number 000 // Lucia Moschella winter/fallissue // feb 2015 // 3.50 €
// INSIDE Audience Desing // Come cambia la comunicazione Masumiyet Műzesi // L’innocenza di un museo Love Storage // Nuove scatole per nuove storie 1
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manifesto
SIAMO GLI
INSCATOLATORI
QUELLI CHE ALLA FINE DI UNA
STORIA METTONO
REGALI, BIGLIETTI, LIBRI, DISCHI, ORECCHINI, SCARPE, DENTRO UNA SCATOLA, CHE SIGILLIAMO E CHIUDIAMO DENTRO UN ARMADIO, NEL RIPOSTIGLIO, O IN FONDO ALLA LIBRERIA SIAMO GLI AUTOCONFORTATORI. QUELLI
CHE SE PER CASO CI IMBATTIAMO NELLA SCATOLA, E PENSIAMO A QUELLO CHE C’È DENTRO, CI CONFORTIAMO. QUELLI CHE OGNI TANTO PRENDIAMO LA NOSTRA
SIAMO
SCATOLA, LA APRIAMO, E CI RICORDIAMO DI TUTTO QUELLO RICORDATORI CHE È STATO: LO FACCIAMO CON RABBIA, O RASSEGNAZIONE, O NOSTALGIA,
E A VOLTE NE SIAMO ANCHE GRATI. SIAMO I SUBLIMATORI. PERCHÈ
CREDIAMO CHE IN QUESTA SCATOLA CI SIA IL SEGRETO ULTIMO DI
CHI SIAMO, CHI ERAVAMO, CHI AVEVAMO ACCANTO, COSA È STATO. SIAMO I SORPASSATORI. CHE CAPIAMO CHE È STATO BELLO, MA CHE ADESSO È
TUTTO FINITO. SIAMO GLI ESPOSITORI. QUELLI CHE A UN CERTO PUNTO
DECIDONO CHE È ARRIVATO IL MOMENTO DI L I B E R A R E I NOSTRI OGGETTI, DI REGALARLI A UNA “SCATOLA” PIÙ GRANDE.
RILASCIATORI. GENTE IN GRADO DI LASCIARLE ANDARE. NARRATORI QUELLI CHE HANNO VOGLIA CHE LE SCATOLE DIVENTINO STORIE.
S I A M O QUELLI CHE TUTTE, ANCHE LE SCATOLE D’AMORE DEGLI ALTRI
LETTORI SONO BELLE QUANTO LE NOSTRE. SIAMO GLI AMATORI
CHE APPASSIONATI, DILETTANTI, COLLEZIONISTI, PRINCIPIANTI, AMIAMO OGNI STORIA, LA INIZIAMO, LA CONTINUIAMO, LA FINIAMO.
E RICOMINCIAMO.
AUDIENCE DESIGN //
come cambiamo noi, come cambia la comunicazione Verso una definizione contemporanea di audience design Da Jakobson ad Allan Bell
di
Kotler),
vale a dire
Product,
erano già diventate 4 C (queste sì, sono di Kotler), ovvero Customer Price, Place, e Promotion,
Nel 1984, nell’ambito della comunicazione, era già successo molto. Nel 1960 il linguista Roman Jakobson aveva già definito la comunicazione come un messaggio che un emittente indirizza a un ricevente tramite un canale che utilizzi un codice comune di decodificazione. Nel 1967 Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco, aveva già detto che “Non si può non comunicare”. Le 4 P del Marketing mix di Jerome Mc Carthy (ebbene sì, non sono
value, e
Change,
Convenience
Communication.
Marshall
aveva già trovato lo slogan “Il medium è il messaggio”. In ambito pubblicitario, J.Walter Thompson era già diventato JWT; Young aveva già incontrato Rubicam; Leo Burnett e David Ogilvy avevano già dato il nome alle rispettive agenzie; il creativo-genio Bill Bernbach aveva già fondato la DDB e si era già preso gioco di tutto McLuhan
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l’americanismo del tempo con un semplice “Think Small”. Ebbene? Ebbene, nel 1984, anno in cui The big brother wasn’t watching us, in cui Ridley Scott girava il sacro spot del primo Macintosh, in cui durante la trasmissione Blitz Leopoldi Mastelloni ebbe la terribile idea di bestemmiare per la prima volta in diretta RAI, in cui Stevie Wonder stracciava il cuore dei suoi ascoltatori con la sua hit I just called to say I love you, arrivò Allan Bell.
dissertazionisemiserie/
Chi è questo Allan Bell Sociolinguista e professore presso l’Auckland University of Technology, Bell definì l’audience design come la modulazione di un messaggio nel suo stile linguistico sul pubblico cui quello stesso messaggio è indirizzato. Analizzando il metodo di comunicazione di due emittenti radiofoniche neozelandesi, la National Radio (pubblico di estrazione socioeconomica medio-alta) e Un’ Altra Radio (locale, e con pubblico di estrazione medio-bassa), notò
che a parità di messaggi (il notiziario quotidiano) il linguaggio cambiava radicalmente. Nella sua teoria, Bell prevedeva una segmentazione dello stesso pubblico di cui sopra, distinguendo tra: *addressee: tipologia di ascoltatore noto allo speaker, che lo speaker o il canale ha analizzato e studiato e a cui la comunicazione è indirizzata; *auditor: ascoltatore cui la comunicazione non è direttamente indirizzata, ma che è comunque noto ed è stato analizzato dal comunicatore;
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*overhearer: ascoltatore non studiato, ma di cui lo speaker sa; *eavesdropper: ascoltatori di cui lo speaker non sa. A proposito di audience, si potrebbe parlare di target Chi scrive, avevendo studiato pubblicità ha la deformazione del pubblicitario. E quello che, trattandosi di emittenti radiofonica, Bell definiva audience, viene comunemente definito in comunicazione pubblicitaria come target group (abbreviato
in target), ed è uno degli elementi su cui si basa una strategia di comunicazione (la cosiddetta copystrategy, che in una campagna pubblicitaria tiene conto di obiettivo, target, messaggio, tono). A essere precisi, in pubblicità di identificano tre diversi tipi di target: *core target: lo specifico target a cui si rivolge una campagna pubblicitaria. Sono coloro che apprezzano il prodotto, che hanno già il prodotto e ne sono soddisfatti, ma anche coloro che adorano
il prodotto, che dormono (si fa per dire) con il prodotto. Gusti e abitudini del core target sono molti noti al brand e ad account e creativi pubblicitari. *potential target: tutti coloro che potrebbero essere interessati al prodotto, che simpatizzano per un prodotto, o che al limite non cambiano canale inveendo contro il prodotto davanti la televisione. Per brand e comunicatori sono un mondo da esplorare in quanto potenziali clienti. *rejectors: persone che preferiscono un competitor,
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che cambiano canale inveendo contro il prodotto o contro la comunicazione pubblicitaria in generale. Di questi ultimi brand e comunicatori sanno in maniera sfumata, e per ovvie ragioni (ad esclusione di cambi radicali di posizionamento di mercato) non vengono solitamente studiati. Che lo si chiami audience, o target, il concetto è lo stesso: bisogna sapere a chi si sta parlando. Per farlo, sempre i pubblicitari, prima di ogni campagna, individuano quello che in gergo di chiama target insight: quello che il target
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pensa del prodotto, della sfera del prodotto, o della sua vita in relazione a quel prodotto. Notevole, a questo proposito, la profondità che talvolta questi insight possono raggiungere. Si pensi al caso Vicks, quando disse “Quando si ha l’influenza si vuole essere anche un po’ compatiti”; Disney, col suo “Everyone of
reali, autentici, perché parlano di qualcosa cui siamo affezionati e lo fanno in maniera vicina a noi. Ogni campagna pubblicitaria che si rispetti mira, prima ancora che all’aumento delle vendite, mira a creare un’affezione col prodotto o col brand, creando cioè un legame di valore con il target.
wonder of childhood”; Dove,
Ma allora tutta la pubblicità fa audience design!
