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M O U N TA I N S
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N. 123 APRILE 2019 / BIMESTRALE
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ambiènte s. m. [dal lat. ambiens -entis, part. pres. di ambire «andare intorno, circondare», in origine usato come agg. riferito all’aria o ad altro fluido]. – 1. a. Spazio che circonda una cosa o una persona e in cui questa si muove o vive (…) b. In biologia, l’insieme delle condizioni fisico-chimiche (temperatura, illuminazione, presenza di sali nell’acqua e nel terreno, ecc.) e biologiche (presenza di altri organismi), in cui si può svolgere la vita degli esseri viventi (…)
inquinaménto s. m. [der. di inquinare; il lat. inquinamentum aveva sign. concr.: «immondezza, lordura»]. – 1. L’inquinare, l’inquinarsi; contaminazione di un qualsiasi ambiente o mezzo, naturale o artificiale (acqua, alimenti, colture, ecc.), a opera di batterî o altri agenti (prodotti di rifiuto di stabilimenti industriali, ecc.): misure, provvedimenti, leggi contro l’i.; elementi, fattori d’inquinamento. In partic., i. ambientale, il complesso delle contaminazioni che conseguono a varie attività umane alterando le caratteristiche dell’ambiente in cui l’uomo vive (…)
riscaldamento globale. Effetto dell’innalzamento della temperatura media atmosferica in superficie registrato su scala globale negli ultimi cento anni (…) Le conseguenze del riscaldamento globale sono particolarmente evidenti nello scioglimento dei ghiacciai, nella riduzione dell’estensione delle calotte polari e nell’innalzamento globale del livello degli oceani. (…) Le cause del riscaldamento globale costituiscono un campo di ricerca attivo. La maggioranza della comunità scientifica concorda nell’indicare le attività umane di produzione di gas a effetto serra e di disboscamento come la causa principale del riscaldamento globale (…)
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Skimo Race
Skimo Tour
Skimo Nanotech
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Testo e foto di Tomaso Clavarino
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Lo skilift dell’Alpe Giumello, sul monte Muggio, in provincia di Lecco, piccola stazione sciistica che sopravvive grazie al lavoro volontario di alcuni abitanti della zona. A fine gennaio gli impianti non avevano ancora aperto. Giuseppe Versino è lo storico titolare del ristorante Aquila all’Alpe Colombino, sopra Giaveno, in provincia di Torino. La sua famiglia era la proprietaria degli impianti dell’Aquila, chiusi nel 1994. Due cannoni per la neve programmata abbandonati sulle vecchie piste di Sella Chianzutan, vicino a Tolmezzo, in provincia di Udine (alla prossima pagina)
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Arianna Versino, figlia di Giuseppe, vuole portare avanti la tradizione di famiglia al ristorante Aquila nonostante le difficoltà dovute alla chiusura degli impianti. Un edificio abbandonato a Pian Gelassa, provincia di Torino. Stazione sciistica mai terminata ora è un agglomerato di case non finite, impianti abbandonati e, d’inverno, strade ghiacciate. Un deposito all’aperto di seggiolini della seggiovia della stazione sciistica di Recoaro Mille in provincia di Vicenza (alla prossima pagina)
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La strada che da Viù sale a Tornetti è ripida e stretta, i tornanti si susseguono uno dopo l’altro tra le piccole frazioni dove le persiane aperte delle case si contano sulle dita di una mano. Ha dato una spolverata di neve da poco da queste parti e il paesaggio è di un bianco candido, quasi irreale. In giro nessuno, d’altronde di residenti in questo angolo delle Valli di Lanzo ne sono rimasti otto. Qui le montagne formano un anfiteatro naturale, di una bellezza suggestiva. Dovrebbe essere famosa per questo Tornetti, ma così non è. Da anni ormai questa zona è conosciuta per ben altro, purtroppo. È qui tra i pascoli che affacciano sulla bassa valle che si trova l’ecomostro dell’Alpe Bianca. Un edificio imponente che sarebbe dovuto diventare un albergo, il sogno di alcuni avventati imprenditori che qui a cavallo tra anni ’70 e anni ’80 avrebbero voluto realizzare una stazione sciistica per attirare famiglie e sciatori torinesi, vista la relativa vicinanza al capoluogo piemontese. Gli impianti girarono fino al 1995, poi il calo di sciatori, i costi di gestione e la scarsità di neve ne decretarono la chiusura. L’albergo, un transatlantico di sei piani, non venne mai finito, e ora rimangono uno scheletro di mattoni pericolante, i pali degli skilift, la casetta della biglietteria, a ricordare come in fondo sia facile deturpare per sempre la montagna. L’Alpe Bianca non è un caso isolato, le nostre montagne sono puntellate di impianti di risalita abbandonati e alberghi in rovina. Relitti di un turismo che ha prima sedotto e poi abbandonato le Alpi, lasciando in eredità cemento, cavi d’acciaio, parcheggi asfaltati e versanti disboscati. Dal Piemonte alla Carnia sono centinaia le stazioni sciistiche abbandonate; l’ultimo censimento, risalente a qualche anno fa, realizzato dalla CIPRA (Commissione Internazionale Protezione delle Alpi), Mountain Wilderness e dall’associazione Dislivelli, ne contava 186. Molto probabilmente, a parte qualche sporadico caso di tentativo di rianimazione di impianti fermi da anni, i numeri ora sono addirittura cresciuti. Basti pensare al comprensorio di San Simone, in alta Val Brembana. Seggiovie e skilift praticamente nuovi, condomini in perfetto stato, negozi, ristoranti, un hotel, tutto utilizzabile, tutto abbandonato, da quando, tre anni fa, è iniziata la saga di Brembo Super Ski. Una saga terminata con un fallimento, l’arresto ai domiciliari per i sindaci di Foppolo e Valleve e la vendita degli impianti. Ora Foppolo gira, grazie anche all’impegno dei commercianti locali, ma a San Simone è tutto fermo. Un paese fantasma, con le vetrine dei negozi ancora allestite e gli appartamenti chiusi. Anche a San Simone quest’anno la neve è arrivata tardi, ma a fine gennaio il parcheggio e le piste sono imbiancate. Non si muove una foglia, non si sente un rumore. Si vede solamente del fumo uscire da un comignolo di un piccolo chalet in legno. È il noleggio sci. Dentro una stufa accesa, sci e snowboard impilati, scarponi di tutte le taglie, un tavolo di legno e una bottiglia di prosecco. E Mauro Berera. L’unico residente rimasto a San Simone. «Avevamo tutto qui, belle piste, bei panorami, case nuove, impianti funzionanti, la gente veniva con piacere. Ma hanno deciso di far morire San Simone - racconta Berera - e ci sono riusciti. Io però non me ne vado, sto qui e provo a sopravvivere». Sci e snowboard non li affitta più a nessuno, ma nei weekend qualche ciaspola e le slitte sì. Poi ci sono gli scialpinisti, che qui, come a Recoaro Mille, nelle montagne vicentine, hanno sostituito gli sciatori da pista. Moreno Visonà è un’habitué delle vecchie piste di Recoaro Mille. Viene quasi tutte le settimane a macinare dislivello: «impianti come quelli di Recoaro non hanno futuro, ed è per questo che sono fermi. Bisogna trovare dei modelli
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alternativi al turismo dello sci alpino, soprattutto a queste quote». Investimenti sbagliati, costi di gestione troppo alti, stagioni sempre più corte e inverni sempre più caldi, questo il mix che sta contribuendo alla lenta agonia delle piccole e medie stazioni sciistiche delle Alpi. Non è un segreto che gli ultimi quattro anni siano stati i più caldi mai registrati sul pianeta terra, e non è neanche più un segreto il fatto che il cambiamento climatico risulti più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato in pianura infatti corrisponde a un +2 °C sulle Alpi. Il Politecnico di Zurigo ipotizza per la Svizzera un aumento da 2,5 °C a 4,5 °C entro la metà del secolo, e tutto lascia pensare che lo stesso possa accadere nel resto dell’arco alpino. Inutile dire che con queste previsioni, e con i modelli climatici che mostrano uno spostamento sempre più in avanti dell’arrivo della prima neve stagionale, il futuro delle stazioni di bassa e media quota, così come di quelle senza impianti di innevamento programmato, è sempre più a rischio. «Quest’anno fino a gennaio la maggior parte delle località sciistiche, in particolar modo nel Nord-Est, ha lavorato quasi esclusivamente grazie all’innevamento programmato - spiega Francesco Pastorelli di CIPRA - con ovvie conseguenze sull’ambiente e sulla sostenibilità economica dei comprensori». Lingue bianche in mezzo a prati gialli sono ormai una costante dei nostri inverni, la neve programmata fa parte del panorama alpino, così come le code ai tornelli per sciare su un manto nevoso sempre più spesso ghiacciato o marcio. Ma sono in pochi gli sciatori che hanno un’idea del reale costo della neve programmata. Cinque euro al metro cubo, al netto delle variabili tra le varie località alpine. Tenendo presente che le piste di sci italiane sommano all’incirca quattromila chilometri, il costo totale balla intorno al mezzo miliardo di euro. E a tenere in vita gli impianti di innevamento, e di conseguenza i comprensori, sono i soldi pubblici. In provincia di Trento e Bolzano c’è un contributo pubblico dell’80 per cento, sostiene CIPRA, ma secondo Giorgio Daidola, docente di analisi economico finanziaria per le imprese turistiche presso l’Università di Trento, «gli investimenti del pubblico per gli impianti di neve programmata e bacini idrici variano molto da regione a regione. Avvengono spesso attraverso finanziarie a capitale totalmente pubblico. Operano nei diversi settori economici, non solo nel turismo, e quindi è impossibile sapere leggendo i loro bilanci quanto investono per questa voce. Si può dire che i costosi bacini di raccolta acqua sono finanziati e autorizzati quasi interamente dagli enti pubblici, che li giustificano per altri fini. La Regione Piemonte ha varato un piano da 25 milioni per nuovi impianti di innevamento, il consorzio Dolomiti Superski da 90 milioni. I costi di gestione per l’innevamento del comprensorio della Vialattea, per esempio, sarebbero di circa 5,5 milioni di euro a stagione, di cui il 60 per cento a carico di regione e comuni». Ed ecco allora la rincorsa a nuovi progetti, a risorse pubbliche, per provare a rianimare stazioni sciistiche agonizzanti o in lento declino. A Caspoggio, a mille metri di altitudine in Valmalenco, provincia di Sondrio, dove gli impianti sono fermi da alcuni anni, sono stati stanziati 620.000 euro per rifare la pista Uai che arriva dritta in paese, con un sistema di innevamento programmato e un impianto di illuminazione nuovo di zecca. «Una decisione miope, uno spreco di risorse che potevano essere utilizzate per rilanciare Caspoggio con progetti e attività che guardano al futuro - sostiene senza mezzi
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termini Michele Comi, Guida alpina locale - Va ripensato il modello di business, i tempi sono cambiati, la gente scia sempre meno e sciare costa sempre di più. Inoltre le persone sono interessate anche ad altre attività, e una località come Caspoggio deve investire su questo, su di un’alternativa, che sia possibilmente sostenibile. Nuove piste, con sistemi di innevamento da centinaia di migliaia di euro non sono la soluzione per ridare speranza a una valle come la Valmalenco e a un paese come Caspoggio». Il futuro preoccupa, anche al Frais, in Val di Susa. Qui gli impianti quest’anno non hanno aperto. A fine gennaio le piste erano gialle, non un dito di neve sopra i ciuffi d’erba. Se a questo si aggiungono poi le liti tra gestori degli impianti e le istituzioni locali si capisce la preoccupazione di Renzo Pinard, ex sindaco di Chiomonte e titolare dell’albergo Belvedere, l’unica attività commerciale aperta in un giorno di fine gennaio in una località di seconde case che conta undici residenti fissi. «C’è poco da fare, qui è diventata una questione di sopravvivenza ormai - dice Pinard - Bisogna farsi un esame di coscienza e capire se quello che vogliamo è continuare a essere ancora dipendenti dalle piste da sci, o se invece non sia il caso di trovare altre opzioni. Penso allo scialpinismo, alle ciaspole, alle mountain bike d’estate, tutte attività che hanno i praticanti in crescita, che non richiedono investimenti eccessivi e che diversificherebbero l’offerta di Pian del Frais. Perché altrimenti temo che l’alternativa sia chiudere una volta per tutte i battenti». E magari fare la fine di Pian Gelassa, a qualche chilometro dal Frais. Un comprensorio abbandonato, tra pinete e pascoli, spazzato via prima dai fallimenti degli impresari e poi dalle valanghe che ne hanno martoriato gli impianti. Ora è un villaggio spettrale, un set post apocalittico dove i ruderi dei condomini in costruzione sono avvolti dalla vegetazione che lentamente si sta riprendendo lo spazio che le era stato tolto. Alpe Colombino, Colle del Lys, Albosaggia, Alpe Paglio, Paularo, Ligosullo, Sella Chianzutan, dalla provincia di Torino a quella di Udine, sono solo alcuni dei nomi di stazioni sciistiche che nel corso degli anni, chi prima chi dopo, chi nella sua totalità, chi solo in parte, hanno chiuso, lasciandosi dietro i resti di un modello di sviluppo e di turismo che va, quantomeno, ripensato. Perché si può essere scettici quanto si vuole in merito al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, ma non si può far finta di non vedere i risultati di ricerche come quella realizzata dal Cryos Laboratory dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna, secondo il quale ai ritmi attuali di riscaldamento globale sulle Alpi la neve sotto i 1.500 metri sarà un ricordo lontano o un fatto puramente sporadico, ma anche gli impianti a quota maggiore subiranno notevoli conseguenze. Se l’incremento medio
Una delle vecchie piste del comprensorio dell’Aquila, all’Alpe Colombino. Una volta l’Aquila era una nota stazione sciistica: tre skilift, una seggiovia, quattro chilometri di piste lungo le pendici del monte che, con i suoi 2.200 metri, fa da spartiacque tra le valli Sangone e Chisone. L’interno del noleggio sci e scarponi a San Simone, nelle alpi bergamasche. La stazione è chiusa da un paio d’anni a causa di un fallimento (alla pagina precedente).
della temperatura supererà la fatidica quota di 2 gradi centigradi, lo spessore della neve potrebbe diminuire del 40 per cento anche nelle zone oltre i 3.000 metri. Lo sanno bene Roberto Treppo e Gioiella Rosset, i gestori dell’unico ristorante di Sella Chianzutan, sopra Verzegnis, in Friuli. Qui quando ancora le nevicate erano abbondanti, o quantomeno regolari, si sciava, e anche tanto. Poi sono arrivati gli impianti dello Zoncolan e quelli di Piancavallo. La gente ha iniziato a frequentare altre località, la neve a cadere con meno regolarità e gli impianti sono passati di mano, dai privati al comune di Verzegnis. Ma tre bandi per aggiudicarne la gestione sono andati deserti e ora i tralicci, il gatto delle nevi acquistato e mai utilizzato, così come i due cannoni per la neve, rimangono lì a ricordare i vecchi fasti andati. «D’altronde non si può pensare di sciare a 890 metri ormai - chiosa Roberto Treppo - però si può provare a rilanciare questa zona, dove ormai abitiamo solo più noi e pochi altri, in altri modi. Le istituzioni devono aiutare chi decide di non lasciare la montagna, nonostante le difficoltà. Perché se non si dà una mano a chi resiste tra pochi anni non ci saranno solo più stazioni sciistiche abbandonate, ma anche interi paesi e intere vallate». Ma non sono solo le piccole e medie stazioni sciistiche a soffrire, anche le grandi non se la passano troppo bene. L’indotto creato però fa sì che debbano, per forza di cose, stare in piedi. «La verità è che i grandi comprensori non sono riconvertibili - continua Daidola - meglio quindi circoscriverli e non lasciarli sviluppare ulteriormente. Devono essere considerati dei territori sacrificali, dei luna park in quota, delle zone inquinate da contenere e basta». Sono proprio le piccole e medie stazioni, paradossalmente, quelle che, sempre secondo Daidola, potrebbero reinventarsi facendo leva sulle proprie caratteristiche peculiari. Basti pensare a chi ha puntato sul freeride come La Grave in Francia o, più in piccolo, Prali in Val Germanasca. Stazioni che hanno ritrovato una loro identità, grazie anche a un management preparato, sensibile e aperto al rinnovamento. Cosa che purtroppo, in Italia, sembra una rarità. «È una questione culturale, di mentalità - spiega Maurizio Dematteis, dell’associazione Dislivelli, composta da ricercatori universitari e giornalisti specializzati, che si occupa di studiare il territorio alpino e chi lo abita - Gli impianti di risalita non sono il male, anzi hanno rappresentato, e ancora rappresentano in certi casi, un volano per il territorio alpino. Ma i tempi sono cambiati e il rischio è di vedere allungarsi di molto l’elenco delle stazioni ferme ed abbandonate. I gestori degli impianti, le istituzioni, devono trovare delle soluzioni che possano essere sostenibili sia dal lato ambientale che da quello economico, non pensando di poter vivere solamente con la neve programmata perché sarebbe un errore imperdonabile». I cavi d’acciaio penzolanti, i blocchi di cemento dei piloni, i piattelli stoccati in locali fatiscenti, i seggiolini delle seggiovie ammassati come da uno sfascia carrozze, i condomini spettrali, le piste di erba, gli alberghi deserti, sono quello che rimane di investimenti sbagliati, di scommesse imprenditoriali fatte sulla pelle dell’ambiente montano e di chi lo vive. Scommesse spesso finanziate da soldi pubblici e da istituzioni che non hanno mai avuto, in questo Paese, quella sensibilità necessaria per rapportarsi con un ecosistema fragile, oggi più che mai. Luoghi come Pian Gelassa rimangono lì come un monito, a ricordarci che le nostre montagne sono già state predate a sufficienza e che il futuro di un’industria come quella dello sci non può, e non potrà, basarsi solamente sui cannoni sparaneve.
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La pista Uia di Caspoggio, beneficiaria di un ingente stanziamento da parte della Regione Lombardia per realizzare un impianto di innevamento programmato e di illuminazione, passa sopra un’edicola votiva. Mauro Berera, l’ultimo residente di San Simone
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Le insegne delle attività commerciali di San Simone, vicino a Foppolo. La sala di controllo dei vecchi impianti di Paularo, in Friuli. L’ecomostro dell’Alpe Bianca nella valli di Lanzo, in provincia di Torino (alla prossima pagina)
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Alcuni piattelli del vecchio skilift di Paularo, vicino a Tolmezzo, ammassati in un deposito nei pressi di quella che una volta era la pista da sci. L’arrivo della cabinovia a Recoaro Mille, chiusa da alcuni anni
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Renzo Pinard, ex sindaco di Chiomonte, e uno dei pochi residenti di Pian del Frais, in provincia di Torino. A causa della mancanza di neve e di liti tra gestore degli impianti e comune, quest’anno gli impianti di Pian del Frais non hanno aperto. Gli impianti del Colle del Lys una volta funzionavano ed erano frequentati dai torinesi per la loro vicinanza alla città . Ora è rimasto solo uno skilift che, senza innevamento programmato, viene aperto qualche settimana all’anno
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I NCH I E STA
Testo e foto di Tomaso Clavarino
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La cima del monte Dobratsch, vicino a Villach in Carinzia, caratterizzata da un enorme ripetitore. Uno scialpinista sale i pendi di quella che è diventata una vera e propria mecca dello scialpinismo austriaco dopo la chiusura degli impianti di risalita
Quello che in Italia molto spesso non si ha il coraggio di fare, di solito viene fatto all’estero. Sembra una banalità, ma non lo è. E questa volta non bisogna andare troppo lontano. Basta arrivare in Friuli, raggiungere Tarvisio, passare il confine e fermarsi in Carinzia. A pochi chilometri da Villach c’è un monte, il Dobratsch. Fino al 2001 skilift e seggiovie portavano sciatori e vacanzieri in quota e il Monte Dobratsch era una delle tante stazioni sciistiche alpine, «poi le istituzioni locali hanno capito che non era più conveniente mantenere in piedi gli impianti di risalita. I costi di gestione erano troppo alti e i passaggi annuali erano crollati dal milione del 1991/1992 ai 100.000 del 2000/2001» racconta Alex Kleinegger, 33 anni, project manager del NaturPark Dobratsch. Sì, avete capito bene, parco naturale. In quattro e quattr’otto gli impianti sono stati smontati, venduti a una compagnia russa, che tra l’altro li sta ancora utilizzando in una qualche sperduta località degli
Urali, e il Dobratsch è diventato il primo parco naturale della Carinzia. Una decisione dovuta in primis alla sostenibilità economica, ma non solo. «Dal Dobratsch proviene l’acqua potabile che utilizza tutta l’area circostante, compresa Villach - continua Alex - Per mantenere delle piste di qualità e un innevamento costante si era arrivati al punto di dover creare un bacino idrico per la neve programmata, ma si è deciso di non mettere a rischio una risorsa come l’acqua». Ora questo monte, sotto la cui cima, a 2.150 metri, si trova una delle più alte chiese d’Europa, è diventato una meta turistica ancora più famosa di quando gli impianti di risalita erano in funzione. Non ci sono più i pistaioli ma sono decine, in un giorno infrasettimanale qualsiasi, gli scialpinisti che salgono i quasi 1.200 metri di dislivello che separano il parcheggio di Heiligengeist dalla Gipfelhaus, il nuovissimo rifugio sulla cima del Dobratsch. Anche qui l’inverno non è stato generoso, di neve per essere fine febbraio
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La Dobratsch Gipfelhaus è il rifugio più alto, costruito in cima al Monte Dobratsch e rinnovato di recente. Una veduta dei boschi e dei pendi. Due scialpinisti partono dal parcheggio di Heilingengeist, pieno di macchine anche in settimana. Theresa Omann, scialpinista e maestra di sci di Villach durante la salita al Dobratsch. Sci e bastoncini ammassati davanti all’ingresso della Gipfelhaus
ce n’è poca, e la salita, per lo più lungo quelle che una volta erano le vecchie piste, a questo giro è spesso su ghiaccio vivo. Ma Theresa, una scialpinista locale e maestra di sci, salendo al rifugio Rosstratten a quota 1.773 metri, mi assicura che quando c’è polvere il Dobratsch è un piccolo paradiso, anche per la quasi totale assenza di rischio valanghe data la sua conformazione. Non posso che fidarmi, mangiandomi le mani a sentire le pelli che non tengono. I coltelli? Ovviamente in macchina al caldo nel parcheggio. Scialpinisti, ma non solo. Il Dobratsch con la chiusura degli impianti è diventato, a detta di Alex, la montagna di tutti. Una strada, a pagamento, arriva di fronte al Rosstratten, e dalle macchine scendono fondisti (c’è una pista di fondo), ciaspolatori, semplici escursionisti e famiglie intere disposte a farsi quasi 500 metri di dislivello trainando una slitta per poter poi scendere dalla cima, o quasi. In Piemonte si direbbe, forse con un po’ di puzza sotto il naso,
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una situazione un po’ da merenderos, e forse lo è. Ma è indubbio che decidere di eliminare degli impianti sciistici, che sia per motivi di sostenibilità economica o di sostenibilità ambientale, o entrambi come in questo caso, per lasciare spazio a un turismo più slow, più variegato, e forse anche più popolare, è stata una scommessa vincente. Una scommessa vincente che, come spesso succede, ha anche dei risvolti, seppur in minima parte, negativi: il continuo aumento dei visitatori ha portato a un incremento della sporcizia, di cartacce e rifiuti lasciati lungo i sentieri e sulla neve, e le migliaia di macchine che ogni anno salgono fino a 1.700 metri, per Alex «dovrebbero essere di meno, ma il gestore della strada è un privato e non ha interesse a ridurre il numero delle auto che pagano 15 € di ticket». Problemi che a guardare tanti comprensori italiani e la loro ostinazione ad andare avanti con un modello di business che non funziona più fanno, sinceramente, un po’ sorridere.
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© 2019 Patagonia, Inc.
POCHE COSE SONO PIÙ PREZIOSE DELL’ARIA PULITA Running Up for Air è una gara di corsa in montagna nella quale i partecipanti devono correre su e giù per una montagna per 3, 6 o 12 ore. L’evento mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dell’inquinamento atmosferico che affligge tutto il mondo e si terrà per la prima volta a Chamonix, in Francia, il 4 e 5 maggio. In inverno, risalire la vallata significa spesso partire da un’aria fredda e inquinata, intrisa di smog, causata dalla vita moderna e dal famigerato Tunnel del Monte Bianco, e salire più in alto verso un’aria pulita e sorprendentemente più calda. Running Up for Air riunirà la comunità europea di trail running e l’evento supporterà Inspire 74, una ONG che si batte per una migliore qualità dell’aria nella regione del Monte Bianco.
MAY 4 & 5 2019 CHAMONIX TH
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351 Chemin du Pied du Grepon,74400 Chamonix-Mont-Blanc, France
P O RTF O LI O
GRANDS MONTETS RANDO PARK In teoria non esiste ancora, ma di fatto è quello che è successo quest’anno. Lo scorso settembre un incendio ha distrutto la stazione intermedia, cavi e cabine della storica funivia della valle di Chamonix, causandone la chiusura del troncone superiore, quello che portava a 3.275 metri e fungeva da punto di partenza per numerose gite nella zona di Argentière. Cos’è successo poi? Semplicemente, gli scialpinisti non hanno mai smesso di frequentare la zona per poi essere premiati con dei Grands Montets in versione wild, privati della presenza di sciatori alpini e turisti. Sciatori: Bruno Compagnet e François Regis-Thevenet. Foto: © Federico Ravassard
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MORIRE DI CALDO «Ieri ero li... in parete a scalare. Rumori inquietanti e caduta di sassi in zone anomale ci hanno fatto scendere al terzo tiro. Erano rumori diversi dai soliti, dall’assestamento delle terminali, dalle scariche nei canali. Erano rumori profondi». Queste le parole della Guida alpina Enrico Bonino, che si trovava sul Trident du Tacul a fine settembre del 2018, il giorno prima che crollasse. Negli ultimi vent’anni, sulle Alpi, oltre i 2.500 metri di quota, si sono verificate più frane con volume superiore al milione di metri di cubi (come quella del Pizzo Cengalo del 2017) di quelle che si sono registrate in tutto il secolo precedente: non solo i ghiacciai, ma intere montagne stanno, letteralmente, morendo di caldo. Foto: © Stefano Jeantet, a destra © Francesco Civra Dano
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ADDIO GHIACCIO Il ghiacciaio Muir e il suo affluente Mc Bride nel 1941 formavano un unico fronte alto più di 100 metri. L’immagine è stata scattata dalla stazione fotografica quattro dal White Thunder Ridge, nell’attuale Parco Nazionale di Glacier Bay, Alaska. La collina presente al centro dell’inquadratura, alta più di 350 metri, 78 anni fa era infatti totalmente ricoperta dal ghiaccio. Questa foto è stata realizzata nell’ambito del progetto sulle tracce dei ghiacciai (sulletraccedeighiacciai.com) che coinvolge fotografi e scienziati per documentare lo stato dei ghiacciai oggi e nel passato. Iniziato nel 2009, ha toccato già Alaska, Ande, Himalaya, Karakorum e Caucaso e si concluderà nel 2020 sulle Alpi.
William Osgood Field, 1941 © Alaska and Polar Regions Collections & Archives, University of Alaska Fairbanks
Fabiano Ventura, 2013 Š Archivio F. Ventura
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CEMENTO DAGLI SCI Sono purtroppo poche le iniziative di recupero e riciclo degli sci. In Francia la società Tri-Vallées li recupera nei negozi e nelle piattaforme ecologiche e li valorizza: il 20% viene riciclato come ferro e alluminio e l’80% diventa combustibile solido utilizzato nei cementifici (foto a destra). Il 2018 è stato un anno di magra, con sole 420 tonnellate di materiale raccolto, circa 80.000 sci in 45 località sciistiche, ma ad Albertville assicurano che la media annua è di 1.500 tonnellate.
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CIBO DAI VESTITI Prendi un capo tecnico, per esempio un underwear, buttalo nel terreno, compostalo (sì come facciamo con il sacchetto dell’umido della nostra immondizia), coltivaci delle piante edibili o dei funghi e mangiale. È quello che ha fatto il marchio svedese Houdini Sportswear nel 2017 per dimostrare la completa compostabilità delle sue linee Airborn, Activist e Wooler. Gunnar Eriksson, un esperto di compostaggio con più di 20 anni di esperienza, in sei mesi ha prodotto dell’ottima terra dagli abiti compostati, che è stata usata per crescere piante, frutti e funghi utilizzati poi per un menù completamente vegetariano di quattro portate creato dallo chef Sebastian Thureson. Si calcola che nella sola Inghilterra 350.000 tonnellate di vestiti vadano in discarica ogni anno. Fate voi i conti. Foto: © Houdini Sportswear
©SALOMON SA. All Rights Reserved. Photo: © Nico Joly 2018.
FIT. RUN. PL AY.
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B IO DE G RADAB ILE VS RICICL AB ILE
GH IAC C IAI / UN FUTURO GRI G IO
N EVE / SEM PRE M EN O, SEM PRE PIÙ IN ALTO
Le fibre naturali si decompongono ma producono gas serra, i prodotti sintetici, anche se riciclati, sono responsabili dell’inquinamento da microplastiche. Quale strada per un futuro eco?
Uno studio prevede lo scioglimento di almeno il 60 per cento delle lingue di ghiaccio delle Alpi entro la fine del secolo. E l’Europa insieme alla Nuova Zelanda sarà la regione dove gli effetti saranno più evidenti
Entro la fine del secolo sotto i 1.500 metri l’oro bianco potrebbe quasi scomparire. Ne abbiamo parlato con Michele Freppaz, professore associato di nivologia e pedologia dell’Università di Torino
di Jonathan Fraenkel-Eidsee
di Claudio Primavesi
di Claudio Primavesi
Q UAL E FUT URO ? Riscaldamento globale, investimenti sbagliati, dal Piemonte al Friuli sono centinaia le stazioni sciistiche che hanno chiuso i battenti. Per istituzioni e impiantisti l’unica soluzione sembra essere la neve programmata. Ma a che costo? di Tomaso Clavarino
DISCOVER THE BACKLAND BACKLAND 107 + SHIFT MNC 13 EAR THEIDYE F O I K R S FREE
2019
R E YEA OF TH g n i bind REERIDE F
2019
ATION INNOVWARD A
SO M M A R I O
AL B E R I / UN E Q UI LI BRI O P RE CAR IO
H 2O D IALO G H I SUL L’AC Q UA (E SUL L A N EVE)
La superficie delle foreste in Italia è in aumento, ma gli eventi atmosferici sempre più estremi, dalla siccità alle tempeste, creano ferite che solo nel lungo periodo potranno venire sanate
Mattia Fogliani, ticinese, splitboarder, è la mente del progetto Alpsea che sottolinea i collegamenti stretti tra le Alpi e il mare attraverso il più importante elemento naturale
di Giorgio Vacchiano
di Achille Mauri
RO CCIA / P ER MAF ROST, I L P RO B L E MA NASC OSTO
I SEN TIERI EFFIM ERI DEI TH UL E
VO G L IO UN A VITA LOW IM PACT
Lo scongelamento dello strato di terreno perennemente ghiacciato all’interno delle vette oltre i 2.600 metri è una delle cause delle sempre più frequenti frane, alcune epocali come quella del Cengalo nel 2017
Lo scioglimento dei ghiacciai e degli iceberg sta trasformando il paesaggio della Groenlandia ed è un monito sugli effetti locali e globali del cambiamento climatico
Vivere lasciando meno tracce possibili sull’ambiente, da come mangiamo a come pratichiamo sport nella natura
di Riccardo Scotti
di Kelvin Trautman e Tom Hill
di Luca Albrisi
I L GRAN D E C IRC O LO DELLA SO STEN IB IL ITÀ
SC IAL PIN ISM O ( R) ETIC O
Da Sesto Pusteria fino a Colle Isarco con gli sci e le pelli, lungo i confini del Sud Tirolo. Per testare i nuovi capi Salewa che utilizzano la lana delle pecore
Storia di un inverno con il cuore gonfio e le gambe stanche di Eva Toschi
di Andrea Bormida
# OILFREELO FOT EN
G LO B ETROT TER PER L’AM B IEN TE
Tre giorni con la comunità della neve riunita da Patagonia nelle isole norvegesi minacciate dalle trivellazioni petrolifere per mettere insieme idee e azioni per difendere la neve. Noi c’eravamo
Avventure con sci e bici nei luoghi più insoliti, ma anche trasferte a Washington per convincere i politici a fare qualcosa per fermare il climate change. Abbiamo intervistato Brody Leven
di Tomaso Clavarino
di Federico Ravassard
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E D ITO
© Federico Ravassard
di C LAU D I O P R I MAV E S I
È un gatto che si morde la coda. Oppure un cubo di Rubik, da risolvere velocemente. «Un bicchiere di plastica pesa 11 grammi, in una gara ultra-trail ci sono 10 rifornimenti, ogni concorrente utilizza 110 grammi di plastica pari a qualche centinaia di grammi di CO2 prodotta; lo stesso concorrente andando e tornando dal Giappone all’Europa in aereo produce come minimo qualche tonnellata di CO2, l’impronta ecologica di oltre 100.000 bicchieri: stampiamo il meno possibile, abbiamo eliminato la plastica, non serviamo carne, ma l’impatto ambientale più importante di una gara è il viaggio» mi scrive un organizzatore di trail. È in questo scioglilingua la difficile equazione verso un futuro più sostenibile. L’inverno che si sta concludendo, almeno sulle Alpi, è l’ultima prova del riscaldamento globale, se mai ne avessimo avuto bisogno. I numeri dicono che stiamo correndo veloci verso cambiamenti che potrebbero portare a sconvolgimenti epocali e il fatto di non potere più sciare per mancanza di neve rischia di essere la conseguenza meno grave. Bisogna fare qualcosa, subito. È questo il senso del numero 123 di Skialper: documentare quello che sta succedendo. Con il long form di Tomaso Clavarino sulle località sciistiche cancellate dal climate change. E con articoli di ricercatori scientifici come Giorgio Vacchiano, inserito dalla prestigiosa rivista Nature tra gli 11 studiosi emergenti a livello mondiale. Ma anche andando a vedere quanto di buono qualche marchio sta già cercando di fare per inquinare meno. Non abbiamo bacchette magiche, questo numero vuole semplicemente essere una denuncia e allo stesso tempo un invito ad agire. Partendo da quello che dice da sempre un pioniere del green thinking come Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia: cause no unnecessary harm - non fare danni che non siano necessari. Vivere a impatto zero è impossibile, ma ognuno di noi può fare tanto per ridurre i propri consumi inutili e inquinare di meno. A cominciare dal viaggio, che è al centro degli argomenti di cui si occupa Skialper. Questo numero è ricco di spunti su un dilemma di difficile soluzione. Luca Albrisi cerca di limitare gli spostamenti in aereo a viaggi di almeno due settimane, Mattia Fogliano ha riscoperto la bellezza delle montagne del Ticino per fare split e si sposta più lontano solo per fare surf da onda. Brody Leven invece fa leva sul viaggio perché risveglia le coscienze, anche quelle ecologiche. Sicuramente con le nostre scelte possiamo influenzare le decisioni di chi costruisce auto e aerei verso soluzioni più sostenibili, che in definitiva è il potere più grande che abbiamo come consumatori. Quello che è sicuro è che più praticheremo sport nella natura, più avremo voglia di fare qualcosa per difenderla. Viaggiando vicino o lontano. «Non possiamo diventare eremiti, perché così sparirebbero anche gli sport outdoor» dice ancora Fogliano. E il gatto continua a mordersi la coda.
