costeggiano la strada, non abbastanza comunque da rallentare la velocità andante dell’auto, che Lui strabuzza gli occhi emettendo uno strano gorgoglìo strozzato con la voce, e si allunga rigido all’indietro, sullo schienale del sedile. Lei, che sta passando in rassegna tutto quello che l’aspetterà in termini di lavori domestici una volta arrivata a casa, avverte i movimenti bruschi del marito con la coda dell’occhio, che nel frattempo stacca la mano destra dal volante e, con un movimento convulso, se la porta al petto. Le cose avvengono con una velocità che Lei non riesce più a seguire. Se il tempo passa non se ne è accorta. Si gira verso di Lui e vede con impressionante nitidezza le rughe intorno ai suoi occhi sbarrati e alla sua bocca contratta, la barba dura che già spunta dalla rasatura del mattino, le macchie marroncine della pelle sulle tempie, i nei e le cicatrici bianche che risaltano con l’abbronzatura; vede le componenti del suo viso ma non riesce a ordinarle in maniera coerente, nel tentativo che fa il suo cervello di escludere un’implicazione di quello che sta accadendo. Dura un tempo che sembra un altro ed è il martellare costante del suo desiderio di 73
eliminare ciò che nella vita ha la possibilità di essere grande e terribile. È una cosa che, senza volerlo, ha elaborato subito dopo quello che è successo a suo Figlio, e che ha funzionato per ogni successivo singolo istante di veglia per così tanto tempo da diventare una specie di rumore di fondo comportamentale. E ora che suo marito abbandona del tutto il volante e raccoglie le mani aperte all’altezza del petto il suo è un desiderio di fuga talmente urgente, le sbraita così forte nelle orecchie, che dopo anni di involontario esercizio di negazione, di ridimensionamento, di allontanamento, ne acquisisce una nuova, spiazzante e subitanea consapevolezza. È a quel punto che, mentre il marito si irrigidisce sempre di più con gli occhi rivolti al nulla rappresentato dal parasole sopra il parabrezza, Lei afferra il volante automaticamente, con entrambe le mani. E allora sente il materiale gommoso del volante che affonda leggermente quando Lei stringe i palmi fino all’anima d’acciaio nascosta al suo interno. Sente con incredibile nitidezza le scanalature incise sulla plastica morbida e la differenza di calore e di umidità nei punti dove erano strette le mani del marito. Sente le vibrazioni che salgono dall’asfalto su per le ruote, in tutto il telaio. Avverte la coscia destra del marito che si irrigidisce a contatto con il suo seno sinistro e spinge sull’acceleratore che ora è a tavoletta. Ascolta il suono del motore che aumenta i giri e da rumore diventa un urlo. 74
Sente il marito tremare mentre ascolta il lieve schiocco che fanno le sue labbra che si aprono e si chiudono boccheggiando nel tentativo di pescare nuova aria, Lei che ora ha gli occhi affissi allo spazio oltre il vetro temperato dove vede il mondo esterno che è pieno come non si era mai accorta, pieno e incredibilmente vicino, senza nessuno spazio libero per Lei e per l’auto che corre ed è tramortita dalla quantità e dalla qualità dei dettagli che esistono l’uno sull’altro senza motivo né riposo, e tutto quello che può e riesce a fare è aggrapparsi ancora di più al volante e promettersi di non staccare mai le mani, mai, nemmeno per provare a girare la chiave, perché la testa e il suo corpo si sono congelati in quella posizione con le braccia dritte in avanti di fianco all’uomo con cui realizza in quel momento di avere vissuto la maggior parte della propria vita, mentre sente la pelle della spalla tirarle per la cinta che si è bloccata, sente l’odore secco dell’aria gonfia di polvere di sabbia che ora avverte su tutti i pori della faccia e che le gonfia i capelli. Vede le file di auto da una parte, i fanali accesi, la persone che si sorprende a trovare dentro, le forme e gli spigoli del metallo, vede la cromatura e i vetri che riflettono il sole alle sue spalle, e dall’altra parte la marea delle persone, vede tutto insieme, i loro capelli, i nasi e l’ombra che lasciano sul viso, tutte le guance, le orecchie, la forma delle loro mani che stringono cose, le cose, le rughe, le braccia, i colori dei costumi; vede i loro occhi mentre i più vicini alla strada sfilano troppo 75