us like to be touched with the
che nel meraviglioso spot Real Beauty Sketches dice: “You are more beautiful than you think”. Perché ci colpiscono questi messaggi? Perché sono veri,
Eh no. L’audience design è una forma di attenzione all’ascoltatore-target che si
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manifesta nelle maniere più disparate, ma che parte da un punto molto preciso: chi dice qualcosa conosce molto bene chi ascolta. L’audience design è, per certi aspetti, il target nel target: per riprendere la teoria di Bell, se l’emittente sa di parlare ad addressees, auditors, overhearer, modula il suo discorso solo sugli addressee. Esattamente come un pubblicitario sa che nel potential ci sono dei clienti appettibili: ma è al core target che rivolge innanzitutto il suo messaggio. E glielo recapita nella maniera
più vicina possibile al suo “naso”. Nell’era ipercomunicativa in cui ci troviamo, però, anche l’ascoltatore conosce bene chi parla. Non solo: inaspettatamente l’ascoltatore ha voglia di parlare. Gli ascoltatori sono i moderni, che di guardare, leggere, essere passivi, non hanno molta voglia. Loro vogliono esperire. Non è un caso se è nato il marketing olfattivo, se i social contano miliardi di iscritti, se gli spot pubblicitari non convincano tanto quanto un’azione di guerrilla marketing.
Abbiamo voglia di vivere le cose, di essere parte delle cose, di stare dentro le cose, dentro quello che ci viene raccontato. Un mondo in cui l’osservatore viene introdotto e che è invitato a sentire. Così è cambiata tutta la comunicazione. Così è cambiata la pubblicità, la tv, la radio. Così è cambiato il mondo della narrazione. Di conseguenza tutto è audience design. In un certo senso sì, ma non del
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tutto. L’audience design scatta nel momento in cui un’azione precisa (di comunicazione, di narrazione o di qualsivoglia tipo) è indirizzata a un pubblico specifico. Nel mondo della pubblicità può essere un target nel target (ad esempio i clienti Coca-cola in India). Nel mondo della narrazione, può essere il pubblico di una serie tv, e, tra il pubblico, una categoria ben precisa (ad esempio, le spettatrici di Dexter). Nell’audience design, a parere di chi scrive, è insito un gesto di avvicinamento a quello
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che il nostro pubblico ama, e, contemporaneamente, un allontanamento da quello che il pubblico non gradisce. Ecco perché stiamo per parlare di quello di cui stiamo per parlare. Il numero di questo mese, incentrato sull’audience design, non ha a che fare con la pubblicità. Ha a che fare con la narrazione. Non è una campagna promozionale (o almeno non esplicitamente, pur riuscendo magnificamente in tal
senso). A farla è stato uno scrittore, che ha individuato un pubblico molto preciso. E non l’ha fatta per tutto il suo pubblico, ma per il pubblico di un suo specifico romanzo. E il motivo principale per cui l’ha fatto è ancora più preciso, ancora più di quanto si creda orientato alle persone. Lo scrittore ntendeva mettere al centro l’essere umano. Restituendo un gesto, quello dell’approfondimento della persona, che lo scrittore compie già istintivamente, ma racchiudendolo in un contenitore
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nuovo, strano, multiforme: un museo. Già da tempo aveva dichiarato di essere a favore di musei delle persone, piuttosto che della storia. Finalmente è riuscito nel suo intento, con un progetto che la nostra redazione ritiene formidabile. Signori e signori, benvenuti dentro la storia di Kemal e Füsun, benvenuti al mondo che Orhan Pamuk ha creato a proposito del suo Il Museo dell’Innocenza.
(ritra)tticontemporanei/
ORHAN PAMUK//
cosa non si fa per i propri lettori
Analisi di una trovata geniale che qualunque narratore avrebbe voluto avere
Una sera del 1982 Orhan Pamuk era a cena con il principe Ali Vâsıb Efendi, nipote più giovane dell’ultimo sultano ottomano Murat V. Avrebbe dovuto sedere sul trono, Ali, se il sultanato non fosse stato abolito. Non solo Ali non lo era, ma a causa dell’estradizione non poteva rientrare in patria se non con un passaporto straniero. “Viveva ad Alessandria d’Egitto ed era solito trascorrere l’estate in Portogallo dove ammazzava il tempo in compagnia di altri principi e re spodestati europei e
mediorientali”, racconta Pamuk, e nessuno in Turchia aveva voglia di offirgli un regolare lavoro (anche una cosa qualunque, ad Ali interessava solo tornare a casa propria). Fu così che durante quella cena, per scherzo, i commensali immaginarono l’ipotetica possibilità che Ali trovasse impiego come guida al museo della Residenza Ihlamur, dove aveva passato tutta la sua infanzia. Lo immaginarono davvero, non senza ironia: Ali che, vestito elegantemente, illustrasse ai turisti: “E qui,
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signori, è dov’ero solito studiare matematica con il mio aide de camp”, per poi scavalcare il cordoncino rosso di “Do not cross” ed eseguire una dimostrazione dal vivo della sua stessa infanzia. Fu quella l’idea da cui partì tutto: che una casa, il suo mobilio, i suoi oggetti, il suo abitante, tutto, diventasse parte di un’unica storia, che riuniva la storia di una vita, il protagonista in carne e ossa, e i suoi oggetti quotidiani. Ecco la scintilla che accese in Pamuk il desiderio di
concepire una storia all’unisono, raccontandola non solo in un romanzo, ma anche in un museo. Sin dall’inizio la storia scritta e una sua concretizzazione reale era nell’intenzione dell’autore, che, ben lontano dalla prima stesura de Il Museo dell’Innocenza lasciò lì questo piccolo seme, a sedimentare. Qual è questa trovata? La prima idea fu quella di scrivere un romanzo enciclopedico (a quel tempo molti scrittori vivevano della stesura di voci d’enciclopedia),
che raccontasse attraverso gli oggetti del museo la vita del suo protagonista. Nel 2002, a seguito della pubblicazione di Neve, Pamuk cominciò a scriverlo, voce dopo voce. Avrebbe creato un museo, e il romanzo avrebbe raccontato sia la storia degli oggetti sia quella del museo stesso. Tuttavia, durante la stesura, Orhan cominciò a immaginare la storia del suo protagonista, Kemal, e del suo folle amore per Füsun. Un amore talmente disperato da convincere Kemal, a un certo punto, a voler raccogliere tutti gli oggetti che siano mai
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appartenuti alla sua amata, dall’orecchino scivolatole la prima volta che avevano fatto l’amore all’insegna del negozio presso cui lei lavorava. Un enciclopedia era sufficiente? Come cosa? Sì, Il museo dell’innocenza, primo libro di Pamuk successivo alla consegna del premio Nobel del 2006, racconta di un collezionista di oggetti. Un collezionista molto particolare: ha occhi solo per quello che Füsun, la donna di cui è innamorato (e che per tutta la vita non può
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essere per lui più che un’amante), abbia mai posseduto, toccato, anche solo sfiorato. Comincia questa raccolta disperata solo quando apprende di averla persa per sempre. Un pazzo, d’accordo. Un amore insano, ossessivo, che costringe Kemal a una ricerca forsennata di ogni cosa, dentro e fuori casa di lei. E che, una volta raccolto tutto, chiama il suo amico, Orhan Pamuk, il grande scrittore, perché racconti la bellezza di Füsun, il suo amore per Füsun, gli oggetti di Füsun, che lui ha reperito nel corso del tempo. Vuole farci un museo,
Kemal. A seguito della morte di lei ha anche comprato la casa dove la ragazza viveva insieme alla sua famiglia. E chiede a Pamuk di aprire il museo per lui, a una condizione: che inauguri un 28 aprile, il giorno in cui Kemal adulto rincontra Füsun (erano lontani parenti) in un negozio di Istanbul. Questo è quanto raccontato dal libro. E nella successo?
realtà
cos’è
Una volta trovata quest’idea, Pamuk decise che avrebbe
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scritto questo romanzo tenendo conto degli oggetti, dei luoghi, dell’aspetto puramente reale della narrazione. Se capitava che, durante la scrittura, trovasse un paio di scarpe che potessero andare bene per Füsun, le inseriva nel racconto; se nel racconto erano presenti degli oggetti particolari di Füsun, faceva in modo di reperirli (o di farli creare appositamente). Quando nel 1998, mentre accompagnava le sue figlie a scuola, si guardò intorno nel quartiere Çukurcuma, capì che era lì che Füsun avrebbe dovuto vivere, e acquistò il
palazzo in cui lei avrebbe vissuto nel romanzo, e in cui avrebbe avuto luogo il museo stesso. I due progetti hanno vissuto in parallelo sin dal primo istante, e, come ha dichiarato Pamuk all’inaugurazione del museo: “The Museum of Innocence is not an illustration of ‘The Museum of Innocence’, the novel. Neither is the novel an explanation of the museum. They are deeply intertwined because they are both made by me, word by word and object by object.”