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Direttore editoriale DAVI D E MARTA davide.marta@mulatero.it MULATERO EDITORE | Via Giovanni Flecchia, 58 – 10010 Piverone tel 0125.72615 - mulatero@mulatero.it - www.mulatero.it
Photo © Christoph Oberschneider
Direttore responsabile CL AUD I O PRI MAVESI claudio.primavesi@mulatero.it
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Il nostro team Andrea Bormida, Luca Giaccone, Emilio Previtali, Federico Ravassard, Guido Valota Amministrazione Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it Magazzino e logistica Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Segretaria di redazione Elena Volpe elena.volpe@mulatero.it Art direction e impaginazione Heartfelt Studio greta@heartfelt.it
Collaboratori Luca Albrisi, Leonardo Bizzaro, Caio, Danilo Noro, Luca Parisse, Andrea Salini, Flavio Saltarelli, Davide Terraneo Webmaster skialper.it Silvano Camerlo Hanno collaborato a questo numero Tatiana Bertera, Filippo Barazzuol, Ruggero Bontempi, Davide Branca, Tomaso Clavarino, Jonathan Fraenkel-Eidsee, Riccardo Scotti, Kelvin Trautman, Eva Toschi, Giorgio Vacchiano Hanno fotografato Stefano Jeantet, Achille Mauri, Alice Russolo, Andrea Salini, Kelvin Trautman, Luca Truchet, Fabiano Ventura
Foto di copertina © Federico Ravassard
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Distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 Stampa STARPRINT Srl - Bergamo
Numero Registro Stampa 51 del 28/06/2018 (già autorizzazione del Tribunale di Torino n. 4855 del 05/12/1995). La Mulatero Editore srl è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.
© copyright Mulatero Editore - tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge
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Attenzione: in questo numero potrete leggere opinioni, prese di posizione e stili di vita differenti, anche in conflitto tra di loro, che non rappresentano necessariamente il punto di vista della redazione.
U LT I M A T E C H A R G E D R I D E
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C O N T RO - E DITO
© Federico Ravassard
di DAV I D E MARTA
Questa cosa ve la devo dire: Greta Thunberg non lo sapeva che stavamo preparando un numero speciale di Skialper dedicato al climate change. Nessuno di noi glielo aveva detto, ve lo assicuro. Davvero non riusciamo a capire come abbia potuto essere così astuta da anticipare di pochi giorni la nostra uscita con tutte quelle manifestazioni nelle piazze, ragazzina pestifera. Eppure, ironia a parte (tocca sottolinearlo, che al giorno d’oggi non si sa mai) stavamo lavorando da diversi mesi ad un numero a tematica ambientale che fosse un po’ un cazzotto, un po’ una carezza. Di colpo, proprio prima della chiusura, tutto questo parlare di natura, di inquinamento, di cambiamento climatico. Tante piazze piene di giovani armati di voce e cartelli. Il bello è che invece di gioire, ci siamo guardati in faccia un po’ straniti, preoccupati delle reazioni polemiche (che non sono mancate). Viviamo in una società malata in cui c’è sempre dietrologia e sospetto e ogni cosa sembra guidata da una qualche logica di profitto. Noi abbiamo fatto il percorso inverso perché un numero come questo della rivista è coraggioso, diverso, di rottura (modi diversi di dire: rischioso). Per una volta abbiamo abbandonato quel tono leggero che spesso ci contraddistingue, abbiamo voluto essere più rock che pop. Per certi versi anche un po’ punk. Abbiamo voluto, con tutto il cuore, che qualcuno storcesse anche il naso e ci trovasse fuori luogo, radical chic, autoreferenziali. Come i ragazzi che manifestano per strada. Un numero così della rivista è invece una dimostrazione di stima nei confronti di chi ci legge. Nutriamo la presuntuosa
convinzione che i nostri lettori siano persone in gamba, forse anche più della media. La scelta di acquistare una rivista periodicamente per leggere, per informarsi, per arricchire la propria passione di idee e contenuti, è già di per sé un gesto evoluto. Se poi il tema della rivista in questione rispecchia uno stile di vita a contatto con gli elementi naturali come la neve, il ghiaccio, l’acqua, la roccia, i boschi, l’erba e tanto altro, ecco che la nostra scelta sembra subito meno azzardata. In fondo siamo presuntuosi, ma consapevoli di non avere influenza diretta in un cambiamento di rotta sulle problematiche ambientali. Quello, purtroppo, dipende dalle scelte dei governatori delle grandi potenze economiche. Però non vogliamo rassegnarci al fatto che solo il cattivo esempio e l’ignoranza possano fare proselitismo. I piccoli gesti quotidiani non cambiano le sorti del Pianeta, quante volte l’abbiamo sentito ripetere, ma possiamo almeno sperare che influenzino chi ci sta attorno ad adottare comportamenti più rispettosi, più civili. In fondo si tratta di documentarsi, andare oltre alle apparenze, prendere coscienza e mettere a fuoco cosa ognuno può fare. Ecco, è proprio da qui che siamo partiti per un progetto forse un po’ bizzarro, che ci ha portati a sbattervi sotto il naso un numero che strabocca di contenuti, di esperienze, di cultura. Sfogliatelo, leggetelo, tornate più volte sulle cose che non vi convincono. Parlatene, condividete, discutete senza preconcetti. Dalla prossima volta, lo prometto, torneremo ad essere i cazzari di sempre che pensano alle curve e a trovare un fazzoletto di neve ancora intonso. Giurin giuretta.
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Riccardo Scotti Giorgio Vacchiano Ricercatore e docente di selvicoltura e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano. Nel 2018 è stato inserito tra gli 11 ricercatori emergenti a livello mondiale dalla rivista Nature ed è stato nominato ambasciatore della cultura forestale in Italia da Legambiente e PEFC. Ha all’attivo oltre 50 pubblicazioni scientifiche internazionali ed è attualmente coordinatore del Gruppo di lavoro sulla comunicazione forestale della Società Italiana di Ecologia e Selvicoltura Forestale.
Ricercatore in geomorfologia e permafrost presso l’Università di Bologna e responsabile scientifico del Servizio Glaciologico Lombardo, è stato anche sui grandi ghiacciai delle Isole Svalbard, del Caucaso e dell’Alaska. Fa dell’eclettismo la sua caratteristica principale: divulgatore scientifico sui cambiamenti climatici, fotografo outdoor specializzato in timelapse, batterista nel duo stoner-rock L’ultimo Branco e una passione viscerale per la polvere a chilometro 0 della Valgerola, rigorosamente untracked.
Eva Toschi Non ama le definizioni, quindi per spiegare chi è preferisce sempre dire cosa ha fatto e cosa fa. Scappata dalla città, ha trovato la sua dimensione tra la natura e le montagne. Scala, corre e scia, provando a metterci tutta se stessa. «Il risultato è che faccio tante cose senza eccellere in niente. Esploro, girovago ma soprattutto scrivo. Fortunatamente alcune delle cose che scrivo mi permettono di fare il pieno al mio Ducato bianco e di riempire la ciotola di Ombra, il mio compagno di scorribande».
Tomaso Clavarino
Kelvin Trautman Vive tra Città del Capo e Londra, ha pubblicato sul New York Times, National Geographic, Outside Magazine e Red Bulletin. E usa l’obbiettivo come un’arma per fare riflettere il lettore sulle condizioni umane e ambientali, fotografando luoghi incantevoli e sportivi in azione. «Più tempo passo dietro all’obiettivo, più mi rendo conto quanto è potente il mezzo che noi fotografi, filmaker e artisti abbiamo per raggiungere, educare e ispirare le persone». In punta di fioretto…
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Fotografo documentarista, classe 1986, ha già pubblicato reportage sui più prestigiosi media internazionali, da Newsweek al The New York Times, Washington Post, Der Spiegel, Al Jazeera, Frankfurter Allgemeine Zeitung, The Guardian. Il suo obbiettivo inquadra argomenti spesso scomodi, come la pedofilia nella chiesa o lo smantellamento delle grandi navi e le condizioni di lavoro in Bangladesh e i suoi lavori sono stati esposti in gallerie e festival, in Italia e all’estero.
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1. Un tour di tre mesi Per noi di Skialper, abituati a lavorare sotto data per produrre sempre contenuti molto freschi, è una novità. Ma la mole di lavoro non lasciava altre possibilità. L’inchiesta sulle località sciistiche abbandonate che trovate in apertura di questo numero ha avuto una gestazione di tre mesi. La prima mail sull’argomento è del 14 gennaio ed è stato chiuso in redazione tra gli ultimi, a metà marzo. Un lungo giro di più giorni (e in diverse settimane), tra Piemonte, Lombardia, Dolomiti e Carinizia. Anche in questo caso facendo lo slalom tra mancanza di neve, vento e altre diavolerie del climate change.
2. La dura realtà
3. Paura delle due ruote Si può avere paura di andare in bici? Sembra incredibile, ma sì, si può avere paura di pedalare. È la fobia di uno dei giornalisti che ha accompagnato il nostro Andrea Bormida nel giro by fair means lungo il Grande Circolo che quando c’erano trasferimenti in e-bike si è rifiutato di salire in sella perché ha subìto un trauma da bambino. Vabbè, anche i piedi sono un mezzo di trasporto ecologico…
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È dall’autunno che combattiamo contro siccità e mancanza di neve per realizzare fotografie credibili a corredo dei nostri articoli e sul numero di dicembre alcuni servizi interessanti sono saltati per l’impossibilità di documentarli. Quando ci siamo trovati a uscire per andare a scattare anche questa volta non è stato facile. Poi però abbiamo pensato che la mancanza di neve di questo inverno mai decollato, almeno sulle Alpi italiane, era un messaggio ancora più forte e coerente del clima che sta cambiando.
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Testo di Jonathan Fraenkel-Eidsee/Suston © STOP! Micro Waste
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Il rifiuto è la morte dell’economia circolare e l’ultimo secolo un perfetto esempio di come funziona il mondo quando il comportamento degli uomini non è in sintonia con i cicli naturali. Però anche madre natura ha sofferto di un paio di colpi di tosse nel suo lungo percorso evolutivo. Le prime piante alte 50 metri hanno iniziato a crescere 300 milioni di anni fa, ma i microbi e i funghi hanno avuto bisogno di altri 60 milioni di anni per evolversi e decomporre queste nuove arrivate dopo la morte. Così le piante sono cresciute e cadute, accumulandosi una sopra l’altra in quello che potrebbe essere chiamato il più grande pasticcio della storia geologica. Con il tempo, il calore e la pressione questo pasticcio si sarebbe poi trasformato in profondi strati di carbone. È quello che sta succedendo con l’inquinamento da microplastiche: i microbi non sono pronti per decomporre le particelle più piccole. Questa volta però l’uomo ha le sue responsabilità e, se non vogliamo aspettare ancora milioni di anni, dobbiamo intervenire. Abbiamo due opzioni: impedire ai materiali non biodegradabili di entrare in natura con un design circolare, vale a dire con capi che durano nel tempo e in buona parte riciclabili o sostituirli con materiali biodegradabili. I M AT ER IA L I SI NT E T I CI E RANO LA SOLUZ ION E Per meglio comprendere le due opzioni bisogna capire le ragioni di fondo del grande sviluppo dei materiali sintetici. Per molti aspetti si è pensato che fossero la soluzione al problema dell’utilizzo di fibre naturali. Charles Ross lavora come consulente e docente universitario ed è specializzato in design e sostenibilità dell’abbigliamento sportivo, per questo collabora anche con il gruppo sulla sostenibilità ambientale dell’EOG (European Outdoor Group). «Quasi tutte le fibre naturali richiedono una grande quantità di terra, acqua, energia, fertilizzanti, pesticidi, erbicidi per la produzione, mentre quelle sintetiche ne richiedono una quantità minore» dice Ross. Se poi si aggiunge che le fibre sintetiche hanno bisogno di poca manutenzione e durano a lungo, si capisce perché hanno avuto molto successo. Se non fosse per il ruolo che hanno nell’inquinamento da microplastiche e di conseguenza nella catena alimentare - scoperte recenti - sarebbero ancora considerate come la soluzione più eco-sostenibile, ma guardando più da vicino le fibre biodegradabili si capisce che il discorso non è così semplice.
© Houdini Sportswear
I CON T RO DE LLA BI ODE GRADABI LI TÀ Se a un primo sguardo le fibre biodegradabili si inseriscono meglio nei cicli naturali, i pro di questa scelta in un’economia su larga scala presentano tre problemi. Prima di tutto, oltre al grande impiego di risorse naturali per la produzione, del quale abbiamo già accennato, la fine della vita con la biodegradazione può apparire come uno spreco di risorse mentre le fibre sintetiche posso teoricamente venire riciclate all’infinito. In secondo luogo la biodegradazione comporta l’emissione di gas serra, CO2 e metano, in quantità significative. Inoltre, anche se un prodotto è biodegradabile, il processo non è così immediato. «Ci vogliono le giuste condizioni perché avvenga - dice Charles Ross - La lana generalmente si decompone velocemente ma
altre fibre come il cotone, per esempio, sembrano essere persistenti nell’ambiente marino se sono state trattate con coloranti sintetici, anche se è necessario studiare ancora a fondo la questione per capire se questo rappresenti una minaccia simile a quella delle microplastiche per il mare». VAUDE: «A BBIA MO VOLTATO PAGINA » Negli ultimi anni le fibre biodegradabili sono diventate di tendenza nel mondo outdoor, ma non c’è uniformità nel pensare che questa sia la strada da seguire. Vaude, uno dei marchi pionieri della sostenibilità ambientale, è stato tra i primi a cercare una soluzione per ridurre l’impatto della propria produzione sull’inquinamento da microfibre. Qualche anno fa ha realizzato una giacca in fleece utilizzando Tencel, un materiale che contiene fibra biodegradabile. René Bethmann, innovation manager materials and manufacturing di Vaude, ritiene l’esperienza fatta con questo capo fondamentale, ma sottolinea che biodegradabilità e sviluppo sostenibile per Vaude non andranno necessariamente di pari passo. «La soluzione non può essere rendere ogni capo biodegradabile, piuttosto produrre abbigliamento che duri nel tempo e sia riciclabile, ecco perché Vaude guarda oltre, al design circolare». Secondo Bethmann attraverso l’utilizzo di bio-plastiche e un sistema efficiente di raccolta dei capi usati, si può creare un circuito chiuso e la risposta più importante al problema della sostenibilità. Inoltre riguardo al problema delle microplastiche ritiene che sia importante come vengono gestite le fibre sintetiche e non solo il materiale in se stesso. «Il nostro scenario migliore prevede di porre un freno all’inquinamento da microplastiche attraverso la combinazione di soluzioni come una migliore costruzione dei capi e filtri alla fonte, l’industria sta cercando di andare in questa direzione, ma ha bisogno dell’aiuto della legge». In definitiva, i limiti delle fibre biodegradabili hanno aperto la strada verso quelle bio-sintetiche. «Sono d’accordo che la biodegradabilità sia diventata un trend, ma mi sembra una contraddizione volere un prodotto che sia durevole e allo stesso tempo biodegradabile velocemente. Di questo passo bruceremo tante risorse ed è un grande rischio». N ON BISOGN A FA RE UN A SC ELTA D I C A MPO Anche il marchio svedese Houdini è tra i pionieri di un approccio sostenibile alla produzione e commercializzazione di abbigliamento outdoor e quando si affronta la questione fibre sintetiche/naturali la soluzione è quella di utilizzarle entrambe. «Per ridurre l’impatto della produzione bisogna intervenire radicalmente, ma è una battaglia che va giocata da tanti attori e non ci sono bacchette magiche - dice Eva Karlsson, CEO di Houdini Sportswear - Il nostro design circolare punta a sfruttare i lati positivi ed eliminare le negatività sia di sintetici che di fibre naturali». Questo approccio pragmatico ha portato a una collezione con lana ma anche fibre sintetiche riciclate o riciclabili. «Le fibre naturali, se gestite male, sono devastanti per la terra e la biodiversità, ma questi effetti possono essere ampiamente limitati, in Houdini puntiamo alle fibre naturali riciclate e riciclabili, ma non solo biodegradabili, piuttosto anche completamente
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compostabili». Va detto che in alcuni casi le fibre come la lana sono trattate con prodotti e tinture chimiche, in definitiva non biodegradabili e in grado di rendere tossico il terreno. In Houdini affrontano il problema alla base, scegliendo materiali, sia sintetici che biodegradabili, non trattati con prodotti non biodegradabili e avendo cura che quelli biodegradabili possano essere compostati senza contaminare il suolo. E per provarlo hanno organizzato il Menu Project di cui parliamo nel portfolio all’inizio di questo numero, facendo preparare a un celebrity chef un pasto con verdura e frutti prodotti in un terreno concimato con abbigliamento compostato. «Oggi le fibre sintetiche rappresentano una minaccia non solo per l’inquinamento da microplastiche, ma anche per gli impatti planetari dell’industria petrolifera, la tracciabilità e la possibilità limitate di riciclo aggiunge Karlsson - Se ci fossero delle fibre sintetiche prodotte in modo sostenibile, di origine bio, riciclabili, tracciabili e biodegradabili saremmo in prima linea, ma non ci siamo ancora arrivati e molti dei prodotti sintetici inquineranno la terra per centinaia di anni. In questo senso possiamo dire che i prodotti biodegradabili sono una scelta responsabile». Però è anche per questo che i prodotti sintetici sono ancora una soluzione, se ben utilizzati. «La natura è fonte di ispirazione, con i suoi cicli, e oggi il 70% delle nostre collezioni sono
passate da lineari a circolari, l’obiettivo per il 2030 è di arrivare al 100%, vale a dire a non produrre più rifiuti, ma le microplastiche sono un rifiuto e se per allora non avremo trovato una soluzione dovremo rimpiazzare le fibre sintetiche».
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B I O D EG RADAB IL ITÀ La capacità di sostanze e materiali organici di essere degradati in sostanze più semplici mediante l’attività di microorganismi.
Si chiama Guppyfriend ed è una sacca a rete realizzata per finanziare la ONG tedesca Stop Micro Waste, che si occupa proprio di sensibilizzare sul problema dell’inquinamento da microplastiche. Secondo studi realizzati da istituti tedeschi e università statunitensi riduce fino all’86% la dispersione di microfibre di capi interamente sintetici e anche dopo 50 lavaggi funziona ancora perfettamente. Guppyfriend è in vendita su guppyfriend.com e nei negozi Patagonia a 30 €.
CO M P O STAB ILITÀ La capacità di un materiale organico di trasformarsi per disintegrazione e biodegradazione in compost, che è simile al terriccio e impiegato come fertilizzante. D I S I NT EG RAZIO NE La continua frammentazione e riduzione di volume di una sostanza, per esempio della plastica in microplastica. Non tutti i prodotti biodegradabili sono realizzati con risorse rinnovabili e viceversa. Non tutti i prodotti con base bio (bioplastiche o biosintetici, vale a dire plastiche e fibre realizzate in parte o totalmente a partire da piante e fonti biologiche) sono biodegradabili, alcuni, dal punto di vista chimico, sono simili a quelli realizzati a partire da combustibili fossili.
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IL FUTURO SA RÀ GIUDIC E Rimangono aperte molte questioni e non esiste una parola definitiva anche se le fibre biodegradabili non sono esenti da problemi e in alcuni casi sono biodegradabili solo in condizioni ideali. Prima o poi si arriverà a trovare una soluzione per la gestione di materiali sintetici e inquinamento da microplastiche, ma i tempi della natura sono troppo lunghi. Vaude scommette su un design circolare che imita i cicli della natura e auspica una migliore regolamentazione da parte degli Stati, Houdini su un circolo fatto con fibre sintetiche e naturali insieme che possa risolvere il problema in dieci anni. Su una cosa Charles Ross, René Berthmann e Eva Karlsson sono d’accordo ed è l’urgenza di fermare l’inquinamento da microplastiche, con l’impegno dell’industria e dei governi. Però non c’è un’opinione condivisa sul ruolo che le fibre biodegradabili avranno in questo processo.
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Correre per poterlo fare tutti i giorni, per conservarsi e non usurarsi, senza il risultato come imperativo. Correre perché fa parte della propria vita, ma anche per stare a contatto con la natura. Essere un’atleta professionista con l’obiettivo di farlo prima di tutto per divertirsi e di mantenere quello spirito di quando da bambini si faceva a chi andava più veloci nel bosco o sulla spiaggia. Perché altrimenti meglio tornare alla vita da persone normali. Correre per esplorare, per cambiare sentiero e andare in vetta a una montagna che ti attira. È questa la filosofia di Emelie Forsberg, quella che l’ha portata sulla vetta mondiale dello skyrunning e del trail. Una filosofia fatta anche di ricette con ingredienti naturali, di lunghe ore passate nell’orto o a cucinare con il lievito madre, di soggiorni yoga in India. Perché nella corsa, come nella vita, ognuno deve costruirsi il suo percorso. Guardando non solo fuori, ma anche dentro di sé. Mulatero Editore al prossimo Salone del Libro di Torino del 9-13 maggio presenterà in anteprima Correre, Vivere, il libro scritto dalla trail runner svedese compagna nella vita di Kilian Jornet e in attesa di un bebè, in arrivo nelle librerie subito dopo. Con le stupende foto scattate proprio da Kilian. Un evento editoriale unico.
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C O RRERE, V I V E R E di Emelie Forsberg foto di Kilian Jornet 180 pagine, 25 € Mulatero Editore — In libreria a partire da maggio 2019
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Benedikt Böhm Ventotto ore e 45 minuti è il tempo impiegato dal brand manager di Dynafit per attraversare l’intero arco alpino, da nord a sud, con gli sci ai piedi. Beni, oltre che uomo di marketing, è anche un super atleta e la sua Speed Transalp no-stop lo dimostra chiaramente. 210 chilometri e 10.500 metri di dislivello in totale. Che dire? Quando le aziende si affidano a gente che ne sa…
Jimmy Chin Bambi is going for it! Bambi is going for it! Pare che siano state queste le parole dell’alpinista, fotografo e regista Chin quando Alex Honnold, alle ore 17 del 2 giugno 2017, gli avrebbe rivelato che il giorno dopo sarebbe andato a fare scrambling su El Capitan. Bambi è l’appellativo dato da Chin all’amico per via di quegli occhi scuri e grandi. Scramblig è il termine che scaramanticamente Honnold preferisce a free-solo. E così Chin, insieme a Elizabeth Chai Vasarhelyi, ha realizzato uno dei più pazzeschi documentari della storia dell’alpinismo e non solo.
Pasquale La Rocca Chi se lo aspettava? Che un ragazzo del Sud Italia, della terra del sole, sia pur maestro di sci, vincesse l’Iditasport Race in Alaska. E invece è successo. Il quarantenne di Terranova di Pollino (Basilicata) ce l’ha fatta. Il freddo, la solitudine e gli imprevisti di una gara di questo tipo sono tantissimi ma, come sempre accade, la passione e la determinazione portano lontano. Nel caso di Pasquale, lontanissimo.
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A cura di Tatiana Bertera
Alex Honnold Su Free Solo se ne sono dette tante. Alcuni ne sono rimasti entusiasti, altri l’hanno definito uno specchietto per le allodole, il pubblico femminile non ha potuto non dare merito agli addominali del protagonista. Sta di fatto che il docu-film ha vinto l’Oscar e numerosi altri riconoscimenti e che, indipendentemente dai gusti personali di ognuno di noi, l’ascesa del californiano, come ha sottolineato il New York Times, dovrebbe essere celebrata come una delle più grandi imprese sportive di sempre.
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AM BI E N T E
Il ghiacciaio della Marmolada (sotto) e quello dell’Adamello (a destra). Un carotaggio (pagina seguente)
Testo di Claudio Primavesi Š Provincia Autonoma di Trento
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Paradossalmente, se si guarda solo al numero, ci si potrebbe fare un’idea sbagliata sullo stato di salute dei ghiacciai italiani. L’ultimo censimento (il Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani, a cura di C. Smiraglia e G. Diolaiuti, 2015) ne ha contati circa 900, e sono in aumento. Ma bisogna saper leggere le cifre e l’aumento dei ghiacciai non è un dato positivo, diventano sempre di più in quanto, riducendosi, si dividono in diversi tronconi. È un dato in aumento a causa della frammentazione e della perdita di massa. «E quello della perdita di massa è un fenomeno globale, come globale ne è la causa, il riscaldamento del pianeta» aggiunge Christian Casarotto, glaciologo e mediatore culturale del MUSE-Museo delle Scienze di Trento. Per capire meglio la situazione occorre ragionare in termini economici. «I ghiacciai sono come dei salvadanai: hanno delle entrate (le precipitazioni nevose invernali) e delle uscite (l’acqua persa per fusione durante l’estate). Se le entrate sono superiori alle uscite, i ghiacciai aumentano la propria massa; diversamente si riducono». Precipitazioni e
temperature sono gli aghi della bilancia, e il termometro è sempre più determinante: durante l’estate le alte temperature portano a fusione la neve invernale e il ghiaccio sottostante, in inverno guidano la quota alla quale le precipitazioni sono solide (nevica). «Il problema è l’aumento della quota alla quale le precipitazioni diventano solide, perché va detto che rispetto agli anni ’90 quelle invernali sono aumentate, ma a causa dell’aumento delle temperature nevica sempre più in alto». La fotografia della situazione attuale dei ghiacciai è solo uno dei fermo immagine che ne determinano lo stato di salute, che non è altro che l’evoluzione nel tempo. E anche in questo caso le notizie non sono positive. «I bilanci sono quasi costantemente negativi e quindi la massa persa supera (di gran lunga) quella guadagnata ed è così in tutto il mondo, anche se in misura diversa: durante questo secolo le Alpi e la Nuova Zelanda sembrano essere le regioni dove i ghiacciai si ridurranno maggiormente, mentre in Groenlandia e Himalaya il fenomeno potrebbe essere meno importante».
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Nel 2011 l’Università Canadese della British Columbia ha portato a termine uno studio pubblicato sulla rivista Nature Geoscience che è ancora considerato un riferimento in materia. Gli studiosi canadesi prevedono una riduzione dei ghiacciai alpini dal 60 al 90 per cento entro la fine del secolo. Sono stati quindi delineati diversi scenari a seconda di quanto aumenteranno, in questo secolo, i gas a effetto serra e, quindi, di quanto aumenteranno le temperature medie annue. Le conseguenze di questi cambiamenti saranno quasi sicuramente epocali. «Si stimano effetti locali e globali ed entrambi saranno gravi: per noi amanti della montagna sarà più difficile praticare lo sci, sicuramente nei comprensori a quote più basse, ma con buona approssimazione possiamo dire che il valore della percentuale di riduzione dei ghiacciai può essere una proiezione del numero di località che dovranno chiudere i battenti». Ma quello dello sci è un piccolo problema all’interno di una serie di reazioni a catena sempre più grandi. I ghiacciai sono un immenso serbatoio di acqua per la produzione
di energia elettrica e per l’irrigazione estiva dei campi. Lo scioglimento potrebbe determinare, inoltre, un aumento fino a 70 centimetri del livello dei mari. «Sembra un valore di poco conto, ma che potrebbe interessare zone abitate da milioni di persone. L’aumento delle temperature avrà ricadute non solo sociali, ma anche economiche e sanitarie, perché potrebbero manifestarsi nuove malattie per la diffusione di organismi patogeni in grado di vivere in zone sempre più estese e calde». Il riscaldamento globale porta con sé anche un’altra importante conseguenza per la montagna, della quale parliamo nelle prossime pagine: la fusione del permafrost perennemente gelato situato di solito in alta quota, intorno ai 3.000 metri. Il risultato di questa fusione sono dissesti e frane perché il permafrost, se presente, è in grado di agire come collante tenendo unite le particelle di detrito. «Già nel 2003, 2009 e 2015 il sindaco di Valtournenche ha vietato l’accesso al Cervino a causa di crolli di roccia dovuti alla riduzione del permafrost nei pressi della Capanna Carrel ed
© Fabio Pupin / MUSE
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è una riflessione importante da fare: a causa del riscaldamento globale siamo arrivati a chiudere la montagna». Assodato che le proiezioni sono negative, che cosa concretamente possiamo fare per invertire la marcia o quantomeno ridurre gli effetti del riscaldamento globale? La prima risposta per decidere la terapia d’urto non può che arrivare dalle cause di questi cambiamenti. Ormai la quasi totalità degli scienziati è d’accordo sul fatto che l’origine del climate change sia l’attività umana. «È emerso anche dall’ultima relazione dell’IPCC, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico: a provocare l’aumento delle temperature è la sempre maggiore quantità di gas a effetto serra presenti nell’atmosfera e questo aumento è dovuto all’immissione di una grande quantità di gas a effetto serra antropici, cioè dovuti alle attività umane». E allora cosa fare? «L’ultimo rapporto dell’IPCC dice che, per evitare stravolgimenti economici, sociali e sanitari, dobbiamo riuscire a contenere l’aumento medio annuo delle temperature globali a 1,5 gradi, rispetto all’era pre-industriale; il problema è che,
rispetto all’era pre-industriale, l’aumento è già stato di un grado… e mancano solo dieci anni. Per raggiungere questi obiettivi è necessario, entro il 2030, ridurre le emissioni di CO2 del 40-60% e, entro il 2050, raggiungere la neutralità carbonica, vale a dire riassorbire le emissioni di anidride carbonica immesse nell’atmosfera favorendo le azioni di riforestazione, ma il più grosso polmone verde del mondo, la Foresta Amazzonica, si riduce ogni anno». Come si possono ridurre le emissioni dei gas a effetto serra antropici? «Bisognerebbe soddisfare quasi tutta la domanda energetica con fonti rinnovabili, favorendo importanti investimenti nel settore energetico». In tutto questo puzzle estremamente complicato non c’è dubbio che le Alpi siano uno degli scenari più interessati dagli eventi. «A livello locale il global warming colpisce di più la montagna. L’aumento delle temperature, infatti, risulta essere più marcato in alta quota che non sul fondovalle». Ecco perché dobbiamo gestire attentamente il nostro parco giochi, ma anche fare tutti qualcosa per porre rimedio a un fenomeno che è globale.
G LO SSARIO
FACTS & FIG URES
GAS A EFFET TO SERRA / Gas presenti nell’atmosfera che lasciano passare le radiazioni solari e trattengono in buona parte quelle infrarosse emesse dalla superficie terrestre, rendendo la Terra un pianeta abitabile. Possono essere naturali o antropici, cioè creati dall’attività umana. I principali sono anidride carbonica, metano e vapore acqueo.
Fino al 2011 le immissioni di anidride carbonica dovute all’attività umana sono state stimate in circa 555 miliardi di tonnellate, delle quali 375 dovute ai combustibili fossili (carbone, petrolio) e 180 alla deforestazione. 155 miliardi di tonnellate sono stati assorbiti dagli oceani, 160 dagli altri ecosistemi e 240 miliardi si trovano nell’atmosfera.
T E MP ER AT URA M EDI A A NN UA / Il valore medio della temperatura nel corso di un anno registrato a livello globale. È il principale indicatore del riscaldamento globale. NEUT RALITÀ C A RBON IC A / Azzeramento delle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane non solo tramite la riduzione delle stesse, ma anche con strategie per assorbirle. La più efficace è la riforestazione perché le piante, attraverso il processo della fotosintesi clorofilliana, assorbono anidride carbonica e la trasformano in ossigeno.
IL G RAN D E FRED D O AM ERIC AN O N O N C AM B IA IL TREN D Il Nord America è stato interessato da uno degli inverni più freddi, ma non è un indice del fatto che non sia in atto un cambiamento climatico. «Fenomeni locali, di segno diverso, sono sempre possibili, si tratta di eventi meteorologici che si inseriscono in un trend climatico, basato sull’analisi dei dati meteo registrati in almeno 30 anni, che descrive un pianeta sempre più caldo» dice Christian Casarotto.
