SHORT STORIES Lucia Moschella
A 2487 persone Lucia Moschella Racconto Finalista a 8x8 2015
L’hanno messa on line. Hanno messo la foto della bara on line. Sono rimasto attonito a osservarla. Nell’immagine della chiesa – toni grigi, architetture squadrate – il feretro è al centro della navata, coperto da un drappo bianco. Sopra, un tappeto di fiori e la gigantografia di Olav, in primo piano. Ha una maglia turchese. Sorride. älskade olav, è la didascalia alla foto. “Amato Olav”, dice la traduzione dallo svedese. L’ha scritto Klas, il fratello di Olav. Mi ha detto lui dell’incidente. Io l’ho guardata bene; poi ho scagliato il telefonino a terra. Non sono andato fino a Uppsala. Non che i voli costassero troppo. Costavano parecchio, certo, ma mia madre si era detta disposta a pagare. “Era tuo amico, Mattia. Vai, se ti senti vai.” Io però sono rimasto in silenzio. Non credo cambi molto. Quindi ieri ho avvertito anche Klas. Mi butto a peso morto sul letto, a fissare il soffitto. Vedo Olav: occhiali da nerd, libroni, scarpe da ginnastica del supermercato. Il mio compagno di stanza a Londra me l’ero immaginato diverso, quantomeno non sfigato. Poi una sera siamo usciti insieme: gli ho infilato a forza la giacca a vento e l’ho trascinato in un pub sotto casa, dove gli ho offerto una, due, tre birre. Alla seconda, Olav si è sciolto. “Spettacolari, queste patatine,” ripeteva trangugiando patatine aceto e pepe, “spettacolari”, e annaffiava con la birra, “e anche la birra, ottima”, e parlava del gatto di Schrödinger, dell’Interpreta-
A 2487 persone Lucia Moschella zione a molti mondi, del Corano – aveva letto il Corano, dio santo –, della batteria di Dave Grohl, dell’omicidio di Paul McCartney. Sapeva tutti i dettagli del mondo. Ci sono rimasto. No, non era per niente noioso; semmai erano gli altri ad annoiare lui. L’unico a non annoiarlo, diceva sempre, era Klas: deejay, ragazze, amici, feste, un’altra vita. “Io sono quello sfigato” mi ha confessato una volta. “Eppure, come mi capisco con Klas… Basta guardarci, sai? Ci guardiamo e ci capiamo. Tu ce l’hai un fratello?”. “No”. “Comunque, non so se tra tutti i fratelli è così, ma tra noi lo è. Ridiamo anche di certe cose che poi le racconti agli altri e fai ‘oh, ma sai che l’altro giorno Klas’, oppure ‘non sai Klas’, oppure ‘e Klas fa’, insomma racconti quello che è successo, quanto ci siamo divertiti e poi li guardi, e non ridono. A un certo punto ho smesso. Ho capito che ci sono cose che fanno ridere solo me e Klas, noi due e basta. Cioè ma ridere duro, ridere, sai qui, all’altezza del diaframma?,” e se lo toccava, “la conosci questa risata?”. Mi rigiro sul letto. Le lenzuola puzzano e a me non importa. La stanza è in penombra; la mattina alzo le tapparelle, non più di un paio di tirate. Mi basta che la trama si allarghi poco, e dalle fessure entrino piccoli film di luce rettangolari, per definire gli oggetti intorno. All’inizio sforzi un po’ gli occhi. Poi t’abitui. Sento mia madre stovigliare in cucina. Finalmente ha smesso di chiedere e si limita a portare da mangiare. Entra, zitta, posa il piatto sul comodino, poi torna a ritirarlo. La pasta adesso è ancora lì. Non mi va. La canna sul posacenere invece sì. Appiccio, inspiro, faccio scivolare fin giù il fumo, che poi espiro in una colonna dritta, energica, all’altezza dei miei occhi. È un profumo morbido. Mi scalda. Nella bacheca di Olav, fin dal giorno dell’incidente, tutti dicono qualcosa. Tutti, chiunque: si sentono chiamati a dire qualcosa.