vicino al montante del tettuccio dell’auto e le loro ginocchia pericolosamente vicino al fanale. Sente suo marito perdere conoscenza e sente la sua paura e sente il suo dispiacere e tutte le parole che non si sono detti e vede il sole da dietro di loro che investe tutte le cose che incontra e su tutte si riflette, ed è come se le spingesse, sa che non è così, ma è come se lo fosse, sugli occhiali da sole e sui cartelloni pubblicitari oltre la gente che è dappertutto, a perdita d’occhio, incolonnata avanti e avanti ancora, che attraversa la strada, parla, vive, pensa. La gente che esiste con tutti i dettagli e le differenze che, si rende conto ora, da anni non avvertiva affatto: la differente età, altezza, sesso, è stato tutto annegato in una sensazione di vaga indifferenza che ha appiattito tutto in una sola dimensione, in un lontanissimo sfondo. E invece lei per la prima volta da molto tempo ricorda davvero come era fatto suo Figlio, ad esempio, al colore dei suoi capelli, al taglio degli occhi uguale a quello dell’uomo rigido di fianco a Lei, così come è uguale la forma del loro mento; si ricorda all’improvviso come Lui la domenica gli misurasse l’altezza e la segnasse su un foglio, di come quella volta che Loro figlio era caduto Lui gli aveva riaggiustato gli occhiali con un chiodino piccolissimo che neanche si vedeva, della meraviglia che aveva provato. Si ricorda perfettamente anche i dettagli del giorno in cui l’hanno aspettato a casa, e delle ore di attesa che da quel giorno non hanno smesso di accumularsi. Legge sul lunotto posteriore di una 76
macchina gialla la scritta GUIDA PIANO C’È PIETRO A BORDO. Legge su un cartellone pubblicitario una scritta di fianco a un uomo in giacca e cravatta che dice: “Affidatevi a noi, perché sappiamo quello che facciamo”. Sente il sudore raccogliersi intorno ai peli nelle braccia, contratte dalla punta della spalla alla punta delle dita, sente l’asfalto sconnesso sotto le mani che fa sbandare l’auto di una frazione infinitesimale dall’unico corridoio libero diritto davanti a sé, che è l’unica cosa che ora sa di volere, anche se non ci pensa, mentre vede le cose sfrecciare sempre più veloci e i loro dettagli sempre più colorati e presenti, vede i giardini bruciati dal sole e le persone affacciate ai balconi e i semafori in lontananza che diventano rossi e verdi, e ancora rossi e ancora verdi; sente nella gola i suoi respiri sempre più veloci, avanti e indietro, e quelli del marito sempre più lievi in mezzo al rumore assordante del motore fuori giri, che attira l’attenzione delle persone, che si toccano e si tirano da parte e urlano all’auto che ora sfreccia dritta sulla strada tra le case e le poche palme, verso un orizzonte che da lontano Lei vede stretto ma che si avvicina e si allarga abbastanza da passarci in mezzo. Sente le dita stringersi e farsi bianche, come rosse immagina quelle di Lui, perché adesso non lo vede, ma sa che c’è ancora, e forse ancora per poco e forse per l’ultima volta. Il mondo corre rapido e Loro ci sono proprio nel mezzo. Se è vero che Lui dovrà scendere, allora spera che continui a spingere 77
l’acceleratore. Pensa alla pubblicità , gli dice: pensavamo che gli altri sapevano quello che facevano. Mi dispiace, pensa. Ognuno pensa che gli altri sanno quello che fanno. Mi dispiace proprio. Tutti pensano che gli altri sanno quello che fanno. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.
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NOTE BIOGRAFICHE
Elena Varvello è nata nel 1971. La sua raccolta di racconti L’economia delle cose (Fandango, 2007), candidata al Premio Strega, ha vinto il Premio Settembrini e il Premio Bagutta Opera Prima. Ha pubblicato i romanzi La luce perfetta del giorno (Fandango, 2011), La fine del mondo (Loescher, 2013) e il racconto I giorni sulla Terra (Effatà Editrice, 2014). Sta lavorando al suo terzo romanzo. Francesco Bolognesi è nato nel 1994 in provincia di Ferrara. Ha scritto di sport per l’Ultimo Uomo e Crampi Sportivi. 79
Alessio Angioni è nato nel 1988 a Torino. Ha fondato l’etichetta indipendente Rabbithouse, scritto di musica e sceneggiato videoclip. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, si è diplomato in tecniche di narrazione alla Scuola Holden. Gabriella Dal Lago è nata a Torino nel 1992. Ha una laurea in Lettere, un diploma alla Scuola Holden e oltre settecento libri in casa. Lucia Moschella è nata a Siracusa nel 1990. Si è diplomata in Pubblicità allo IED di Roma e alla Scuola Holden. Lavora come illustratrice e grafica. Luca Vallese è nato ad Ascoli Piceno nel 1992. Si è diplomato al Liceo Classico, ha fatto due anni di medicina, poi si è diplomato alla Scuola Holden.
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