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Intervista di Claudio Primavesi Š Achille Mauri
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LE INFORMAZIONI CHE ARRIVANO ATTRAVERSO I MASS MEDIA PARLANO
E IN ALTRI PAESI ALPINI LA SITUAZIONE È SIMILE?
DI CLIMATE CHANGE E DI AUMENTI MEDI DELLE TEMPERATURE ANNUE.
«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».
GUARDANDO NELLO SPECIFICO ALLA NEVE E ALL’INNEVAMENTO, QUAL È LA SITUAZIONE ATTUALE RISPETTO AL PASSATO?
«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi, nel periodo 1961-2010, una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più marcati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».
FATTA LA FOTOGRAFIA DELLA SITUAZIONE ATTUALE, QUALI SONO LE PROIEZIONI PER IL FUTURO?
«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo, con un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione
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primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai». SI PARLA DI AUMENTI MEDI DELLA TEMPERATURA ANNUA, UN VALORE
valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale».
SPESSO INCOMPRENSIBILE AI PIÙ. QUANTO QUESTI DATI SONO DIRETTAMENTE
I VECCHI DICEVANO CHE SOTTO LA NEVE C’È IL PANE. QUALE FUNZIONE
COLLEGABILI ALL’INNEVAMENTO? ESISTONO STUDI E TABELLE SPECIFICHE?
HA LA NEVE, A PARTE RENDERCI TUTTI FELICI E DARCI L’OCCASIONE DI
«Numerosi studi affermano come il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 centimetri di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 metri di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1 °C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2 °C la percentuale sarebbe del 27%».
SCIVOLARE A VALLE?
QUAL È L’ASPETTO PIÙ EVIDENTE DEI CAMBIAMENTI IN CORSO CHE UNO STUDIOSO COME MICHELE FREPPAZ OSSERVA?
«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti». QUALI EFFETTI AVRANNO I CAMBIAMENTI CLIMATICI O STANNO GIÀ AVENDO SULLE VALANGHE?
«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle
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«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0 °C, anche se quella dell’aria scende a -25 °C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Nel corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte da un sottile strato di neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso». CI SONO EVIDENZE DI PROBLEMATICHE NEL COMPORTAMENTO DELLA FAUNA LEGATE A QUELLI RELATIVE ALL’INNEVAMENTO?
«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. A titolo di esempio ricordo nell’inverno 2017 sulle Alpi Marittime un’ecatombe di stambecchi e camosci. Aveva nevicato moltissimo e poi, nonostante la quota elevata, ci aveva piovuto sopra, formando sulla superficie della neve un manto di ghiaccio vivo. Gli animali erano rimasti bloccati sui versanti innevati e quando avevano provato a scendere erano scivolati e precipitati nel vuoto».
LA RICERCA IN QU OTA
I G IO RN I D EL L A N EVE
La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso (nella foto sotto), nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.
«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta, 13,60 €), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C’erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per se stesse un romanzo - continua Freppaz - Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo, che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l’evoluzione».
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Testo di Giorgio Vacchiano © Alice Russolo
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Se in una bella giornata estiva percorressimo il sentiero che da Brusson, in Valle d’Ayas, sale verso il lago alpino di Bringuez, ci troveremmo ad attraversare la foresta di pini silvestri del Dajey. Avanzando tra i grandi fusti rossicci e profumati di resina il nostro corpo si accorgerebbe presto del clima che questi alberi preferiscono. Esposti in pieno Sud, i pini silvestri crescono meglio di tutte le altre specie di montagna quando il sole è caldo e le ore di luce sono lunghe. Il bisogno di bere dalla borraccia ci accomunerebbe a quegli alberi, che sanno andare alla ricerca dell’acqua esplorando anche i suoli più aridi e sassosi grazie a radici forti e profonde. In quel pomeriggio dell’estate 2006 scendevo i pendii del Dajey, fermandomi di tanto in tanto ad osservare da una certa distanza le chiome dei pini silvestri. Ero tornato da poco da un periodo di studio negli Stati Uniti, e dovevo raccogliere gli ultimi dati per il mio progetto di dottorato di ricerca. Dopo un minuto di osservazione, annotavo sul mio quaderno da campo il livello di defogliazione di ciascuna chioma: zero, albero in salute; cinquanta, metà degli aghi mancanti e una chioma che lasciava intravedere ampie porzioni di cielo azzurro; ottanta, aghi così piccoli e radi da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’albero per insufficiente fotosintesi. Era il secondo anno che facevo questo rilievo e, come previsto, i cinquanta dell’anno precedente erano diventati ottanta, e gli ottanta, cento. Anche alberi
con aghi ancora verdi e fitti non erano al sicuro da quanto stava accadendo: appesi ai rami, come altrettanti palloncini pallidi e sgonfi, si vedevano i nidi della processionaria. Anche se i pini silvestri sanno cercare l’acqua, nel territorio da cui provengono - il Nord Europa e la Siberia - ne hanno a sufficienza durante tutto l’anno. Il loro pezzo di bravura è saperla trovare più in profondità degli altri, e crescere anche dove scarseggiano gli elementi chimici necessari al metabolismo: suoli con poco calcio, fosforo, potassio. Per questo vivono al Dajey, un versante ripido e sassoso che nasconde, sotto un sottile strato di terreno, una vecchia e ciclopica frana, scesa dalle pareti della punta Goa. Ma, nello stesso momento in cui i termometri di tutta Europa battevano i record di tutti i tempi per l’ondata di calore peggiore degli ultimi tre secoli, i pini del Dajey iniziavano a soffrire la sete. La calura dell’estate 2003 aveva eliminato per evaporazione ogni traccia d’acqua dalla frana sopra Brusson, così come dalle foreste di mezzo arco alpino. Quando un albero non beve il flusso della linfa rallenta, sottoponendo i vasi linfatici al rischio di sviluppare letali bolle d’aria; anche la fotosintesi funziona a singhiozzo, ma le cellule devono continuare a consumare glucosio per sopravvivere. Perciò, anche se l’albero sopravvive alla cavitazione idraulica, i suoi tessuti rischiano di morire di fame. Come se non bastasse, i funghi e gli
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insetti che si nutrono di aghi, corteccia e legno si accorgono presto che l’albero è in difficoltà e approfittano della sua debolezza per nutrirsi e allevare le loro larve senza incontrare ostacoli. Pochi anni dopo, la primavera 2006 aveva visto arrivare sulle Alpi Occidentali una nuova siccità. Già indeboliti pochi anni prima, i pini silvestri incominciavano ora a deperire e morire in vaste aree della Valle d’Aosta. Confrontati con i loro cugini più fortunati, che crescevano in valli più umide come l’Ossola, dove la siccità non aveva colpito così duramente, i pini valdostani le stavano provando tutte per sopravvivere: rallentare la produzione di nuove cellule del fusto; accorciare gli aghi per limitare la perdita d’acqua per traspirazione; lasciarli cadere del tutto come estrema misura di protezione dalla morte per sete e per fame, come raccontavano i tassi di defogliazione in aumento che il mio quaderno stava registrando.
Le foreste di montagna sono strettamente legate al cambiamento climatico. In Italia, i boschi stanno attraversando da almeno settant’anni una fase di forte espansione naturale, a causa dello spopolamento delle aree rurali e dell’abbandono delle attività agricole e pastorali. La copertura forestale in Italia è triplicata nell’ultimo secolo, e nell’anno 2018 le aree boscate hanno superato in estensione quelle agricole, per la prima volta probabilmente da diversi secoli. Soprattutto nelle terre alte, il bosco ritorna a occupare gli spazi naturali che già erano suoi. La buona notizia è che più foreste significano più opportunità per combattere il cambiamento climatico. Infatti gli alberi sono ancora l’unica risorsa a nostra disposizione per eliminare alla radice la causa del riscaldamento globale: l’eccessiva concentrazione di anidride carbonica e altri gas a effetto serra che, dall’inizio della rivoluzione industriale, abbiamo immesso in atmosfera a una velocità mai sperimentata prima dal pianeta. Non solo gli alberi assorbono anidride carbonica durante la fotosintesi; alla fine del loro ciclo vitale possono tenere quel carbonio intrappolato nel legno ancora per molti decenni, trasformando i nostri tavoli, i nostri tetti, i nostri strumenti musicali in legno in
© Giorgio Vacchiano
Al Dajey, la defogliazione e la morte dei pini silvestri svelavano intanto uno scenario nuovo: guardando verso valle non vedevo più solamente fusti rossi e chiome verdi, ma riuscivo a distinguere chiaramente le case più alte delle borgate di Brusson, costruite direttamente sotto il pendio, sul fertile conoide dell’antica frana. Le rocce che sapevo esistere nella parte alta del versante, le case e le strade sotto di me, la forza di gravità che tirava il mio equilibrio verso valle, e soprattutto i numerosi massi bloccati nella loro corsa verso il basso dal fusto di molti pini intorno a me, non lasciavano dubbi: con la scomparsa degli alberi, quelle case avrebbero corso un serio pericolo. Sono molte le foreste che, in montagna, proteggono chi vive o visita le vallate da invisibili pericoli: bloccando o rallentando i massi che rotolano sui versanti; interrompendo la continuità di un manto nevoso che in inverno potrebbe scivolare a valle; trattenendo la pioggia tra le loro foglie, in modo che un improvviso temporale estivo non si trasformi in una colata di acqua e fango. Chi pianifica la gestione dei boschi le chiama foreste di protezione. In Valle d’Aosta, così come in altre regioni alpine, rappresentano il 40% di tutte le foreste presenti. Fin dal medioevo, le genti delle Alpi hanno conosciuto e conservato le foreste di protezione, come si legge non solo negli affascinanti editti di bandita al taglio giunti fino a noi, ma anche dalla presenza di boschi secolari con specie e strutture stranamente diverse da tutte le altre foreste che li circondano, come i larici di Fenestrelle, i faggi di Palanfré o gli abeti di Andermatt. Nei
secoli queste foreste si sono conservate grazie alla cura dell’uomo, ma anche alla loro capacità di rinnovazione naturale, grazie a un clima e un suolo favorevoli alla germinazione dei semi e alla crescita di nuovi semenzali che sostituissero, una generazione dopo l’altra, gli alberi maturi e in fase d’invecchiamento. Qui al Dajey sembra che questo equilibrio stia per rompersi: il legno degli alberi che muoiono si degrada velocemente e non può più bloccare o rallentare efficacemente i massi in caduta. Per di più, devo camminare parecchio per riuscire a trovare intorno a me un semenzale: la siccità è uno degli ostacoli più formidabili alla germinazione dei semi di pino, che hanno necessità di assorbire fino a tre volte il loro peso in acqua per potersi aprire e fare uscire la prima radichetta della nuova pianta; e le altre specie non trovano di loro gradimento il suolo eroso e superficiale che solleva polvere a ogni mio passo. In poche parole, sto assistendo in tempo reale a uno degli effetti dei cambiamenti climatici: l’aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni meteorologici estremi, comprese le siccità, e le loro conseguenze sugli ecosistemi forestali e sui servizi che le foreste offrono alla società. Il futuro delle foreste di protezione è a rischio.
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altrettanti serbatoi portatili di carbonio. Le tecniche di gestione forestale sostenibile permettono di utilizzare il legno senza compromettere la permanenza della foresta, prelevando sempre meno di quanto possa ricrescere ogni anno e creando nel bosco le condizioni per la nascita e la crescita di una nuova generazione di alberi, che sostituisca gradualmente quella che preleviamo. E mentre i nuovi semenzali si preparano a diventare adulti e continuare a nutrirsi di anidride carbonica, il legno dei loro genitori tiene il carbonio ben sicuro al proprio interno e può addirittura impedire l’emissione di altra anidride carbonica se lo usiamo al posto di prodotti a base di plastica o di cemento, i cui compiti possono essere svolti molto efficacemente anche dal legno. Ma proprio lo stesso cambiamento climatico che le foreste ci aiutano a contrastare, sta imponendo loro una pressione insostenibile. E non si tratta solo di siccità. I 42.000 ettari schiantati dalla tempesta Vaia a fine ottobre 2018 sono stati il danno più severo mai registrato in un singolo evento per il patrimonio forestale nazionale. La tempesta atlantica acquistò umidità ed energia distruttiva transitando sopra un Mar Mediterraneo di oltre due gradi più caldo della media, e scaricò sulle foreste delle Alpi nordorientali più di 600 millimetri di pioggia in 72 ore e raffiche a oltre 200 chilometri orari. Con i tempi lenti della natura questi boschi ritorneranno, ma nel frattempo la protezione dai pericoli idrogeologici, l’habitat di molte specie e la possibilità di passeggiare o sciare tra abeti maestosi saranno compromesse per molti decenni. Ancora, i vasti incendi che hanno percorso le foreste di tutto il Paese tra luglio e ottobre 2017 portano la “firma” non tanto di piromani precisamente sincronizzati, ma della più forte siccità del XXI secolo, con quasi 60 giorni senza precipitazioni che hanno reso la vegetazione un combustibile secco e pronto a far diffondere le fiamme su ampie superfici, specialmente in quei territori dove proprio l’espansione naturale delle foreste aveva negli anni precedenti ridotto gli spazi non boscati che avrebbero potuto rallentare l’incendio. Anche in queste aree il bosco tornerà, ma mentre aspettiamo che i semi portati dal vento raggiungano tutti gli angoli delle vaste superfici percorse dal fuoco, le piogge primaverili e autunnali non più trattenute da chiome e radici rischiano di produrre colate di fango che potrebbero colpire i paesi a valle.
Gli alberi sono organismi viventi, che si evolvono, si riproducono e si adattano. Esistono sulla Terra da 500 milioni di anni e hanno attraversato climi molto più caldi e molto più freddi di oggi. Se non c’è da dubitare che le foreste continueranno a prosperare in nuove forme, è necessario però lavorare perché continuino a fornire all’uomo i loro benefici. Il Dajey continuerà a ospitare un bosco, e forse nel tempo i pini silvestri potrebbero essere sostituiti dalle querce o da altre latifoglie meglio adattate a frequenti siccità estive. Ma la convivenza tra uomo e bosco a Brusson chiede che il bosco abbia una struttura adeguata a rallentare la caduta dei massi; in Val di Fiemme, che gli abeti rossi conservino nel loro legno la capacità di far risuonare le onde sonore; all’Alpe Veglia, che i larici si colorino ancora di giallo per dipingere il paesaggio autunnale; in Valle Varaita, che le roveri dai grandi tronchi possano rivivere nelle nostre case grazie al sapiente lavoro degli artigiani. E in ciascuna di queste foreste, che nuove generazioni di semenzali continuino a nascere e svilupparsi per garantire la continuità del bosco. Se la velocità dei cambiamenti climatici è tale da mettere tutto questo in discussione, è possibile accompagnare la foresta e le specie che la abitano grazie agli strumenti della selvicoltura. Chi conosce il comportamento degli alberi e le loro reazioni a quello che succede al loro ambiente, sa anche come rendere un bosco più resistente al vento, più pronto a ricostituirsi dopo un incendio, più veloce nel far crescere alberi di grandi dimensioni o più accogliente per le giovani piantine nate dai semi. Oggi al Dajey le chiome dei pini sono di nuovo folte. Chi si incamminasse verso il lago di Bringuez si troverebbe a passare attraverso nuove radure nel bosco, che sono state create per attenuare la richiesta complessiva di acqua da parte delle piante, e dare agli alberi rimasti una possibilità in più di sopravvivenza. I fusti tagliati a questo scopo non sono stati portati a valle, ma sono rimasti nel loro bosco, sistemati in barriere trasversali che continuano a vigilare sulle frazioni e a proteggerle dal pericolo di frane. Fino a quando i semenziali di pino nati nelle radure non si faranno alberi adulti, capaci di assolvere nuovamente al loro prezioso compito, e di mettersi al servizio e al fianco delle genti di montagna per garantire una vita sicura e di qualità anche in un clima che cambia.
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La parete Nord del Cengalo con la nicchia di distacco delle frane del 2011 e del 2017 quattro giorni dopo l’evento del 2017 (a sinistra). Crollo sul versante Est delle Punte di Patrì al Gran Paradiso (a destra)
Testo di Riccardo Scotti © M. Phillips
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Ventitrè agosto 2017 ore 9.30: tre milioni di metri cubi di granito si staccano dal versante Nord del Pizzo Cengalo in Val Bregaglia, Svizzera. La parete è un muro verticale e blocchi di granito grandi come palazzi cadono praticamente nel vuoto per circa 200 metri schiantandosi su piccolo ghiacciaio Cengalo a 2.500 metri. L’impatto è tremendo e oltre mezzo milione di metri cubi di ghiaccio vengono istantaneamente vaporizzati dalle enormi forze di attrito in gioco. La frana, tecnicamente una rock avalanche, valanga di roccia, si riversa a 250 chilometri ora nella Clavera della Bondasca, proprio dove, fino a qualche anno fa, correva il famosissimo sentiero del Vial che collega le Capanne Sciora e Sasc Furä. Il mix di granito e acqua impatta su un pendio detritico a sua volta saturo di acqua che arriva dal torrente glaciale del ghiacciaio della Bondasca, in piena a causa del caldo estivo. Altra acqua che si mischia ai detriti. La frana, invece di fermare la sua corsa come da attese, si trasforma, cambia pelle e diventa una colata di detrito, fango e blocchi di granito come accade di norma durante temporali violenti, mai nelle giornate di sole. Correndo lungo la Val Bondasca, travolge strade, ponti, alpeggi e baite nel giro di pochi minuti. Vengono inghiottiti dalla colata anche otto escursionisti che scendevano dalla Capanna Sciora mentre altri si salvano fortunosamente. La colata arriva a Bondo e travolge una stalla e alcune abitazioni. Il fango invade le case e poi, in modo meno
distruttivo, percorre tutta l’asta fluviale fino a sporcare di limo il Lago di Novate Mezzola e persino il Lago di Como. L’emergenza non si esaurisce, nella notte e nei giorni successivi nuove colate invadono nuovamente Bondo e il fondovalle, mettendo in ginocchio un’intera comunità con un paese evacuato e la viabilità bloccata. Una frana epocale, non tanto per i danni o le sue dimensioni: come riferimento la famosissima frana della Val Pola del 1987 in Valtellina è stata dieci volte più grande. L’evento ha una sua valenza simbolica perché, forse per la prima volta a livello alpino, una frana associata almeno in parte ai cambiamenti climatici arriva a interessare infrastrutture, un paese, una comunità oltre che alpinisti ed escursionisti. FRANE IN ALTA MONTAGNA, PERMAFROST OSSERVATO SPECIALE
Il rapporto fra innalzamento delle temperature e stabilità dei versanti è una disciplina giovanissima, che ha iniziato a svilupparsi a seguito di una serie di crolli durante la caldissima estate del 2003. In particolare nell’agosto di quella funesta estate una parete simbolo come la Sud del Cervino è stata oggetto di una serie di crolli superficiali che hanno fatto emergere ampie placche di ghiaccio nascosto nelle fratture della roccia. Qualcosa di inatteso e sorprendente che ha spinto i ricercatori a interessarsi alle pareti in alta quota, da sempre soggette a crolli, ma mai con questa intensità e frequenza.
© D. De Siena
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Il discorso è molto complesso ed è corretto puntualizzare che ogni frana è la conseguenza di una serie di particolari fattori che possono crearne i presupposti. Al contempo ci sono alcuni punti comuni che legano molte frane recenti all’innalzamento delle temperature e alla conseguente degradazione del permafrost. Prendiamo come esempio generale proprio l’evento del Cengalo. Le cause che hanno portato alla frana del 2017 sono in fase di accurata analisi e i risultati non ancora disponibili alla comunità scientifica. Chiare sono però una serie di concause predisponenti come la debolezza geologica della parete e i cicli di fusione e rigelo dell’acqua nelle fratture superficiali. L’aumento delle temperature può aver giocato qui un ruolo chiave nel velocizzare un processo che avrebbe forse impiegato molto più tempo per svilupparsi completamente. La parete Nord del Cengalo, così come molte altre pareti alpine al di sopra dei 2.600 metri è in permafrost (vedi box). Per millenni il freddo si è gradualmente infiltrato nella parete a causa delle costanti basse temperature dell’aria. È intuitivo quindi comprendere come la temperatura della roccia vada gradualmente aumentando man mano che ci si muove verso il cuore della montagna fino ad arrivare a un punto (a qualche decina di metri di profondità) in cui la roccia tornerà sopra lo zero a causa del calore geotermico che contrasta la penetrazione del gelo. Per una serie di motivi legati alla tettonica e alla storia post-glaciale, una parte della parete Nord del Cengalo è contraddistinta da un reticolo di fratture molto fitte e profonde disposte in modo sfavorevole. Queste fratture sono tendenzialmente riempite da ghiaccio formatosi per la percolazione di acqua di fusione della neve che, entrando nel cuore della montagna e trovando temperature sottozero, per secoli si è trasformata in ghiaccio istantaneamente. Questo ghiaccio è in genere molto antico, in alcuni contesti è stato datato fino a 6.000 anni. Una data non casuale visto che, proprio a quel
tempo, dopo un lungo periodo relativamente caldo chiamato Optimum Termico Olocenico, iniziò il graduale abbassamento delle temperature del pianeta. Questa tendenza al raffreddamento è stata lenta e graduale, quasi impercettibile e nascosta dalla normale variabilità climatica ma con un picco negativo evidente poco più di un secolo fa, all’apice della Piccola Età glaciale (1250-1850). Il successivo rapidissimo aumento delle temperature, in larga parte dovuto alle attività dell’uomo (sulle Alpi nell’ordine dei 2 °C per secolo), ha azzerato 6.000 anni di raffreddamento, riportando il clima alpino a condizioni simili a quelle dell’optimum olocenico. I ghiacciai hanno reagito in modo lineare e rapido, il permafrost nascosto all’interno della montagna necessita invece di tempi molto più lunghi per riscaldarsi ed eventualmente scomparire. Inoltre, a differenza dei ghiacciai, la permanenza del permafrost dipende molto anche dalle temperature invernali, quando il gelo può penetrare all’interno della montagna compensando in parte le caldissime estati del nuovo millennio. Con molta probabilità il brusco aumento delle temperature degli ultimi 30 anni ha iniziato a intaccare l’equilibrio statico dell’intero ammasso composto da roccia e ghiaccio. In che modo? Il ghiaccio si può deformare, e si deforma in modo molto più facile aumentando di temperatura, non è quindi necessario che si trasformi in acqua per mettere in movimento una parete rocciosa. La deformazione inizia già quando la sua temperatura si avvicina al punto di fusione. È quindi possibile che quello presente in queste profonde fratture sia stato oggetto di riscaldamento e possa aver gradualmente aperto e allargato le fratture esistenti anche per mezzo dell’espansione progressiva dovuta a cicli di gelo-disgelo. I ricercatori svizzeri, coordinati da Marcia Phillips dell’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe - SFL di Davos, hanno ipotizzato che il colpo finale alla destabilizzazione della parete possa essere stato provocato da una
P E R M AFRO ST, I L GE LO NASCO S TO
M O N ITO RAG G IO D EL L E PARETI RO C C IO SE D ’A LTA Q UOTA , L’ESEM PIO D EL L A VAL D ’AO STA
Il permafrost è una particolare condizione termica del suolo. È definito come un terreno (suolo, roccia o anche ghiaccio) che rimane a una temperatura inferiore agli 0 °C per almeno due anni consecutivi. È composto da una porzione superficiale che è soggetta a scongelamento stagionale chiamata strato attivo che sulle Alpi può variare da pochi centimetri a oltre dieci metri. Più in profondità troviamo il permafrost in senso stretto che può raggiungere alcune decine di metri ed eccezionalmente per le Alpi anche 200 metri (per esempio al Passo dello Stelvio). Diffusissimo alle alte latitudini, nel solo emisfero settentrionale è esteso per 23 milioni di km2, è presente a livello alpino tendenzialmente sopra i 2.600 metri seppure la complessa morfologia montana renda estremamente variegata la sua distribuzione.
Ospitando le vette più alte della penisola, la Valle d’Aosta è considerata una delle regioni più fragili di fronte ai rischi naturali legati ai cambiamenti climatici. Anche in risposta agli eventi sul Cervino del 2003, ARPA VdA ha istituito l’area operativa Effetti sul territorio dei cambiamenti climatici. Il gruppo di lavoro coordinato da Umberto Morra di Cella ha quindi aggiunto ai classici studi glaciologici e ambientali il monitoraggio del permafrost e delle pareti rocciose d’alta quota. Un lavoro complesso e per certi versi pionieristico, che negli anni ha dato vita a un importante network di oltre 30 siti di monitoraggio dove si misura la temperatura della roccia a varie profondità. I dati raccolti sono di fondamentale importanza sia per tenere sotto controllo le condizioni termiche delle pareti, che a supporto della modellizzazione dei flussi energetici che influenzano il permafrost.
PERMAFROST E INSTABILITÀ DELLE PARETI
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infiltrazione di acqua tanto profonda e importante da provocare una sovrapressione pari a una colonna d’acqua di ben 70 metri. PICCOLI CROLLI SUPERFICIALI E GRANDI CROLLI PROFONDI
Questo meccanismo in linea di massima resta valido anche su molte altre pareti in permafrost delle Alpi dove il numero di crolli è in aumento. La presenza e la degradazione del permafrost influenza maggiormente le frane più piccole e superficiali a causa dell’espansione progressiva dello strato attivo, ovvero la porzione più superficiale della parete sottoposta a scongelamento estivo. Ecco perché questa tipologia di crollo avviene con molta più frequenza in estate, durante i picchi di calore. Chiunque frequenti l’alta montagna in estate ne è perfettamente consapevole. Le vie di roccia e di misto sostanzialmente impraticabili in piena estate ormai non si contano più, così come piccoli crolli sono quasi continui soprattutto alle quote intermedie dove il permafrost sta subendo il maggior riscaldamento. Un recente dettagliatissimo lavoro condotto da Ludovic Ravanel dell’EDYTEM - Universitè Savoie Mont Blanc Lab conferma come i crolli in pareti interessate da permafrost siano significativamente più frequenti durante le estati torride. Si tratta di numeri veramente impressionanti tra i quali spiccano le 182 frane nel solo massiccio del Bianco nell’estate 2003 per un volume complessivo di 300.000 m3 di granito e gneiss crollati sui sottostanti ghiacciai. Sempre nel massiccio del Bianco nell’estate del 2005 è crollato completamente il Pilastro Bonatti sul Petit Dru portando la problematica all’attenzione dell’ambiente alpinistico e del grande pubblico. Per le frane più grandi e profonde, la degradazione del permafrost ha un’influenza minore rispetto agli altri fattori predisponenti come la densità e l’orientazione delle fratture. Queste frane, anche per l’inerzia termica molto elevata della roccia, sono possibili in ogni momento dell’anno come accaduto per la prima del Cengalo avvenuta il 27 dicembre
2011 (1,5 Mm3) o il crollo dalla Punta Tre Amici sulla Est del Rosa (0,2 Mm3) del 16 dicembre 2015. Anche la grande frana della Punta Thurwieser in Alta Valtellina del 18 settembre 2004 (2,5 Mm3) potrebbe essere il risultato finale della destabilizzazione iniziata nell’estate del 2003. La destagionalizzazione di queste frane può avere delle ripercussioni significative anche sull’attività scialpinistica visto che, in presenza di manto nevoso instabile, hanno il potere di innescare grosse e inattese valanghe come avvenuto 18 gennaio del 1997 sul Ghiacciaio della Brenva o nell’evento del Mont Crammont del 24 dicembre 2008 quando 400.000 m3 di roccia staccatisi a 2.650 metri di quota hanno messo in moto una valanga capace di raggiungere la Dora Baltea in fondovalle. COSA CI ATTENDE
Le conoscenze sulla struttura, distribuzione e dinamica del permafrost alpino sono tutt’ora limitate, così come i meccanismi di innesco delle frane in permafrost sono tutt’altro che ben compresi. Per questo non è facile prevedere cosa ci attenderà nel futuro prossimo. Se da un lato molte delle parteti più deboli sono già crollate nelle ultime estati, dall’altro una loro relativa stabilizzazione la si potrebbe avere solo quando le temperature avranno fatto sparire il permafrost ma, a causa della grande inerzia termica del suolo, ci vorranno probabilmente secoli. Al contempo il ritiro delle pareti di ghiaccio e dei ghiacciai libera terreni e depositi deboli come parteti rocciose e depositi morenici non consolidati e ricchi di acqua. I concatenamenti di processi apparentemente indipendenti come quelli avvenuti al Cengalo saranno la vera minaccia nel futuro prossimo perché difficilmente prevedibili. C’è un urgente bisogno di ricerca scientifica sul tema: solo aumentando la conoscenza si può affrontare al meglio il problema nell’interesse di chi vive la montagna, dalle comunità alpine agli alpinisti. Si ringraziano per la collaborazione e per il materiale fotografico: Gianni Mortara e Marta Chiarle (CNR-IRPI), Umberto Morra di Cella (ARPA VdA), Marcia Phillips (SLF Davos) e Giuseppe Cola (SGL).
Complessa installazione di sensori per il monitoraggio della temperatura della roccia sulla parete sud dell’Aiguille du Midi (Monte Bianco, 20.12.2006, foto A. Hasler) Sensori per la misura della temperatura della roccia e dell’aria installati sul versante sud del Pilier d’Angle (Monte Bianco, foto ARPA VdA).
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AM BI E N T E
Testo e foto di Tomaso Clavarino
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Ingrid Skjoldvaer
La vista dalla cima del Blåtind è qualcosa di unico, i pescherecci sono attraccati al porto di Svolvaer, il mare si apre sotto le montagne che a picco cadono nell’acqua, la neve riflette la luce dorata che filtra tra le nuvole. Seth Hobby, americano di Seattle, lo dice senza mezzi termini: «Questo posto è magico». Questo posto sono le isole Lofoten, nel Nord della Norvegia, dove Seth si è trasferito, anche per amore, e dove, oltre a fare la Guida alpina, gestisce, insieme a sua moglie Maren, il Lofoten Ski Lodge a Kabelvåg. E non deve essere l’unico a pensarlo visto che sempre più persone decidono di raggiungere queste isole per sciare su pendii, a parte rari casi, mai troppo impegnativi ma incastonati in un ambiente fiabesco e con panorami da strapparsi i capelli. Una mecca per gli appassionati di attività outdoor che lontano dalle grandi stazioni alpine qui trovano un ambiente rilassato, piccoli villaggi di pescatori, e una comunità pronta ad accoglierli e a condividere il forte legame che gli abitanti del luogo hanno con la natura che li circonda. Una natura incontaminata che però non è immune dai tentativi predatori dell’industria petrolifera, che in Norvegia, e a queste latitudini, ha non pochi interessi. Da anni infatti aziende come la multinazionale norvegese Equinor ASA, con sede a Stavanger, tentano di ottenere il via libera dal governo di Oslo per delle trivellazioni in mare, alle Lofoten e nelle zone di Vesterålen e Senja. Aree dagli ecosistemi fragili il cui futuro è strettamente legato al delicato equilibrio tra natura e attività antropiche. «Il 70% del pesce norvegese è pescato nelle acque intorno alle Lofoten, e buona parte di esso, soprattutto il merluzzo, viene esportato. Qui
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Seth Hobby
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Zoe Hart
Sjur Hauge
tutto dipende dalla pesca, e le trivellazioni metterebbero a rischio un settore che è la spina dorsale di queste isole. Oltre che parte integrante della cultura di questi luoghi» spiega Ingrid Skjoldvaer dell’associazione Folkeaksjonen. Ingrid è una giovane attivista, venticinquenne, che, insieme ad altri 5.000 membri di Folkeaksjonen si sta battendo da anni contro i progetti petroliferi nel Nord della Norvegia. Una battaglia lunga, prima per mettere insieme una comunità disposta a farsi sentire su questo tema, poi per convincere i vari partiti norvegesi a togliere il loro appoggio alle trivellazioni alle Lofoten. Una battaglia quasi vinta. Ad aprile, infatti, il partito laburista norvegese si riunirà e si esprimerà sulla questione relativa. Se dovesse dare parere negativo, come hanno fatto i liberali, per esempio, le trivellazioni si allontanerebbero in maniera quasi definitiva da questo piccolo paradiso terrestre che sono le Lofoten. Sarebbe una vittoria per la comunità locale e per le migliaia di persone che, anche sui social media, si sono mosse in difesa di queste zone condividendo gli hashtag #oilfreelofoten e #lovese. Ma sarebbe anche un esempio di come le comunità, se ben organizzate, possano ancora, nonostante tutto, battersi contro colossi che hanno più armi a loro disposizione, a livello economico e politico, soprattutto. Non è un caso quindi che Patagonia abbia deciso di organizzare proprio qui, alle Lofoten, una tre giorni dedicata ai cambiamenti climatici e alla difesa dell’ambiente. Un evento unico che ha riunito a Kabelvåg quella che l’azienda di Ventura, California, ha definito la comunità della neve. Giornalisti del settore, attivisti impegnati in difesa dell’ambiente montano, comunicatori che si occupano di cambiamenti climatici, oltre a responsabili marketing del brand americano e alcuni degli ambassador Patagonia. Nella speranza che la battaglia, quasi vinta, di Ingrid e di Folkeaksjonen, possa essere di buon auspicio e di stimolo per chi ha a cuore il futuro dell’ambiente montano e, più in generale, del pianeta Terra. Una tre giorni dedicata a pensare e a mettere in piedi strategie che possano unire, attivare e sensibilizzare la comunità della neve su tematiche sempre più strettamente legate al futuro delle nostre montagne, e sempre più care al marchio californiano. Ormai da tempo infatti Patagonia ha deciso di prendere posizione in difesa dell’ambiente e a supporto di chi per l’ambiente lotta e si batte. Una nuova mission per il brand, che ne fa un caso più unico che raro nel panorama del settore dell’outdoor. Patagonia si è schierata a fianco delle comunità che si battono contro la costruzione di dighe nei Balcani e contro le trivellazioni nel mare australiano, perché l’outdoor è natura, e la natura va protetta; ovunque. Tra una gita scialpinistica e un tuffo nelle acque ghiacciate del mare Artico, i responsabili di associazioni e organizzazioni come POW (Protect our Winter), Save our Rivers, My Blue Planet, e gli ambassador Zoe Hart e Nicholas Wolken, hanno discusso di come provare a mettere insieme idee e azioni per difendere un elemento tanto caro agli appassionati di outdoor quanto delicato: la neve. «Come sciatori e snowboarder dobbiamo renderci conto di un fatto innegabile: il futuro di quello che amiamo di più è in pericolo. L’espansione delle infrastrutture sta provocando la riduzione dei luoghi selvaggi e la rapida scomparsa della biodiversità. L’inquinamento atmosferico sta rendendo le alte vallate alpine tra i luoghi meno sani dove vivere - dicono da Patagonia - E soprattutto, se non combattuto, il cambiamento climatico darà vita a un futuro senza neve. Crediamo quindi che sia necessario che sorga un movimento ampio e unitario che possa lavorare per creare il cambiamento necessario. Se non lo facciamo, i luoghi selvaggi che amiamo e le avventure sulla neve saranno solamente un ricordo per le generazioni future». Pressioni sui grandi resort alpini per spingerli ad adottare politiche energetiche a impatto zero, coinvolgimento di altri brand e testimonial, campagne social, sono solo alcuni dei temi toccati in tre giorni fitti di incontri, workshop e presentazioni. Perché in fin dei conti se in difesa della neve, e di conseguenza dell’ambiente, non scende in campo per primo chi la neve la ama e la brama tutto l’anno, perché dovrebbero farlo gli altri?