A 2487 persone Lucia Moschella Scrivono. Postano foto di almeno dieci anni prima. Dicono cose vaghe, cose false, alcuni dicono addirittura di non conoscerlo – ma che sarebbe stato bello, altroché. Io leggo ogni singolo messaggio, poi copio il testo e lo decifro col traduttore on line. Infine, insulto ad alta voce gli autori, chiamandoli per nome – con quei razza di nomi assurdi che hanno. E Klas ha dato loro in pasto Olav, dentro una cassa da morto. O era una cosa da risata di diaframma? Rideva spesso della morte, Olav. Scherzavamo sulla gente che s’imbuca ai funerali, e fa finta di conoscere il morto. Quando una volta gli raccontai di un morto che s’era risvegliato nella bara, e che poi aveva pure morso il prete, Olav sghignazzava. Mi disse: “T’immagini svegliarti, indicare a tutti il crocefisso e poi dire: ‘E voi credete ancora a quello lì?’”. Le lacrime. Ma la cosa che lo faceva ridere come un pazzo erano le morti idiote. Tipo quelli che muoiono perché mandano di traverso qualcosa, o che vengono sbranati da una tigre in safari perché vogliono accarezzarla, o fare un selfie con lei, o che si buttano dal paracadute e lo aprono troppo tardi. Un sacco d’incidenti, uno più idiota dell’altro. Un’ora a raccontarci di come si muore male. Ne avevamo discusso una sera, ognuno nel suo letto, al buio. “Parlare da un letto a un altro,” aveva sussurrato lui, “lo facevo sempre con mio fratello Klas”. Io avevo sentito, ed ero stato zitto. È stato da quella sera che siamo diventati inseparabili. Mi piacerebbe che qualcuno sapesse di che conversazioni eravamo capaci. Ma non esiste nessuno. Forse neanche Klas lo sa. No, non ci vado, al funerale. Non ho molto da condividere con nessuno, tranne che con Olav. Per Olav sarei andato. Ecco un’altra cosa che lo farebbe ridere. Se gli scrivessi, magari in bacheca: “Ohi Ol, domani vengo a Uppsala al tuo funerale. Ci sei?”. Butto fuori l’ultimo tiro di canna, poi la spengo. Poggio i piedi sul pavimento di marmo e mi dirigo verso il telefonino a ter-
A 2487 persone Lucia Moschella ra. Quando mi chino a raccoglierlo, scopro il vetro frantumato; funziona ancora. La schermata è ancora sulla foto. Siedo a terra, spalle al muro. Riaggiorno la pagina e ci metto un po’ prima di trovare, scorrendo col dito, la foto: il drappo bianco, la maglia azzurra, älskade olav, i fiori intorno, la chiesa grigia, il suo sorriso. E 2486 like. Stringo i denti e mi viene da ridere. La testa esplode, il cervello si comprime, poi si fa grumo strizzato, arriva agli occhi, alle guance, alla bocca. Le lacrime sanno di sale: buone. Sorride. Sorrido. Punto il dito su Mi piace e aggiungo il mio.
La Grande Evoluzione Lucia Moschella Da Teorie e Tecniche di (In)dipendenza, VerbaVolant Edizioni
Nessuno comprese il motivo. Semplicemente, i bambini presero a nascere con il cranio più piccolo. Non scheletrico, solo più piccolo, come se il corpo fosse appartenuto a un individuo e la testa a un altro. Il primo caso non fece clamore. Il secondo incuriosì. Il terzo preoccupò. Nei reparti maternità un numero crescente di madri cominciò a partorire questi strani neonati con rabbia e terrore. Accusavano medici e infermieri, urlavano che non era possibile che dall’ecografia nessuno se ne fosse accorto prima. Guardavano quegli esseri che erano costati loro sacrifici e sofferenze e non vi riconoscevano i propri figli. Arrivati ad altri dieci, venti, cento casi, l’inquietudine cominciò a serpeggiare, e quando le donne scoprivano una gravidanza, alla normale angoscia di diventare madri si unì quella di diventare madri di un bambino deforme. Se ne addolorarono padri, nonni, conoscenti, finché la società tutta cominciò a interrogarsi. Uno scienziato ipotizzò si trattasse della puntura di una zanzara tropicale in grado di modificare in qualche modo il DNA umano. La teoria sembrò abbastanza accreditata finché diverse delle donne dichiararono di non avere mai avuto a che fare con i tropici, né a ridosso del parto né mai. C’era anche da osservare che le nascite si presentavano in maniera sporadica, senza logica: una in Italia, tre in Cina, cinque negli Stati Uniti. Bambini dal cranio piccolo spuntati come funghi. Umani, ma non del tutto.
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Intanto, tesi scientifiche venivano consumate quotidianamente per essere superate il giorno successivo, quando almeno un caso ne smentisse la veridicità. Anche i cittadini avevano le proprie teorie: per i credenti era una sfida di Dio; per gli ambientalisti una conseguenza del Global Warming; per i catastrofisti un segnale della fine del mondo. Sebbene gli anni avessero dimostrato che nessuna facoltà mentale fosse stata inficiata, il fattore estetico bastò a creare conseguenze sociali. Le nascite diminuirono, gli aborti crebbero del venti per cento e l’abbandono infantile registrò una crescita improvvisa prima che ogni stato ne regolamentasse la legge. Tra studi televisivi e reparti di ostetricia, i giornalisti continuavano a interrogarsi. Da uno di loro venne fuori la definizione di “Bambini Nocciolina”, presto adottata da diversi altri con leggerezza. Non con la stessa leggerezza fu accettata dal pubblico: vecchi e giovani si riversarono in piazza, gli opinionisti scrissero a fiumi, e divenne celebre lo slogan di una mamma inglese: “Quel deforme è mio figlio.” La chiara gaffe pubblica venne contenuta da un organo, istituito ad hoc dalle Nazioni Unite: il Consiglio Internazionale alla Comunicazione Delicata, che riuniva esperti di marketing e comunicazione innanzitutto, oltre che medici, sociologi e psicologi, che si preoccuparono di coniare immediatamente una nuova definizione. Li definirono Bambini Recenti: non creature malformi, ma figli della modernità.