Non è marketing, non è
pubblicità: è una parte di una stessa storia, indirizzata allo stesso pubblico. Il libro è stato pubblicato nel 2008. Per il museo c’è voluto un po’ di più, ha aperto le porte nel 2012. Ma in quel 28 aprile tanto speciale. E l’enciclopedia? E l’enciclopedia, nel frattempo, è diventato un catalogo, L’innocenza degli oggetti. Un catalogo illustrato che descrive il modo in cui il museo stesso è organizzato: 83 teche,
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corrispondenti agli 83 capitoli del libro, in cui gli oggetti cui si fa riferimento vengono esposti uno per uno, richiamando la bellezza, la sofferenza, la vita che le pagine del romanzo racconta. Introduce la storia del museo, del quartiere, della genesi dell’idea, permettendo a chi non abbia visto il museo di potere entrare in quel mondo, e consentendo anche a chi non conosca la storia di poterla vedere. Un’esperienza un po’ più semplice di quella del museo, ma che ne restituisce il potere e
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“The Museum of Innocence is not an illustration of ‘The Museum of Innocence’, the novel. Neither is the novel an explanation of the museum. They are deeply intertwined because they are both made by me, word by word and object by object.”
la sacralità. E questo sarebbe audience design? Di brutto. Non c’è stato un solo istante in cui Pamuk non abbia pensato al suo pubblico, nell’ideazione di questo progetto. Leggendo il libro, questo comincia a essere evidente sin dal principio. Innanzitutto, il romanzo comincia con la voce di Kemal, che ci racconta la storia di un oggetto: l’orecchino che scivola a Füsun durante un momento
d’amore, e che il ragazzo, deliberatamente, non restituisce. Ma il romanzo prosegue esplicitando il ruolo degli oggetti. All’inizio del Capitolo 5, Al ristorante Fuaye, si può leggere In breve il [ristorante] Fuaye, di cui in seguito ritrovai, dopo molte ricerche, il menu illustrato, un annuncio pubblicitario, gli esclusivi fiammiferi i tovaglioli che espongo qui oggi nel mio museo […]
Ma anche, addirittura, nel Capitolo 9, F
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Perciò per dimostrare la premura della mia amata diciottenne nell’accarezzare amorosamente la mia pelle di trentenne mentre giacevamo abbracciati in silenzio, espongo qui questo fazzoletto di cotone a fiorellini che Füsun aveva piegato con cura, ma che quel giorno non tirò mai fuori dalla borsa. Espongo questo calamaio in cristallo di mia madre – che in seguito Füsun avrebbe trovato sul tavolino mentre fumava una sigaretta e con cui avrebbe giocherellato – e lo scrittoio, affinché rivelino la delicatezza e la fragilità dell’affetto che
ci legava. Anche questa cintura con la fibbia grossa che andava di moda a quei tempi, che avevo afferrato con un gesto di eccessiva fierezza maschile – del quale mi ero subito vergognato – può testimoniare quanto fu difficile per entrambi rivestirci, abbandonando quello stato di nudità paradisiaca in cui giacevamo e tornare a guardare il solito, vecchio, sporco mondo!
La sentite la voce di KemalPamuk che parla ai suoi lettori? La sentite l’urgenza di fare in modo che l’intera storia arrivi al pubblico?
E poi Pamuk non è mica uno che vuole speculare sul suo museo: per questo motivo, il lettore che si spingesse fino a pagina 561, troverebbe, inserite nella conversazione tra Kemal e Pamuk, queste parole di Kemal -Tutti i lettori del libro avranno diritto a un biglietto d’ingresso gratuito. Quindi la cosa migliore sarebbe mettere dentro ogni copia un biglietto che sarà annullato all’ingresso con il tempo del Museo dell’innocenza. -Dove mettiamo il biglietto? -Be’, direi di inserirlo
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proprio a questo punto!
Segue un’illustrazione (qui sopra) che vale come biglietto d’ingresso omaggio. È evidente che Pamuk stia parlando agli amanti della storia di Kemal. Da quale punto si varchi la storia non ha importanza: può essere il libro, può essere il museo, può essere il catalogo, quel che importa è che chi vi entri abbia voglia di continuare il viaggio.
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SHORT STORAGE // la scatola di Lara / il racconto di Lucia Le dita di Baremboim
“E questa?” Nicola è in mutande, accovacciato sul parquet dall’altro lato della stanza, davanti alla parete-libreria in cui Lara raccoglie, con somma geometria, tutti i cimeli di una vita. È partito dal divano su cui lei adesso siede, fumando il suo drum, passeggiando prima di talloni e poi di pianta del piede, lento, vago. Ha messo un disco di Chopin nello stereo, a un volume appena consentito per le due di notte. Poi ha ispezionato l’intera libreria. Adesso è seduto a gambe incrociate. Si volta verso
Lara, poggiando una mano sul pavimento e tenendo nell’altra una scatola blu, di scarpe da ginnastica, infiocchettata con un nastro di raso. Lei intanto ha ripiegato le gambe chiare alla sua destra, coprendole con la lunga camicia da notte avorio. Fuma, con le unghie laccate e il trucco sfumato in viso, ciccando di tanto in tanto in un posacenere sul tavolo basso, sopra una pila di libri d’arte e di narrativa. “È un regalo?”, insiste lui, guardando la scatola. “No. È una cosa mia.” “Incartata.”
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“Non è incartata. C’è solo un nastro.” “Che ci tieni dentro?” “Che te ne frega?” “Sembra una cosa bella.” “È una cosa mia.” “Dai. Dimmi cos’è.” Lara lo guarda. Nicola è interrogativo. È vero, non si conoscono da molto, ma è una ragazza per niente privata. La musica si scalda. “Un museo.” “Un museo di cosa?” “Di cose.” “E i musei non sono fatti per essere visti?” “Alcuni sì. Altri no.” “Sembri la sirenetta.” “Eh?”
“Seduta così. Sembri la sirenetta.” “Il cartone animato?” “No. La statua di Copenhagen. Ci sei mai stata?” Lara scuote la testa. Guarda in basso. Si è chiusa dentro la sua sigaretta. Nicola scrolla la scatola perché il contenuto risuoni. Dall’interno, riesce a sentire almeno dieci tonalità diverse. Vedendolo, Lara scatta in piedi e lo raggiunge aggressiva. “Cazzo fai?” Lei fa per prendere la scatola mentre lui ritrae il braccio.