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SI AM O I N BU SI N ESS PER SA LVA RE LA TERRA Il think tank alle Lofoten è in linea con la nuova mission statement di Patagonia: Siamo in business per salvare il nostro pianeta. In sintesi, l’azienda californiana sa perfettamente che tutta la vita sulla Terra rischia l’estinzione, vuole quindi utilizzare le risorse che possiede - il business, gli investimenti, la propria voce e la propria immaginazione - per far sì che ciò non accada. La mission si rispecchia nei valori di un brand avviato da un gruppo di scalatori e surfisti che hanno sempre cercato la semplicità e l’utilità: realizzare il prodotto migliore, non causare danni inutili, utilizzare l’azienda per salvare la natura, non farsi vincolare dalle convenzioni. Alla base di tutto c’è la convinzione che uno dei modi più diretti per limitare i danni all’ambiente sia creare capi che durino per generazioni o che possano essere riciclati, affinché i materiali continuino a essere utilizzati. Per questo funzionalità e durabilità sono al primo posto, perché il danno la maggiore lo facciamo producendo e cambiando spesso abbigliamento e attrezzatura.
U N M I LI ONE DI DOLLA RI IN PIÙ C ON FA IR TRA DE A Hirdaramani, in Sri Lanka, gli operai hanno scelto di utilizzare il denaro per inaugurare un centro diurno con servizio di asilo nido gratuito, implementare un programma di salute e salubrità ambientale e acquistare assorbenti e biancheria intima per migliorare il livello di igiene individuale. I lavoratori di MAS Leisureline, sempre in Sri Lanka, hanno invece optato per la conversione dell’importo in buoni pasto e buoni per l’acquisto di generi alimentari, medicinali e articoli per l’igiene personale. Il denaro in oggetto è quello del programma Fair Trade, al quale Patagonia aderisce. Per ogni articolo Fair Trade Certified realizzato con il marchio Patagonia, l’azienda assegna un bonus in denaro; questo compenso extra viene versato direttamente ai lavoratori degli stabilimenti che partecipano all’iniziativa e che decidono in seguito come spenderlo. Il programma promuove anche la salute e la sicurezza degli operai sul luogo di lavoro e la conformità delle aziende agli standard socio-ambientali, oltre a incoraggiare il dialogo tra dipendenti e dirigenti. A maggio 2016, più di 7.000 persone impiegate nelle fabbriche e negli stabilimenti che confezionano capi di abbigliamento Patagonia avevano beneficiato del programma per un totale di un milione di dollari extra (dati di luglio 2017). Una fabbrica Fair Trade Certified, oltre ai bonus, garantisce standard rigorosi di salute e sicurezza, rispetto per l’ambiente, non ricorre al lavoro forzato o minorile e assicura maternità e vacanze pagate. Patagonia è la prima azienda di capi di abbigliamento ad avere esteso il programma anche a stabilimenti in Messico e negli Stati Uniti, oltre che in Asia, Colombia, Vietnam, Thailandia e Nicaragua.
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PE O PLE
Intervista e foto di Achille Mauri
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CHI È MATTIA FOGLIANI?
«Credo di essere una persona semplice, a cui piace vivere con il sorriso sulle labbra, amo la vita all’aria aperta e cerco la bellezza nelle piccole cose. Mi piace trovare angoli selvaggi non lontano da casa, sulle montagne della mia regione, dove poter vivere l’emozione dell’esplorazione. Poi c’è invece il mio alter ego viaggiatore, fanatico del surf. Questi due aspetti confluiscono in una mia personale ricerca che si traduce in uno stile di vita snowsurf tra Alpi e mare». ECCO, APPUNTO, TRA ALPI E MARE, COME DIRE ALPSEA…
«Alpsea è un progetto nato dall’idea di voler raccontare il legame tra il ciclo dell’acqua e il nostro stile di vita snow e surf, un intreccio di storie che scorrono attraverso le stagioni e i luoghi. E che ora sta prendendo forma nel documentario From the Alps to the Sea, che uscirà il prossimo autunno e che vede la luce grazie alla collaborazione e all’impegno di numerosi amici, tra questi Nicholas Wolken, James Niederberger, Luca Albrisi e soprattutto Filippo Delzanno, il ragazzo dall’altra parte dell’obbiettivo. Lo scopo è quello di veicolare un messaggio ecologico, non vogliamo avere un approccio solo scientifico. È un progetto artistico, nel quale diamo il nostro personale punto di vista, quello di chi vive a stretto contatto con l’elemento naturale acqua. È un filone che si gioca su un equilibrio sottile tra locale e globale. Siamo parte di una storia semplice e circoscritta, seguendo lo scorrere dell’acqua attraverso le stagioni, cerchiamo di fare capire come tutto sia collegato. Noi uomini di montagna, che viviamo in luoghi dove inquinamento e surriscaldamento globale sembrano lontani, ne siamo in parte causa e con le nostre piccole azioni quotidiane possiamo rendere migliore o peggiore il futuro del pianeta». DICIAMO CHE ACT LOCAL, THINK GLOBAL POTREBBE ESSERE IL MOTTO PER UNA VITA SOSTENIBILE, DUNQUE?
«Dal punto di vista ecologico credo che bisognerebbe capire che un sinonimo di sostenibile è sicuramente locale. Non voglio però essere io a dire cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, è una scelta... se pensi noi per surfare le onde della Liguria dobbiamo guidare per 250 chilometri. Quindi credo che bisogna scendere a compromessi, oppure dobbiamo fare gli eremiti, vivere di quel che produciamo e smettere di praticare pure questi sport. Però se cominciamo con l’essere consapevoli e nel limite del possibile cerchiamo di consumare locale e di viaggiare meno e meglio, potremo certamente avere uno stile di vita più sostenibile. Mi troverete più facilmente con la split su qualche cima dietro casa, che non in grandi stazioni sciistiche affollate, dove sembra di stare in un centro commerciale...».
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VIVI IN UN POSTO MOLTO BELLO, TROVI CHE SIA DEL TUTTO COMPRESO E QUINDI RISPETTATO IL CANTON TICINO?
«Sì, penso proprio di vivere in un angolo delle Alpi davvero bello. Qui da noi c’è un gran potenziale per gli sport outdoor, credo però che si potrebbe sviluppare meglio questo settore e non per voler sfruttare e rischiare di deturpare il territorio, ma piuttosto per valorizzarlo e salvaguardarlo. Abbiamo così tanto potenziale fuori dalla porta di casa e spesso i primi a non rendersene conto sono i local. Così sovente sono gli investitori forestieri ad approfittarne. Un peccato, il territorio dovrebbe essere valorizzato e gestito innanzitutto dalle persone che lo abitano». HAI MAI TEMUTO CHE FACENDO CONOSCERE I POSTI CHE FREQUENTI DIVENTINO DESTINAZIONI DI MASSA?
«È un problema molto attuale, con internet e i social media abbiamo a disposizione una montagna di informazioni. C’è sempre più gente e le gite che fino a pochi anni fa erano riservate a pochi, ora con due click sono a portata di tutti. Con problemi anche dal punto di vista della sicurezza, oltre che del rispetto e della salvaguardia dell’ambiente. La montagna è di tutti, ma queste scorciatoie che la rendono più vicina non favoriscono esperienza e consapevolezza, si rischia così di perdere quel senso di avventura, solitudine e pace che rendono speciali questi momenti». QUALI SONO SECONDO TE I MEZZI DI COMUNICAZIONE PIÙ EFFICACI PER DIFFONDERE UN MESSAGGIO ECOLOGICO?
«Ormai tutto passa dai social media, sono piattaforme davvero importanti. Però bisogna tenere sempre i piedi ben saldi nella vita reale, senza farci condizionare troppo da quella virtuale. Per la mia generazione è più facile, ma quelle nuove, cresciute con lo smartphone in mano, avranno bisogno di capire che le relazioni semplici, le chiacchiere con gli amici, rimangono la comunicazione migliore. Bisogna guardare al passato, nella nostra valle si diceva fare firegna, ossia quei momenti di condivisione, nelle cascine della valle, per trovarsi a discutere, cantare e raccontare storie, istanti per condividere informazioni e pensieri». CHE TIPO DI LEGAME HAI CON GLI ELEMENTI NATURALI?
«Beh, qui parliamo innanzitutto di acqua perché è il filo conduttore del nostro racconto, in realtà ci troviamo a stretto contatto con tutti gli elementi. Credo che chi come noi ama passare il proprio tempo all’aria aperta, alla ricerca di avventura, voglia sentirsi parte della natura. Non scaliamo una montagna o ci tuffiamo tra le onde per riuscire a dominare gli elementi, lo facciamo per sentirci parte di essi. Purtroppo la vita frenetica dei giorni nostri non ci lascia troppo spazio per pensare, per prenderci una pausa e meditare sulla nostra presenza nella natura».
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SEI APPENA DIVENTATO PAPÀ, COSA IMMAGINI PER IL FUTURO DI TUO FIGLIO?
«Difficile immaginare il futuro, o meglio difficile immaginarlo in modo positivo, almeno per quanto riguarda i grandi problemi ambientali ai quali dobbiamo rispondere con urgenza. Il sistema economico e politico attuale non sembra pronto a un cambiamento radicale, però io resto positivo, sempre più gente si interessa e comprende queste problematiche, condividendo una voglia di cambiamento e miglioramento. Spero che i nostri figli abbiano a disposizione un mondo dove poter trovare ancora i piaceri della vita semplice. Personalmente credo che il modo per trasmettere questi valori sia dare il buon esempio. Il miglior insegnamento è quello dell’apprendimento con l’esperienza, quindi cercherò di passare molto tempo con mio figlio, portandolo nella natura, facendogli vivere l’avventura... Se capirà l’importanza di quello che ci circonda, del vivere semplicemente, felici e in armonia, avrà anche uno stile di vita sostenibile». DAI WIND LIP, ACCUMULI DI NEVE CREATI DAL VENTO CHE ASSUMONO FORME SIMILI A ONDE, A QUELLE VERE DEL MARE. QUALI SONO LE REALI SIMILITUDINI TRA IL SURF E LA SPLITBOARD?
«Nasce proprio da qui Alpsea. Passiamo molto tempo a controllare il meteo, i venti e le precipitazioni. Una costante ricerca delle onde migliori, della neve top, del giusto luogo e del giusto momento dove acqua e vento danno vita al nostro perfetto terreno di gioco. Poi, salendo verso la cima, come remando verso il picco, dedichiamo tanto tempo ed energie per trovare quell’istante nel quale disegnare linee con le nostre tavole, momenti che scompaiono velocemente perdendosi tra gli elementi, ma che imprimono nella nostra mente fotografie di vera e semplice gioia».
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ACQ UA
Testo di Filippo Barazzuol
«Ho finito l’acqua, dai fermiamoci a quella fontana!». «Ma no, non bere quell’acqua! Io l’ho bevuta una volta e mi è venuto mal di pancia!». Però la sete è troppa, mi fermo lo stesso e riempio la borraccia, la solita, la mia preferita, quella bianca in tinta con la bici, quella che ha superato la selezione naturale delle buche ed è rimasta salda nel portaborraccia. La uso sempre, sì, la sciacquo prima di riempirla, ormai il fondo non è più completamente bianco, ma si vedono delle macchie scure. Riforniti d’acqua ripartiamo e mi viene un dubbio, possibile che l’acqua così limpida e fresca abbia fatto star male il mio amico? E se invece fosse quella ben più inquietante cracia sul fondo della borraccia la causa dei problemi? Mi confronto con i batteri tutti i giorni, lavorando come biologo in un laboratorio analisi così, per togliermi la curiosità, ho deciso di analizzare delle borracce e vedere quali microrganismi possono trovarsi all’interno e se sono gli stessi batteri che troviamo abitualmente. Scelte le borracce più vissute che avevo a casa, ho deciso di analizzarle con il metodo dell’acqua di risciacquo e del tampone di superficie. Il primo consiste nello sciacquare con dell’acqua sterile l’interno della borraccia, filtrarla con membrane porose in grado di trattenere i microbi e successivamente adagiarle su dei terreni di coltura selettivi per i vari microbi. Il secondo metodo, invece, consiste nell’andare a toccare la superficie da analizzare con un tampone sterile
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per poi strisciarlo sul terreno di coltura. Il tutto deve stare per almeno un giorno a determinate temperature idonee alla crescita dei batteri. L’ipotesi di partenza era quella di trovare batteri della famiglia delle Pseudomonadaceae (quelli delle mozzarelle blu), perché sono comunemente presenti nell’ambiente, molto resistenti ai trattamenti di disinfezione e in grado di creare dei biofilm sulle superfici. Inoltre mi aspettavo anche muffe, visto il colore nerastro che aveva una borraccia dimenticata per mesi nello zaino. Ho anche ricercato la presenza di batteri coliformi in particolare di Escherichia coli in modo da escludere contaminazioni di tipo fecale e quindi di batteri potenzialmente patogeni.
Con i tamponi invece sono andato in modo mirato a toccare le zone più sporche per seminarle su un terreno che consente la crescita di quasi tutti i batteri aerobi. I primi risultati sono stati incoraggianti con una ricerca negativa per pseudomonas e coliformi. Dai tamponi di una borraccia sono state isolate delle colonie di batteri, identificati tramite microscopio ottico come appartenenti al genere bacillus. Il fatto curioso è che li ho trovati in una borraccia che non usavo da settembre e che era stata riposta nell’armadio pulita e asciugata. È nota la capacità di questi batteri di sopravvivere nelle condizioni anche più sfavorevoli producendo spore che possono rimanere silenti per lunghi periodi. Le piastre per la ricerca di lieviti e muffe hanno riservato maggiori sorprese, infatti la crescita di microrganismi ha totalmente
coperto la membrana di filtrazione. La presenza di muffe è sicuramente importante ma c’è da dire che sono state concentrate tutte le cellule presenti nei 100 ml di acqua filtrati. Da notare che sono maggiormente presenti nelle tre borracce di plastica molle. Riflettendo, in quelle borracce uso molto spesso sali e glucosio, che sono ovviamente anche le fonti principali di nutrimento per questi microrganismi. L’ipotesi che si potrebbe fare è che dopo un primo inquinamento alcuni batteri riescono ad aderire alle pareti della borraccia e, nutrendosi degli integratori sciolti, riescono a sopravvivere tranquillamente. Insomma, probabilmente non c’era nulla in grado di far stare male una persona sana, però scommetto che, letto questo articolo, guarderete le vostre borracce con occhi nuovi!
Dettagli di cellule di microrganismi fotografati tramite microscopio ottico. Nel cerchio rosso colonie bacillaceae su piastra di TSA.
Analisi effettuate presso il laboratorio analisi e consulenza alimentari e settore latte: Agrilab S.R.L. di Centallo (CN) Facebook: @AgrilabSrl - Instagram: @agrilab_lait - www.agrilab.com
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I NI ZI AT IV E
N UM B E R S 1 . 6 0 4 .138 i metri di dislivello percorsi 5 0 0 . 0 00 i metri in più rispetto allo scorso anno 8.003 il record di metri di Stephan Hugenschmidt, in Svizzera
Un milione 604.138 metri di dislivello per salvare il leopardo delle nevi. Questa la sfida vinta da Dynafit, azienda che ha proprio l’affascinante felino in via d’estinzione come proprio marchio. Il 2 e 3 marzo, infatti, in 11 Paesi (Germania, Austria, Italia, Polonia, Grecia, Bulgaria, Slovenia, USA e Slovacchia) il brand ha lanciato una sfida agli scialpinisti: percorrere quanti più metri di dislivello possibile su un percorso prestabilito. Per ogni metro Dynafit ha donato un centesimo di euro allo Snow Leopard Trust, una ONG di Seattle, negli Stati Uniti, che si occupa di studiare e tutelare questo animale che rischia di scomparire: si stima infatti che ne esistano 3.500 tra Cina, India, Kirghizistan, Mongolia e Pakistan. Per cercare di salvare il leopardo delle nevi e tutelare l’ambiente in cui vive il punto di partenza è sapere esattamente quanti ce ne sono ed ecco che i metri di dislivello dello Snow Leopard Day si sono trasformati in 16.042 € che verranno utilizzati proprio a questo scopo. In Italia la
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manifestazione si è tenuta a Misurina, sulle Dolomiti. Settanta gli scialpinisti presenti per 50.920 metri di dislivello raccolti, anche grazie alla personale sfida del Dynafit Trail Hero Marc Slanzi (nella foto), che ha percorso per ben sei volte il tracciato da Misurina alla Forcella della Neve, accumulando da solo 4.500 metri di dislivello. «La tutela di specie in via di estinzione è una parte fondamentale del nostro programma di responsabilità sociale d’impresa, una tematica che ci sta molto a cuore - ha affermato Alexander Nehls, International Marketing Director Dynafit - Lo Snow Leopard Day è l’occasione perfetta per mettere la passione per lo scialpinismo al servizio di una buona causa. Il leopardo delle nevi è il simbolo scelto per il nostro logo e vogliamo dare un contributo tangibile per proteggerlo dall’estinzione. Organizziamo questo evento da dieci anni, ed è magnifico vedere come la nostra community continui a crescere e impegnarsi nella causa».
AS S O C IA Z I O N I
Testo di Davide Branca
Giovani, belli e ambientalisti. Un gruppo di amici con l’urgenza e il bisogno di fare qualcosa per l’ambiente, il pianeta e la sua biodiversità ha scelto di unirsi per combattere insieme il cambiamento climatico attraverso la forestazione urbana. Nasce così Selva Urbana. L’associazione che - se vogliamo definirla semplicemente ambientalista è forse riduttivo - fonda la sua mission nell’area milanese, dove il problema della perdita di biodiversità è particolarmente grave. Il nome è già il manifesto che muove le loro azioni; rendere le aree urbane più vivibili attraverso la progettazione e la realizzazione di foreste in spazi urbani e periurbani, perché il cambiamento può partire da dove spesso si fugge per cercare pace e benessere in montagna. In questi anni di vita Selva Urbana ha messo a dimora oltre mille alberi in dieci aree, grazie alla collaborazione con amministrazioni comunali e sponsorship private. L’aspetto più interessante del loro agire è la strategia di coinvolgimento di chi l’arrampicata la pratica in palestra, sulle prese di plastica, perché è proprio lì che parte la rivoluzione. Attraverso eventi e iniziative come il Piantala Tour sono state coinvolte le palestre di arrampicata e le comunità di frequentatori dell’area milanese, con un duplice obiettivo: raccogliere fondi per nuovi processi di forestazione e sensibilizzare i climber a uno stile di vita più coerente e attento alle sorti del pianeta. Se volete conoscere meglio le loro attività, scoprire le diverse modalità per diventare sostenitori dell’associazione e dei progetti, vi consigliamo di navigare fra le pagine del sito e del blog. Capirete come una piccola realtà, grazie a una forte motivazione, ha costruito una fitta ed eterogenea rete di relazioni pubblico/private, dove il coinvolgimento non si ferma alla semplice se pur importante ricerca di fondi. www.selvaurbana.it www.selvaurbana.it/blog www.facebook.com/selvaurbanalab www.instagram.com/selvaurbanalab
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I N IZ IAT IV E
Un nuovo film prodotto da Patagonia denuncia lo sfruttamento della specie ittica a rischio estinzione
Giuliano Bordoni, Bruno Mottini, Ph: Daniele Molineris
Se c’è un animale che è il collegamento tra il mare e la montagna, tra l’acqua salata e quella di fusione dei ghiacciai, è il salmone, che risale i fiumi controcorrente per riprodursi e ritorna al mare per nutrirsi dopo essere cresciuto. E proprio il salmone, simbolicamente, è una delle specie ittiche più a rischio di estinzione. I dati relativi alla sola Europa sono drammatici: negli anni ’70 venivano depositate fino a dieci milioni di uova nell’Atlantico settentrionale, oggi solo 3-4 milioni; solo 5 dei 100 salmoni che lasciano i fiumi della Scozia per il mare ci ritorna, con un calo del 70% in 25 anni. La causa? La pesca, la costruzione di dighe e gli allevamenti intensivi in gabbie o reti. Questi ultimi, secondo alcuni studi, sarebbero un’ulteriore minaccia perché molti salmoni si ammalano e devono essere curati con antibiotici, oltre a diffondere i virus. Patagonia, il marchio di abbigliamento da sempre attivo sulle tematiche ambientali, lo scorso 28 marzo ha rilasciato il film Artifishal, diretto e prodotto da Josh Bones Murphy, 45 minuti di denuncia sull’argomento, e ha lanciato una petizione per i parlamenti di Norvegia, Scozia, Irlanda e Islanda. Perché i salmoni non corrano veloci verso l’estinzione.
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CL I M AT E C H A N G E
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Testo di Kelvin Trautman e Tom Hill/Sidetracked Magazine Foto di Kelvin Trautman
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Abbiamo corso su un terreno vergine. A malapena, se mai, calpestato da esseri umani prima; non c’era sentiero da seguire. Dovevamo semplicemente adattarci alla geografia del luogo: un gelido mare di cobalto alla nostra destra e lingue di vecchia neve che scendono tra scarpate e cavità, lasciando solo piccole strisce di tundra. Ogni nuovo passo era la ricerca del percorso nel suo senso più vero. Andavamo a caccia di macchie di vegetazione più liscia, costeggiavamo paludi e cercavamo di saltare sopra i gelidi ruscelli del disgelo, consapevoli di essere veramente nel bel mezzo del nulla. Non avevamo una città o un villaggio come meta, non c’era nessun segno di civiltà; nessuna comunicazione con il nostro pick-up, solo un tempo e un luogo prestabiliti per l’appuntamento e la speranza che la barca a vela fosse in grado di navigare tra i fiordi ghiacciati per venire a prenderci. La sensazione di evasione era palpabile, il senso di bellezza primordiale e di lontananza insuperabile. Però anche qui, sulla selvaggia costa orientale della Groenlandia, l’impatto dell’uomo sul mondo era evidente. Il nostro piano era semplice. Vivere su una barca a vela di 60 piedi, utilizzandola per accedere alla costa selvaggia di Ammassalik. Sbarcare la mattina, correre dai 15 ai 40 chilometri ogni giorno fino al nostro punto di raccolta e sperare che il nostro capitano, Siggi - un uomo la cui esperienza è superata solo dalle storie che racconta - fosse in grado di navigare per venire a prenderci e che i fiordi non fossero troppo pieni di iceberg. Sulla terraferma ci aspettava un incredibile paesaggio. Il nostro piccolo gruppo completamente isolato per ore, a esplorare e giocare come ospiti temporanei nella natura selvaggia. Eravamo in balia dell’equilibrio precario del meteo: i venti chiudevano le insenature con il ghiaccio; fronti caldi scioglievano ciò che restava del ghiaccio marino costiero. Avevamo programmato la nostra visita per settembre, lasciando agire un’intera stagione calda per pulire i percorsi dove avremmo corso. Visto che le nostre mete erano indefinite, abbiamo avuto letteralmente centinaia di chilometri da esplorare. Il bello di avere un piano così semplice è che il viaggio diventa molto più che una corsa nella natura. Certo, spostarci a piedi era il modo più efficace per vivere questa terra così prepotente da vicino, ci ha permesso di interagire e giocare con un nuovo terreno. In quegli otto giorni vissuti insieme c’era un valore intrinseco molto più grande della mera esplorazione, una connessione con il luogo che non avremmo potuto raggiungere in meno giorni e con modalità diverse. Usare i nostri piedi come mezzo di locomozione ci ha dato il tempo di immergerci in quello che i nostri occhi vedevano. La vista non è stata l’unico senso, abbiamo potuto accarezzare con le mani i minuscoli fili d’erba sferzati dal vento, percepire ogni minima asperità di quella roccia forgiata dagli elementi sotto la suola delle nostre scarpe. Duemila anni fa la Groenlandia era disabitata. Le popolazioni nomadi e i coloni della preistoria avevano da tempo abbandonato i suoi aspri paesaggi. Mentre scendevamo dal tender che abbiamo usato per sbarcare nei luoghi più selvaggi, l’acqua di mare densa scivolava contro lo scafo a rompere il silenzio di un giorno tranquillo. Sette di noi, inclusa la nostra guida, Inga, sono scesi a terra. Anche se ci eravamo abituati alla routine di quella vita, il semplice atto di mettere piede su un lembo di terra nuovo era sempre una sensazione unica. Lo abbiamo fatto con trepidazione, pensando a quello che devono avere provato quei primi coloni, gli antenati dell’attuale popolazione Inuit, sbarcati per cacciare e raccogliere bacche, cercando di vivere della terra e magari alla ricerca di luoghi dove fermarsi definitivamente. Un vero senso di avventura ci ha pervasi, cercando ognuno di costruire il
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proprio percorso. Il cielo di un blu intenso ci ha permesso di essere parte per qualche istante di quel paesaggio così effimero. Il grande volume di esperienze ha richiesto un lavoro straordinario del fisico e della mente per adattarci. Spesso c’era una crudezza brutale, nuove lacrime che il paesaggio non aveva avuto tempo di addolcire. Il ghiaione sulle ripide discese era instabile, la roccia frantumata rotolava sotto i piedi. Anche le piccole valli sono state profondamente scolpite dalla potenza dei fiumi e delle cascate. Solo i fiori selvatici rompevano quell’aridità, il loro colore delicato era una macchia decisa in quel paesaggio, ma in qualche modo in armonia con la terra che li circondava. C’era poca fauna selvatica nell’entroterra e siamo stati contenti di non aver incontrato il più pericoloso degli abitanti: Inga aveva un fucile per tenere lontano gli orsi polari, ma ce ne sono sempre di meno, disorientati e affamati per il cambiamento climatico. Più calcavamo quella terra, più ci rendevamo conto che l’impronta dell’uomo raggiunge anche gli angoli più remoti del mondo e gli effetti sono ancora più dirompenti in questa primordiale solitudine. Ritornare sulla barca ogni sera era come rientrare a casa, ci ha aiutato a metabolizzare quell’esperienza in un paesaggio così alieno. A differenza di una tenda o del dormire di rifugio in rifugio, ha creato in noi un senso di stanzialità nel flusso costante del viaggio. C’era un giusto contrasto tra i confini di quella piccola barca a vela e gli spazi infiniti che solcavamo di giorno. Anche quando la barca era ormeggiata, eravamo consapevoli che il nostro spazio minuscolo era ancorato sul bordo di un grande oceano, cullandoci dolcemente sopra all’abisso nero del mare. Abbiamo usato il tempo a bordo per rilassarci e resettarci. Abbiamo trascorso lunghe serate in cambusa a mangiare, bere e condividere storie. Un viaggio così, tutti insieme, ha un significato che va oltre la semplice compagnia. Ha voluto dire imparare dai punti di vista degli altri, arricchendo i propri pensieri ed esperienze. Sdraiato in coperta, le mani dietro la testa, mi sono trovato spesso a guardare il cielo nero. L’inverno arriva presto a Nord e l’aria fresca della notte pizzicava la pelle scoperta, in contrasto con l’intimità del mio sacco a pelo. Le luci del nord ballavano, cascate di luce fosforescente a fare lo slalom tra milioni di puntini di stelle. È stato un istante eterno, nel quale rendermi conto dell’assoluta meraviglia del mondo, senza volerlo imprigionare in un mirino, un’immersione totale nel momento, cercando di viverlo, piuttosto che catturarlo. La fotografia mi consente di visitare questi luoghi e toccarli con mano. Affronto con piacere la responsabilità di documentare quello che vedo e condividere storie. Spesso avviene tutto senza uno scopo più profondo che lasciare lavorare la mia ispirazione, ma a volte c’è un messaggio più importante da trasmettere. In Groenlandia siamo stati in grado di correre in molti più posti di quanto avremmo potuto fare anche solo pochi anni fa: il riscaldamento globale ha reso più veloce lo scioglimento della calotta glaciale. I ghiacciai si stanno ritirando dalla costa verso l’entroterra, lasciando vedere ogni anno un po’ di più di ciò che stava sotto. Nel breve termine questa potrebbe essere una buona notizia per i pochi che come noi si avventurano su queste terre a piedi, ma l’impatto sul resto del mondo è potenzialmente devastante. Le calotte glaciali della Groenlandia conservano l’otto per cento dell’acqua dolce del mondo. Quello che un tempo era in cassaforte sta rapidamente riempiendo gli oceani, cambiando il corso delle correnti e portando all’innalzamento del livello del mare. È una storia che tutti avevamo letto prima di venire qui, ma vedere con i propri occhi quello che sta succedendo e documentarlo mi ha segnato più di tante parole e numeri. Il segnale che il mondo sta cambiando e potrebbe non essere mai più lo stesso è visibile e tangibile, è soprattutto impossibile da ignorare. La storia umana dell’isola è un flusso che si interseca con quello del clima, avanzando e ritirandosi nel corso dei secoli. Ai momenti di solitudine fanno da specchio periodi di boom demografico, con insediamenti lungo la costa, da Ovest a Sud, e infine sulla costa orientale che abbiamo esplorato. È incredibile pensare che le persone abbiano potuto vivere in questo luogo inospitale per circa sette secoli.
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Il popolo Thule è pieno di risorse e di spirito d’adattamento, è sopravvissuto alla piccola era glaciale, in estenuante equilibrio tra inverni rigidi e brevi estati, cacciando balene e foche. Un giorno abbiamo corso meno, Anna ed io abbiamo fatto un giro in kayak nelle acque dell’Artico, vicino alla barca. Il kayak è così radicato nella storia locale tanto da essere un vero e proprio simbolo nazionale. Facendo lo slalom tra gli iceberg condannati a morte, tutto ciò che potevamo sentire era il costante gocciolare del ghiaccio che si scioglie, interrotto dai rumori più forti e dal crepitio dei pezzi che si sgretolavano e si tuffavano nel mare, sollevando onde lunghe e minacciose verso le nostre piccole canoe. Abbiamo navigato per un po’ in questo cimitero di iceberg, ancora una volta comprendendo che l’apparente solidità di ciò che si erge come un monumento, che si tratti di un ghiacciaio, una montagna o un iceberg, è effimera. È innegabile che la terra sia in costante trasformazione, indipendentemente dall’intervento dell’uomo. I fossili di mare in cima alle montagne e le nuove isole vulcaniche sono lì a testimoniarlo. Mentre alcuni di questi cambiamenti sono lenti in rapporto alle nostre brevi esistenze, altri sono molto più rapidi, e il risultato diretto dell’attività umana. Siamo in un ecosistema collegato da ragnatele e le azioni delle persone dall’altra parte del pianeta hanno un impatto diretto e misurabile qui. Non solo misurabili attraverso le generazioni, ma in anni. Il fiordo di ghiaccio protetto dall’UNESCO vicino a Ilulissat si è ritirato di quasi dieci chilometri tra il 2001 e il 2004. Ma questa non è solo una storia di cambiamento del paesaggio: dagli orsi polari al bue muschiato e alle foche, qui la velocità catastrofica del cambiamento climatico sta facendo una selezione naturale e gli animali lottano per accaparrarsi il cibo e adattarsi al nuovo clima. Le conseguenze del climate change sono davvero globali. Più ghiacci si sciolgono, più il livello del mare sale e minaccia terre lontane come il Bangladesh e le isole del Pacifico. Dal macro al micro e viceversa, di nuovo, il nostro tempo in Groenlandia ci ha fatto riflettere su come tutto sia collegato. Ritornando al piccolo insediamento di Kulusuk, mi è stato difficile accettare l’impatto che gli uomini stanno producendo in questo angolo del mondo appena sfiorato dalla presenza umana. La Groenlandia e le regioni polari sono il campanello d’allarme del cambiamento climatico, una verità ancora più cruda in questa natura così primordiale. L’origine umana delle trasformazioni che abbiamo visto è duramente metabolizzata dal paesaggio incontaminato nel quale ci siamo immersi. Sono tornato a casa con un sospiro di sollievo, ma anche con il peso di una tremenda responsabilità sulle spalle. Non tutti potranno visitare la Groenlandia o vivere le nostre esperienze. Né quell’esperienza rimarrà cristallizzata e identica ancora per molto tempo. Il danno è già stato fatto e ogni giorno peggiora, minuto dopo minuto. C’è un rimedio? Forse ci sono degli indizi nella nostra storia per capire come gestire il climate change. La popolazione Thule si è adattata ed è sopravvissuta, lavorando in un ambiente che cambia frequentemente. Nella nostra breve esistenza su questo pianeta, sembra che vogliamo prosperare a spese di altre specie, o di quelli nella nostra che sono meno fortunati. Fa sorridere pensare che il termine groenlandese per definire queste lande desolate sia Kalaallit Nunaat, vale a dire la Terra delle Persone. Questa isola è stata disabitata così a lungo ed è ancora così vuota, eppure mostra più di tanti luoghi i segni pesanti delle azioni degli uomini. Forse riusciremo ad adattarci a un ambiente che cambia velocemente, c’è ancora molto da salvare, così tanto da combattere. Questa storia, queste immagini, sono più di un semplice reportage di una vacanza di corsa nella natura. Sono un fermo immagine su un luogo in metamorfosi artificiale, un esempio potente del perché abbiamo bisogno di uno sforzo ancora più grande come individui, collettività e governi per cambiare i nostri comportamenti. Potrebbe essere già troppo tardi e probabilmente troveremo un modo per adeguarci se così fosse, ma c’è qualcosa di più importante che combattere per la propria casa?