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Quella stessa modernità reagiva con i mezzi di sempre: in tutte le capitali europee i centri del potere furono presi di mira, in rimostranze che includevano cittadini normali, genitori di Recenti e talvolta Recenti stessi ancora in fasce. Non mancavano teste calde più violente nel protestare, i cosiddetti Puristi, che non volevano risposte ma solo l’isolamento di quegli “storpi”. A tutte queste richieste, nessuno scettro, nessuno scienziato e nessun legale seppe dare risposta, e poco a poco quelli che fino al giorno prima si erano definiti esperti ammutolirono. Solo uno di loro alzò la voce più degli altri. Credo ci stiano avvelenando il DNA, disse. Credo che qualcuno si sia messo a iniettarci qualcosa. La sua teoria, che fu per qualche tempo seguita tramite piattaforme d’informazione non ufficiali, cadde presto nell’oblio insieme alle altre. I Recenti crescevano, deludendo le aspettative degli ottimisti che sostenevano che con la crescita la testa avrebbe raggiunto le normali proporzioni. La società cominciò ad adeguarsi: le case di moda proponevano cappellini, bavaglini e caschi per la bicicletta di dimensioni ridotte, posizionandoli in espositori dal design accattivante, offrendo anche un assortimento molto ampio. Il tutto a prezzi molto agevolati, per coccolare le neomamme. La pubblicità, strizzando l’occhio al cambiamento, proclamava pubblicamente che “Recente è il Futuro”, presentando la nascita dei Recenti come un evento epocale, quasi da celebrare. I costruttori di passeggini idearono un Cuscino per Recenti, in nulla diverso
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da quelli normali se non nel nome. Così, quando i Recenti compirono dieci anni, la società già li adorava: perché erano figli, nipoti, fratelli di altri individui, per così dire, Normali. Gli occhi di tutti si abituarono ai crani ridotti, le case di moda ridussero la stoffa di foulard e il panno dei cappelli, i parrucchieri proposero speciali extensions che aumentassero le dimensioni della testa almeno nella percezione) e i costruttori di telefoni ridussero le dimensioni dei propri prodotti. A una mamma che fosse stata incinta sarebbe stato chiesto con semplicità “È un Recente?”, e lei con la stessa naturalezza avrebbe risposto massaggiando la pancia l’una o l’altra cosa, come se avesse detto maschio o femmina, ariete o pesci, Carlo o Camilla. Ormai nessuno scongiurava più i Recenti, anzi: non avendo nulla di diverso dai Normali, la società prese, nel giro di una cinquantina d’anni, ad abituarcisi, a voler loro bene, e talvolta, ad amarli. A cinquant’anni dalla comparsa del primo Recente tutti furono sconvolti dalla nascita di un’altra generazione di bambini. Stavolta, oltre ad avere la testa piccola, erano ricoperti di una peluria scura e densa, e nascevano con le braccia arcuate. Il Consiglio Internazionale alla Comunicazione Delicata si preoccupò immediatamente di definirli “Attuali”, tentando anche di coinvolgere i più emeriti scienziati per uno studio sui nuovi individui. Perché nel frattempo gli Attuali non nascevano solo dai Recenti, ma anche dai Normali: il fenomeno era ingiustificabile.
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Di fronte all’assenza di risposte, la gente esplose. Si riversarono nelle piazze cittadini di ogni età e schieramento politico, Puristi compresi. Gridavano la totale incapacità della classe dirigente e di quella scientifica. E nel trambusto qualche Recente cresciuto nella menzogna di non essere mai stato un problema, si chiedeva se non fosse stato lo stesso anche per la sua generazione. Se anche la sua generazione non fosse stata un tempo disprezzata come questi “nuovi mostri”. Adesso i Puristi chiedevano una purga dell’intera società: un ritorno alla razza pura, come dicevano loro – espressione, che pur ricordato il noto diktat nazista non orripilava più troppo, essendo la storia corsa veloce e gli eventi svaniti nella memoria. Qualcuno cominciò a farsi persuadere. La paura è di andar sempre a peggiorare, disse una donna in un’intervista, Io credo che forse è una cosa per dire che moriremo, disse una bambina davanti alle telecamere. E i Puristi raccolsero altri consensi, altri che come loro avrebbero voluto “migliorare” la specie. Persino alcuni Recenti aderirono, La mia testa va bene, i peli vanno bene, ma i prossimi cosa avranno, la proboscide?, dichiarò un Recente alla stampa. Il Consiglio reagì. Nel giro di qualche giorno, le strade di tutto il mondo si riempirono di gigantografie di persone famose: calciatori, letterati, presentatori tv, fotografi, artisti. Tutti Recenti. Città infestate da foto di adulti microcefali, con sguardo sfidante e dal titolo: “Kill me.”
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La campagna, se fu tacciata di bigottismo da alcuni, raggiunse in pieno il suo obiettivo. Recenti e Normali cominciarono a sposare la causa degli Attuali, acquistando maglie, zaini, braccialetti, pantaloni, borse, tazze da thè, con su scritto solo Kill me. I gadget finanziavano una raccolta fondi per la scoperta di un vaccino che prevenisse la trasformazione delle generazioni future. Poco alla volta aziende, scuole e università, non solo integrarono nel loro corpo Attuali e Recenti, ma riservarono loro addirittura dei posti, tanto che a un certo punto essere un Recente facilitava di qualche passo la carriera. Il mercato si adeguò agli Attuali come aveva fatto per i Recenti: i vestiti si fabbricarono con tessuti più leggeri, per via delle proprietà termiche della peluria; i designer di automobili alzarono il volante al posto guida per questioni di comfort. Le estetiste ebbero un gran da fare, sia per le Attuali che per gli Attuali che ancora mirassero alla pelle liscia delle generazioni precedenti. Poi, dopo una decina d’anni, Ayuri Kero, il più famoso stilista Recente in circolazione, disse la sua. Realizzò una sfilata con soli Attuali di ogni età. Attuali di cui esaltava i singoli difetti e li ergeva a unicità: il trucco era nudo, per mettere in risalto sopracciglia e gote barbute; i vestiti striminziti, senza nessuna vergona di mostrarsi agli altri; la pelle invece era a vista, fiera, cosparsa di polvere dorata per esaltare sfumature e disegni della peluria. La collezione cambiava le regole delle moda: “Non è più la moda che detta gli umani, ma gli umani che dettano alla moda.