“Dai, sono curioso.” “Dammi quella scatola.” Adesso Lara – camicia da notte damascata, scollatura profonda, un bracciale pesante al polso – è in piedi davanti a lui – gambe incrociate, per terra, dorso nudo, piedi freddi. Lo sgrida come una mamma che scopra suo figlio a giocare con gli astucci dei gioielli. “E tienitela! Quanto chiasso,” sbotta poi Nicola, mollando la scatola in un ripiano all’altezza della sua mano e dirigendosi verso la poltrona. Lara inala un tiro di sigaretta, lo guarda,
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prende la scatola, e la rimette nell’ultimo ripiano, dov’era prima, riempiendo il buco che occupava tra i cataloghi d’arte, prima che Nicola la tirasse via dal suo posto. Poi torna a sedere, mentre le dita di Baremboim non lo sanno, e continuano esatte a suonare.
editorialifuoriluogo/
UNA SCATOLA COSA C’ENTRA// Il senso del numero zero di LoveStorage Che c’entra una scatola a questo punto della rivista, direte voi? E che ‘centra un editoriale? C’entra, c’entrano, che quando si tratta di storie d’amore, diventiamo tutti pazzi. Diventiamo tutti un po’ psicopatici. Non è solo normale. Per certi versi è giusto. Cosa c’è dentro la scatola di Lara? Quello che c’è dentro la scatola che ognuno di noi ha a casa. Chi di noi, alla fine di una storia, non ha chiuso tutti gli oggetti dell’amore appena finito dentro una scatola?
Biglietti, post-it, lettere, dischi, libri, qualunque cosa. Certo, c’è chi la scatola la rimanda al mittente (secondo tempi concessi dalla propria psiche), c’è chi, come Lara, la scatola la tiene chiusa dentro una libreria. Ma chi può dire di non avere mai posseduto quella scatola? In questo senso il lavoro di Pamuk che analizziamo in questo numero, ha fatto colpo: nella consapevolezza che gli uomini, anche i più assennati, di fronte al museo di una storia finita, intensa, disperata, non possono che riconoscersi nel
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proprio feticismo, in particolare in quello d’amore, nel proprio attaccamento agli oggetti, gli unici che rimangono. Nell’ordine scombinato di questo numero zero del nostro museo, la nostra priorità riguarda come siamo, e come siamo quando amiamo. E ovviamente, le scatole che confezioniamo ( e che rompiamo).
FOLLI AMORI //
breve excursus letterario su umani e amore scrittrice americana, ci ha scritto un libro, su La sicurezza degli oggetti, il cui ultimo racconto, Una vera bambola, ha come protagonista un ragazzo che ha una relazione d’amore con la Barbie (in plastica e ossa) della sorella Jenny, e a un certo punto dice A.M.
Homes,
Mi sedetti sul bordo del letto di mia sorella con la testa tra le mani. Mia sorella stava strappando i piedi a morsi e Barbie sembrava non farci caso. Non gliene facevo una colpa, e in un certo senso questo mi piaceva. Mi piaceva il fatto che capisse che tutti
abbiamo piccole abitudini segrete che a noi sembrano abbastanza normali ma di cui sappiamo che non è il caso di parlare ad alta voce. Cominciai a immaginare le cose che mi sarei potuto far perdonare io.
Se innamorarsi di una Barbie è forse un esempio forse troppo spinto, non ci si stupisce che in Italo Calvino, nel racconto
Prima
che
tu
dica
pronto
tratto dall’omonima raccolta, il protagonista riversi nel gesto del comporre i numeri sulla tastiera del telefono tutto il suo amore, la sua ricerca, la sua mancanza, per
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poi ripercorrere cavo per cavo i fili che uniscono quei due amanti lontani (e non così focosi come un tempo). È in questo silenzio di circuiti che ti sto parlando. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno a incontrarsi sul filo, ci diremo delle frasi generiche e monche; non è per dirti qualcosa che ti sto chiamando, né perché creda che tu abbia da dirmi qualcosa. Ci telefoniamo perché solo nel chiamarci a lunga distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti, relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati,
percorsiletterari/ L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe, il cornetto di latta arrugginito ch’era sempre con noi. Pareva un’indecenza portare tra i similori e gli stucchi un tale orrore. Dev’essere al Danieli* che ho scordato di riporlo in valigia o nel sacchetto. Heida la cameriera lo buttò certo nel Canalazzo. E come avrei potuto scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta? C’era un prestigio (il nostro) da salvare e Hedia, la fedele, l’aveva fatto. *lussuoso albergo di Venezia
in questo scandagliare il silenzio e attendere il ritorno dun’eco, si perpetua il primo richiamo della lontananza, il grido di quando la prima grande crepa della deriva dei continenti s’è aperta sotto i piedi d’una coppia di esseri umani e gli abissi dell’oceano si sono spalancati a separarli mentre l’uno su una riva e l’altra sull’altra trascinati precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tenere un ponte sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile finché il rombo delle onde non lo travolgeva senza speranza.
È così che siamo quando si
tratta d’amore: pazzi. E questo appartiene a tutti, nessuno escluso, è per questo che il Museo non è che ci piace, ci fa impazzire, non è che ci sembra una cosa da psicopatici, lo amiamo come l’amore stesso, e in maniera smodata. Altrimenti, perché John Fante dovrebbe far dire, nel prologo di Chiedi alla polvere, ad Arturo Bandini
Chiedete alla polvere della strada! Chiedete alle iucche che si ergono solitarie ai margini del Mojave. Chiedete loro di Camilla
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Lopez, e sentirete sussurrarne il nome.
Ma non è il primo, Pamuk, a parlare di un oggetto feticcio, già Eugenio Montale, che gran parte del suo lavoro dedicò alla moglie defunta, scrisse la sua “L’abbiamo rimpianto a lungo” (sopra). Perché ci colpisce tanto, dunque, il Museo dell’innocenza, se non perché queste persone stanno tutte parlando a noi che abbiamo amato, e noi che è finita, a noi che siamo anche, un po’, Kemal?
SONDASCATOLE //
quanti di noi hanno (più o meno) fatto come Kemal Love Storage ha intervistato venti persone (tutte d’età compresa tra i 20 e i 30 anni d’età, 10 uomini e 10 donne). Di seguito le domande che abbiamo rivolto loro 1. Hai mai avuto una scatola in cui hai riposto gli oggetti di una storia finita – regali, ricordi, biglietti di un concerto, libri, vestiti? 2. L’hai mai restituita alla persona con cui avevi rotto? 3. Ti hanno mai restituito una scatola con le tue cose?
I risultati delle ragazze: 7 ragazze su 10 hanno assemblato la scatola degli oggetti. Di queste, 6 non l’hanno restituita. Inoltre, 7 ragazze su 10 non hanno mai ricevuto una scatola con i propri oggetti. I risultati dei ragazzi: 9 ragazzi su 10 hanno assemblato una scatola. Di questi, la totalità non l’ha mai restituita. Inoltre, 7 ragazzi su 10 non hanno mai ricevuto la scatola dalla propria ex. Bene. Quindi? Quindi,
dal
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sondaggio
si evince facilmente che l’insight (volendolo chiamare in maniera pubblicitaria) che ha trovato Orhan Pamuk, è non solo vero, ma conferma quanto fatto all’interno del Museo dell’innocenza: siamo talmente legati a oggetti che ci ricordano delle storie passate che difficilmente li restituiamo; l’unica soluzione possibile è tenere questi oggetti, fare di questi oggetti un mausoleo, evidente o nascosto in qualche recondito angolo della casa, ma in ogni caso il nostro modo di comportarci nei confronti di
questi oggetti è fermarli in uno status di permanente stasi. La sola differenza è che non li cataloghiamo, non li esponiamo. Ma siamo tutti collezionisti. E Il museo dell’innocenza stesso è pieno di personaggi che amano gli oggetti-feticci. La mamma di Kemal ha una casa intera con gli oggetti che non vuole più, oggetti del passato che significano molto, o oggetti che non hanno mai significato niente. E che dire di Suphi il Freddo, personaggio che Kemal incrocia all’inizio del suo romanzo, a una festa, e di cui Sibel, la sua
promessa sposa, dirà: “Prende tutte le scatole di fiammiferi che vede e le colleziona. Ne ha le stanze piene. Dicono che sia diventato così di colpo dopo che la moglie l’ha lasciato.” Chissà perché, proprio i fiammiferi. Ma una cosa è certa: è esattamente come scrive Pamuk-Kemal, quando si ritrova proprio nella casa della mamma, in mezzo a tutti quei cimeli: “Mentre, chiuso in quelle stanze senz’aria e circondato da vecchi oggetti impolverati, da
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vestiti e vasi che mia madre non ricordava di aver lasciato lì, guardavo assorto le vecchie fotografie scattate da mio padre, mi vennero in mente tanti ricordi della mia infanzia e della mia giovinezza che non sapevo di aver dimenticato e mi parve che questo potere evocativo degli oggetti alleviasse la mia inquietudine.”