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L A G RO EN L AN D IA È L A PIÙ G RAN D E ISO L A A L MOND O Circa l’80% della sua superficie è coperta da ghiacci, quella non occupata dalle nevi eterne è grande quanto la Svezia. Il Northeast Greenland National Park è grande circa cento volte lo Yellowstone National Park. L’Artico si sta scaldando a un ritmo due volte più veloce del resto del mondo con la Groenlandia sud-occidentale che ha visto il maggiore aumento delle temperature, di circa 3 °C negli ultimi sette anni. Dopo la regione antartica, la Groenlandia è la seconda più grande zona ghiacciata. Il ghiaccio è vecchio fino a 100.000 anni, profondo fino a due miglia e rappresenta circa l’8% delle riserve di acqua dolce terrestri. Se si sciogliesse completamente, il livello degli oceani potrebbe salire fino a oltre sette metri. La parola Tinu, che significa dietro, è utilizzata dagli abitanti della Groenlandia per descrivere la regione orientale, una delle più selvagge sulla faccia della Terra: i 2.700 chilometri di costa ospitano il più grande parco nazionale del mondo e tre baie con soli 5.000 abitanti. Si pensa che gli Inuit (Eskimesi) siano arrivati nella parte nord-occidentale della Groenlandia dal Nord America tra il 2.500 a.c. e l’inizio del secondo millennio d.c., usando le isole dell’Artico Canadese come tappe intermedie.
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UNA CREW T RA SPORT E SC I EN Z A Della spedizione in Groenlandia hanno fatto parte le trail runner Anna Frost, Stefanie Bleich e Kimberley Jacobs, insieme a Steve Chrapchynski, I glaciologi Tómas Jóhannesson e Pálína Héðinsdóttir, lo skipper Sigurður Jónsson, oltre al fotografo Kelvin Trautman.
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T RAV E R SAT E
Testo di Andrea Bormida / Foto di Christian Penning
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Il Grande Circolo è «un’ode a questa regione». Che si chiama Sud Tirolo, o Alto Adige. Dove il Gruppo Oberalp affonda le proprie radici, dove nascono le idee e le ispirazioni che portano allo sviluppo dei prodotti Salewa. Un tour lungo i confini regionali con l’Austria, sui 150 chilometri da Sesto a Colle Isarco, muovendosi a piedi e in bici. Un’idea realizzata in senso inverso nell’autunno 2018, ma la voglia di attraversare questo magnifico territorio anche nella sua veste invernale ha fatto sì che, verso la fine di febbraio, l’avventura iniziasse esattamente da dove era finita pochi mesi prima, a Sesto. Ed è così che insieme a un agguerrito gruppo di colleghi di diversi magazine europei mi sono ritrovato in questo caratteristico paese: sfondo le Tre Cime di Lavaredo e le guglie disposte come le ore sul quadrante di un orologio delle Dolomiti di Sesto. Fin da subito è stato chiaro che si sarebbe trattato di un vero e proprio viaggio con gli assi ai piedi. L’auto l’avremmo ripresa dopo sei giorni passati a spostarci sugli sci. L’idea di questo approccio mi è subito piaciuta: nessun mezzo, solo le nostre gambe per scoprire un territorio come il Sud Tirolo che fa della sostenibilità una propria caratteristica. O al massimo delle silenziose e pulite e-bike, bici a pedalata elettrica assistita. È ispirandosi proprio a questa idea che il marchio Salewa vuole testare i capi tecnici che impiegano prodotti
del territorio come la lana degli allevatori affiliati alle associazioni di produttori Tiroler Lamm e Villnosser Brillenschaf. Nel gruppo la sostenibilità è vissuta come parte della cultura di famiglia e impone un ragionamento sul lungo periodo, in termini di generazioni. Quello che in passato era semplicemente parte della cultura manageriale, con la crescente internazionalizzazione è diventato un vero e proprio manifesto fatto di impegno verso le persone che lavorano per il Gruppo Oberalp o i suoi fornitori e sviluppo di prodotti sostenibili a partire dal territorio. Il programma che Egon e Steffi ci illustrano pare tutt’altro che soft. Skialp cento per cento sviluppo: dislivelli e pochi compromessi. La quantità della neve al suolo non è eccezionale, ma è senza dubbio decisamente più abbondante rispetto alle Alpi dell’Ovest anche se è qualche settimana che non nevica ed ha fatto parecchio vento. Il gruppo è eterogeneo e proprio come nelle barzellette: ci sono un francese, un polacco, un tedesco, due italiani, una cecosl… Ma già dai preparativi in hotel si capisce che sono tutti parecchio agguerriti e allenati. Vado a preparare lo zaino dove infilo anche qualche foglio e una matita. A volte mi piace appuntare a fine giornata brevi frasi che mi aiutino nei ricordi una volta finito tutto. Come nella più pura tradizione di un viaggio che si rispetti, si deve tenere un diario.
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2 5 FE BBA RI O S E S TO — KA LKESTEIN (AUT) TAC , TAC, TAC !
Questa settimana dividerò la camera per lo più con Mathias, un giovane francese di Grenoble. Lo vedo alla sera preparare tutto lo zaino, pella pure, proprio come abitualmente faccio io. Altro che i miei soci che si presentano ai parcheggi in tuta e da enormi borsoni devono ricavare ancora uno zaino. Mi sta simpatico, mi sembra a posto. Impressione che verrà confermata anche nei giorni seguenti. Al mattino raggiungiamo Sesto con un trasferimento in bus che patisco come uno scolaretto in gita. Succo al pompelmo combinato al caffè: devo ricordarmi di evitarlo a colazione, per lo meno in rapida successione. Complice l’inverno avaro di precipitazioni e una rinvigorita passione per le cascate di ghiaccio, non ho sciato molto in questa prima parte di stagione. Aggiungiamo un periodo lavorativo tiratissimo e la prima sensazione mentre calzo gli scarponi è riassumibile con una parola: disagio. Si deve pellare una settimana di fila e noto subito che l’asse più largo che sfoggiano i miei soci è un timido 90 millimetri. Tirando fuori dalla sacca il mio 109 rosa mi sento osservato, poi per fortuna vedo che anche Luca non ha rinunciato ai fat. Dopo la prima discesa su neve varia, mi convinco di avere fatto la scelta giusta. Il peso farà gamba. Pronti via e si inizia pellare in un caldo anomalo. Mentre il gruppo si sgrana un po’, penso che questo itinerario sarebbe proprio piaciuto a mia moglie. Lei odia girare in tondo per arrivare in cima alle montagne e oggi sono solo un paio d’ore che vaghiamo tra vallette e boschi senza aver ancora avvistato la cima. Sono assorto nei miei pensieri quando, dopo un tratto più ripido, si reperisce la dorsale finale e il panorama si apre: le Tre Cime sullo sfondo. Mi ritrovo casualmente in testa al gruppo con un austriaco ben piazzato. Iniziamo a parlare di materiali e mi fa subito notare i suoi nuovi 85 light. Dopo una cinquantina di metri, con l’avvicinarsi della cima, noto che Alex, questo è il suo nome, alza il ritmo. Per dirla tutta, è palese che vuole farmi saltare: non parla più, ogni tanto lancia qualche occhiata laterale per vedere se sono ancora dietro di lui. L’ultima cosa che volevo fare oggi era una volata, però non siamo qua per divertirci e in queste occasioni mi si chiude la vena quasi avessi un tribale sul bicipite o un drago sulla schiena: alzo il ritmo e gli sto sulle code. Mancano 100 metri quando prova ad allungare. Maledetto. Soffro e gli pesto le code con le mie spatole 130 millimetri per fargli sentire la presenza. Rimango a contatto e per fortuna arriva la cima: non ci riusciamo quasi a parlare. Senza fiato mi bisbiglia in un italiano che sa di Sturmtruppen: Tu, TAC, TAC,
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TAC sui miei sci, io primo però. Sorrido. Non è ancora il momento. Chiusi gli attacchi la gravità diventa a favore e la musica cambia. Si entra in sintonia con tutto. La vallata austriaca nella quale arriviamo è bellissima. Si sta bene. Il Grande Circolo è iniziato: via i primi 1.500 metri per quasi 18 chilometri di sviluppo. 2 6 FEB B RAIO K AL K ESTEIN ( AUT) — AN TERSELVA E abbiamo pure ripellato
Il programma prevede due salite e due discese e relative ripellate, come impone la moda attuale. Il cielo velato al mattino garantisce una prima salita e discesa dal Gailspitze su cemento armato. Canederli e succo di ribes in Val Casies e si riparte per il Passo Stalle. Il paesaggio, gli alpeggi e le malghe con i tetti candidi di neve sono davvero da cartolina. Oggi nessuna gara internazionale ma mi accorgo che, privo di avversari, l’austriaco Alex si sente un po’ smarrito e cerca sfogo tracciando sempre un proprio percorso senza inversioni. Il risultato deturpa un intero vallone vergine dove Steffi stava disegnando dolcemente la salita. Odio l’inutile evidenza di una traccia dritta quando ce n’è già una decisamente più armoniosa. Sono 2.000 metri e 23 chilometri che lo penso. Ma non è ancora il momento. 2 7 FEB B RAIO AN TERSELVA — RIVA D I TURES Nieve primavera
Piccola discesa su una delle chilometriche piste da fondo e biathlon di Anterselva e si inizia a pellare nell’enorme vallone che conduce ai 2.814 metri della Forcella d’Anterselva. Per ovvie ragioni logistiche il giro è stato pensato per avere di prima mattina le salite su versanti esposti al sole e le conseguenti discese su esposizioni più fredde. Così ci ritroviamo a salire estasiati su un fantastico firn che i simpatici spagnoli del gruppo non esitano a definire come Nieve primavera! Oggi la tappa è assai articolata e, una volta giunti al colle, svoltando sul versante Nord si impone un cambio di assetto dove calziamo i ramponi per affrontare una spalla ripida prima dei pianori che conducono alla vetta del Monte Magro, a 3.273 metri. In questi casi il gruppo si disgrega un po’ per poi ricompattarsi sulla spalla prima dell’ultimo ghiaccio pianeggiante. Mentre alcuni decidono di rimettere gli sci, opto per proseguire a piedi: i sastrugi sembrano duri e portanti e procedo svelto, quando un rumore insolito per queste quote cattura la mia attenzione.
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© Andrea Bormida
È strano, ricorda quello sbuffare che si avverte per le vie di Pamplona prima che il gruppo di tori giri l’angolo di qualche vicolo. Una specie di locomotiva a vapore. Forza e muscoli in pieno sforzo. Con la coda dell’occhio vedo Alex che pompa a tutta con gli sci nei piedi cercando di raggiungermi. Da dove siamo la direzione della cima non è evidente ma è indubbio che mi stia puntando. Cerca il mio sguardo a distanza, rimanendo più largo sul pendio. Eccolo il momento che aspettavo. Con i ramponi mi muovo verso la parete più ripida che precede la cima, il toro austriaco mi affianca ma presto si rende conto della trappola: è troppo ripido per proseguire con gli sci! Appena sgancia gli attacchi e se li carica sullo zaino gli do via una sfiammata per la quale ho ancora adesso le gambe dure. Non mollo e arrivo in cima semicosciente. Non lo vedo. Servono un paio di minuti per vederlo apparire, non è manco in forcing, testa un po’ bassa che scuote a destra e a sinistra. Sempre con accento Sturmtruppen mi si avvicina: Come Formula 1, pit stop e si perde. Arrivano gli altri, è inconsolabile e sento che sta spiegando a Christian che ha sbaglaito tattica con sci e ramponi. Mi avvicino e battendogli una mano sulla spalla gli ricordo che nelle tappe tecniche da più di 2.000 metri, è lì che… sì insomma quando il gioco si fa duro, i duri… Sono un bastardo, lo so. Gongolo pure. Discesa boardercross passando per il Rifugio Roma. Io e Alex siamo diventati amici! 2 8 FEB B RAIO RIVA D I TURES — RIO B IA NCO Quel giorno
In tutti i viaggi che si rispettano arriva quel giorno, quello della fatica. Caldo, corte salite in sequenza e un’infinità di ripellate a mezzacosta. Gambe legnose uniformemente distribuite nel gruppo. Nessuno che osi fare il galletto. Paradossalmente, pur avendo oggi le discese più corte e meno continue, sono state quelle con la neve più bella. La giornata passa su questo balcone sulla valle di Riva di Tures, osservando le centinai di possibilità di canali, pareti e vie di misto sul lato opposto. Arrivati al passo Acereto, sotto alla panchina del punto panoramico, scopriamo che è usanza lasciare una bottiglia ad alta gradazione alcolica per i viandanti. Rinvigoriti affrontiamo la seguente discesa e i 10 chilometri rimanenti fino a Riobianco. Attraversando la provinciale di fondovalle sci sulle spalle, in fondo capiamo che muoversi così è una figata. Bello! La sauna dopo forse fin di più.
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1 MAR ZO R I OB IANCO — SAN GI AC OM O DI VI Z Z E Cuanto falta Dani?
Oggi è il giorno. Il passo obbligato per arrivare alla fine. Il tempo è piuttosto brutto e ventoso. La prima salita al Rifugio Porro (2.419 m) ci immette in un bel vallone tutto da slaminare: la neve fino ai 1.850 metri del lago di Neves è acciaio. Assordanti rumori di sterzate coprono il vento che sta rinforzando. Ripelliamo, la valle è severa e forse è meglio che non ci sia troppa polvere sui pendii laterali visto quanto è incassata fino al Rifugio Ponte di Ghiaccio. Sotto una bella nevicata calziamo i ramponi per superare un tratto piuttosto ripido. Quindi nuovamente pelli. Il passo guida scandito da Egon è perfetto: il gruppo rimane compatto e giungiamo tutti ai 3.183 metri del Passo Punta Bianca proprio nei pressi del più famoso Gran Pilastro. Il grosso è alle spalle e salta fuori pure una bottiglia di birra per brindare, nonostante il vento impetuoso. Finalmente sul ghiacciaio godiamo di un po’ di polvere mentre il tempo si apre: cinque centimetri, ma sufficienti per divertirsi. Lungi dall’essere arrivati, ci attendono ancora una risalita in un ripido canale contornato da cascate di ghiaccio e diverse a scaletta in boschi ripidissimi, per non perdere quota. Per l’occasione con Dani, uno dei ragazzi spagnoli, si riesuma un vecchio tormentone di un viaggio in Bolivia, quando alla domanda di quanto mancasse a destinazione, Cuanto falta?, l’autista rispondeva sempre imperterrito urlando Una hora! E fu così che con il sopraggiungere del buio la valle iniziò a riecheggiare di improbabili esclamazioni in spagnolo pronunciate con accenti tedeschi, italiani e polacchi. 2.600 metri di dislivello per 33 chilometri: Cuanto falta Daniiiiiiii? Una hora! 2 MAR ZO SAN GIACO MO DI V IZZE — C OLLE ISA RC O Easy Rider
Meno male che oggi iniziamo e finiamo pedalando con delle e-bike, vista la giornata di ieri e qualche birra che abbiamo dovuto assumere per reintegrare. Un branco di camosci ci sfreccia davanti poco prima di giungere in cima all’ultima salita con gli sci, presso Passo Chiave. Da qui in poi è tutta discesa fino alla statale del Brennero e quindi a Colle Isarco. Come bambini in sella con gli sci sulle spalle. È bello finire in discesa!
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10.200 metri di dislivello e 140 chilometri di sviluppo, un’infinità di montagne da osservare e scrutare. Contento di aver vissuto questa esperienza, la parte invernale del Grande Circolo è stato un vero viaggio by fair means alla scoperta di un territorio, lambendone cime, valli e confini. Un severo e realistico test per nuovi materiali e un’avventura dove il modo in cui ci si è mossi in montagna ha fatto passare in secondo piano la neve di alcune discese. Dopotutto il bello dei viaggi è prendere quello che si trova, adattarsi e proseguire verso la tappa successiva, scoprendo una volta di più quel fantastico mezzo di trasporto che sono sempre stati gli sci sulla neve. © Luca Truchet
I C API TESTAT I 1
Salewa Antelao Shell Jacket (1) e Antelao Shell Pant (2)
LANA E CO Tutti i marchi del gruppo Oberalp - Salewa, Dynafit, Wild Country e Pomoca - collaborano con Fair Wear Foundation, una delle più severe associazioni no-profit dell’industria tessile che si occupa della tutela dei diritti dei lavoratori del settore. Ogni brand inoltre sta adottando soluzioni per ridurre la propria impronta in termini di rifiuti provenienti dalla produzione e di impatto sull’ambiente. In particolare, durante il Grande Circolo abbiamo avuto la possibilità di testare alcuni capi frutto di questi sforzi. La lana delle pecore alpine tirolesi, grazie al progetto Alpine Wool, è stata trasformata da materiale di scarto senza valore a imbottitura tecnica per la collezione Salewa, portando anche un contributo positivo all’economia dei pastori di montagna, ai quali viene pagata tre volte il prezzo corrente. La lana delle pecore tirolesi è infatti uno scarto di produzione, il 70 per cento diventa rifiuto. Grazie a Salewa invece viene sostenuta l’economia degli allevatori di pecore di montagna, che sono un importante presidio per l’ambiente montano stesso. La materia prima viene trattata dal partner Imbotex mediante uno speciale procedimento senza cloro a base di ossigeno, detto Oxywash, per renderla lavabile. Al fine di ottimizzare le prestazioni e il comfort, viene poi unita al Celliant, una fibra di poliestere riciclato estrusa con una miscela di minerali termoriflettenti che restituiscono il calore prodotto dal corpo durante l’attività sportiva per aumentare il benessere dell’utilizzatore e mantenerlo al caldo più a lungo. Il particolare processo di estrusione del poliestere e del minerale fanno sì che non ci sia perdita delle proprietà nel tempo e con i lavaggi. La lana inoltre è in grado di regolare la temperatura corporea e l’umidità, garantendo un calore ottimale. E mantiene a lungo le proprie caratteristiche. In anteprima abbiamo potuto provare per tutti i giorni del nostro viaggio un prototipo di fleece leggero, del peso di un pile: sempre asciutto, buona traspirabilità e all’atto pratico nessun odore dopo giorni di utilizzo.
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È il completo per lo skialp e il touring, realizzato con un tessuto Powertex in nylon Cordura e finissaggio con trattamento DWR (Durable Water Resistant). Anche qui si persegue un’idea di sostenibilità: il trattamento idrorepellente infatti è senza PFC dannosi per l’ambiente. Salewa utilizza ben otto diversi trattamenti DWR PFC free che interessano il 38% dei suoi capi e ha sostituito quelli a catena lunga (C8, i più dannosi) con i C6 sul resto della gamma. Al test i capi sono risultati confortevoli, comprimibili e leggeri pur garantendo una buona impermeabilizzazione nel solo giorno di brutto tempo. Inserti in Cordura nei posti giusti per un pantalone da skialp. Tasche di dimensioni adeguate e bel sistema di apertura laterale, facile da azionare anche con i guanti.
Ortles Hybrid TWC Jacket (3) e Ortles TWC Jacket (4)
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Questi prodotti utilizzano l’innovativa imbottitura sviluppata da Salewa che prevede un materiale ibrido in cui è stata unita lana delle pecore tirolesi con Celliant, una fibra in poliestere estrusa con una miscela di minerali termoriflettenti. Imbottitura che di fatto va a sostituire le classiche in Primaloft. Al test si sono dimostrati caldi e comprimibili. Per lo skialp in giornata ottima e leggera la Ortles Hybrid TWC Jacket. Anche i guanti (Ortles GTX Warm Gloves) che vantano la stessa imbottitura si sono rivelati caldi e comodi. Manualità ideale per attività sugli sci.
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P EO P L E
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Testo di Luca Albrisi / Foto di Alice Russolo
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La mia tesi di laurea si apriva con la citazione di un’intervista in cui Noam Chomski affermava: «So if you decide not to make use of the opportunity you have, not to try to live your life in a way which is constructive and helpful, you end up looking back and say: why did I bother living?». Quindi se decidi di non sfruttare l’opportunità che hai, di non provare a vivere la tua vita in un modo che sia costruttivo e utile, finirai per guardarti indietro e chiederti: perché mi sono preoccupato di vivere? Se l’esortazione di Chomsky all’apertura del mio scritto era un invito generico a dare un senso alla propria vita, il resto della tesi aveva un focus più mirato: ricostruire l’evoluzione del pensiero ecologico da un punto di vista filosofico/ontologico, partendo cioè da come consideriamo la nostra posizione nel mondo. Alla fine di questa analisi storica suggerivo il punto di vista del filosofo Arne Næss - fondatore della Deep Ecology - il quale, partendo da una visione biocentrica del mondo (che vede cioè l’essere umano non al di sopra ma come parte integrante del sistema naturale) proponeva il pensiero ecosofico (ecologia con basi filosofiche) come logica conseguenza di queste basi esistenziali.
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La tesi su Arne fu per me solo l’inizio di un percorso che negli anni mi ha permesso di sviluppare pensieri, ragionamenti e molte domande alcune delle quali sono, ovviamente, ancora in attesa di risposta. Pian piano quest’ottica ha pervaso ogni aspetto della mia quotidianità - sportiva e non - portandomi negli anni a mutare i miei stili di vita, le mie convinzioni e i miei obiettivi. Vivo costantemente con l’idea che sia necessario fare qualcosa per tutelare il nostro pianeta dall’azione di noi esseri umani. Ma sono più che convinto che alla base di questo qualcosa vi sia un ripensare in modo integrale il rapporto tra noi e la natura. Credo che sia questo il punto di partenza per essere davvero eco-logici riuscendo a modificare i nostri stili di vita, in modo appagante e soddisfacente, sia per noi che per l’ambiente. Resta il fatto che, nonostante tutte le migliorie che possiamo apportare al nostro stile di vita, non siamo - e ahimè non saremo mai - a impatto zero. Le nostre azioni infatti avranno sempre e necessariamente un effetto sull’ambiente e sarebbe una falsa convinzione raccontarci il contrario. Quello però che possiamo fare è iniziare a ripensare i nostri stili di vita e le nostre abitudini in chiave sostenibile, smettendo di considerare noi stessi come il centro dell’universo, i nostri futili desideri come primari rispetto a quelli del resto del pianeta, e cercare quindi di modellare le azioni in modo che abbiano il minor peso possibile.
La vita e gli spunti di questo articolo sono il frutto di un lento peregrinare che ha caratterizzato la mia vita. Sono nato e ho vissuto i miei primi vent’anni a Milano, con frequenti fughe verso le vicine montagne orobiche. Queste esperienze mi hanno messo in contatto fin da bambino con ambienti naturali e attività che mi hanno sicuramente dato un forte stimolo nel perseguire una vita in natura. Abbandonata poi la città ho deciso di vivere in diverse località di montagna in Italia e all’estero, alternando questi periodi di lavoro con brevi soggiorni cittadini per completare gli studi. Sono stati gli anni in cui ho iniziato a sviluppare una vera e propria consapevolezza riguardo a quanto la natura e l’ecologia fossero una parte fondamentale della mia esistenza. Piano piano, a piccoli passi, ho modellato - e sto modellando la mia vita su questa consapevolezza cercando, appunto, di continuare a fare piccoli passi avanti verso una vita sempre più sostenibile. Un incontro fondamentale è stato sicuramente quello con Alessandra, mia compagna di vita con la quale, pur non condividendo percorsi passati simili, condivido il desiderio di un’esistenza sostenibile. Il campo base della nostra vita è da ormai cinque anni Celentino, un paesino in val di Peio, a circa 1.300 metri di quota e adiacente al Parco dello Stelvio. La scelta di fermarsi qui è derivata, oltre che da una particolarissima coincidenza, dalla volontà di vivere in
una valle nella quale fosse possibile percepire in modo consistente una forte presenza naturale unita a uno sviluppo turistico impattante limitato. Di seguito trovate alcuni macro-argomenti che ci è sembrato utile analizzare riproponendo il nostro personale percorso verso la sostenibilità. Questo, sia ben chiaro, non vuole essere un modello, ma uno spunto. Uno dei suggerimenti che credo essere maggiormente utile in questo processo è quello di tenere sempre a mente il mantra: miglioramenti, non perfezione. Nella nostra ricerca di una vita sostenibile, infatti, l’obiettivo della perfezione non sarà mai concretamente raggiungibile (almeno in un mondo strutturato come quello in cui viviamo) ma la ricerca stessa di piccoli miglioramenti ci permetterà di acquisire maggior consapevolezza e grandi risultati. In un mondo nel quale siamo sempre più impegnati, distratti e sopraffatti da innumerevoli input e preoccupazioni, questi piccoli cambiamenti richiedono certamente sforzo e impegno, ma sono in grado di rappresentare un reale e concreto cambiamento verso una cultura ecologica.
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Gli spostamenti sono una delle problematiche di maggior impatto all’interno della nostra vita. Sembra un controsenso, ma la scelta di vivere in luoghi abbastanza isolati porta con sé alcune complicazioni e di certo alcune contraddizioni con la ricerca di una vita sostenibile. Trovarsi in luoghi isolati porta alla conseguenza di doversi spostare spesso con propri mezzi motorizzati. In parte si possono utilizzare quelli pubblici, di cui la valle è discretamente dotata in alta stagione, ma ovviamente questo servizio non è minimamente paragonabile a quello presente in città.
UNA CASA MOBILE Fortunatamente sia io che Alessandra lavoriamo in proprio e questo ci permette di gestire i nostri spostamenti in modo abbastanza flessibile, cercando di ottimizzare consumi e impatto. D’altra parte però le richieste di lavoro ci costringono a viaggiare molto e spostarsi è necessario. Viaggiare ci piace ma, dopo alcuni anni, ci siamo resi conto che spesso i viaggi di lavoro si riducevano a semplici spostamenti finalizzati a una determinata attività e che quindi costituivano un alto impatto. Come riuscire dunque a ottimizzare la nostra situazione da un punto di vista ambientale? Per prima cosa cerchiamo, per quanto possibile, di far combaciare gli appuntamenti lavorativi vicino casa, in modo da usare un solo mezzo di trasporto condiviso. Per quanto riguarda invece quelli che ci portano più lontano, abbiamo deciso di cercare quando possibile di prolungare la permanenza in quei luoghi. Ciò purtroppo non si traduce in giorni di ferie, ma nello svolgere il nostro lavoro quotidiano lontano da casa, il che ci permette di approfondirne le particolarità e le peculiarità di quel posto e ottimizzare, almeno a livello etico, il viaggio. Per rendere migliore il lavoro itinerante, abbiamo cercato un mezzo di trasporto che potesse fungere contemporaneamente da casa e ufficio mobile. La soluzione è stata l’acquisto di un furgone camperizzato con il quale ci muoviamo ogni volta che il lavoro e ovviamente anche il divertimento - ci portano lontano da casa. Come faccio spesso notare, con una ricerca accurata e orientandosi su modelli non nuovissimi (ma neanche troppo vecchi per non ricadere su mezzi altamente inquinanti) la spesa per un furgone del genere è paragonabile a quella di un’utilitaria. Il grosso quesito è piuttosto se un mezzo di questo tipo sia sufficiente per soddisfare tutti gli spostamenti, soprattutto brevi o in zone più urbane.
GLI ALTRI TRASPORTI A questo proposito stiamo sperimentando, come alternativa di mobilità, l’utilizzo di biciclette a pedalata assistita che ci consentono di eseguire brevi e frequenti spostamenti anche su queste strade tutt’altro che pianeggianti. Per quanto riguarda invece i voli aerei, altamente inquinanti, abbiamo deciso di giustificarne l’utilizzo solo in caso di trasferte di un periodo minimo di due settimane, eliminando cioè i classici voli del week-end.
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Facciamo spesso fatica ad attribuire al cibo il reale impatto ambientale causato dal ciclo di produzione. Partiamo dal presupposto che il consumismo sfrenato della società moderna ha senza dubbio creato un sistema produttivo malato che mira - almeno in alcune regioni del pianeta - alla sovrapproduzione invece che alla produzione sulla base di una reale necessità. Questa deriva già di per sé crea un impatto ambientale enorme e sprechi giganteschi. Per fortuna negli ultimi anni molte aziende hanno scelto di virare verso modelli di produzione più sostenibili con l’obiettivo di impattare meno l’ambiente, produrre un po’ meno e con standard qualitativi più alti. Spesso, in questi casi, il prodotto finale ha un prezzo superiore proprio perché il ciclo produttivo ha bisogno di più cura e quindi non sempre è competitivo sul piano puramente economico.
VEGETARIANESIMO ECOLOGICO La prima scelta che abbiamo fatto io e Alessandra, ancora prima di vivere insieme, è stata quella di diventare vegetariani (carnivoro, continua comunque a leggere, non sono un rompipalle!). La scelta è stata presa in primo luogo per ragioni animaliste e cioè per non essere partecipi del maltrattamento e della sofferenza di altri animali. Approfondendo l’argomento - ai tempi era un po’ più difficile di ora - abbiamo scoperto come rinunciare alla carne (o almeno a quella derivante da allevamenti intensivi) fosse non solo una scelta animalista, ma anche profondamente ambientalista. Attualmente infatti una delle principali cause di inquinamento a livello mondiale sono proprio gli allevamenti intensivi di bovini. Escludere dalla propria dieta, se non tutta la carne (e tutti i derivati animali), almeno quella proveniente da queste produzioni ha certamente un forte riscontro in termini di sostenibilità.
KM 0 E DI STAGIONE Il secondo passo è stato approfondire i passaggi successivi: cioè come ridurre l’impatto relativo al trasporto che i prodotti devono sostenere per arrivare nei nostri punti vendita. Spesso infatti questi spostamenti hanno un peso importante nella sostenibilità complessiva del prodotto. Abbiamo quindi iniziato a ragionare nell’ottica del cosiddetto km 0. Consumare prodotti locali riduce davvero molto l’impatto complessivo del trasporto. Questo è un discorso che può essere fatto sia a livello nazionale che a livello più locale, prediligendo quindi quelli generati direttamente sul territorio. Non significa necessariamente che un prodotto locale sia sempre, nel complesso, più sostenibile, dipende infatti dalle modalità di produzione, ma sicuramente lo è dal punto di vista del trasporto. Nel nostro caso specifico cerchiamo ad esempio di acquistare verdure e formaggi rivolgendoci a produttori locali che hanno portato a termine l’intero ciclo produttivo nella nostra valle e avvalendosi di tecniche che rispettano animali e terra. Non è sempre una scelta facile, se poi ogni tanto si fa uno strappo alla regola non bisogna certo farne un dramma. Credo che sia anche giusto permetterci dei peccati di gola, ma anche in questo caso prediligere alimenti esotici ma comunque prodotti in modo sostenibile può essere una scelta consapevole.
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Come potrete immaginare questa è una tematica che mi sta decisamente a cuore. Quello che sto infatti cercando di fare da qualche anno è provare, tramite articoli e documentari, a creare un dibattito sullo stretto legame che, secondo la mia esperienza, intercorre tra la pratica outdoor e la presa di coscienza ambientale. Sono infatti convinto che queste attività possano riavvicinarci all’ambiente a cui apparteniamo, cioè quello naturale e, vivendolo, portare a quel famoso cambio di prospettiva di cui parlavo prima. È chiaro che anche per quanto riguarda le attività outdoor ci sono modi più o meno sostenibili per praticarle e, soprattutto, diversi obiettivi con cui approcciarsi ad esse.
LA FILOSOFIA CLEAN È abbastanza evidente come fare splitboard in un bosco abbia maggior capacità di avvicinarmi alla natura rispetto a snowboardare in un park. Personalmente negli ultimi anni ho ridotto molto il mio utilizzo di impianti, non perché sia contrario (piuttosto sono contrario all’ottusa convinzione che sia l’unico modello di sviluppo possibile), ma perché ritengo molto più appagante muovermi libero anche solo esplorando il bosco dietro casa. In pratica, con il passare del tempo, ho capito che la cosa più importante per me è avere sempre la possibilità di andare a curiosare nella natura, usare la splitboard, la corsa o una bici come pretesto per trovarmi a contatto con essa. Nella mia esperienza gli obiettivi puramente sportivi sono ancora fortemente presenti, soprattutto per quanto riguarda lo snowboard, ma ho capito che ridurre l’attività alla semplice prestazione mi avrebbe fatto perdere tutta una serie di esperienze che hanno un senso molto più grande e appagante. Avendo la fortuna di poter mettere la splitboard proprio fuori casa, posso divertirmi senza grandi spostamenti e quando la neve inizia a mancare, cerco di trovare diverse combinazioni di attività che mi permettano di godere del vasto territorio che ho a disposizione. Magari un breve avvicinamento a piedi o in bici e poi una pellata nel bosco senza troppe pretese se non quella di ravanare in solitudine per ritrovare la leggerezza del sapermi perdere nella natura e apprezzare il senso di libertà che questo porta con sé. Una sensazione che spesso mi ricorda quella di un ritorno a casa.