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Non vi sembra una conquista incredibile?” Il tempo dimostrò che Ayuri Kero aveva trovato il concetto di comunicazione perfetto. Le città si ricoprirono di pubblicità che ritraevano Attuali in posizioni provocanti, portando slogan del tipo Attuale è il Futuro, Dress New, Turning fashion into Human, Human Revolution e così via. Così, piccoli Attuali nascevano con il mito dei grandi Attuali, ne seguivano i progressi nei singoli campi, si rincuoravano comprendendo che le loro braccia e i loro peli, nel frattempo diventati quasi manto, erano un nuovo modello di bellezza. Intellettuali e sociologi organizzarono una conferenza mondiale dal titolo “La Grande Evoluzione: dall’Essere Umano all’Essere Attuale” in cui si domandarono per giorni quali progressi la tecnica e la scienza potessero compiere per facilitare i gesti a questi nuovi individui, così com’era accaduto per i Normali. Intanto gli umani, Normali o Recenti che fossero, cominciarono a essere fortemente attratti da quegli Attuali. Le ragazzine si rendevano conto che gli Attuali avevano un altro odore rispetto a Normali e Recenti, che erano più forti, più agili, più coraggiosi in moltissime situazioni. Si accorsero di come passassero direttamente all’azione senza elucubrazioni mentali. Quanto alle donne, le Attuali erano l’ultima frontiera dell’emancipazione: praticavano sport estremi, erano molto più naturali nel ballare, nel baciare, nel fare l’amore, non avevano troppe barriere e univano la sapienza dei secoli precedenti a una spontaneità che innamorava i ma-
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schi. Il loro corpo non le costringeva a rinunciare alla propria femminilità: solo, il loro vestiario seguiva i cambiamenti che nel frattempo avvenivano. Le scarpe con il tacco avevano una forma più allungata sull’alluce sporgente, i vestiti più corti, per stature ridotte, le coppe dei reggiseni più piccole. L’acne, disse un’attrice Attuale, Ci siamo liberate dall’acne, ridendo di gioia del processo di evoluzione. Kaji Lima, una delle modelle Attuali di punta dell’ultima collezione dello stilista Ayuri Kedo, fu protagonista, più che di uno scandalo, di un’emancipazione pubblica. Durante una serata mondana, dopo avere per lungo tempo flirtato con il calciatore Attuale Dier Fretj, si abbandonò con lui a un rapporto sessuale davanti al resto degli invitati, a tratti scandalizzati, a tratti divertiti e a tratti smaniosi. Perché la Grande Evoluzione, come già la chiamavano tutti, aveva reso le persone più felici, più libere. Adesso si poteva mangiare la pasta con le mani, sia in privato che in pubblico; si poteva tirare una sberla al commensale che avesse rubato l’ultimo tozzo di pane dal cestino; si poteva bere direttamente dalle fontane e odorare più da vicino una persona anche se con essa non si fosse intrattenuto un rapporto strettamente confidenziale; si poteva, durante una riunione di lavoro, urinare all’angolo della sala. Non se la passava bene invece tutto il settore del mercato delle buone maniere: ditte e donne delle pulizie, lavanderie, produttori di detergenti per la casa e per l’igiene intima e via dicendo. Ma la civiltà
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aveva raggiunto l’indipendenza da certe minuzie. È solo il mercato che cambia, rassicuravano i consulenti di marketing, chiudete i centri estetici e apritevi una bella ditta di cosmetici commestibili. Bisogna ascoltare il mercato in evoluzione, diceva qualche altro. La generazione di consulenti di marketing che dispensava questi nuovi modelli di business, d’altra parte, fu l’ultima: fu presto chiaro che agli Attuali sarebbe seguita una generazione priva delle proprie facoltà intellettive. E quando questa nacque, il Consiglio Internazionale, ormai alla quinta generazione, fu in seria difficoltà per mancanza d’inventiva sul nome da attribuirgli, finché non trovò un documento d’archivio che al nome Attuali faceva seguire quello di Contemporanei. La nuova ondata di nascite di Contemporanei generò l’ultima frontiera della libertà: non avendone le capacità intellettive non dovevano più andare a scuola o fare certi lavori, non avendo la patente non rimanevano imbottigliati nel traffico, non potendo fare progetti a lungo termine non venivano presi dall’ansia, non avendo doveri morali nei confronti degli altri non conoscevano l’offesa. Poi fu una cosa dopo l’altra. Camminare inarcati, togliersi i vestiti e andare in giro con solo il proprio manto addosso, spogliare le città di abitanti, trasferirsi in campagna, procacciare cibo sugli alberi, correre su quattro zampe, arrampicarsi dappertutto, smettere di chiamarsi, smettere di parlare. Si smise anche con l’invidia, le calunnie, le liti tra estranei e tra