MONDI VERTICALI //
cosa insegna Pamuk al mondo orizzontale Il motivo che rende interessante l’operazione di Pamuk agli occhi del suo pubblico è, a mio avviso, semplicemente che lo scrittore, anziché fare un movimento orizzontale sul mondo ne fa uno verticale. C’è un museo orizzontale, in questo senso: è il Museo delle relazioni finite (The Museum of Broken relationships, Zagabria). Vi si espongono singoli oggetti di storie d’amore finite. È divertente, sicuramente più divertente di quello di Pamuk, Il Museo dell’innocenza e il
Museo delle relazioni finite non parlano allo stesso pubblico nel momento in cui non c’è una curiosità universale nei confronti dell’amore, ma una curiosità particolare nei confronti di una storia. E se gli oggetti del Museo delle relazione finite non avessero delle storie divertenti, non ci andremmo neanche. Chi sono le persone che espongono i propri oggetti? Dovremmo interessarcene? A noi Il museo dell’innocenza piace perché abbiamo letto il libro. Perché conosciamo Kemal. Altrimenti non
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capiremmo il lirismo che raggiungono i 4213 mozziconi di sigarette (ognuna col suo anno, data, luogo, dal 1976 al 1984, signori miei) nella parete del piano interrato di Cukurcuma. Che c’importa delle sigarette? A noi importa del fatto che sono state di Füsun. E non sono di Füsun e basta: sono delle mani di Füsun che ha incartato la borsa nel primo capitolo, sono del rossetto di Füsun che immediatamente Kemal nota, e non sono spente in un modo qualunque, sono spente nel modo di Füsun.
letturesociali/
Certe volte le schiacciava nel posacenere con un gesto nervoso della mano. Altre volte nel suo gesto non c’era nervosismo ma semplice impazienza. Spesso l’avevo vista spegnerla quasi con rabbia e ne rimanevo turbato. Certi giorni la spegneva picchiettandola sul fondo del posacenere con piccoli scatti della mano. Altre volte, quando nessuno la vedeva, la spingeva nel posacenere con forza, lentamente, come se stesse schiacciando la testa di un serpente. In quei frangenti sembrava che su quei poveri mozziconi stesse sfogando tutta la sua rabbia. Quando guardava la tv o ascoltava una conversazione a tavola, la spegneva nel posacenere senza nemmeno volgere lo sguardo da quella parte. Spesso l’avevo vista spegnere la sigaretta con un gesto veloce per liberarsi la mano prima di prendere un cucchiaio o una caraffa. Altre volte, nei momenti felici e gioiosi, la schiacciava con una rapida pressione del dito indice, come se volesse uccidere un animale senza farlo soffrire. Quando aveva da fare in cucina, teneva oer un attimo la sigaretta sotto il rubinetto e poi la gettava nel cestino dell’immondizia, proprio come faceva la zia Nisbe. La varietà di questi gesti e metodi attribuiva a ogni singolo mozzicone spento dalle mani di Füsun una sua identità, quasi un’anima. […] Ogni volta sfioravo delicatamente le tracce di rossetto sulla punta del filtro e mi perdevo in profonde riflessioni su Füsun e il senso della vita.
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Un muro che ti stende. Come il video che mostra la mano di Füsun nei suoi mille modi di fumare (nei ringraziamenti ufficiali del catalogo, L’innocenza degli oggetti, figura un “Çağla Camcıoğlu ha interpretato la mano di Füsun che fuma nelle immagini scattate da Orhan Pamuk”). Una cosa che ha steso anche Alessandro Baricco, quando è andato a vedere il Museo: Così, mi sono seduto lì, su una panchetta, come faccio quando un museo mi piace, e me ne sono stato
a pensare. La prima cosa che mi è venuta in mente è che mestiere straordinario fa, chi per mestiere scrive libri. Voglio dire, il museo mi stava aiutando a ricordarmi la quantità vertiginosa di dettagli che un libro salva dall’inesistenza, fermandoli per sempre. […] Poi ho pensato che non era un museo sull’amore, non bisognava sbagliarsi, al proposito. È un museo dedicato a una certa intensità che noi umani siamo in grado di proiettare sugli oggetti. Lo facciamo quando viviamo una storia d’amore, certo, ma lo facciamo un sacco di altre volte: generiamo intensità.
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Nella vita lo facciamo con misura perché lì lo scopo del gioco è sopravvivere: con una certa maestria, teniamo la temperatura bassa, scivoliamo via, selezioniamo. Ma in un libro…
È questo, quindi, che ci commuove, l’intensità che Pamuk è riuscito a ricreare e a donare a chiunque entri nel tempio di Kemal. Non l’ha fatto per chi, per usare un altro termine caro allo scrittore italiano di cui sopra, “surfa” sulla realtà, non l’ha fatto per i Barbari: l’ha fatto per tutti gli altri, per quelli che dentro una
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storia, un romanzo, una persona, ci vogliono entrare, e scoprire tutto quello che c’è dentro; per le persone che, era sicuro, leggendo il romanzo avrebbero avuto voglia di vedere quegli oggetti in un catalogo, o ancora meglio, dal vivo; per Lara, che nella racconto ha confezionato la sua scatola; per la ragazza che al nostro sondaggio ha risposto “No, non ho mai restituito niente della mia scatola. È brutto ridare indietro i tuoi ricordi. Chissà che ne fanno poi gli altri.”. Come dice lo stesso Pamuk ne L’innocenza degli oggetti, al
Capitolo 53: Il Museo dell’innocenza è stato realizzato da coloro i quali credono che questo sia possibile, da coloro che credono cioè nella magia degli oggetti. A ispirarci è stata la fede di Kemal negli oggetti; a differenza dei collezionisti, noi non siamo spinti dal desiderio feticista di possedere gli oggetti, quanto piuttosto dalla brama di conoscere i loro segreti. […] Man mano che la nostra anima si concentra sugli oggetti, possiamo sentire nel nostro cuore spezzato il mondo nella
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sua interezza e accattiamo le nostre sofferenze. Ciò che rende possibile questa accettazione è custodito negli sguardi degli spettatori: non è la bottiglia di gassosa che Kemal aveva conservato per anni vicino alla testiera del letto perché Füsun l’aveva sfiorata con le labbra, né al cuore di porcellana rotto che ci rivolgiamo, ma alla folla che c’è dietro, all’altro mondo, a un luogo fuori dal Tempo – a voi.
Ed è questo che piace alla categoria di umani che leggono i libri: sentire i profumi di un
libro, vedere gli oggetti, ascoltare i suoni di un libro, conoscere la storia del luogo in cui è ambientato, sentire, toccare, esperire. Ci piace fermare la nostra vita per entrare in una vita altra. Così, quando a pagina 190 de L’innocenza degli oggetti, l’illustrazione della teca 51 reca le descrizioni: 1. Füsun tenne in questa teiera per tempo. 2. Il motoscafo famiglia Isıkçı – da Il Cevdet e i suoi figli.
mano lungo della signor
3. L’helva e il gelato con la cialda che avevamo comprato a Emirgan. 4.Il tavuk göğsü con tanta cannella che aveva mangiato a Istinye. 5. Parlammo di come le cozze ripiene vadano aromatizzate con la cannella. 6. Il cucchiaino che Füsun, annoiata, metteva in bocca. 7. Il cono gelato, mezzo morsicato sul borso, che Füsun aveva fatto cadere sul lungomare del Bosforo. 8. Il fiore safsa che secerne un elisir oppiaceo 9. Le scarpe di mio padre per cui mia madre aveva pianto, ritrovandole dentro un armadio.