FARSI DOMANDE Al di là di queste attitudini di fondo nella pratica di attività outdoor, si possono trovare molti espedienti per limitarne l’impatto sull’ambiente o addirittura per ripulirlo. Ad esempio utilizzando scioline sostenibili per sciare o fare snowboard, arrampicare il più possibile adottando mezzi di assicurazione rimovibili o raccogliendo ogni genere di immondizia che troviamo sui sentieri. Naturalmente si potrebbero scrivere pagine e pagine dedicate a ogni singola attività outdoor pulita, ma in questo caso credo sia importante soprattutto cogliere l’idea di fondo per poi documentarsi, escogitare un proprio metodo e… agire! Le domande fondamentali da prendere in considerazione e su cui ragionare per ridurre il nostro impatto sono: Come mi avvicino all’ambiente outdoor per una determinata pratica (ho delle alternative)? Come mi muovo all’interno dell’ambiente durante la mia attività? Quanto ho lasciato invariato quell’ambiente nonostante la mia attività?
Non sono mai stato uno che amava possedere troppi abiti o si dedica con chissà quale passione allo shopping. Però da quando ho iniziato a ragionare più approfonditamente su questo tema mi sono accorto di quanto margine di miglioramento avessi ancora nel ridurre la quantità di cose che possiedo.
VERSATILITÀ Ho iniziato a prediligere capi di abbigliamento multifunzionali e versatili che potessero essere usati in diverse occasioni, sia sportive che di tutti i giorni, come per esempio un piumino (sintetico) leggero o una felpa tecnica. Nella scelta dell’abbigliamento outdoor cerco capi che possano essere utilizzati sia d’estate che d’inverno o per diverse attività. Altro passo importante che abbiamo deciso di compiere con Alessandra è stato quello di eliminare qualunque acquisto in grandi catene di abbigliamento che offrono vestiti a basso prezzo che spesso hanno come primo obiettivo quello di rinnovare frequentemente le collezioni, mantenere prezzi molto bassi e indurre all’acquisto frequente. Per fare questo ricorrono sovente a cicli produttivi e a materie prime inquinanti e allo sfruttamento di manodopera. Preferiamo quindi orientarci su prodotti che, pur costando un po’ di più, usano materie prime di maggior qualità, rispettano ambiente e lavoratori e che, tendenzialmente, durano nel tempo. L’approccio consumistico di cui parlavo poco fa infatti ci indurrebbe a buttare un capo non appena risulta danneggiato per sostituirlo con un altro di qualità e costo simili. Questo genera un circolo vizioso che ci porta necessariamente verso ulteriore impatto ambientale.
RIPARARE È BELLO Con il tempo ho imparato che avere meno vestiti (e meno cose in generale) mi porta a prendermi maggior cura di quello che ho, a ponderare meglio gli acquisti e ad apprezzare maggiormente la qualità delle cose. Da tutto questo ho imparato l’importanza di riparare invece che buttare. Nella cultura giapponese l’arte di riparare (spesso riferita ai vasi) si chiama Kintsugi (letteralmente, riparare con l’oro), e consiste nell’incollare i frammenti dell’oggetto rotto evidenziando le riparazioni e aumentando in questo modo il valore dell’oggetto. Ho capito che le riparazioni dei miei vestiti - in particolare quelli che uso per attività outdoor - rappresentano dei ricordi che per me hanno un gran valore. Per questo più un capo è usato e più, quando lo indosso, sono consapevole di portare con me la sua e la mia storia. E questo mi rende felice. Negli anni abbiamo inoltre scoperto che alcune aziende permettono di tracciare il ciclo produttivo di un prodotto, sia in termini di materiali che di qualità del lavoro: credo che questo sia uno strumento di trasparenza molto importante per chi desidera fare acquisti sostenibili.
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Molto del tempo della nostra vita lo trascorriamo in casa. La casa è il posto che cerchiamo di sentire più nostro e dove svolgiamo molte delle attività quotidiane. È dove ci laviamo, ci scaldiamo, mangiamo e ci rilassiamo; tutte attività che hanno un impatto sull’ambiente.
ELETTRICITÀ Lasciando da parte il discorso cibi e rifiuti, l’impatto più consistente che abbiamo a livello casalingo è il consumo elettrico e quello per il riscaldamento. Io e Alessandra abbiamo deciso di ridurre al minimo gli apparecchi elettrici cercando invece di utilizzare utensili meccanici come ad esempio la French Press al posto della macchina del caffè espresso (che oltre a consumare energia produce anche rifiuti) o la teiera al posto del bollitore elettrico. Molto banalmente, mano a mano che le vecchie lampadine a basso consumo si sono bruciate, le abbiamo sostituite con lampadine a led che risultano essere ancora più sostenibili. Sarebbe anche opportuno scegliere fornitori di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili.
RISCALDAMENTO Per il riscaldamento utilizziamo esclusivamente una stufa a olle alimentata a legna. Certamente la combustione di legname e derivati non è la soluzione più sostenibile ma, come si diceva in precedenza, bisogna calarsi in una determinata realtà e cercare di ottimizzare il proprio impatto al meglio. Qui infatti, com’è possibile immaginare, tra le fonti di riscaldamento disponibili la stufa a olle è probabilmente la più sostenibile. Questo genere di stufa, costruita con mattoni refrattari, ha la capacità di immagazzinare calore con una sola accensione (con poca legna) e rilasciarne per oltre 24 ore. Per quanto riguarda invece l’accensione del fuoco ho scoperto qualche anno fa, grazie a un tutorial svizzero, che il modo più ecologico è quello di strutturare la legna a pira e accendere il fuoco dall’alto. Questo permette ai fumi che provengono dal basso di attraversare le fiamme superiori riducendo così le particelle inquinanti presenti nei fumi stessi. In particolare per accendere il fuoco utilizzo cortecce essiccate, bucce secche di mandarino e un cubetto di accendi fuoco ecologico (composto anch’esso da legno essiccato e privo di sostanze chimiche) evitando così la combustione di carta.
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AB B IAM O D IM EZ Z ATO L’IM PRO N TA EC OLOGI CA Volendo semplificare molto un concetto alquanto complesso, si può dire che l’impronta ecologica misura l’impatto che le nostre attività quotidiane hanno sull’ambiente e in particolare sul cambiamento climatico. L’impronta ecologica si calcola sommando l’impronta primaria, cioè la combustione diretta di combustibili fossili, per la produzione di energia elettrica, per il riscaldamento, per i trasporti, e l’impronta secondaria legata invece all’intero ciclo di vita dei prodotti che usiamo, dalla produzione, al trasporto, fino allo smaltimento. Noi, grazie a piccoli passi, stiamo riuscendo quasi a dimezzare la nostra impronta. Come calcolarla? Ci sono calcolatori online ma anche comode App da installare sul telefonino. Da segnalare sicuramente anche l’importante lavoro che sta svolgendo il WWF in tutto il mondo, date un occhio anche al loro calcolatore dell’impronta ecologica: è semplice e pieno di consigli utili! E per compensare? Se ridurre è sicuramente la prima cosa da fare è però anche importante, e possibile, compensare le nostre emissioni. Tra le varie forme di compensazione, la più gettonata è sicuramente quella legata alla nuova forestazione. Molti progetti sono sviluppati in Amazzonia, l’ultimo polmone della terra, ma è anche possibile individuare azioni locali e progetti regionali.
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Per riassumere quanto detto finora abbiamo pensato di proporre i tre capisaldi della sostenibilità che teniamo sempre a mente per ridurre l’impatto ambientale in ogni ambito della nostra vita.
1 / BE PLASTIC FREE È in assoluto uno degli obiettivi più difficili da raggiungere perché, purtroppo, la plastica è davvero ovunque. Dal packaging del nostro cibo, ai vestiti, ai prodotti per la casa fino a quelli per l’igiene personale. Tutto è contenuto in plastica o, addirittura, contiene plastiche. Noi stiamo cercando di ridurla drasticamente provando ad acquistare cibi e prodotti per la casa sfusi - riutilizzandone i contenitori - così come shampoo, sapone e dentifricio solidi. Purtroppo la reperibilità di questi prodotti non è sempre facilissima, soprattutto in valle, ma organizzandoci meglio stiamo raggiungendo ottimi risultati. Abbiamo scoperto che uno degli oggetti maggiormente responsabile dell’inquinamento sono le cannucce di plastica. Quindi, per quanto ci piacciano i cocktail, abbiamo deciso di ordinarli sempre senza cannucce! Evitiamo posate, bicchieri e bottiglie di plastica tramite utilizzando un piccolo kit da pranzo composto da posate e borraccia che portiamo sempre con noi.
2 / LA REGOLA DELLE 4R Reduce, reuse, repair, recycle. In questo ordine preciso, rappresentano gli step per ottimizzare il ciclo di vita di qualunque oggetto. RIDURRE significa acquistare meno, quindi sprecare meno e inquinare meno. In pratica cercare di rallentare lo sfrenato consumismo che ci circonda. RIUTILIZZARE significa per esempio regalare o scambiare, magari dei vestiti che non utilizziamo più, allungando così la vita degli oggetti; oppure ripensare l’utilizzo di cose che altrimenti andrebbero buttate. Ad esempio noi come bicchieri per la casa usiamo vecchi barattoli di marmellata o sugo.
significa valorizzare, tramite la riparazione, indumenti che magari andrebbero buttati solo perché parzialmente danneggiati. E soprattutto, a priori, ponderare l’acquisto di qualunque bene sulla base della qualità e della possibilità di riparazione.
RIPARARE
3 / INFLUENZARE IL MERCATO Sono consapevole di quanto a volte risulti difficile credere che le nostre piccole azioni generino un reale cambiamento all’interno di un sistema che, oggettivamente, non ha alcuna sensibilità verso principi ecologici. L’esempio che però riportiamo spesso, e che deriva dalla nostra esperienza diretta, riguarda il vegetarianesimo. Quando siamo diventati vegetariani era molto raro trovare prodotti a noi dedicati all’interno dei supermercati ed era necessario andare ad acquistarli in negozi specializzati. Con il tempo però - e neanche troppo - la richiesta è aumentata notevolmente, permettendoci di trovare il nostro cibo in tutti i supermercati. Ciò significa che far leva economicamente sul mercato, tramite la nostra richiesta di consumatori consapevoli, ha effettivamente un impatto sulle scelte produttive e di distribuzione. Impegnandosi quindi nel prediligere sempre di più prodotti sostenibili (in qualunque campo), nel giro di qualche anno la riduzione di plastica e di processi produttivi impattanti potrà essere qualcosa di tangibile. Sapere di avere voce in capitolo credo che sia certamente rincuorante e stimolante. Quello che ci tengo a dire è che per noi questo continuo processo di ricerca rappresenta sinceramente una grande fonte di soddisfazione e di continua presa di consapevolezza di ciò che siamo. Passo a passo stiamo andando verso quel fare qualcosa di cui così a lungo ho sentito la necessità. E raramente ho trovato maggiore soddisfazione in qualcosa.
Lo smaltimento sostenibile dei rifiuti è sicuramente necessario ma solamente dopo aver cercato di attuare tutti gli step precedenti.
RICICLARE
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Testo di Eva Toschi Foto di Andrea Salini/Outdoor Studio
Un passo, un altro, bastoncini in sincro, bastoncini che reggono tutto il tuo peso, le braccia stanche, le gambe dure. Il respiro, il solo suono del tuo respiro e delle pelli che si aggrappano all’elemento bianco e candido che ti riempie di gioia infantile e che allo stesso tempo cela i mostri della tua mente. Pensi di potercela fare? Le gambe, in loro risiedono saggezza e consapevolezza, ma il più delle volte non sei capace di ascoltare ciò che provano a sussurrarti. Sarà che sei impegnata a sentire il suono del tuo respiro e non puoi permetterti di perdere il ritmo. Prima o poi spezzerò il fiato, prima o poi i muscoli si scalderanno. Il cuore batte all’impazzata e non sai più se è perché stai sputando sangue o se sei emozionata come una quindicenne imbarazzata e tremolante di fronte al ragazzo dei suoi sogni. I tuoi gesti sono pesati, misurati, calibrati al dettaglio. Gesti che ancora non sono automatici e che richiedono la tua massima concentrazione. Batti il pendio, stacca gli sci. Metti il casco, leva le pelli. Non una volta che le riattacchi dritte sulla plastica. Non una. Chiudi gli scarponi: troppo lenti, troppo stretti. Zaino in spalla, sci ai piedi. Inspira, espira. Vai. Sei qui per questo. Butti le punte verso il basso e in un momento tutto scompare: il dolore, la preoccupazione di non farcela, la paura. Senti le lamine rompere la neve sottile, fai una curva, poi un’altra, prendi velocità. Forse troppa? Non importa: stai planando. Sei la neve, sei una pernice, sei un gipeto. Quattro. Quattro dannate curve e tutta la fatica non ha più senso, o forse ha finalmente senso. So perché sono qui. Come ci sono arrivata? L’inverno è alle porte e mi chiedo come farò a trascorrere i prossimi mesi in furgone. Potrei installare un riscaldamento ma non ne ho molta voglia. Altro gasolio nell’atmosfera, oltre tutto quello che d’estate mi porta in giro tra passi alpini con salite in prima.
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Il mio stile di vita, per quanto semplice ed essenziale, richiede molto all’ambiente e sento di dover fare una pausa per restituire qualcosa a questo mondo. Quest’estate sono andata a trovare i miei nonni nella casa di montagna di famiglia. Dopo cena tornavo a dormire nel furgone che avevo parcheggiato in giardino, chiudevo il portellone e tutto quello che c’era fuori svaniva per un’intera notte. Ero improvvisamente a casa con Ombra appallottolato a terra sul tappetino e mio padre che era venuto a trovarmi. Parlavamo, giocavamo a backgammon. Io perdevo il più delle volte e cercavo di rosicare il meno possibile. Una mattina mia nonna, incuriosita come tutti dalla mia vita, mi chiese dove avrei preso casa l’inverno seguente. Bella domanda, non saprei - Beh, mica vorrai far dormire il tuo cane al freddo? Così, grazie a questa simpatica considerazione di nonna Angela, avevo un’altra ragione per parcheggiare il furgone per qualche mese. Meno gasolio nell’atmosfera, più caldo per il povero Ombra. Le mie priorità si sono subito delineate: quattro mura isolate dalla civiltà (non si può certo passare dalla vita in furgone alla vita in condominio), sciare ogni giorno e provare in punta di piedi a creare meno danni possibili al nostro pianeta. Ma nessuno ha la palla di vetro e ogni anno non sappiamo se la neve arriverà, quando arriverà e soprattutto dove. Chi vive come me, nomade della neve, ogni stagione invernale fa una scommessa e ne accetta le conseguenze. Prende la cartina delle Alpi, studia altitudini e statistiche, punta un dito e parte. Il mio furgone resterà coccolato dal clima tiepido del centro Italia, assopito per qualche mese. Io, invece, mi dirigo verso mete più frizzanti. Arrivo a Santa Caterina Valfurva il primo dicembre, alle porte dell’inverno meteorologico. Apro le porte della baita che mi, ci ospiterà per i prossimi mesi. È piccola, accogliente, perfetta sostituta della mia casa a quattro ruote. Spesso mi viene chiesto se mi farò lo skipass stagionale. No. Questo sarà l’inverno del non chiedere niente alla natura. Sarà l’inverno in cui mi modello alla sua volontà. Sarà l’inverno del cuore gonfio e delle gambe stanche. Ha senso passare un inverno in una località sciistica senza usare gli impianti di risalita? Forse no, ma penso lo abbia per me. I primi mesi sono quelli del vento e della difficoltà. Faccio fatica a riprendere confidenza con gli sci e sicuramente un po’ di ore in pista velocizzerebbero il processo. Ma questo è anche l’inverno della pazienza e del lasciare che le cose avvengano con i loro tempi. Arriverà anche la neve, ti sentirai più confidente. Aspetta. Vogliamo tutto e subito. Lavoriamo tutta la settimana come dei matti e il week-end prendiamo le nostre auto cariche di sci e bisogno di evadere e ci dirigiamo verso il resort più vicino. Abbiamo solo quei giorni per sciare e se la neve non c’è, poco importa: la compriamo. Proviamo anche a comprare il tempo, tutto il tempo che
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impiegheremmo per salire con i nostri mezzi, viaggiando su eco-mostri che un giorno, quando farà troppo caldo anche solo per sparare, resteranno dove sono. Una ferita che non può più essere rimarginata. Ammetto che sia bello poter fare 20 run in fresca senza dover batter traccia per ore, godendosi solo la discesa e sono certa che non posso chiedere a tutti di provare come me a trascorrere un inverno secondo i ritmi della natura. Il tempo, quello no che non lo possiamo comprare. Sarò una scrittrice scannata, un’eterna principiante, ma ho un cuore gonfio e del tempo da investire sulle mie gambe. Ho salito tanti metri quanti ne ho sciati. Alcuni li ho solo scesi. Incapace per il dolore di impostare una curva decente. Ho pellato piano, in silenzio, attenta al respiro della natura. Ho visto le aquile volarmi vicino, ho visto Ombra annusare l’aria e rizzare le orecchie attento al movimento dei branchi di camosci. Ho pellato veloce, a volte, e riso insieme agli amici. Ho visto Ombra sparire correndo in mezzo alla neve fresca, l’ho sentito piangere per la fatica e mugugnare dalla gioia pura del semplice andare veloce verso il basso. Ora sento i rumori di una primavera che arriva precoce e che sta sciogliendo la neve che ho spalato intorno alla baita. Vorrei chiedere alla natura di rallentare un attimo e aspettarmi. Ma non posso, non voglio, questo è l’inverno che dedico a lei. E alle mie gambe. Quattro. Quelle quattro dannate curve mi hanno restituito già tutto. Quattro curve tracciate su una tela immacolata. La luce del tramonto che colora il pendio. La neve fresca che ti innalza dal suolo. Stai planando. Sei tu, i tuoi sci, ma improvvisamente sei anche la neve e la luce e l’aria che ti sposta i capelli. Il tempo non esiste più. Il fondo valle nemmeno si vede. La fatica è un ricordo lontano. Non avevi bisogni di dare un senso al tuo inverno. Ma l’hai appena trovato. Pensavi di restituire qualcosa alla natura ma anche questa volta è più quello che hai preso che quello che hai dato. In fondo cosa sono due gocce di sudore e un po’ di lacrime? Non so dove sarò il prossimo inverno. Non so se sarò migliorata tecnicamente, né so se farò un po’ meno fatica in salita. So che non investirò i miei soldi in uno skipass stagionale. Certo è che le mie scelte non cambieranno lo stato delle cose. Verranno costruite nuove seggiovie, nuove funivie che portano dritte verso il cielo. Voleranno nel cielo elicotteri che vomiteranno turisti inconsapevoli su cime selvagge. Ma io ho il mio tempo. E le mie gambe. E questo basta.
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© Mary McIntyre
P EO P L E
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Testo di Federico Ravassard
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Seguo Brody Leven sui social ormai da qualche anno e la sua figura mi ha sempre incuriosito. Un po’ insta-blogger, un po’ (tanto) scialpinista d’avventura, specialista assoluto del ravanage e dei viaggi improbabili, tipo la spedizione pedal to peak alle isole Lofoten: in bicicletta, in inverno, trasportando tenda, sci e attrezzature con un piccolo rimorchio su strade tortuose e una meteo decisamente avversa. Brody condisce il tutto con un dialogo attivo tanto nel mondo virtuale quanto quello reale sulle tematiche ambientaliste perché, dopotutto, se vengono a mancare freddo e neve la vita degli sciatori si complica non poco. Scia, tanto, e comunica anche tanto, non esitando a raccontare - e raccontarsi - attraverso storie di Instagram, video e articoli sulla carta stampata. Lui si definisce adventure skier and storyteller ed effettivamente è quello che fa: al primo impatto potrebbe sembrare l’ennesimo wannabe influencer tutto chiacchiere e distintivo, ma seguendolo si capisce che sa quello che fa e in che direzione andare, soprattutto quando si tratta di andare a martellare al Congresso di Washington DC per promuovere la causa ambientalista. Insomma, a me quelli come Brody piacciono, perché sono fuori dagli schemi in senso positivo, e si impegnano davvero, a costo di giocarsi sponsorizzazioni o attirare commenti acidi degli hater sotto i propri post. CIAO BRODY. LA TUA FIGURA DI ATLETA PROFESSIONISTA È FUORI DALLA
lenti, e in auto troppo veloci, quindi sui pedali hai l’andatura giusta. Andare in un posto come le Lofoten non può essere definito una spedizione, perché non si è così isolati e le montagne sono basse: è più giusto parlare di viaggio sciistico, ma quando si tratta solo di sciare è facile che mi annoi. Mi piace variare le attività, così la bicicletta è stato il modo per visitare una zona relativamente piccola in un paio di settimane e nel frattempo avere la possibilità di praticare scialpinismo come piace a me. Stare all’aria aperta tutto il giorno, tutti i giorni, è un ottimo modo per sentirsi integrati nella natura, e questo è un altro dei motivi per cui amo il bike-packing. Perché siamo parte della natura, ed è naturale stare là fuori». CHE PROBLEMI HAI RISCONTRATO IN QUESTO TIPO DI VIAGGI? COME GESTISCI IL CARICO PESANTE? CHE CONSIGLI DARESTI A CHI SI VUOLE CIMENTARE IN UN’AVVENTURA COME LE TUE?
«No, non ci sono stati problemi, anzi, è stato fantastico! Sì, ho dovuto trasportare materiali per dormire, cucinare e sciare sulla mia bici, che era davvero pesante, usando un normale rimorchio della Bob leggermente modificato. Chi volesse provarci deve solo uscire di casa e farlo! Si capisce facilmente e in poco tempo ciò di cui si ha bisogno e ciò che invece può rimanere in garage e come settare la bici. E poi, pedalando, hai un sacco di tempo per pensare alle migliorie».
NORMA: NON SEI UN FREESKIER VERO E PROPRIO, E NEMMENO UN ALPINISTA
QUAL È STATO FINORA IL TUO VIAGGIO PIÙ BELLO? E IL PEGGIORE?
O UNO STORYTELLER NELLA LORO ACCEZIONE PIÙ PURA. SEI UN MIX DI TUTTE
TI RICORDI QUALCHE EPISODIO PARTICOLARE?
QUESTE ATTIVITÀ: COME TI DEFINIRESTI?
«Ovviamente è difficile sceglierne uno solo. Ma di sicuro uno dei mie preferiti è stato il viaggio stagionalmente confuso nell’estate del 2013, attraverso la Patagonia con il mio amico e fotografo Adam Clark. Abbiamo affittato un van e, nel corso di un mese, abbiamo guidato da Santiago fino all’estremità meridionale del continente, scalando e sciando montagne che vedevamo direttamente dalla strada. Abbiamo caricato autostoppisti, sciato all’ombra del Fitz Roy ed è stata davvero l’avventura della vita. Mi mancano i viaggi di quel tipo».
«La mia qualifica professionale è qualcosa che ho pensato io stesso. Credo di essere autorizzato a farlo, dal momento che ho creato la mia stessa professione: adventure skier and storyteller. Vado in giro, scio e racconto storie che spero possano aiutare i lettori, strappare un sorriso o dare la carica per una nuova sfida, perché credo che mettere alla prova le proprie capacità faccia del bene a noi stessi». HO LETTO CHE QUANDO ERI GIOVANE LAVORAVI COME DJ ED ERI UNO SCIATORE DA PARK. COME SEI DIVENTATO IL BRODY DI OGGI?
«Come molti americani, ho dovuto ripagarmi i prestiti universitari. Mi sono impegnato molto per sviluppare le mie capacità scialpinistiche durante l’università, mentre studiavo i fondamenti per avviare una mia attività commerciale, così ho deciso di combinare insieme le due cose. A differenza di altri miei colleghi, non sono stato su vere montagne fino ai diciott’anni. Ero letteralmente indietro di una vita rispetto agli altri sciatori e ho praticamente dovuto re-imparare a sciare fuori dai park, sui grandi pendii. Sapevo di voler lavorare per me stesso e viaggiare per il mondo, quindi era una carriera perfetta a cui puntare». SEI CONOSCIUTO PER I TUOI VIAGGI PARTICOLARI E SEI STATO UNO DEI PRIMI PROFESSIONISTI A ORGANIZZARE UN’AVVENTURA IN STILE PEDAL TO PEAK: UN OTTIMO MODO PER PROMUOVERE IL TURISMO SOSTENIBILE, COME È NATA L’IDEA?
«Di sicuro non l’ho fatto per promuovere nulla, compresa la sostenibilità. È che mi piacciono tante cose oltre allo sci, come il viaggiare lentamente, il bike-packing, scalare e viaggiare per vedere il mondo; specialmente quando lo vedo a bassa velocità. A piedi si è troppo
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QUAL È IL MOTIVO PER CUI VIAGGI? CURIOSITÀ? COME SCEGLI UNA DESTINAZIONE?
«Uhm, questa è una bella domanda. Non so se si tratti di curiosità, almeno non nel senso tradizionale del termine. Sono curioso di sapere quali sono i miei limiti e cosa si provi a visitare e sciare in altri luoghi. Mi piace trovare un punto di equilibrio tra sicurezza, sfida fisica e impegno mentale, quest’ultimo probabilmente deriva anche dal fatto che sono lontano da casa. È quella che il mio amico alpinista Graham Zimmermann chiama esposizione relativa: è più facile sciare una linea ripida ed esposta sulle montagne di casa tua, dove conosci il manto nevoso, il terreno, i tuoi margini di sicurezza e come allertare i soccorsi. Viceversa, in giro per il mondo, dove non parlano la tua lingua, non hai la possibilità di essere soccorso, non sai com’è la neve, hai tempo e cibo in quantità limitate, è diverso. Mi piace inserire l’esposizione relativa come variabile nell’equazione per programmare un viaggio. Scelgo le destinazioni leggendo i report dell’American Alpine Journal, guardando immagini satellitari su Google Earth, blog su internet e voci che girano tra le mie conoscenze. Dal momento che molte delle mie discese vengono fatte
© Joey Schusler
© Adam Clark
in aree più conosciute per l’arrampicata, spesso cerco di informarmi su queste ultime, piuttosto che puntare direttamente a destinazioni prettamente scialpinistiche». DOVE HAI TROVATO LA NEVE PIÙ BELLA? E QUAL È STATA LA MIGLIOR DESTINAZIONE PER LO SCIALPINISMO A TUTTO TONDO, COMPRESI L’OSPITALITÀ, LE MONTAGNE, LA GENTE?
«Quando programmi un viaggio con mesi di anticipo è difficile pensare di trovare bella neve, ed effettivamente è quello che succede. Di sicuro quella peggiore l’ho sciata sulla Cima Margherita, al confine tra Congo e Uganda. Più che neve, era un ghiacciaio scoperto. Sull’Orizaba, la terza più alta montagna del continente americano, in Messico, non c’era praticamente copertura nevosa in cima. Ho fatto delle curve decenti alle Svalbard, ma anche lì c’era neve bruttina! Uno dei miei posti preferiti invece è stato il Kazakhistan. È un Paese bellissimo, con gente ospitale e montagne enormi, difficili e remote. Vorrei tornarci». SUI TUOI CANALI SOCIAL PARLI MOLTO DI TEMATICHE AMBIENTALI E DEL TUO LAVORO CON LA COMMUNITY DI POW (PROTECT OUR WINTERS). QUANDO HAI COMINCIATO A ESSERE UN ATTIVISTA? QUAL È IL TUO RUOLO IN POW?
«I miei parenti mi hanno cresciuto insegnandomi a prendermi cura della natura. Alle scuole elementari ho partecipato a un progetto sul riciclo della carta e, una volta entrato all’università, come
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rappresentante degli studenti, ho lavorato molto sulle iniziative ambientali. Quando sono diventato uno sciatore professionista ero coinvolto già da tempo in programmi di salvaguardia dell’ambiente e iniziative varie, quindi si può dire che l’attivismo sia sempre stato una parte rilevante della mia vita e del mio modo di vivere». RISPETTO ALL’EUROPA, GLI ATLETI AMERICANI SEMBRANO ESSERE MOLTO PIÙ COINVOLTI NELLE AZIONI DI RESPONSABILITÀ SOCIALE ED AMBIENTALE, COME AD ESEMPIO NEL DIBATTITO SULLE PUBLIC LANDS O SULL’ESCLUSIONE DI COLIN KAEPERNICK IN NFL (GIOCATORE DI FOOTBALL AMERICANO MESSO FUORI SQUADRA PERCHÉ PER PROTESTA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI ETNICHE HA RIFIUTATO DI ALZARSI DURANTE L’INNO NAZIONALE). CREDI CHE GLI SPORTIVI PROFESSIONISTI ABBIANO IL DOVERE MORALE DI PARTECIPARE ALLA VITA PUBBLICA?
«Dal momento che ognuno di noi ha il proprio senso morale, non è giusto per me dire che si tratti di un dovere in generale. Ma è come se lo fosse».
Personalmente, vivo in una casa che produce grazie ai pannelli solari più energia di quanta ne consumi, non utilizza gas o combustibili fossili ed è costruita con materiali riciclati. Sono ossessionato dal minimalismo, che è un ottimo modo per ridurre la propria impronta ecologica. Sono vegetariano da sempre e tengo in considerazione l’origine del cibo che mangio; non ho mai mangiato carne, che foraggia un tipo di industria veramente dannosa per l’ambiente. Mi muovo in bicicletta e per i viaggi più lunghi ho una vecchia auto che condivido con la mia ragazza e che verrà sostituita da un mezzo elettrico quando sarà tempo di un upgrade. Ma tutte queste cose, credo, sono meno di una goccia nell’oceano: lo faccio perché ho fiducia che tutto ciò possa aiutare me e gli altri a cambiare il nostro modo di vedere le cose, non perché penso di poter frenare i cambiamenti climatici». HAI LETTO LE RECENTI DICHIARAZIONI DEL PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE INTERNAZIONALE SCI GIAN FRANCO KASPER, CHE HA NEGATO L’ESISTENZA DEL SURRISCALDAMENTO GLOBALE? HAI FIRMATO LA PETIZIONE DI POW PER
OGNI TANTO VAI AL CONGRESSO, A WASHINGTON, PUOI DIRCI DI PIÙ SU
CHIEDERE LE SUE DIMISSIONI?
QUESTE ATTIVITÀ DI LOBBYING?
«Sì, certamente. Ne sono venuto a conoscenza tramite la newsletter di POW ed è disgustoso sapere che una figura di questo tipo rappresenti un ente così importante per il nostro settore. Gli amici mi hanno detto per anni di quanto obsoleta fosse la FIS e credo che questo episodio non faccia che confermarlo. È un’organizzazione influente e dovrebbe assolutamente agire nell’interesse degli atleti e dei fan di tutto il mondo: negare i cambiamenti climatici in atto è in antitesi con tutto ciò e per questo POW, assieme a 10.000 altri firmatari (tra cui atleti, brand e addetti ai lavori) ha chiesto le sue dimissioni. Le sue opinioni non lo rendono assolutamente idoneo alla guida della federazione».
«Vado a Washington DC solo quando ho uno specifico messaggio da comunicare e sento di poter concretamente influenzare le idee e le azioni di chi mi ascolta. Ci sono stato con l’American Alpine Club e POW e un paio di altre volte. Incontrare membri del Congresso o i loro staff può essere un’esperienza frustrante, specialmente quando si tratta di persone che rifiutano di accettare i fondamenti scientifici del surriscaldamento globale. Ma quando si raccontano storie che hanno a che fare con il salire e scendere montagne di tutto il mondo, o di medaglie olimpiche come quelle vinte da alcuni atleti di POW, sembra che siano più propensi a dedicarci la loro attenzione. Ci sono degli esempi di come potenzialmente abbiamo cambiato il loro modo di vedere le cose, ma le loro decisioni sono così influenzate dalle linee guida dei partiti che preferisco investire il mio tempo nel parlare direttamente con gli elettori piuttosto che con i politici». I VIAGGI AEREI SONO UNO DEI PROBLEMI PRINCIPALI QUANDO SI TRATTA DI GESTIRE LA PROPRIA IMPRONTA ECOLOGICA. COME FAI A VIVERE UNA VITA DA ATLETA PROFESSIONISTA CON UNA FILOSOFIA DI BASSO IMPATTO AMBIENTALE? HAI DEI SUGGERIMENTI?
«Oh, io incoraggio assolutamente la gente a viaggiare. Vedere il mondo è il miglior modo per rendersi consapevoli della sua salvaguardia. L’aumento dei valori della propria impronta ecologica è compensato dai cambiamenti nel modo di vivere e agire che vengono stimolati dall’esperienza del viaggio. Essere cittadini di una società alimentata a combustili fossili non significa sostenerli e non si può frenare il progresso in nome della perfezione: vivo e lavoro nello stesso mondo degli altri ed è necessario per tutti essere consapevoli del proprio impatto sull’ambiente. Il punto è che l’impronta dei singoli individui è minima se comparata alle emissioni di gas serra delle industrie. Possiamo essere ambientalisti attivi anche vivendo normalmente nella nostra società, perché ciò di cui si ha bisogno non è un passeggero in meno su un volo aereo, ma sistemi di trasporto puliti e più corporazioni devote alla causa green. Se diciamo alla gente che sono degli ipocriti e che bisogna assolutamente vivere a impatto zero per sostenere l’ambiente, non facciamo che perdere potenziali attivisti: questo sarebbe certamente il modo per essere sconfitti definitivamente.