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parenti. Sentimenti di rancore venivano sfogati fisicamente, con un combattimento fisico o con rapporti sessuali per ristabilire la pace. Per ultimo venne il dolore: si dimenticarono le separazioni, gli addii, i lutti. Le generazioni del futuro elaboravano in fretta e per il tempo che la natura richiedeva loro; poi venivano distratti da altro. Passarono degli anni prima che i Contemporanei, ormai umani in nulla, si spostassero in continenti più naturali. E ci volle un po’ prima che trovassero la villa in un territorio del tutto disabitato, completamente immersa nella natura, costruita a ridosso di una spiaggia. Il gruppo di Contemporanei, che Contemporanei non si chiamavano più, vi fece irruzione ed esplorò ogni angolo. Nessuno di loro comprese cosa significassero quei fogli con su disegnati schemi, programmazioni, illustrazioni di uomini, Recenti, Attuali: videro solo che gli ultimi disegni somigliavano molto a loro e ai loro simili. Non compresero, né indagarono, il contenuto delle fiale “liberatorie”, né capirono che fossero fatte per essere iniettati. Nel dubbio uno di loro scaraventò tutto il materiale a terra provocando un gran fracasso. Un altro trovò l’agenda con i numeri di medici e scienziati da tutto il mondo, assaggiò una pagina, ma trovò che non avesse alcun sapore rilevante. Non capirono neanche cosa significasse quella scritta “INvolution. The ultimate way
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to free human race”, perché di leggere non ne erano più capaci. Non lessero, non capirono, né approfondirono studi, ragioni e visioni di quegli scienziati, né se ne curarono. E quando uno di loro indicò col dito verso l’esterno, in alto, alle foglie delle palme del giardino antistante la villa, tutti guardarono le grandi e mature banane che quelle ospitavano. E partirono all’istante, svelti, sospendendo qualunque cosa stessero facendo. Fu un’abbuffata orgiastica, cui si abbandonarono dapprima con l’entusiasmo della fame, sbraitanti, e in seguito calmi e silenziosi, ma ancora ingordi. Appollaiati com’erano in alto sui rami, buttando le bucce per terra da metri e metri d’altezza, braccia penzoloni e vista mare. Fu dopo la più grande abbuffata della loro vita: permisero al proprio sonno di vagare libero, leggero, finalmente incontrollato da ogni altra costrizione che secoli prima li voleva umani.
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Ci incontriamo nello studio sulla 42sima, uno dei tanti che Thomas Rent ha di proprietà. Non è qui che il suo impero è nato, ma è da qui che tante delle richieste quotidiane di Social Knowing vengono smistate per raggiungere gli uffici operativi secondari. La sua società, attualmente proprietaria di 527 uffici in tutto il mondo, è un punto di riferimento per milioni di persone. Dalla lista della spesa alla dichiarazione dei redditi, Social Knowing è il database di informazioni private più grande del mondo, che ha cambiato il modo di concepire i concetti di pubblico e privato. Rent mi chiede di accomodarmi su una poltrona di velluto blu, accanto alla quale è allestito un elegante tavolino con caffè e pasticcini. Non li tocco: sono davanti all’uomo che ha cambiato ineluttabilmente il destino di ognuno di noi. Domando. Come ci si sente ad avere smascherato il mondo? (Ride) Da Dio. Soprattutto perché nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Siamo partiti vendendo numeri di telefoni, indirizzi e-mail. Quello con cui guadagnavamo di più erano le newsletter di make-up e cosmesi, si figuri. L’idea è stata sua. Beh, sì. Arrivati a un certo punto mi sono chiesto come la qualità della vita della gente sarebbe potuta migliorare. Io sono sempre stato cristiano, e vede, ho sempre creduto nella confessione. Non c’è una sola cosa che il mio confessore non sappia. Un
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giorno, dopo il mio consueto incontro con il parroco, mi sono detto: “E se tutto il mondo si confessasse?” All’inizio la gente era riluttante. Il patto di Social Knowing è sempre stato chiaro: tu mi dai l’accesso a tutte le informazioni, e io ti offro un servizio cucito al millimetro su di te. È questo. Niente più che un servizio. La gente, già dieci anni fa, condivideva tutto, dalle foto del pranzo alla busta paga. A poco a poco i nostri database si sono ingranditi, abbiamo incrociato le informazioni tra utente e utente, tra device e device… Ogni giorno però migliaia di tutorial spiegavano come “autotutelarsi”. Qualcuno l’abbiamo prodotto perfino noi. È stato tutto sempre sotto gli occhi di tutti. La gente l’ha scelto. Vi accusavano di violazione della privacy. Dieci anni fa la gente era molto politicizzata. Diversi la prendevamo come nel ’68 si sarebbe preso il Vietnam. L’hanno proprio detto “È il nuovo Vietnam”. Capisce l’esagerazione. In Vietnam moriva della gente. Capisce l’assurdità della premessa. Diverse società hanno tentato di confondervi, però. Parecchie. Qualcuna, come GrabStuff – si ricorda? – giocava sull’offuscamento d’informazioni. Aggiungevano dati scorretti sulle persone per moltiplicare i contenuti, e impedirci di tracciare gli utenti. Ti geolocalizzavi a Torino e loro aggiungevano localiz-