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Comprendiamo che è difficile non innamorarsi di un progetto che ti racconti in modo così intenso una storia. Comprendiamo il motivo per cui il libro, uscito in Turchia nel 2008, sia stato tradotto l’anno successivo in inglese e poco dopo in oltre 60 lingue. Comprendiamo perchè la pagina facebook del museo abbia oltre 19mila fan e che su TripAdvisor sia acclamata come la diciannovesima attrazione di tutta Istanbul.
Shopbunny, Londra, Regno Unito “Very different museum experience. Highly recommend it.”, voto 5/5 - 28 dicembre 2014 Omidou, Londra, Regno Unito “The essence of Istanbul”, voto 5/5 If you are a fan of your old grandma’s cup board, and the fascination of good old days through the objects, you’ll find this place attractive. It is full of nostalgic view of an era via a love story.
The book and museum concept was extremely well thought out and the museum really thoughtfully executed. It really felt like being inside of a love story. It also gave a very interesting insight into 1970s/1980s Istanbul. We were also lucky enough to meet the author whilst we were there.
Fabio M, Siena, Italia “Vale un viaggio” , voto 5/5 Mai vista una compenetrazione così intensa e affascinante tra letteratura, città, museo, ambiente umano; una guida che aiuta a pensare Istanbul, e ripensare tanti nostri sciagurati musei italiani.
TRIPAbout//
Cosa dice Tripadvisor sul Museo dell’innocenza 236 recensioni:
Aneta, Christchurch, Nuova Zelanda “Museum with a soul”, voto 5/5, 21 dicembre 2014 The most original concept for a museum: this shows how museums should be made, telling a story with a display of objects, photos, videos and their arrangement in space. As the author says, his intention was to represent time through space.
Eccellente 165 Molto buono 49
Nella media 17 Scarso 4
Pessimo 1 SydneyKat, Sydney, Australia “A museum like no other”, voto 5/5 – 26 giugno 2012
Claudia T, Milano, Italia “Un museo per sognare”, voto 5/5 Ho aspettato tanto l’apertura di questo museo e finalmente ha aperto. Lo consiglio vivamente a chi ha letto il libro, poiché si può vedere tutto ciò che la fantasia aveva immaginato. Bellissima raccolta di oggetti. Carina anche l’iniziativa del biglietto omaggio se si ha letto il libro.
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I don ‘t think Orhan Pamuk draws a hard line between fiction and reality. We are used to museums being full of facts, historical details, and “important” objects. the wonderful Museum of Innocence is about fictional characters who Pamuk has created material culture around. It is extraordinary. A must for anyone interested in museums, social history, Istanbul or literature.
Idsiatrip, Lugano “A special kind of museum”, voto 5/5, 20 agosto 2012 Don’t visit this Museum unless you’ve read the acclaimed novel “The Museum of Innocence” by Nobel prize winner Ohran Pamuk. This Museum is a complement to the book and it can be appreciated only by avid readers who fell in love with that novel. Pamuk is definitely a fastidious person, and the great care he has devoted to his books becomes tangible in this little jewel of a “museum”. Absolute silence and concentration is requested to all visitors, in order to enjoy at best the experience. Unfortunately this clashes with the policy of allowing children under 12 in the museum, even if accompanied by their parents. I was there with my 6-yrs old daughter, who was very excited by the museum (it is definitely something that impresses both adults and children), but it was very difficult to get her to talk in a hush voice, despite the gentle reminders of the wardens.
TRIPAbout//
commentatori meticolosi: il libro, leggerlo o non leggerlo? Patrick, Philadelphia “Nostalgia”, voto 5/5, 28 luglio 2012 You don’t need to have read the book to appreciate this museum; at least I didn’t. On the most simplistic level, the displays each relate to chapters in the novel, and there are bits of text explaining what each one is. Everything is self explanatory. The whole house is a (mostly) loving tribute to an era in Istanbul that is long gone, and Pamuk has collected artifacts from the past to augment the obsessive love story in the novel, but it is also a tribute to Istanbul itself and a way of life that no longer exists. It’s all about nostalgia and the everyday artifacts (buttons, combs, photographs) that make up our lives. It is a museum like no other because it is one man’s history (even though the man is fictional). And it’s in a house, on a small side street, away from where you would expect to find a museum. This too is what makes it special. Part of the beauty is in the simplicity of it, and the fact that’s it so personal. You have to be open to something unusual to appreciate it, otherwise it’s just a house full of old objects. Of all the displays, the most arresting one contains a page from the newspaper: a series of young women’s faces, black bars over their eyes to conceal their identities. These were prostitutes, adulterers--all women who somehow been shamed. But the list includes rape victims, which made it all the more tragic. It’s hard to imagine not liking this place if you have any sense of romanticism.
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shopandco/
MERCHANDISING // interazioni col museo
L’ultima riflessione riconduce a una possibilità che il Museo dell’innocenza concede ai suoi visitatori: di poter lasciare un proprio oggetto significativo rispetto alla propria storia d’amore. Il “Donating to the collection” è una possibilità riservata a una vetrina temporanea del museo che si può realizzare inviando una mail a info@masumiyetmuzesi.org. Infine è possibile, nel negozio del museo, acquistare non solo il catalogo, ma anche certi oggetti legati alla storia: gli orecchini di Füsun, a forma di farfalla e con un ciondolo recante l’iniziale del
suo nome, descritto nel primo capitolo, progettato e realizzato da Kiymet Daytan seguendo la descrizione di Pamuk, primo oggetto della collezione del museo. C’è anche un cuore spezzato di porcellana, di cui Pamuk dà descrizione nel Capitolo 53, Il
dolore di un cuore infranto e
risentito non serve a nessuno, progettato e realizzato da Özlem Arapoğlu.
Quello che avevo appena vissuto si chiama “delusione d’amore”: penso che questo cuore rotto di porcellana, che espongo qui, potrà
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far capire fino in fondo la mia sofferenza a chiunque visiterà il nostro museo.
Una volta realizzato il cuore di porcellana, racconta Pamuk, tagliò un pezzo del nastro rosso del portachiavi della teca n. 6 (la chiave della cassa del negozio dove lavorava Füsun), e lo inserì lui stesso nella fessura che lo spezzato attraversa. E poi ci sono ovviamente poster, cartoline, segnalibri, e ogni tipo di merchadising possibile, in grado di farci uscire da quel museo, sì, con qualche oggetto.
LOVESTORAGE // Chi è, cosa fa e perché
Intervista alla giovane direttrice di una rivista, di un museo e di altre relazioni Se qualcuno di voi, a questo punto della rivista, si fosse chiesto di che razza di roba si tratti, troverà in questo articolo la risposta. LoveStorage è la rivista dell’omonimo museo di Londra, che raccoglie scatole d’amore di tutto il mondo: chiunque abbia chiuso un amore dentro una scatola potrà inviarcela, raccontarcela. Ci penseremo noi, poi, a raccontarla in altro modo. Per comprendere meglio il progetto LoveStorage abbiamo intervistato la direttrice del museo, nonchè della nostra rivista. .
Cos’è Love Storage e come funziona? Concretamente o per me? Concretamente, Love Storage è un museo di scatole. Invitiamo tutte le persone che abbiano voglia di mandarci una loro scatola con dei ricordi a inviarcela per esporla nel nostro museo, per farla diventare qualcos’altro. Per me, Love Storage è una filosofia, e parla a tutti gli “inscatolatori,” cioè quelli che hanno un amore compulsivo per gli oggetti e credono nel loro potere salvifico, confortante, energico.
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Di che scatole si tratta? Sono scatole d’amore, ma non in senso stretto: riceviamo scatole con oggetti del proprio cane, dei propri genitori o dei propri figli. È un museo degli oggetti evocativi. Ovviamente le scatole delle relazioni amorose vanno per la maggiore, visto che sin dall’ inizio l’idea era quella. Ma non ci siamo mai chiusi, concettualmente, in tal senso. Riceviamo anche scatole del disamore: consegnateci con rabbia, frustrazione. Spesso dalle descrizioni degli oggetti abbiamo dovuto eliminare qualche turpiloquio gratuito....