SEI MAI STATO IN ITALIA?
«Sì, ci sono stato per la prima volta quest’estate, per sei ore! Assieme al mio amico Brendan Leonard sono stato ospite di un tour organizzato da Run the Alps attraverso Francia e Svizzera, con una comitiva di loro clienti. Abbiamo corso una versione trail della Haute Route Chamonix-Zermatt, in una decina di giorni. Un giorno, mentre assistevamo alle gare dell’UTMB, io e Brendan abbiamo preso il pullman fino a Courmayeur, mangiato un sacco di pizza e poi siamo tornati in Francia: questo è stato per ora il mio unico soggiorno in Italia. L’ho adorata. Ovviamente, essendo appassionato di ripido e canali, ho sempre voluto andare a sciare nelle Dolomiti, ma ho una regola personale che mi vieta di utilizzare gli impianti di risalita e l’idea di affrontare quelle discese muovendomi unicamente con le pelli mi intimidisce un po’, soprattutto perché chi c’è stato mi ha raccontato che sarebbe un’ambizione un po’ folle. Ma in Italia ci voglio davvero tornare, in qualsiasi periodo dell’anno. Per scalare, o sciare, o mangiare…». QUAL È L’ULTIMO LIBRO CHE HAI LETTO?
«Kitchen Confidential di Anthony Bourdain. Per Natale la mia fidanzata mi ha regalato un Kindle che ha riacceso la mia passione per la lettura. Mattatoio n° 5 o La crociata dei bambini, Alone on the Wall e Giorni Selvaggi sono state altre letture recenti. Ora sto leggendo How a Second Grader Beats Wall Street».
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© Mike Thurk
© Aaron Blatt
AS S O C IA Z I O N I
Fatti*
#WeAllNeedWinter / www.protectourwinters.org
*2018 Economic Report POW
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© Max Hammer
Si scrive POW, si legge Protect Our Winters. È la più influente organizzazione di lobbying per combattere il climate change nata all’interno del mondo outdoor. La testa è negli Stati Uniti, dove è nata nel 2007, ma ha braccia anche in Francia, Svizzera, Germania, Austria, Norvegia, Svezia, Finlandia e Gran Bretagna. POW è attiva su tanti fronti e con modalità in parte diverse nei vari Paesi. Non c’è dubbio che il peso maggiore sia quello della casa madre americana dove sono più di 100 gli atleti e pro che aderiscono al progetto e c’è anche una CEO Alliance alla quale partecipano i manager di alcune delle più importanti aziende dell’industria outdoor, una dei creativi, con fotografi e filmmaker, e una degli scienziati. Tra gli atleti americani anche Chris Benchetler, Jeremy Jones (fondatore dell’associazione nel 2007), Sage Cattabriga-Alosa, Jimmy Chin, Caroline Gleich, Hilaree Nilson, lo sciatore alpino Steven Nyman. In Europa hanno aderito tra gli altri Giulia Monego, Leo Taillefer, Pica Herry, Sam Favret, la sciatrice alpina austriaca Eva-Maria Brem. Educazione, cittadinanza attiva e coinvolgimento degli ambassador sono le tre priorità. Con il progetto Hot Planet Cool Athletes, in collaborazione con The North Face e Clif Bar, sono stati raggiunti oltre 60.000 studenti delle scuole dal 2011 in una serie di conferenze con un format ben definito che coinvolgono i principali pro. Tra le campagne firmate POW, nelle quali l’utilizzo dei social media ha una grande importanza, quella che invitava a votare, ma anche Deny the Denier, per spedire quante più richieste di dimissioni al presidente della FIS, Federazione Internazionale Sci, che ha negato il cambiamento climatico in corso. E intanto è nata anche POW Trail (ne fanno parte Clare Gallagher, Anton Krupicka, Joe Grant, Luke Nelson e Dakota Jones) per sensibilizzare la comunità running.
Nel 2015/16 20 milioni di americani hanno sciato, generando 52,8 milioni di giornate sci (presenze) e un indotto di 20,3 miliardi di dollari C’è una correlazione tra quantità della neve e giornate sci nelle località sciistiche Tra il 2001 e il 2016 9 5 anni più nevosi hanno generato 3,5 milioni di giornate sci in più pari a 692.900 milioni di dollari e 11.800 posti di lavoro I 5 anni meno nevosi hanno provocato la perdita di 5,5 milioni di giornate sci, 1 miliardo di dollari e 17.400 posti di lavoro
L’ENERGIA SEGRETA DI
FEDERICO PELLEGRINO GARANZIA DOPING ING FREE
enervitsport.com
PH: Tacca
PRIMA DURANTE DOPO LO SPORT
EV ENT I
Il nome è semplice quanto semplice, nella sua drammaticità, il problema: Running up for air, correre su per l’aria. L’idea della RUFA è nata spontanea nel 2012 tra alcuni runner che si allenavano sulle Wasatch Mountains, nello Utah, non lontano da Salt Lake City, sospese tra lo smog della città e il cielo blu della vetta del Grandeur Peak. E per qualche anno non è stato niente più di un raduno di amici per riflettere sull’inquinamento dell’aria e provare a fare qualcosa. Una specie di flashmob di padri di famiglia, single e studenti per ricordarsi che l’aria pulita è il bene più prezioso che abbiamo e sensibilizzare amici e parenti. Dal 2016 è diventata una vera e propria gara con l’obiettivo di raccogliere fondi per aiutare a risolvere il problema. Ora RUFA arriva anche in Europa, a Chamonix, il prossimo 4 e 5 maggio. Nei mesi invernali, salire dalla vallata significa spesso partire da un ambiente in cui l’aria è inquinata e contaminata a causa del nostro stile di vita moderno e del traffico generato dal Tunnel del Monte Bianco, per poi raggiungere le vette più alte dove l’aria è sorprendentemente più pura e pulita. Running Up for Air riunirà la comunità europea del trail running: l’evento supporterà Inspire74, una ONG che lavora per una migliore qualità dell’aria nella zona del Monte Bianco. La formula è accattivante: correre su e giù per una montagna per 3, 6 o 12 ore. E ci sarà anche Clare Gallagher, Patagonia Global Sport Activist e trail runner (che abbiamo intervistato nel numero 120 di ottobre). «Molte persone negli Stati Uniti, me compresa, non si rendono conto di quanto la nostra aria sia cattiva, sia in inverno che in estate - dice Clare - Spero che questo evento spinga le persone a unirsi alla lotta per l’aria pulita e alla più ampia battaglia per salvare il nostro pianeta». E per continuare a correre respirando aria pulita. Una tematica di drammatica attualità anche a Sud delle Alpi, nelle Prealpi che salgono dalla Pianura Padana, una delle peggiori aree del pianeta per la qualità dell’aria.
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VELOCE GTX
dolomite.it
EV ENT I
EcoLoTor il progetto di sostenibilità ambientale promosso dall’associazione Erica e Valle d’Aosta Trailers, e inizialmente legato solamente al Tor des Géants, dal 2018 ha abbracciato tutti gli eventi organizzati da VDA Trailers. E per l’anno prossimo, quello del decennale dell’endurance trail valdostano, si guarda avanti. L’obiettivo è la Carta di Courmayeur, un vero e proprio manifesto al quale fare aderire altri organizzatori di eventi sportivi nazionali per promuovere una gestione attenta all’ambiente e con i minori impatti possibili. La Carta parte da alcuni capisaldi, frutto dell’esperienza di EcoLoTor. Al primo punto i rifiuti. Nelle gare VDA Trailers è un aspetto che non può prescindere dagli approvvigionamenti, con forniture sostenibili, come le stoviglie in materiale compostabile. Vengono organizzati eco-punti presidiati per la raccolta differenziata presso le basi vita e i punti ristoro per le frazioni di base (plastica, carta, vetro e organico) e promossa la raccolta anche di rifiuti specifici, come le scarpe da ginnastica dismesse dagli
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atleti, le pile, le batterie dell’attrezzatura specifica e gli oli alimentari esausti delle attività da cucina. EcoLoTor ha messo la lotta al littering (abbandono di rifiuti) tra le priorità, attraverso la sensibilizzazione degli atleti e il rigido rispetto del regolamento che prevede la squalifica, oltre all’attività delle eco-scope che puliscono il percorso della manifestazione. La lotta allo spreco alimentare è un’altra delle strategie e VDA Trailers l’ha combattuta attraverso la scelta di stovigliame con dimensioni adeguate alle esigenze degli atleti, anche in collaborazione con Slow Food. Da non dimenticare l’utilizzo di energia rinnovabile, con eco-punti di ricarica alimentati da energia fotovoltaica. Sopra a tutte queste decisioni c’è una commissione ambiente della quale fanno parte VDA Trailers, Erica, Regione Valle d’Aosta e ARPA Valle d’Aosta. Ha il compito di monitorare le prestazioni ambientali delle manifestazioni, valutare nuove soluzioni e analizzare i risultati ottenuti. Sempre più green.
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di Ruggero Bontempi
L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura ha divulgato pochi mesi fa la guida Sport and Biodiversity, progettata per aiutare i responsabili decisionali a comprendere i potenziali impatti di eventi sportivi e per diffondere le migliori opzioni per mitigarli utilizzando lo sport come mezzo per migliorare la conservazione della biodiversità. Si tratta di un tema di grande attualità, che chiama in causa non solo i giochi olimpici e le gare di livello internazionale, ma riguarda ad esempio anche le piccole manifestazioni di trail running. Nel gruppo delle attività outdoor l’escursionismo, la mountain bike e lo skialp sono alcune tra le più praticate e coniugano l’esercizio dello sport all’insegna del rispetto dei contesti naturali in cui si svolgono. Anche le attività ecocompatibili possono tuttavia manifestare impatti diretti sulle componenti del paesaggio naturale. Accade quando alcune aree remote e sensibili vengono sottoposte alla frequentazione di massa, oppure in determinati momenti dell’anno delicati per le specie vegetali e animali, come l’inverno e i periodi riproduttivi. Nella stagione estiva le problematiche possono variare per l’aumento di soggetti portatori di interessi diversi all’interno delle stesse aree: oltre agli sportivi anche turisti, conduttori di
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aziende agricole, mandriani, gestori di prati e pascoli. In Austria e in Svizzera con il progetto Respektiere deine Grenzen (Chi rispetta protegge) è stata realizzata un’efficace campagna informativa per limitare il disturbo alla fauna selvatica nel periodo invernale e analoghe iniziative si stanno diffondendo anche in Italia. Una delle più significative è rappresentata dal Progetto RESICETS, acronimo di Resilienza ambientale delle attività ricreative nelle aree protette dell’Ossola, attraverso la Carta Europea per il Turismo Sostenibile. Gli operatori turistici locali collaborano con l’Ente Parco per gestire e ridurre gli impatti sull’ambiente naturale generati dalle attività sportive ed escursionistiche. Come funziona? È stata creata una campagna informativa e vengono proposti percorsi escursionistici appositamente realizzati nella stagione invernale per garantire la massima riduzione dei disturbi alla fauna. RESICETS rientra nell’iniziativa Be Part Of The Mountain coordinata dalla Rete delle Aree Protette Alpine, pensata per diffondere comportamenti virtuosi e buone pratiche tra i praticanti degli sport invernali. Vince il divertimento all’insegna della consapevolezza.
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UP2U, sta proprio a te. A voi. A noi. È proprio questo il senso della manifestazione organizzata all’interno degli Adventure Award Days che si propone come summit dell’attivismo ambientale. «Il momento di schierarsi, di organizzarsi e di esporsi è questo, abbiamo pensato di creare la condizione in cui tutto ciò possa avvenire: un momento di incontro, condivisione e discussione, aperto a chiunque voglia contribuire ad una svolta ambientalista del mondo outdoor» dice Luca Albrisi. L’appuntamento è per l’11 e 12 maggio a Canale di Tenno (TN), uno dei borghi più belli d’Italia vicino alle sponde del suggestivo lago di Tenno e da dove è possibile ammirare la vastità del lago di Garda. Verranno coinvolte associazioni ambientaliste, attivisti, enti territoriali e alcuni ambassador di aziende outdoor sensibili a queste tematiche. «E poi tu - continua Albrisi - Sì, proprio tu che da un po’ ti chiedi come puoi contribuire, che desideri informarti maggiormente o che magari hai dei progetti in mente e desideri condividerli con qualcuno». UP2U è stato pensato come un vero e proprio think tank, non come evento solo gazebi informativi o volantini. «Aspettati piuttosto di essere coinvolto, di dare il tuo parere, di presentare idee, di conoscere persone con cui strutturare progetti e condividere sogni» aggiungono gli organizzatori. Il programma? Workshop e momenti condivisi su alcune delle tematiche attualmente più rilevanti nel mondo dell’attivismo ambientale. Da come fare networking a come comunicare le problematiche ambientali, fino a come e dove recuperare fondi per promuovere campagne o azioni dirette. Il tutto presentato e discusso da esponenti di alcune associazioni che si son distinte per il proprio operato in questo settore. Ci sarà modo di incontrare di persona ambassador e personaggi del mondo outdoor che hanno cercato di dare un’impronta sostenibile alle proprie attività, come Zoe Hart e, tutti insieme, continuare a discutere di temi ambientali durante una corsa nel bosco, un aperitivo in rifugio o una passeggiata al lago. Insomma, adesso tocca davvero a te. www.adventuredays.it/up2u-2019
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© Luca Albrisi
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www.meindl.de
di Claudio Primavesi
Che fine fanno sci e scarponi usati? Purtroppo nella maggior parte dei casi finiscono in discarica o nei termovalorizzatori. Il problema principale per i primi è legato alla difficoltà di separare le varie parti assemblate, mentre gli scarponi, pur essendo di materiale plastico, si perdono nelle decine di plastiche e non tutte vengono riciclate. Va meglio per i bastoni dove la parte in alluminio trova nuova vita nel riciclo. Però ci sono alcuni esempi interessanti di recupero dei materiali utilizzati. Due ragazzi italiani hanno avviato una start-up in Austria che realizza occhiali da sole e da vista a partire dalla serigrafia degli snowboard. Uptitude è nata in una soffitta del Trentino quando Ermanno Zanella ha pensato che sarebbe stato un peccato buttare tutti quegli sci e snowboard in discarica e si è costruito una montatura per i suoi occhiali. Poi l’incontro con Filippo Irdi, shaper in Austria, e l’idea di industrializzare quell’idea. La voce si sparge in fretta:
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un po’ con l’aiuto di Burton, un po’ di qualche amico, Filippo ed Ermanno vengono sommersi di snowboard. Le parti laterali sono utilizzate per le montature, quella centrale per realizzare portachiavi, punta e coda per gli espositori da negozio e Uptitude produce anche cover per smartphone con la stessa origine. Un altro esempio di valorizzazione degli sci viene dalla Francia. Qui la Tri-Vallées di Albertville dal 2006 raccoglie sci e snowboard dai negozi e dalle piattaforme ecologiche di Savoia, Alta Savoia e Isère per recuperare ferro, alluminio e combustibile solido per i cementifici. Ne parliamo nel portfolio a pagina 40. Un’altra case history interessante in chiave riciclabilità è quella dell’italiana Kastelaar che produce sci in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council), marchio che identifica oggetti conte-
nenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, facilmente riparabili e al 95% riciclabili. E le scarpe da running? Esosport separa la suola dalla tomaia generando materia prima seconda che viene donata e utilizzata per la creazione di pavimentazione per i parchi giochi e per le piste di atletica (per informazioni sui punti raccolta: www.esosport.it). Le 4 R dei rifiuti Questi sono tutti esempi virtuosi di recupero dei materiali o di riciclo, ma esistono esempi di riutilizzo, il fine più nobile? Per quanto riguarda i bastoni da sci, ci sono alcune piattaforme ecologiche, soprattutto in Austria, che li distribuiscono ai contadini e ai pastori che li impiegano come pali nelle recinzioni. Gli sci trovano spesso nuova vita in panchine e porta-abiti. Negli Stati Uniti Green Mountain Ski Furniture (www.recycledskis.com) realizza curiose sdraio, apribottiglia e casette per gli uccelli con gli amati legni. Qualche anno fa nell’ambito del progetto Architecture for refugees, Resilience Shelter Project di Marco Imperadori, professore di Progettazione e Innovazione Tecnologica al Politecnico di Milano, si era arrivati a realizzare un modulo abitativo per situazioni di emergenza simile a una yurta, la famosa tenda mongola, utilizzando 130 sci. Il progetto europeo transfrontaliero INTESE, che coinvolge l’area italo-francese del Monviso, prevede la reintroduzione degli sci e scarponi usati attraverso una rete di centri del riuso in aree distanti dalle stazioni sciistiche per non interferire con i mercati locali, ma aumentare la possibilità di accesso agli sport invernali anche per le persone meno abbienti.
RID UZ IO N E: cioè produrre meno rifiuti (utilizzando più a lungo sci, scarponi e abbigliamento, ma anche preferendo prodotti con imballaggi meno invasivi e riciclabili). RIUTIL IZ Z O : il prodotto trova un nuovo impiego (è il caso dei bastoni utilizzati come recinzione o di sci e scarponi donati per essere ancora usati per sciare). REC UPERO : valorizzazione del rifiuto per ricavare materia seconda o energia (è il caso degli occhiali con montature a partire dalle serigrafie degli snowboard). RIC IC LO : il materiale che non serve più al suo scopo viene trasformato (come le bottiglie di PET che danno vita ai pile).
P E N E O I H T C S N U AN KED CATED TO F DEDI
eight w t h g i l e p ar ers! e e h S d e k Na kimountaine ! e r u s a e ore pl s made for s m r o f t uct eigh eR duced wperformance prod
M ATER I A LI
E quale fine vita più nobile per i nostri sci e scarponi usati se non quello di fare vivere loro ancora tante avventure ai piedi di chi è stato meno fortunato di noi e non se li può permettere? È quello che ha pensato Nico Valsesia, che i lettori di Skialper conoscono soprattutto per le sue imprese dal mare alle vette più alte del mondo, in bici e correndo, ma che è anche maestro di sci. «Lo scorso anno, dopo aver sciato sull’Alto Atlante, passando tra un villaggio e l’altro, ho visto con quanto entusiasmo bambini e ragazzi cercassero di scivolare su qualsiasi cosa assomigliasse a uno sci, con scarpe o stivali inchiodati su assi o sci vecchissimi - dice Nico - Ho pensato a quanto materiale nuovo o seminuovo in Italia non si usa o addirittura si getta, materiale che sarebbe utilissimo quaggiù». Detto, fatto. A dicembre Valsesia è stato in Marocco, più precisamente nella località sciistica di Oukaïmeden e ha regalato a tanti bambini e ragazzi un paio di sci e scarponi. L’idea iniziale di Let’s ski together era di partire con un furgoncino dall’Italia, guidato dallo stesso Valsesia, ma la quantità di
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attrezzatura e abbigliamento da sci raccolta ha costretto a un cambio di programma. Per trasportare i più di 3.000 articoli sportivi è intervenuto il gruppo ALPI - Albini & Pitigliani Trasporti che ha messo a disposizione un tir. Oltre a tanti privati cittadini, per donare l’attrezzatura è intervenuto anche il gruppo Tecnica con i marchi Nordica, Blizzard e Tecnica e al progetto hanno partecipato l’agenzia milanese di sport marketing DEMA4, la Federation Royale Marocaine de ski et sport de montagne, la scuola di sci Stella Alpina Mottarone, la scuola di sci e snowboard Sauze Project e Collegio Regionale Piemonte maestri di sci. In alcuni casi sci e tute, queste ultime in buona parte donate dalle scuole sci, erano fondi di magazzino, ancora inutilizzati. Nico e i suoi compagni di avventura non si sono limitati a raccogliere e preparare adeguatamente l’attrezzatura, ma si sono fermati per due settimane per insegnare gratuitamente a sciare. Purtroppo sull’Alto Atlante a dicembre c’era poca neve, ma si sta già organizzando il seguito di questa bella iniziativa. Info: www.nicovalsesia.com
M AT E R I A LI
«Da sciatore mi sono sempre posto il problema di dove finissero le paraffine e i fluorati delle scioline, tutti materiali derivati del petrolio e così nel 2015 dopo avere studiato il problema, è nata NZero Wax che produce solo scioline di origine 100% vegetale». Guillem Capellades, catalano, a Barcellona produce quattro tipi di scioline solide e quattro liquide, con la soia come elemento base, e quelle per le pelli dello skialp si sono rivelate ottime per evitare che ghiaccino. Anche i coloranti sono tutti vegetali, dalla curcuma alla clorofilla. «Non vogliamo dire che i nostri prodotti sono al livello di quelli da gara, c’è ancora strada da fare e non è il nostro obiettivo. NZero si pone come un’alternativa agli altri prodotti con paraffine e fluorati e il target sono gli sciatori di tutti i giorni, che vogliano lasciare il minore impatto possibile sull’ambiente». C’è domanda per questo tipo di scioline? «Partecipiamo all’ISPO da sei anni e ci sembrava di predicare nel deserto, invece da qualche mese siamo pieni di richieste». Così ora le scioline NZero sono importate in Olanda, Canada, Stati Uniti, Svezia, Spagna… e naturalmente acquistabili sul sito www.nzerowax.com. Go green, slide green!
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SKINS BELTS, E LA PELLE DIVENTA UNA CINTURA UNA MAESTRA DI SCI PIEMONTESE TRASFORMA LE TESSILFOCA USATE IN G RAZIOSE CINTURE
Ha iniziato quasi per gioco, giocando, appunto, con le vecchie pelli di papà, da sempre scialpinista. E poi, alla fine, è diventato un lavoro, da gestire nei ritagli di tempo dell’altro lavoro, quello di maestra di sci. Marta Lotti, piemontese trasferitasi a insegnare spazzaneve e curve sulle nevi di Tignes, in Francia, ha ridato vita alle vecchie tessilfoca. «Sistemando e curiosando un po’ di attrezzatura di montagna archiviata da anni, ho trovato una scatola contenente centinaia di pelli di foca, risalenti almeno a 20 anni fa, e chiaramente non più utilizzabili per lo scialpinismo» dice Marta. Il passaggio da una tessilfoca a una cintura, per giunta davvero carina, però non è immediato. «Ho subito pensato che con quel materiale avrei potuto creare qualcosa, così, dopo averle pulite e tolta la colla, ho tagliato una singola pelle di foca a metà per la sua lunghezza, e quello che ne è uscito è stato esattamente, per forma e dimensioni, una cintura». La voce si sparge, le richieste arrivano presto
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non più solo da amici e parenti. Nasce così l’idea di Skins Belts. E il problema diventa recuperare vecchie pelli per fare tutte le cinture richieste. Così Marta inizia anche a lavorare con gli scarti di produzione di qualche azienda, ma il core business sono le tessilfoca usate. «È anche possibile portare la propria pelle e il prezzo del prodotto finito è di dieci euro in meno, quaranta invece di cinquanta» aggiunge. «Il principio che sta alla base della mia produzione è proprio il riutilizzo del materiale di seconda mano, ed è per questo motivo che ogni cintura rappresenta un pezzo unico - conclude Marta - Così come tante aziende, vorrei provare anche io, nel mio piccolo, a lanciare un messaggio di sensibilizzazione alla riduzione dei consumi. Il nostro pianeta ha bisogno di rispetto e cure, perché sempre più ammalato e sofferente e penso che il riutilizzo possa essere una via da seguire». Per vedere le creazioni di Marta e ordinarle basta andare sulla pagina Facebook @skinsbelts.
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LA SPORTIVA GOES GREEN PRODOTTI AL 95% REALIZZATI CON MATERIALI A RIDOTTO IMPATTO AMBIENTALE, IL 97% DEI RIFIUTI RIUTILIZZATI, IL 100% DELL’ENERGIA DA FONTI RINNOVABILI. SON O SOLO ALCUNI DEGLI OBIET TIVI RAGGIUNTI DAL MARCHIO TRENTINO
Oggi nessun marchio può permettersi un’immagine che non sia ecosostenibile. Ce ne sono alcuni però che, per le loro radici e il contesto nel quale si sono sviluppati, hanno una vocazione ambientale innata. Per La Sportiva il payoff Innovation with passion significa prima di tutto rispettare l’ambiente per il quale nascono i suoi prodotti. Il valore aggiunto dell’azienda è realizzare articoli per la montagna in montagna, nel contesto delle Dolomiti della Val di Fiemme, a differenza di altri brand che sorgono in distretti industriali di pianura e ai piedi delle montagne. «Vogliamo restituire alla valle che ci ospita tutto quanto di buono ci ha dato» non si stanca mai di ripetere il presidente e CEO Lorenzo Delladio. Tutto quanto significa competenze, ispirazione e qualità della vita, che si riflette sulla qualità del lavoro e dei prodotti che vengono realizzati. È un’equazione semplice e spiega in parte anche il sogno - purtroppo non realizzato - di Delladio di realizzare a Passo Rolle un piccolo santuario degli sport human powered di montagna. Ecco perché il recente ingresso nell’organizzazione no-profit internazionale 1%
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For the Planet, all’interno della quale i membri contribuiscono destinando almeno l’1% del proprio fatturato annuale a progetti e cause ambientali, è la conseguenza naturale di questa sensibilità verde. Ma l’attenzione per l’ambiente è un discorso molto più complesso che parte dai materiali utilizzati, passa per il processo produttivo, gli scarti di produzione e la fine della vita degli articoli sportivi e a Ziano di Fiemme hanno un sistema integrato di gestione della sostenibilità. Tutti i processi all’interno dell’azienda sono stati certificati secondo lo standard di gestione ambientale UNI EN ISO 14001dal 2003 e dal 2012 l’energia elettrica utilizzata proviene al 100 per cento da fonti rinnovabili certificate. Sempre nel 2012 è stata inaugurata la palazzina che ospita gli uffici del reparto marketing, progettata per essere completamente autosufficiente dal punto di vista energetico grazie all’installazione di un impianto fotovoltaico da 18,89 kWp (potenza di picco) e a un sistema di pompe di calore che ne soddisfa i fabbisogni di riscaldamento e condizio-
namento. Proprio in queste settimane entra in funzione un nuovo impianto fotovoltaico sul tetto realizzato per l’ampliamento della fabbrica, con una potenza aggiuntiva di 126 kWp. Un altro aspetto importante è quello dei consumi delle risorse e delle materie prime. L’acqua è e sarà sempre di più un bene prezioso, ecco perché in La Sportiva già dal 2011 è stato inaugurato un sistema di lavaggio a ciclo chiuso che ricicla l’acqua sempre presente nei serbatoi e che ha permesso un risparmio di circa 70.000 litri all’anno. Per un marchio in forte espansione come La Sportiva però l’aspetto più importante nell’ambito di una crescita sostenibile è quello dell’utilizzo delle materie prime e degli scarti di produzione. Quando si realizza la tomaia di una scarpa o una suola, per esempio, nonostante macchine a taglio laser e l’esigenza di bilancio di sprecare meno materiale possibile, ci sono delle parti che non possono essere utilizzate nella produzione. Tutti gli indicatori relativi alle tre princi-
pali componenti delle calzature - pellame, gomma e collanti - sono in crescita negli ultimi anni, con in particolare la gomma che è passata da poco più di 100.000 kg nel 2014 a oltre 200.000 nel 2016. Nello stesso periodo La Sportiva ha raggiunto l’importante obiettivo di ridare nuova vita a più del 50% degli scarti di gomma. Come? Per esempio per la realizzazione della pavimentazione del parco giochi della scuola elementare di Alassio e del manto in erba sintetica del complesso sportivo La Meridiana di Catania. Un altro modo per reimpiegare gli scarti di produzione sono le borse, i portachiavi, le agende o i porta carte in pellame realizzati dalla Cooperativa Sociale Samuele, che aiuta le persone in difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro. Le suole Eco Bond, pre-incollate, hanno invece consentito un notevole risparmio di colla per scarpa prodotta. Grazie a queste pratiche sono stati ridotti drasticamente i rifiuti diretti verso le discariche e sono aumentati esponenzialmente quelli riutilizzati, nonostante la produzione totale di rifiuti sia passata da 137,050 tonnel-
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late nel 2012 a 212,592 nel 2016. I rifiuti recuperati sono passati dal 33% al 97%. Essere ecosostenibili significa cercare di arrecare il minor danno possibile all’ambiente dalla culla alla tomba e anche la scelta dei fornitori gioca un ruolo importante. La Sportiva lavora con aziende che al 66,7% sono del Triveneto e che rappresentano circa il 50% del fatturato fornitori. Una garanzia in più per uno sviluppo sostenibile e il più possibile a km 0. Ai fornitori viene assegnato un punteggio in base all’ecocompatibilità di materiali e forniture e alla presenza o meno di un sistema di gestione unificato UNI EN ISO 14001. Tutte le aziende vengono valutate a un anno dall’inizio del rapporto di lavoro e successivamente a campione, sulla base di specifici criteri definiti internamente. Nel corso del 2016 i fornitori italiani e quelli con sede al di fuori dell’Unione Europea hanno ottenuto il punteggio medio maggiore, disponendo sia di un sistema di gestione cer-
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tificato UNI EN ISO 14001 sia di un’ottima valutazione di ecocompatibilità delle proprie forniture. La Sportiva è inoltre attiva dal 2013 nell’Associazione Europea per la Conservazione dell’Ambiente (EOCA - European Outdoor Conservation Association), una realtà che comprende oltre 130 aziende del settore outdoor e che ha l’obiettivo di realizzare progetti di salvaguardia e ripristino dell’ambiente naturale. Alcuni progetti realizzati dall’EOCA (a cui La Sportiva ha destinato il 20% dei ricavi dello scorso Black Friday), ad esempio, hanno riguardato un sentiero natura in Nepal, la pulizia di cime montuose in Kirghizistan, la protezione degli orsi bruni in Spagna, la riforestazione di foreste vergini in Repubblica Ceca, la creazione di un percorso di trekking transfrontaliero tra Macedonia e Albania, la protezione delle rare farfalle Euphydryas aurinia in Irlanda e il salvataggio di un’antica fore-
sta dal disboscamento in Svezia. Il riconoscimento Bluesign Member è un’ulteriore dimostrazione dell’impegno de La Sportiva in questo campo, ottenuto nel 2012 grazie al rispetto dell’omonimo standard che certifica la filiera produttiva tessile secondo criteri socio-ambientali riconosciuti a livello internazionale e approvati da Bluesign. I primi prodotti interamente Bluesign sono stati presentati nel corso della stagione 2014/15. La Sportiva ha anche aderito al programma PFC Free con l’obiettivo di eliminare tessuti, componenti e trattamenti contenenti tutti i tipi di perfluorocarburi (PFC), ricercando materiali eco-compatibili e con caratteristiche di biodegradabilità più elevate. Ma in fin dei conti quello che conta sono i prodotti e le novità green non sono poche. A cominciare da Mythos Eco, una riedizione della celebre scarpetta d’arrampicata Mythos, realizzata con il 95% dei componenti derivati da materiali a ridotto impatto ambientale
(concia metal free, pelle biodegradabile e collanti a base acquosa) e riciclati (suola, lacci e tiranti dell’allacciatura). Oppure i capi della nuova linea d’abbigliamento Ski-Tour, appena presentata alla fiera Ispo di Monaco di Baviera e realizzati totalmente o parzialmente con tessuti e imbottiture ottenute dal riutilizzo del poliestere riciclato e certificato RePET, derivante dal riciclo di bottiglie di plastica a fine vita. I capi che riportano l’etichetta Recycled Fabric & Insulation garantiscono che ogni derivato petrolchimico è stato sostituito con fibre ottenute da poliestere riciclato e una produzione di minori quantitativi di CO2 (circa un 54% in meno rispetto alla produzione di fibre tradizionali) nel processo produttivo delle fibre di poliestere riciclato. E poi c’è il nuovo scarpone da skialp Skorpius CR, con scafo e gambetto nell’innovativo ed eco compatibile Pebax Rnew Bio-based, polimero ottenuto dalle piante di olio di ricino.