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zazioni a Milano e a Bangkok. Funzionava? Per loro sì, per la gente no. A poco a poco le persone si sono rese conto che lo scopo di AllKnow – come ci chiamavamo all’epoca – era quello di rendere la loro tecnologia più avanzata. Se tracciamo un utente, lo facciamo semplicemente per suggerire i ristoranti migliori, ti facciamo conoscere la ragazza seduta alla cyclette accanto a te in palestra, ti ordiniamo la cena che vuoi prima ancora che tu la scelga. È evoluzione. È bellezza. È la velocità che tutti hanno sempre sognato. La nostra tecnologia l’ha resa possibile. Oggi il mio smartphone è in grado di ordinare per me i libri che vorrei leggere prima ancora che io li metta nel carrello digitale. Si rende conto del risparmio di tempo, no? È solo economia del tempo, quella che abbiamo fatto. Qualcuno fa per noi cose che noi rimanderemmo. Una sorta di assistente sempre vigile, ma più efficiente delle persone stesse. I nostri device sono coloro che ci conoscono meglio al mondo. A lei rimane solo da confermare. E lo spirito d’iniziativa? Scherza? Siamo i primi fautori dell’iniziativa. Per questo l’accresciamo ogni volta che la individuiamo. L’algoritmo individua
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un interesse e lo nutre. Prenda RedG: sarebbe diventato il rapper che è adesso, se non gli avessimo fatto frequentare tutti quei rapper? E lo sa quando l’abbiamo individuato? Da piccolo. Avrà avuto 9 anni al massimo. In un certo senso quindi aiutate anche i talenti. Quando andavo all’università un mio insegnante ci ripeteva sempre che, qualunque sia il mestiere che si voglia fare nella vita, per farlo davvero bene è necessario praticarlo per 10.000 ore. Ecco fatto: tutti i contenuti che vuoi sulla tua passione più grande, senza che tu nemmeno li chieda. Li aiutate a scegliere. No: sono loro a scegliere. Noi offriamo dei contenuti personalmente rilevanti. Individuiamo gli interessi delle persone e ne nutriamo le passioni più evidenti. Se si vuole, si può scegliere di eliminare questa funzione. La realtà è che il 95% ha il tool attivo. Come mai, secondo lei? È utile, in primo luogo. Non dà fastidio, in secondo. È solo uno strumento che ti fa vedere le cose che più ti piacciono. Se intercetta un campione di 4 accessi a un certo contenuto, te lo propone. Se tu continui a guardarlo, l’algoritmo continua a proportelo. Né più ne meno di una vicina di casa che ti prepara la cheesecake perché le hai detto che ti piace. È una gentilezza gra-
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tuita. Il risultato è che hai più cheesecake di quelle che potresti avere normalmente. E con la doppia razione di frutti di bosco, precisamente come piace a te. C’è chi vi critica per questo. Guardi, ne ho conosciuti. Quel qualcuno è probabilmente uno che utilizza il nostro servizio di Social Love per conoscere le ragazze che incrocia al bar, giustificandosi dietro un “Ma che c’entra”. O magari usa Vegan Fair per controllare che qualche cameriere distratto non gli segnali la presenza del vitello nel suo sandwich. È così. Non sai cosa fare nella vita? ReadMyMind lo sa al posto tuo. Quella gente di cui parla lei non esiste più. Siamo più veloci. Più intelligenti di noi stessi: le cose che facciamo parlano per noi. Con Social Knowing sappiamo molto di più sul mondo. Molto di più su noi stessi. Con la totalità delle società satelliti create, Social Knowing è un’enciclopedia di verità. Di verità. In che senso? Beh, lo sa meglio di me, tutto è pubblico. Scoviamo i ladri prima che irrompano in una banca, prevediamo i crolli delle aziende prima che i manager se ne accorgano. Un’operazione da milioni di dollari è subito online: se è un errore, se crea un buco, tutti i dirigenti di un’azienda possono rendersene conto, essendo i dati trasparenti. Ma può rendersene conto anche il cameriere della mensa di quell’azienda. 1 dollaro per informazione non è dav-
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vero niente, se pensa a quegli attacchi terroristici che abbiamo smascherato a Bruxelles lo scorso anno. Il mondo è più chiaro. È limpido. Non esiste nessuno che abbia un segreto con qualcuno. Adesso, se tradisci tua moglie, lei lo sa. Sta a lei accettarlo o meno, perdonarti o meno, ma il punto è che lei lo sa, come tu, magari, sai che lei ti ha tradito anni fa. Lo sapete voi, i vostri amici, i conoscenti. Non è violazione. Nessuno giudica più nessuno. Capisce? La gente, poi, ci ha messo del suo nel processo di Social Knowing. Più volte ho definito il nostro un progetto di “Umanesimo”. La ragione è semplice. Siamo partiti rendendo pubbliche delle informazioni, ma in poco tempo la gente ce ne ha fornite il doppio. Quando taggavano una persona a cena con l’amante, quando rendevano pubblici i bilanci aziendali che per anni i dirigenti avevano voluto tenere nascosti, quando scovavano gli scandali dei VIP… A poco a poco tutto è passato da patrimonio di pochi a patrimonio dell’umanità. Ci piace farci i fatti degli altri, insomma. Abbiamo fatto un calcolo: in media, le conversazioni private delle persone vengono rese pubbliche nel giro di mezz’ora dal primo messaggio. Sa quanta gente le legge, non appena vengono pubblicate? Il 75% degli utenti. Il che vuol dire che interessano.