ParlaLoveStorage/
Perchè le persone dovrebbero consegnare le proprie scatole a voi? Perchè è un modo per rendere omaggio a quello che è stato. Le persone che di solito chiudono tutto dentro una scatola lo fanno, nel bene e nel male, per superare qualcosa. Questo qualcosa, tuttavia, non viene mai superato del tutto finchè la propria scatola rimane chiusa nel fondo di un armadio o di una libreria, come nella storia che pubblichiamo in questo numero zero della nostra rivista. Nella mia idea c’è stato, sin dall’inizio, una volontà di
superamento di una crisi, o meglio, di un passaggio di vita. La tua idea: infatti. Come ti è venuta in mente una cosa del genere? Avevi altri riferimenti in merito? I maggiori riferimenti sono quelli che ho deciso di volere inserire proprio in questo numero zero: innanzitutto Pamuk, in secondo luogo il Museo delle relazioni finite di Zagabria, che hanno molto ispirato tutto il mio lavoro sin dal mio primo contatto con essi. Ti provoco, per l’appunto. Ma
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non esisteva già questo tipo di museo? Che senso aveva proporne un altro? Lo dicono in molti, approcciandosi all’idea: in realtà quando entri qui è tutta un’altra cosa. Sono stanze con una scatola per piedistallo, perfettamente ordinate, con le descrizioni degli oggetti scritte di pugno da chi ce le ha inviate. È un museo che non fa la stessa operazione di Pamuk, che approfondiva una sola storia, ma allo stesso tempo va più a fondo di quello di Zagabria. È importante, a mio parere, lasciare uno spazio di lettura e immaginazione allo
spettatore, fare in modo che non conosca esattamente tutto quello che ha riguardato una storia. Il museo di Pamuk, per quanto splendido, ha un unico difetto: dice moltissimo. Hai presente quando prima di andare in un posto lo immagini in un modo e poi quando vai a vederlo dimentichi l’immagine di partenza? È lo stesso concetto. Mantenere un’aura di mistero sul mondo è una cosa che trovo interessante. Il progetto di Pamuk ha un legame con un romanzo: che ci dici del tuo? Ha anche questo a che fare con una storia scritta? Assolutamente sì, anche se in
modo non così evidente. L’idea del museo mi è venuta mentre stavo lavorando a un mio romanzo (Glorious Breakfasts, ndr). Si tratta di una storia d’amore un po’ “anomala”: un ragazzo e una ragazza, sulla trentina, che, disillusi sull’amore ma attratti l’uno dall’altra decidono di intraprendere una relazione “seriale”, vedendosi una volta ogni due mesi in una città sempre diversa dalla propria, cambiando nome, professione, identità. Quello su cui riflettevo, in quel periodo, era proprio quando e da cosa una decisione così estrema (che era dettata dalla noia, dal non-coraggio) potesse derivare. Dalla scatola di ognuno
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di noi, mi sono detta: da quello che abbiamo vissuto e dal fatto che non l’abbiamo del tutto superato o elaborato, abbiamo sofferto e basta, spesso. E nel romanzo hai poi fatto riferimento al museo? Sì, ma non come Pamuk, che ha addirittura inserito il biglietto nel romanzo! Li ho tuttavia fatti andare al museo prima che il museo esistesse. Ho fatto affrontare alla mia protagonista, Lara, la sua personale crisi con la scatola. Da questo è derivata una riflessione più profonda, che, unita allo studio del caso di Pamuk e a sondaggi informali sull’amore che facevo
ParlaLoveStorage/
in quel periodo, ha dato come risultato Love Storage. In qualche modo, i miei protagonisti hanno inaugurato il museo (ovviamente c’è anche la scatola di Lara!). Forse è per questo tuo legame con la scrittura che al tuo museo le storie si possono immaginare? Esattamente. Il corso di scrittura che ho frequentato prima di aprire questo museo mi ha trasmesso la passione della scrittura, e attualmente ogni semestre abbiamo dei corsi di scrittura collegati al museo, con privati e scuole. Le persone arrivano, scelgono una scatola, e scrivono.
Come nel caso della scatola di Lara, il cui racconto è inserito nelle ShortStorage. Se avessero voglia di scrivere un romanzo, invece.... Se avessero voglia di scrivere un romanzo, anzichè una scatola ne prendono due, tre, quattro, cinque. Abbiamo dei docenti di scrittura che seguono gli allievi passo passo, e sono in grado di guidare i loro processi creativi. In realtà è un bell’esperimento di scrittura: dei miei anni a scuola, ricordo che era molto più facile scrivere di qualcosa di circoscritto piuttosto che avere tutte le possibilità aperte.
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Cos’altro fa il vostro museo per il pubblico? Il museo si basa sull’interazione: non esisterebbe alcun museo senza l’invio delle scatole da parte delle persone. Per questo motivo tutto il lavoro del museo è rivolto al pubblico. Offriamo la possibilità di realizzare dei cataloghi personali delle scatole, facendo fotografare il contenuto da professionisti e mettendo nero su bianco le descrizioni degli oggetti che le stesse persone ci hanno mandato. Oppure inseriamo le proprie scatole nei cataloghi annuali del museo. Nei nostri canali social diffondiamo le foto delle scatole e ne raccontiamo una storia parziale
“Trattandosi di persone in carne e ossa ne succedono di tutti i colori: una volta un ragazzo ha visto la “sua” scatola, esposta dalla sua ex, e insisteva di volerla indietro perchè c’era la sua collezione di figurine che aveva scordato a casa della ex fidanzata.”
e le persone le ricondividono, perchè un brand parla di loro. Ma come funziona con l’anonimato? Ovviamente tutto avviene previo consenso di chi invia la scatola. Noi chiediamo di inviarci una scatola con degli oggetti della propria storia, poi chi vuole può darci il consenso per diffondere queste informazioni online, garantiamo la possibilità di anonimato ma resta il fatto che la scatola è all’interno di un museo e ha comunque visibilità. Un’altra cosa cui si accorda il consenso all’invio è la costruzione
di un archivio online degli oggetti più regalati o in generale più conservati, divisi per categorie. È interessante: abbiamo scoperto, per esempio, che ci si lascia molto di frequente prima di un viaggio importante insieme. In generale, comunque, quando invii hai un modulo in cui specifichi cosa vuoi e cosa non vuoi fare: catalogo, opuscolo, archivio, social, bisogna persino dare il consenso per la scrittura delle storie. Ma la gente è davvero disposta a tutto questo? In realtà sì: una volta che decidi di liberarti della scatola e restituirla
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a un altro contenitore, il fatto che si tratti di un contenitore più alto e che venga comunque fatto qualcosa di bello rende disponibile la maggior parte delle persone. Come avete fatto a raggiungere il vostro pubblico? Abbiamo cominciato dai social. Abbiamo inaugurato la pagina “Noi che inscatoliamo le storie” e abbiamo cominciato a promuoverla online. Pensando di muoverci su un insight reale abbiamo deciso di puntare soprattutto su operazioni virali, e non convenzionali.