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Anche agli scettici. Così invitiamo gli altri a comportarsi meglio. Abbiamo migliorato la qualità della vita sentimentale delle coppie, dei rendimenti economici, non c’è una sola persona che vada in carcere per evasione fiscale. Le carceri sono ormai vuote per metà. Sì, a parte gli ergastoli che ci portiamo dietro da prima. Mi capisce quando le dico che il mondo è diventato buono? Che la gente non può più fare male ad altra gente? Siamo tutti profilati, tutti abbiamo un pubblico grado di bontà. È più facile trovare un partner, un assistente sul lavoro, un amico. È una profilazione buona. Arriviamo dove la conoscenza umana non può. Il color code vi ha aiutato. C’è stato un sondaggio pubblico. Il 52% delle persone ha votato per attivare il color code. Un ranking di bontà che serve a identificarti, esattamente come lo farebbe un nome o una foto profilo. Menti troppo, hai il profilo rosso; ti comporti bene, diventa blu. Come facevano, quei sessantottini della tecnologia, ad accusarmi di aver rubato loro qualcosa, quando, di fatto, ho restituito loro la scienza infusa sui segreti del mondo? Davvero siete in grado di smascherare proprio tutti? Beh, proprio tutti non so. La gente si smaschera a vicenda per
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gli episodi quotidiani. Quanto alle azioni più gravi, benché gli accordi faccia a faccia siano ancora possibili, e comunque praticati, c’è sempre un momento in cui si dovrà passare da Social Knowing: una telefonata, un messaggio, una mail, ma anche una ricerca sul web, ovviamente. La gente vive tramite la tecnologia. E lei non ha idea di che roba si possa trovare in giro. Quanti profili o gruppi di pedofili abbiamo smascherato, quanti scambi di video gravissimi. Stupri, violenze, bullismo. La gente era davvero cattiva. Adesso non lo è più? Lo è meno. Però i profili rossi esistono. In minoranza, ma sì. A volte non diventano blu. No, a volte no. Fate qualcosa, per questo? Tutti vogliono avere un profilo blu. È il modello che proponiamo. Ma intanto, i profili rossi continuano a navigare. Non possiamo bloccare tutti, no.
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L’algoritmo dei profili rossi, nutre quei profili di rosso. Vede, gli algoritmi sono perfetti. E le persone? Le persone sono solo persone. Potrebbe interessarti anche: Thomas Rent, 5 consigli per il successo vero
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Eravamo esseri umani, ed eravamo animali. Indossavamo tacchi alti, gemelli alla camicia, autoreggenti di nylon pregiatissimo. Camminavamo per le strade delle grandi città, conducevamo meeting, bevevamo champagne. Ma non eravamo del tutto umani. Ognuno di noi aveva un Bestialismo in più. A qualcuno potevi scoprire una peluria pronunciata sulla fronte. Altri avevano i canini affilati, di lupi. Altri ancora, dove la sottoveste di seta si scampanava e il cavallo dei pantaloni si biforcava, odoravano di piscio. O di pelo umido, o di ghiandole strizzate di cane, o di tutto il resto di cui puzzano gli animali. Le persone si curavano, si profumavano, e molto: decisamente più del dovuto. Ma quell’olezzo poteva restarti addosso per ore; grasso vanigliato. Ci dicevano che la mutazione capitasse crescendo, dopo la pubertà, e di lì in poi, in effetti, poteva accadere a qualunque età e in una circostanza qualsiasi. Un momento solo, una mutazione unica, definitiva. Passeggiavi, ballavi, lavoravi. E l’alito diventava feroce. O la bocca si slabbrava in un sorriso da orango. O dalla testa emergevano corna d’avorio. Di quel momento ti saresti ricordato per tutta la vita. Il giorno prima era successo a una tipa in metro. Quando un uomo con il muso da dobermann le aveva palpato il culo, lei gli aveva dato uno schiaffo e gli aveva detto: Sei un merda. Così, senza grammatica. Quindi le erano spuntati dei sottili, storti, sporchi denti da iena, e mentre la sua denuncia era applaudita da tutto il
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vagone, lei era scappata via correndo con due mani sopra la bocca a nasconderla. L’avevano intervistata. Il suo gesto è stato eroico, signora. E invece io mi faccio schifo, signore. Per tutta l’intervista aveva parlato col dorso della mano sopra la bocca. Potevi non accettare mai il tuo Bestialismo, ma la verità era che la gente vedeva gli umani mutare ogni giorno, in tempo reale e prima che tu stesso te ne accorgessi, e ormai non ci facevano neanche più caso. Sapevano che prima o poi sarebbero arrivati, e allora, dovunque capitasse e qualunque dettaglio fosse, loro si giravano, ti guardavano, capivano. E poi passavano oltre. Alla propria vita. Ai propri Bestialismi. I nuovi umani non erano violenti, non affilavano gli artigli. Potevano essere più o meno mutati, più o meno schifosi, ma alla maggior parte di loro accadeva che per lungo tempo – o addirittura, per tutta la vita – utilizzassero pacificamente le loro componenti animali. Non graffiavano, non usavano i canini per mordere te o staccare il braccio a un altro, voglio dire. Erano esseri umani, come tutti: si sceglievano i partner e li amavano, li baciavano in bocca, ci facevano l’amore; studiavano, avevano una carriera, viaggiavano. Potevano anche essere molto acculturati, addirittura