ParlaLoveStorage/
Avete fatto anche diverse campagne di guerrilla marketing. Sì, abbiamo cominciato posizionando scatole brandizzate (e con degli oggetti tipo all’interno) tra gli scaffali di negozi d’abbigliamento, nelle mensole dei negozi di libri, o per strada. Erano delle scatole normalissime, con degli oggetti quotidiani dentro, solo che avevano il logo Love Storage e il nostro pay-off: “Have you ever storaged a story?”. Poi abbiamo proceduto alle campagne più stravaganti: c’è stato il BikeStorage, in cui abbiamo
messo nei cestini delle bici del BikeSharing delle confezioni vuote, invitando gli utenti a usare quelle stesse scatole (nelle scatole c’era il modulo di invio al museo). Abbiamo fatto un accordo con diversi corrieri perchè appiccicassero un adesivo con logo e pay-off su tutti i pacchi postali che consegnavano. Poi siamo entrati nei musei e nelle gallerie, “inscatolando” delle opere d’arte, brandizzandone la copertura trasparente e descrivendo un oggetto di notevole valore storico come un oggetto d’amore. I gioielli d’amore del Museo Egizio di Torino
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restano i miei preferiti. Ma poi che ve ne farete di tutte queste scatole? Il senso del museo è ciclico, quindi chiediamo alle persone di scegliere, al momento dell’invio, l’opzione che preferiscono: se preferiscono che vengano restituite loro entro una certa data, se vogliono donarle al museo, oppure, addirittura, se vogliono mandarle al macero, per essere riciclate. Con questi materiali ci produciamo i gadget del museo. Ci racconti qualche storia divertente legata al museo?
Trattandosi di persone in carne e ossa ne succedono di tutti i colori: una volta un ex ha visto la sua scatola esposta e insisteva di volerla indietro perchè c’era la sua collezione di figurine che aveva regalato alla fidanzata. Una volta una ragazza, vedendo la cuffia di una scatola, con su scritto “Non le piaceva fare sesso sotto la doccia” ha chiamato il suo ex e ha cominciato a urlargli contro in mezzo al museo. Ma a volte si cerano amicizie ai workshop o su facebook. Più vado avanti e più mi rendo conto che è una rete.
Perchè proprio Londra? Il primo motivo è legato al romanzo, e cioè perchè Lara e Stefano, i protagonisti della mia storia, entrano in crisi proprio in quella città, dopo avere visto, in questo museo, quante storie d’amore “inscatolate” esistano. Sarà qui che la coppia s’incrinerà in una divergenza di intenzioni. Il secondo motivo è perchè, pur essendo Italiana, un progetto di spezioni frequenti come quello del mio museo non è particolarmente comoda o economica. Londra è frequentarissima dai turisti e per questo portare la scatola è facile. Ed è un luogo creativo, specie
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Hackney, il quartiere in cui ho deciso di realizzare il museo (qui accanto, ndr). Ma tutto questo è gratis? Putroppo no, il museo ha un costo d’ingresso, che non facciamo pagare a chi ci invia una scatola. I servizi di progettazione grafica degli opuscoli e workshop di scrittura, sono a pagamento. Non costa niente consultare il nostro archivio online, distruggere la scatola, o rinviarla al legittimo proprietario. Lo facciamo gratuitamente, come fosse un gesto d’amore.
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StorageShop // in vendita al museo o su lovestorage.com SIAMO GLI
INSCATOLATORI
QUELLI CHE ALLA FINE DI UNA
STORIA METTONO
REGALI, BIGLIETTI, LIBRI, DISCHI, ORECCHINI, SCARPE, DENTRO UNA SCATOLA, CHE SIGILLIAMO E CHIUDIAMO DENTRO UN ARMADIO, NEL RIPOSTIGLIO, O IN FONDO ALLA LIBRERIA SIAMO GLI AUTOCONFORTATORI. QUELLI
CHE SE PER CASO CI IMBATTIAMO NELLA SCATOLA, E PENSIAMO A QUELLO CHE C’È DENTRO, CI CONFORTIAMO.
SIAMO
U E L L I C H E O G N I TA N TO RICORDATORI QPRENDIAMO LA SCATOLA, LA APRIAMO, E CI RICORDIAMO
DI TUTTO QUELLO CHE È STATO: LO FACCIAMO CON RABBIA, O RASSEGNAZIONE, O NOSTALGIA, E A VOLTE NE SIAMO ANCHE GRATI. SIAMO I SUBLIMATORI.
SIAMO GLI
INSCATOLATORI
QUELLI CHE ALLA FINE DI UNA
STORIA METTONO
REGALI, BIGLIETTI, LIBRI, DISCHI, ORECCHINI, SCARPE, DENTRO UNA SCATOLA, CHE SIGILLIAMO E CHIUDIAMO DENTRO UN ARMADIO, NEL RIPOSTIGLIO, O IN FONDO ALLA LIBRERIA SIAMO GLI AUTOCONFORTATORI. QUELLI
CHE SE PER CASO CI IMBATTIAMO NELLA SCATOLA, E PENSIAMO A QUELLO CHE C’È DENTRO, CI CONFORTIAMO. QUELLI CHE OGNI TANTO PRENDIAMO LA NOSTRA
SIAMO
SCATOLA, LA APRIAMO, E CI RICORDIAMO DI TUTTO QUELLO RICORDATORI CHE È STATO: LO FACCIAMO CON RABBIA, O RASSEGNAZIONE, O NOSTALGIA,
E A VOLTE NE SIAMO ANCHE GRATI. SIAMO I SUBLIMATORI. PERCHÈ
CREDIAMO CHE IN QUESTA SCATOLA CI SIA IL SEGRETO ULTIMO DI CHI SIAMO, CHI ERAVAMO, CHI AVEVAMO ACCANTO, COSA È STATO.
CREDIAMO CHE IN QUESTA SCATOLA CI SIA IL SEGRETO ULTIMO DI
TUTTO FINITO. SIAMO GLI ESPOSITORI.
TUTTO FINITO. SIAMO GLI ESPOSITORI. QUELLI CHE A UN CERTO PUNTO
SIAMO I SORPASSATORI. CHE CAPIAMO CHE È STATO BELLO, MA CHE ADESSO È
QUELLI CHE A UN CERTO PUNTO
DECIDONO CHE È ARRIVATO IL MOMENTO DI L I B E R A R E I NOSTRI OGGETTI, DI REGALARLI A UNA “SCATOLA” PIÙ GRANDE.
RILASCIATORI
. GENTE IN GRADO DI LASCIARLE ANDARE.
NARRATORI
QUELLI CHE HANNO VOGLIA CHE LE SCATOLE DIVENTINO STORIE.
CHI SIAMO, CHI ERAVAMO, CHI AVEVAMO ACCANTO, COSA È STATO. SIAMO I SORPASSATORI. CHE CAPIAMO CHE È STATO BELLO, MA CHE ADESSO È
DECIDONO CHE È ARRIVATO IL MOMENTO DI L I B E R A R E I NOSTRI OGGETTI, DI REGALARLI A UNA “SCATOLA” PIÙ GRANDE.
RILASCIATORI. GENTE IN GRADO DI LASCIARLE ANDARE. NARRATORI QUELLI CHE HANNO VOGLIA CHE LE SCATOLE DIVENTINO STORIE.
S I A M O QUELLI CHE TUTTE , ANCHE LE SCATOLE D’AMORE DEGLI ALTRI
S I A M O QUELLI CHE TUTTE, ANCHE LE SCATOLE D’AMORE DEGLI ALTRI
CHE APPASSIONATI, DILETTANTI, COLLEZIONISTI, PRINCIPIANTI, AMIAMO OGNI STORIA, LA INIZIAMO, LA CONTINUIAMO, LA FINIAMO. E RICOMINCIAMO.
CHE APPASSIONATI, DILETTANTI, COLLEZIONISTI, PRINCIPIANTI,
LETTORI S O N O B E L L E Q UA N TO L E N O ST R E . SIAMO GLI AMATORI
LETTORI SONO BELLE QUANTO LE NOSTRE. SIAMO GLI AMATORI AMIAMO OGNI STORIA, LA INIZIAMO, LA CONTINUIAMO, LA FINIAMO.
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Manifesto Love Storage 30cmx30cm ocra 15 €
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Catalogo Love Storage 15cmx15cm a partire da 20€
Abbonamento Love StorageMag 25€ annuali
Il museo dell’innocenza Orhan Pamuk, Einaudi 14 €
L’innocenza degli oggetti Orhan Pamuk, Einaudi 32 €
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Sapevi che il 70% degli uomini non butta mai via il servizio da cucito della sua ex?
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conclusionintroduzioni/
Introduzione a Il Museo dell’innocenza, Orhan Pamuk
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