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scrittori. I Bestialismi li imbruttivano? Nessuno era escluso, e a volte proprio quel dettaglio selvaggio era peculiare. Eccitante. A me piacciono quelli un po’ felini. Ah, non dirmelo. Io vado matta per il biondo criniera. Ne ho visto uno con un occhio di Husky. Uno solo. Che sguardo. Capitava che a volte certi umani si riunissero in branco, anche se i loro Bestialismi appartenevano a razze diverse. Bevevano alcool e alludevano al sesso e guardavano chiunque passasse; facevano battute oscene agli altri del branco su quel culo, su quelle spalle. Chi gli sfilava davanti se ne accorgeva, e di solito sorrideva. Quella sera stavo vedendo la TV in soggiorno, nella casa che era mia e di Tommaso, il mio compagno. Stavamo insieme da tempo, e la cosa strana di noi era che nessuno dei due aveva Bestialismi. Per giorni, quando c’eravamo conosciuti, ce li eravamo cercati addosso: Dove li nascondi, Dài, Mi prendi in giro, Ma io no, ti giuro, tu? Neanche io, Davvero, e allora perché non mi credi, Dài, no, tu ce li hai, ce li hai e non vuoi dirmelo. Ci divertivamo come pazzi insieme e adoravamo la vita per come ce l’eravamo costruita. Era l’una di notte, ma non avevo voluto andare a dormire insieme a lui: avevamo litigato e avevo preferito indugiare in soggiorno. Non mi ascolti un cazzo, gli avevo detto io. Ti stavo ascoltando, aveva risposto lui.
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Dimmi che ho detto. Che gioco è. Siamo alle medie? Dimmi che ho detto. Non lo so che hai detto. Dici 80 cose al secondo. E quasi tutte sono stronzate, mi aveva detto lui. Brava io, che ti ascolto pure quando dici ognuna delle tue fottutissime cagate da artista. I primitivi che non conoscono il blu! La profondità della parola non-chalance! Ma trovati un cazzo di lavoro. Certo, mi trovo un lavoro, così divento isterico come te, a rodermi il culo per tutto, pure per gli opinionisti in tv. Eravamo rimasti in silenzio. Io fissavo la televisione e lui, in piedi alla mia destra, respirava forte. Poi si era avvicinato verso di me, e io, dentro il plaid in cui ero, mi ero ritratta. Lui però si era fermato molto prima; aveva preso il calice di vino rosso mezzo vuoto sul tavolo davanti a me e aveva bevuto quel che restava del Barbera, con calma. Era uscito dal soggiorno ed era andato in camera. Io, rannicchiata sul divano, tendevo l’orecchio. Speravo tornasse, ma non lo faceva. E io non andavo da lui. Qualche ora dopo lo avevo sentito russare, e mi ero concessa di andare nel letto in cui dormivamo insieme. Speravo di non svegliarlo. Mi vergognavo di me, e allo stesso modo di lui. Eravamo stati atroci. Mi svegliai di colpo a notte fonda. I capelli sulla nuca erano inzuppati, e sentii un odore insopportabile. Forse è il ciclo, pen-
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sai, Gli odori diversi. Mi voltai alla mia sinistra, verso Tommaso. Dormiva sereno. Aveva una mano posata sulla mia coscia, come sempre. Ma questa volta era di animale. La guardai bene. Al posto delle unghie aveva artigli. A riposo, innocui. Ma sulla mia coscia sinistra. Mi fissai a un palmo dal suo naso, a guardarlo dal mio cuscino, e mi sembrò bello come sempre. Nel movimento dovetti averlo svegliato, e lui aprì gli occhi. Mi guardò con dolcezza, e con le sue mani mi avvicinò a sé, tenero. Sentii gli artigli sulla schiena ma fu appena una pressione, un fastidio più che un dolore. Dormi, mi disse, Dormiamo. Adesso aveva la mano sopra il mio fianco. Era pelosa, soffice. Una morbidezza che nel mio immaginario apparteneva a un grande mammifero, forse a un mammut. Presi ad accarezzargliela, dosando la mia forza: ero più sveglia di lui. Tommaso rilassò la bocca in un sorriso, e con movimenti da addormentato mi accarezzò appena sotto il coccige. Avvicinai la testa e presi a baciarlo appassionatamente, e lui ricambiò. Quando mi ritirai sentii la lingua strana, come spezzata. Era nera, sottile. La ritirai in bocca, e dovetti avere un sussulto. Lui se ne accorse perché mi fissò. Che c’è?, mi disse. Tirai fuori la lingua, incrociando gli occhi per riuscire a vederla meglio. Lui sorrise. Ah, disse. Anche tu. Elegante, chiosò. La mia mano l’hai vista? Sì, dissi io.
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Sono arrivati, mi sussurrò. Come a tutti, risposi. Mi accarezzò la coscia, e io posai la mano sopra la sua zampa. Tirai fuori la lingua e lui me la baciò, esattamente dove si biforcava in due sottili lembi neri. Eravamo bestie, ed eravamo ancora noi.