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SE ACQUISTATE UNA GIACCA DA SCI… OCCHIO AD AUTO E LAVATRICE A DETERMINARE QUANTO INQUINA UN ARTICOLO SPORTIVO NON SONO SOLO LA PRODUZIONE E IL METODO DI TRASPORTO PER ARRIVARE AL NEGOZIO, MA ANCHE COME LO LAVIAMO E ANDIAMO AD ACQUISTARLO, COME DIMOSTRA UN INTERESSANTE TOOL DEL MARCHIO PICTURE
Quanto pesa sull’ambiente l’acquisto di una giacca da sci? È un valore che non dipende soltanto dalla filiera di produzione e dalla maggiore o minore sostenibilità del marchio che la produce, ma anche da noi stessi. Perché nel ciclo di vita di un prodotto conta anche l’utilizzo che se ne fa, quanto e come lo si lava, come lo si smaltisce e in buona parte sono scelte che fa chi quella giacca l’ha comprata. Picture Organic Clothing, marchio green francese nato nel 2008, ha creato un calcolatore dell’impronta ambientale dei suoi prodotti. Uno strumento molto utile per sensibilizzare i consumatori, che tutti possono utilizzare sul sito del marchio. Abbiamo provato a divertirci un po’ e simulare qualche acquisto. Scoprendo che il mezzo di trasporto che utilizziamo per andare ad acquistare il prodotto può essere una voce importante dell’impatto ambientale, ma meno della decisione di come lavarlo. Naturalmente la fetta più rilevante riguarda le emissioni generate dalla produzione della giacca, che nel caso di Picture produce 9,38 kg di CO2 (fino al 78% in base al mezzo di trasporto scelto per andare ad acquistarla), ma fare anche solo dieci chilometri in auto www.picture-organic-clothing.com
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per andare ad acquistarla pesa praticamente per il restante 22% (2,6 kg CO2) se si decide di tenerla cinque anni, regalarla a fine vita, lavarla a 40° in lavatrice piena e asciugarla all’aria. L’impatto del mezzo di trasporto si riduce all’1% se i dieci chilometri li faremo in treno, al 15% in autobus e allo 0% in bici. Trascurabile anche il valore per gli acquisti online, pari a 0,29 kg e il 3% delle emissioni. Non è una scelta di poco conto anche decidere come lavare la giacca: in lavatrice vuota a 40° produce 5,625 kg di CO2 che, nella scelta più virtuosa, quella di andare ad acquistarla in bici, pesano per il 36% contro il 62% della produzione. Anche nel caso di acquisto utilizzando l’automobile, il metodo di lavaggio è una scelta da valutare attentamente perché la percentuale sul totale delle emissioni è comunque pari al 32%. A titolo di esempio, lavare la nostra giacca in lavatrice piena a freddo incide per 0,024 kg di CO2 e in lavatrice piena a 40° per 0,038 kg di CO2. Minori le implicazioni dell’asciugatrice che, anche se la utilizzeremo solo per il nostro capo e per una volta all’anno, produce 0,855 kg di CO2, che scendono però a 0,13 se la macchina è piena.
Green dalla nascita Picture Organic Clothing è uno dei brand più attivi nel campo dell’eco-sostenbilità e di quella sociale. Valori che si rispecchiano nel design e in tutte le fasi della produzione. Gli scarti tessili, per esempio, vengono impiegati per le fodere interne di alcuni capi della collezione. Il 95% del cotone utilizzato è organico certificato GOTS e il 5% riciclato e i prodotti tecnici utilizzano almeno il 50% di poliestere riciclato, mentre il 100% dei gusci è PFC-free con tecnologia Teflon EcoLite. Il 100% della produzione è trasportato in barca e solo per gli ultimi chilometri in camion (10.000 km su battello equivalgono a 900 in camion in termini di emissioni di CO2). Inoltre sul sito del marchio è possibile selezionare su una carta geografica tutti gli stabilimenti dove vengono lavorati gli articoli o le materie prime per saperne di più. Picture aderisce a Fair Wear Foundation.
Lo zaino riciclabile e il DWR dalle api Nel 2014 Picture ha presentato uno zaino che a fine vita, semplicemente tagliato dal suo utilizzatore, poteva trasformarsi in tre trousse e un porta-computer invece di finire nella pattumiera. Curioso anche il prodotto Bee Wax, realizzato a partire dalla cera d’api che, spalmato e ripassato con un ferro da stiro, funziona come un trattamento DWR che ripristina l’impermeabilità dei capi.
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VAUDE OK IL PREZZO È GIUSTO DIETRO ALLA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE E SOCIALE DI UN CAPO D’ABBIGLIAMENTO C’È UNA CORRETTA POLITICA DEI PREZZI E DI REDISTRIBUZIONE DEGLI UTILI
Il modello della società consumistica è prima di tutto quello del profitto. Non solo da parte delle aziende ma anche di noi consumatori (ricerca del prezzo più basso). Ma siamo sicuri che sia il modo giusto per fare anche scelte rispettose dell’ambiente e delle condizioni di lavoro? Una risposta molto interessante arriva dal marchio tedesco Vaude, uno dei più attivi sia sul lato ambientale che sociale. A Tettnang, sede del brand, hanno calcolato tutti i costi e i profitti di una giacca da 200 euro nelle varie fasi della catena lavorativa. Un capo realizzato garantendo la giusta retribuzione in ogni fase e l’utilizzo dei materiali meno dannosi per l’ambiente e la salute. E necessariamente più caro di uno prodotto senza rispettare questi standard. A puro titolo di esempio i materiali utilizzati da Vaude per le borse da bici, tutti PVC-free, costano il 100% in più di quelli con PVC. Come si può vedere dall’infografica di questo articolo, i margini di profitto della fabbrica, del marchio e del negoziante sono tutti tra il 2 e il 3% perché in ogni fase vengono sostenuti costi per pagare i lavoratori, l’energia, le materie prime… L’utile realizzato da Vaude è quasi interamente re-investito, in parte anche per la sostenibilità ambientale. Nonostante i costi più elevati di prodotti senza garanzie ambientali e sociali, è evidente che nessun marchio potrà mai alzare troppo i prezzi di vendita e l’unica strada è quella di ridurre il più possibile il margine di profitto interno.
www.vaude.com
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Economy of the common good e ambiente Vaude redige anche un bilancio che si rifà ai principi dell’economy for the common good, che considera non solo i valori tipici dei bilanci, fatturato e utili, ma anche parametri sociali ed economici. L’ultimo bilancio ha fatto registrare 631 punti su una scala che va da -3.600 a 1.000. Tra le iniziative che vengono prese in considerazione anche la politica ambientale aziendale che prevede incentivi per chi va al lavoro in bici o con i mezzi pubblici. Nell’ultima sistemazione degli uffici sono stati eliminati 65 parcheggi e ci sono officine per la riparazione delle bici, docce e spogliatoi. Per gli spostamenti di lavoro, che generano circa un quarto delle emissioni di Vaude, viene privilegiato il treno e in ogni caso tutte le emissioni vengono compensate (anche quelle generate dal sito internet). Tra le altre iniziative che contribuiscono al punteggio del bilancio quelle legate al recupero dei materiali di scarto, per esempio per la realizzazione di borse da palestra utilizzando vecchi cartelloni pubblicitari o astucci con materiale delle tende non riparabili. Altri materiali sono stati utilizzati per gli abiti di una performance teatrale nell’ambito di un progetto di collaborazione con le scuole e anche le tende delle cabine di prova di alcuni negozi Vaude sono realizzate con scarti di produzione.
La questione PFC
LE VOCI DEL COSTO DI UNA GIACCA VAUDE 19% IVA*
STATO
36% COSTI
2%
PROFITTI NEGOZIO
17% COSTI
20% COSTI
3%
PROFITTI
MARCHIO
I perfluorocarburi o PFC sono stati inventati negli anni ’60 e vengono impiegati nei tessuti waterproof per fare scivolare via l’acqua dalla superficie. Sono da anni sotto accusa perché ritenuti dannosi per l’ambiente e la salute dell’uomo in quanto persistenti in natura. Sono stati ritrovati nel sangue degli orsi polari, ma anche nei ghiacciai e nell’acqua potabile. Vaude ha iniziato a studiare il problema da anni e realizza buona parte dei suoi articoli con l’utilizzo di Eco Finish PFC-free. L’obiettivo è di arrivare a commercializzare solo prodotti con Eco-Finish entro il 2020 e la roadmap prevedeva membrane senza PFC dal 2011, dal 2015 l’abbigliamento water repellent, dal 2016 i sacchi a pelo, dal 2017 i primi zaini e le tende, dal 2018 tutta la linea abbigliamento e il 96% degli zaini e delle scarpe.
3%
PROFITTI PRODUTTORE
200 €
= 100 %
* in Italia l’iva è al 22%
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3M MISSIONE SOSTENIBILITÀ PRESENTATI ALLA FIERA ISPO I NUOVI MATERIALI PER L’ISOLAMENTO SOSTENIBILE DE I CAPI DA OUTDOOR
Con il 100% di materie plastiche e tessuti riciclati, l’isolamento Thinsulate 3M offre un’alternativa sostenibile ai materiali naturali come il cotone o la piuma. La recente fiera ISPO di Monaco di Baviera è stata l’occasione per festeggiare i 40 anni del prodotto e per presentare alcune novità che vanno sempre più nel segno della sostenibilità ambientale. «L’industria dell’abbigliamento è la seconda più inquinante al mondo dietro solo a quella del petrolio» afferma il magnate della moda Eileen Fisher. L’economia circolare è l’obiettivo a lungo termine in ogni settore, ma l’industria della moda mordi e fuggi di oggi è ancora una strada a senso unico: produce inquinamento idrico utilizzando tinture tossiche e altre sostanze chimiche e crea quantità crescenti di rifiuti tessili, senza contare la grande quantità di risorse ed energia per la produzione di materiali naturali come il cotone o le implicazioni dovute all’utilizzo di pellicce naturali. Da anni 3M sviluppa prodotti isolanti riciclati post-consumo ampiamente utilizzati nell’abbigliamento outdoor e per lo sci. La ricerca ha portato alla migliore gamma 3M Thinsulate di sempre e il 2018 ha visto progressi significativi: si è arrivati fino all’utilizzo del 100% di materiali riciclati post-consumo e sono stati fatti progressi anche sul fronte della trasformazione dei rifiuti
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prodotti dai processi di produzione in materie plastiche di alta qualità, riducendo significativamente l’impronta delle emissioni di gas serra degli stabilimenti. Il Thinsulate riciclato al 75% invece offre un’alternativa etica e sostenibile al vero cotone o addirittura alla piuma, a un prezzo accessibile. I prodotti Thinsulate sono disponibili in tre nuove gamme e l’isolamento Featherless riciclato al 100% è realizzato con poliestere e offre un’eccellente protezione anche in condizioni estreme e allo stesso tempo è più duraturo di quanto non lo siano quelli naturali. È meno ingombrante e più leggero rispetto alla maggior parte delle fibre e si comporta bene quando è bagnato. 3M produce anche Thinsulate Flame Resistant e Thinsulate Water Resistant, prodotti specifici con potere ritardante contro il fuoco e impermeabilità elevata. I materiali e i processi utilizzati per creare Thinsulate sono stati certificati per la loro sostenibilità, l’impatto ambientale positivo e i metodi di produzione sicuri da agenzie indipendenti come OEKO-TEX, Global Recycled Standard (GRS) e bluesign e 3M ha ricevuto numerosi riconoscimenti da Forbes, Glassdoor, Fortune per le proprie politiche sulle pari opportunità, comportamento etico, responsabilità sociale.
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ATK BINDINGS OBIETTIVO ZERO CARTA IL PRODUT TORE DI AT TACCHI EMILIANO HA RIDOT TO DEL 75% IN UN SOLO ANNO L’UTILIZZO DI DOCUMENTI SCRIT TI E PUNTA ALLA DIGITALIZZAZIONE TOTALE ENTRO CINQUE ANNI L’ultima sfida verso uno sviluppo sostenibile è iniziata nel 2018, grazie agli incentivi previsti per il Piano Industria 4.0 promosso dalla proprietà. E ha permesso la riduzione della carta utilizzata del 75% in un solo anno. «Digitalizzare significa non solo diminuire o eliminare completamente l’utilizzo di carta, ma anche tradurre l’informazione analogica e trasferirla su un supporto digitale, risparmiando tempo e risorse, portando massima efficienza, ottimizzazione e velocità nei processi aziendali» dice Davide Indulti, Product & Sales Manager di ATK Bindings. Per ottenere questo risultato nell’azienda di Fiorano Modenese hanno installato 15 monitor touch screen che convogliano tutti i dati necessari (input e output) al processo di produzione interno, inclusi disegni tecnici, ordini di produzione, fogli di controllo qualità, schede collaudo, istruzioni per l’attrezzaggio dei macchinari. Calcolando che per ogni commessa di produzione venivano utilizzati un centinaio di fogli… Forte dei risultati raggiunti in un solo anno, in ATK si sono posti un obiettivo importante da qui ai prossimi cinque anni: l’eliminazione completa di ogni fabbisogno di documenti cartacei nei processi di fabbricazione interni. Quella della graduale eliminazione della carta è solo l’ultima decisione sulla
strada dello sviluppo sostenibile di questa azienda leader nella produzione degli attacchi da scialpinismo e freeride. L’energia elettrica utilizzata nella produzione degli attacchi proviene da un potente impianto fotovoltaico installato sulle coperture degli stabilimenti, mentre l’illuminazione è garantita da un innovativo sistema di specchi che convoglia la luce solare all’interno degli ambienti produttivi, fornendo luce naturale per migliori condizioni di lavoro e abbattendo il consumo di energia elettrica, riducendone l’utilizzo ai soli periodi di buio. Tutta l’illuminazione notturna è fornita da strisce LED, con le quali sono stati sostituiti vecchi tubi al neon, diminuendo del 50% lo spreco di energia. Il riscaldamento e raffreddamento di tutta l’azienda sono guidati da un innovativo sistema costituito da un motore Toyota tre cilindri a metano, grazie al quale si è ottenuta una riduzione del 50% dei costi e l’80% in impatto ambientale, con un investimento iniziale pari quasi tre volte di quello per un sistema standard. A fine gennaio 2016 è stato installato un unico sistema che raccoglie l’aria calda proveniente dai macchinari produttivi, la depura e la diffonde nelle varie aree dell’edificio, eliminando quasi totalmente ogni bisogno di riscaldamento dello stabilimento stesso. www.atkbindings.com
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CERTIFICAZIONI, FATTI DIETRO ALLE SIGLE BELLAMONT PLUS DI AKU È L’UNICO ARTICOLO
UNI EN ISO 14001: norma internazionale ad adesione volontaria che specifica i requisiti di un sistema di gestione ambientale tramite l’analisi della situazione e l’elaborazione di una politica aziendale e responsabilità specifiche in materia. bluesign: organizzazione con sede in Svizzera che interviene in ogni fase della catena di produzione dei materiali tessili allo scopo di approvare agenti chimici, processi, materiali e prodotti che risultino idonei e non dannosi per l’ambiente, per i lavoratori e per i clienti finali.
SPORTIVO PER L’OUTDOOR CERTIFICATO CON MARCHIO EPD, CHE VALUTA L’IMPAT TO AMBIENTALE DALLE MATERIE PRIME ALLA FINE VITA , MA ESISTONO ANCHE ALTRE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI
Bellamont Plus viene realizzata con pellami conservati in frigorifero ed evitando l’utilizzo di sale, inquinante e corrosivo e la pulizia degli stessi avviene senza calce e metalli inquinanti.
STANDARD 100 by OEKO-TEX: sistema di controllo e certificazione indipendente e uniforme a livello internazionale per le materie prime, i semilavorati e i prodotti finiti del settore tessile a ogni livello di lavorazione, oltre che per i materiali accessori utilizzati, che garantisce una sicurezza di prodotto elevata con valori limite più esigenti dei parametri validi a livello nazionale e internazionale, in particolare relativamente alla tossicità dei materiali. REACH: regolamento dell’Unione europea adottato per migliorare la protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche in base al quale le aziende devono procedere alla registrazione delle loro sostanze e l’ECHA (Agenzia Chimica Europea) ne valuta la conformità. GOTS: Global Organic Textile Standard è un marchio che assicura lo stato organico delle fibre tessili e la produzione con metodi ecologicamente sostenibili e socialmente responsabili. Fair Wear Foundation: organizzazione indipendente che verifica le condizioni di lavoro nell’industria tessile, in particolare nella lunga catena dei fornitori.
Come consumatori siamo bersagliati da decine di sigle e acronimi che certificano la sostenibilità dei prodotti che acquistiamo. Ma come districarsi tra tutti questi nomi? Per farlo conviene partire dai prodotti, per esempio dalla scarpa Bellamont Plus prodotta da Aku che risultano l’unico prodotto del mondo outdoor con Dichiarazione Ambientale di Prodotto EPD System, che determina l’impatto dell’intero ciclo di vita del prodotto, dall’estrazione e preparazione delle materie prime (upstream), al trasporto delle stesse, produzione e confezionamento (core) fino all’utilizzo e alla fine della vita del prodotto (downstream). In pratica una certificazione di quanto Bellamont Plus inquina dalla culla alla tomba. Quello che emerge scorrendo tra i dati della dichiarazione d’impatto ambientale della scarpa di Aku è che ben due terzi dell’impatto ambientale riguardano le materie prime con una produzione di 4,080 kg di rifiuti su un totale di 6,009, di 4,49 kg di risorse non rinnovabili su un totale di 5,55 kg e di 0,90 su 0,94 di risorse rinnovabili. Quali sono le altre sigle nelle quali il consumatore potrebbe imbattersi? Ecco un elenco delle più comuni, relative non solo a certificazioni ma anche ad associazioni che hanno a cura la tematica della sostenibilità e delle condizioni di lavoro equo.
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GRS: Global Recycle Standard è promosso da Textile Exchange e certifica il contenuto di materiali da riciclo e il rispetto di criteri ambientali e sociali in tutte le fasi della filiera produttiva. EOCA: la European Outdoor Conservation Agency riunisce oltre 130 marchi europei del settore Outdoor ed è impegnata su progetti specifici di salvaguardia ambientale. 1% for the planet: associazione che riunisce tra gli altri alcuni marchi del mondo outdoor che devolvono almeno l’1% del fatturato annuo per progetti e cause ambientali. FAIRTRADE: marchio internazionale di certificazione del commercio equo e solidale che contraddistingue i prodotti realizzati senza sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente.
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MAMMUT, WE CARE L’AMBIZIOSA P OLITICA AMBIENTALE DEL MARCHIO SVIZZERO PREVEDE IL RAGGIUNGIMENTO DI OBIET TIVI SPECIFICI ENTRO IL 2022 La sostenibilità per Mammut fa rima con Care, prendersi cura, ma le iniziali di care non sono altro che le iniziali di Clean, Animal Welfare, Reduced Footprint, Ethical Production, le quattro filiere nelle quali si declina la visione ambientale del marchio svizzero fondato nel 1862. Oltre all’adesione a marchi e certificazioni, all’adozione di materiali riciclati, riciclabili o non tossici, quello che segnala la forte attenzione a migliorare sempre più i propri standard green è che in Mammut hanno anche stabilito degli obiettivi a cinque anni da oggi in termini di percentuali della produzione che rispetti certi requisiti eco.
Animal Welfare Mammut si rivolge ai principali enti che certificano provenienza, tracciabilità e lavorazione eco sostenibile dei filati naturali, oltre alle condizioni di allevamento degli animali: Responsible Down Standard (piuma), Re:Down (piuma riciclata), Responsible Wool Standard (lana).
Clean production Mammut si è posta l’obiettivo di arrivare progressivamente a commercializzare solo capi con trattamenti DWR (per fare scivolare via l’acqua) senza PFC e già oggi una buona percentuale dell’abbigliamento è PFC free. La roadmap del 2016 ne prevedeva l’eliminazione entro il 2018 nei segmenti urban e climbing, entro il 2020 nell’abbigliamento da montagna ed entro il 2022 per tutta la linea top di gamma, dedicata a pro e sportivi top. Inoltre il marchio svizzero aderisce a bluesign, che garantisce che nella produzione non vengano usate sostanze particolarmente inquinanti. In aggiunta Mammut ha stilato un elenco di componenti (restricted Substance List), tra i quali prodotti chimici potenzialmente dannosi, che possono essere utilizzati in piccolissime quantità.
Ethical Production Per quanto riguarda la responsabilità sociale Mammut aderisce a Fair Wear Fourndation, un consorzio di associazioni del commercio, ONG e marchi nato per migliorare le condizioni di lavoro nelle aziende tessili.
Reduced Footprint Il marchio svizzero utilizza ampiamente materiali riciclati, cotone organico e Solution Dye, un sistema di colorazione delle fibre direttamente durante il processo produttivo senza l’utilizzo di acqua e tossine.
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1,3 MILIARDI DI MOTIVI PER DIRE SÌ ALLE BOTTIGLIE RICICLATE POLARTEC PRODUCE TESSUTI TECNICI A PARTIRE DAL PET DEI CONTENITORI PLASTICI GIÀ DAL 1993 E L’ULTIMA NOVITÀ DÀ UN CONTRIBUTO IMPORTANTE ALLA RIDUZIONE DELL’INQUINAMENTO DA MICROPLASTICHE: POWER AIR
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Quasi sette volte il giro della terra. Oppure più della metà della distanza tra il nostro pianeta e la luna. O ancora quattro volte lo spazio occupato dal Colosseo. Con un miliardo e trecentomila bottiglie di plastica si coprono questi spazi. Oppure si producono 35 milioni di giacche di fleece, sufficienti a vestire tutti gli abitanti del Canada. Sta in questi numeri la storia ecologica di Polartec, il brand che ha inventato il moderno fleece nel 1981 e che nel 1993 ha scoperto che il filato sintetico poteva essere prodotto a partire dal riciclo delle bottiglie di PET, utilizzandone ben 1,3 miliardi da allora. Ma sono sempre i numeri a dirci che nei soli Stati Uniti in un anno vengono gettate nei rifiuti 40 miliardi di bottiglie di plastica. L’emergenza ora si chiama inquinamento da microfibre. E la risposta del marchio statunitense si chiama Power Air. La microfibra sintetica è stata incapsulata in sacche d’aria all’interno di un materiale tessile, così si riduce di molto la dispersione di microfibre e si sfrutta anche l’ottimo potere isolante dell’aria, oltre a limitare il fastidioso fenomeno del pilling (quei mini-gomitoli che si formano con l’usura) e aumentare resistenza e durata. Per testare l’efficienza di Polartec Power Air hanno dovuto realizzare un nuovo macchinario. In pratica dopo avere simulato l’usura di anni sono stati estratti campioni di fibra per valutarne la perdita di peso. I risultati sono sorprendenti perché la quantità di microfibre trovate è stata fino a cinque volte inferiore rispetto al fleece tradizionale. I risultati migliori sono stati ottenuti confrontando i valori con quelli dei fleece a doppia faccia. Power Air è solo l’ultima delle tecnologie sostenibili con materiali riciclati firmate Polartec. Power Fill, introdotto nel 2018 e costruito per l’80% da materiali riciclati che provengono al 100% da bottiglie di plastica riciclate (PET), è una soluzione premium per l’isolamento termico leggera e versatile, ideale in situazioni statiche o in condizioni estremamente fredde, che garantisce maggiore ritenzione del calore in pochissimo peso e volume. Nel 2012 è iniziata l’era dell’Active Insulation con Polartec Alpha, l’isolamento termico attivo totalmente green e concepito per le forze speciali statunitensi. Offre traspirabilità due volte superiore agli isolamenti standard e asciugatura 60% più rapida. Questa tecnologia ha semplificato l’abbigliamento di chi, durante l’attività fisica, ha bisogno di protezione dal freddo ma, allo stesso tempo, non può permettersi di togliere e mettere ciò che indossa. Essere sostenibili non vuol dire solo realizzare prodotti a partire da materiale riciclato e riciclabile e la mission di Polartec parte alla fonte, con standard di filtrazione delle acque del processo produttivo, di riduzione dei rifiuti e delle emissioni inquinanti che dai primi anni duemila sono sempre state più restrittive rispetto ai limiti imposti dalla legge. Anche questo significa science of fabrics.
Termoregolazione totale Polartec è un ingredient brand in grado di offrire una vasta gamma di tessuti che spaziano dal contatto pelle all’isolamento termico, fino alla protezione dagli elementi. Con una sola mission aziendale: ottimizzare la termoregolazione corporea durante qualsiasi attività e in ogni situazione. Polartec keeps you warm - dry - cool - safe. La linea Base comprende Delta, Power Dry, Power Grid, Power Wool e Power Stretch, tecnologie next to skin, con applicazione fino al mid layer. La linea Insulation prevede i tessuti Alpha, Alpha Direct, Thermal Pro, Wind Pro e Power Fill e Fleece Series e va dal tradizionale isolamento del pile a quello per attività ad alto impatto aerobico. Infine la gamma Weather Protection, che comprende Windbloc, Neoshell e Power Shield, propone tessuti impermeabili, antivento e traspiranti allo stesso tempo, utilizzati nei gusci e nei capi softshell. Lo sapevi che… La tecnologia Polartec non viene utilizzata solo nell’abbigliamento ma anche, per esempio, nei caschi da sci o nelle scarpe. Sono state presentate proprio all’ultima fiera Ispo di Monaco di Baviera due curiose novità: Diadora N9000, sneaker realizzata in tessuto Polartec Fleece, mentre Giro ha esposto un casco con Polartec Power Grid nello strato a contatto pelle. La storia di Polartec Il nome Polartec è stato registrato nel 1991, mentre il primo fleece prodotto da Malden Mills nel 1981 si chiamava Polarfleece. Inizialmente i fleece venivano venduti anche con il nome di Synchilla nei pile di Patagonia. Polartec Alpha, il prodotto che ha creato il concetto di isolamento attivo, è stato creato originariamente nel 2012 per i corpi speciali dell’esercito statunitense e nel 2016 è stato annunciato Delta, il primo prodotto Polartec per climi caldi.
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MONS ROYALE LA LANA MERINO È SEXY. ED ECO IL MARCHIO NEO ZELANDESE PRODUCE BASELAYER, MIDLAYER E GUSCI A PARTIRE DALLE PROPRIETÀ UNICHE DELLA FIBRA NATURALE E DA ALLEVAMENTI CERTIFICATI E GESTITI IN MODO SOSTENIBILE
Dalla testa ai piedi I baselayer Mons Royale sono di tre diversi pesi: ultra lite, lightweight e midweight, da 140 a 250 grammi al metro quadrato, e hanno due vestibilità: slim e standard. I midlayer si dividono in lightweight warmth, midweight warmth e pure merino warmth, da 200 a 320 grammi al metro quadrato, mentre per l’isolamento ci sono due categorie: lightweight e heawyweight, da 80 a 200 grammi al metro quadrato.
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Dal 2019 Mons Royale è distribuita da Nitro Distribution Italia www.nitro.it — Tel. 0464 514098
«Ero stufo di vendere la mia lana a tutti qui marchi italiani che ne facevano dei vestiti eleganti, non mi andava di allevare le pecore per farle diventare una giacca, perché non la metto, se non per un matrimonio e invece avrei voluto usare la mia lana merino per la vita di tutti i giorni e stavo aspettando da anni che arrivasse qualcuno a chiedermela». Angus Rowley è uno sciatore appassionato e alleva ben 8.000 pecore Merino su una superficie di 6.500 ettari a 20 minuti da Lake Wanaka, nell’isola del sud della Nuova Zelanda. Quella persona che Angus aspettava si chiama Hamish, Hamish Acland. Quando girava il mondo per partecipare a gare di freeride, il suo principale problema era portarsi dietro meno abbigliamento possibile perché in due valigie dovevano starci sci, scarponi e gli abiti per stare sei mesi lontano da casa. Non solo per sciare, ma anche per la vita di tutti i giorni. Così, oltre a mettere in borsa capi versatili, che poteva usare sulla neve e in città, si è trovato davanti al dilemma: baselayer sintetici che, nonostante i trattamenti antibatterici, dopo un po’ puzzavano o in lana Merino? La seconda, oltretutto, era anche la soluzione più sostenibile dal punto di vista ambientale. «Il problema era che la maggior parte dei prodotti erano noiosi, tipicamente neri, molto tradizionali e pensati per una clientela datata». Così nel 2009 è nato Mons Royale, dall’idea di realizzare capi tecnici senza compromessi sullo stile. E per farlo doveva entrare in scena una seconda persona, Hannah, oggi compagna nella vita di Hamish. Hanna ha lavorato a New York per Fahreneit-212, un’azienda che ha realizzato il design di prodotti di centinaia di marchi prestigiosi, dalla Coca Cola alla P&G. «Quando nel 2008 ho incontrato Hamish per me lanciare un marchio di abbigliamento non era tanto diverso dall’inventarmi un nuovo marchio di vodka» dice ora che è creative director di Mons Royale. Così le idee di Hamish hanno preso forma e da subito il primo pensiero è stato quella di dare un look meno maschilista al marchio: non solo azione ma anche sex appeal. La campagna Who says winter can’t be hot, del 2011, ne è la dimostrazione. La lana Merino aveva cambiato faccia: colori vividi, fantasie trendy. Stile e performance, ma con un terzo imperativo: la sostenibilità.
PARO L A D ’O RD IN E Z Q M ERIN O Tutta la lana Merino utilizzata nei capi Mons Royale è certificata ZQ che significa che gli allevamenti utilizzati incontrano i più alto standard nel campo del benessere animale, della sostenibilità ambientale e sociale. Ogni filo è rintracciabile, la qualità delle fibre viene costantemente testata, gli animali sono lasciati liberi e non si nutrono di alimenti OGM, viene riservata molta attenzione alle condizioni di salute dei lavoratori e la selezione dei filati è fatta manualmente. Inoltre è vietata la pratica del mulesing (asportazione di una parte di pelle della zona perianale degli animali per prevenire le infezioni). Le pecore Merino sono in grado di resistere nelle condizioni ambientali più dure ma la loro lana è una delle più soffici e ha caratteristiche uniche. È antiodore, con proprietà antibatteriche naturali, ha un rapporto calore/peso molto favorevole e mantiene le proprietà isolanti anche quando è bagnata, è termoregolante anche quando fa caldo perché ha un fortissimo potere di assorbimento dell’umidità, è traspirante, soffice e al 100% biodegradabile e sostenibile. N O N SO LO IN TIM O Sono passati dieci anni dalla nascita di Mons Royale e oggi il catalogo del marchio neozelandese, importato in Italia da Nitro Distribution, spazia dall’intimo (underwear), all’intimo tecnico (baselayer), ai midlayer e agli strati esterni per l’isolamento dagli elementi, realizzati con fodere in Merino ed esterno in materiali riciclati, a calze, leggins, cappellini e scaldacollo. Le pecore di Angus vengono tosate solo in estate, per garantirne salute e qualità della vita, ma i capi pensati e prodotti da Hamish e Hanna sono caldi e utilissimi in inverno. Con un occhio all’ambiente, allo stile e alla performance. www.monsroyale.com
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V ETRI N A — 1/2
PATAGON IA R1 F ULL-Z IP H OODY — Pile con cappuccio integrale, molto versatile per un utilizzo annuale, dalle rocce alle vette. È fatto con il 93% di poliestere riciclato Polartec Power Grid con Polygiene per il controllo permanente degli odori e 7% di elastan. Costa 160 € eu.patagonia.com
PATAG O N I A S T R E TCH RAIN SH A D OW JACK E T — 100% impermeabile e 100% realizzata con tessuto esterno in nylon Eonyl riciclato al 100% anche a partire da reti da pesca usate. Ideale per le piogge primaverili, è a due strati e costa 200 € eu.patagonia.com
16 IDEE GREEN
VAUDE GREEN C O RE F LEEC E JAC KET — Giacca con apertura frontale a zip realizzata con l’utilizzo di un fleece prodotto con fibra Tencel a base di cellulosa di legno e biodegradabile: evita l’inquinamento da microfibre. Costa 215 € www.panoramadiffusion.it
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L A SPO RT I VA M ERID IA N P R I MA LOF T JAC K ET — Per la prossima stagione, piumino sintetico packable e facile da portare sempre con sé nello zaino, un must have per lo scialpinista. Imbottitura PrimaLoft Silver 100% Eco e altre parti in poliestere riciclato dal 94% al 100% www.lasportiva.com
H OU DI N I POWER AIR — Una giacca versatile ed elastica, realizzata con l’innovativo tessuto Polartec Power Air pensato per contrastare il rilascio di fibre tessili inquinanti (cinque volte meno rispetto ad altri tessuti). La costruzione tessile forma singole tasche che incapsulano l’aria, catturando il calore corporeo. Costa 200 € www.houdinisportswear.com
P I CT U R E HA RV E S T JACK E T — Per la prossima stagione invernale una giacca con membrana realizzata parzialmente in Pebax Renew, ricavato dall’olio di ricino. Impermeabile e traspirante 20k, utilizza il 50% di poliestere riciclato picture-organic-clothing.com
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI DI PRODOT TI SOSTENIBILI
MAMMUT TEU F ELSBERG C REW N EC K — Midalyer di cotone organico certificato GOTS e garantito PFC free. 169 € eu.mammut.com
SALO MON S / LA B — La gamma apparel S/Lab di Salomon per il trail running utilizza la tecnologia di origine naturale 37.5 che aiuta a mantenere il corpo alla temperatura ideale con particelle ottenute a partire dal carbone vegetale dei gusci delle noci di cocco e da sabbia vulcanica. La maglia S/Lab Sense Tee costa 90 € www.salomon.com
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V ETRI N A — 2/2
V I B R A M W R AP &G O — Una scarpa proposta come capsule collection presentata al recente Pitti Uomo: grazie all’utilizzo di una suola Litebase 3d, che si avvolge attorno alla calzatura, sono stati eliminati gli scarti di produzione. Disponibile nei Vibram store a 99 € eu.vibram.com
SC ARPA T1 — Lo scarpone da telemark realizzato con materiale plastico Pebax Rnew, con elastomeri termoplastici (TPE) di alto livello a base organica, prodotti a partire dall’olio di ricino e più leggeri di circa il 20% rispetto a materiali simili. 499 € www.scarpa.net
U P TI T UDE — Occhiali da sole con lenti Carl Zeiss realizzati con montature che utilizzano i materiali di scarto di vecchi snowboard. 139 € www.getuptitude.com
PICTURE UN ITY — Casco da sci certificato UNI EN ISO 1077 realizzato con poliestere riciclato a partire dai cruscotti delle auto giapponesi. Costa 99,90 € picture-organic-clothing.com
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E ARLY B IR DS NUTCRACK E R — Il brand creato dal freerider Hanno Schwab utilizza solo legno certificato FSC, solette realizzate con materiali riciclati, eporesine con base bio, topsheet in legno impiallacciato e loghi marchiati a fuoco. Pesa 1.440 gr, è largo 98 mm e costa 1.395 CHF www.earlybirdskis.ch
Y UN IK A B IO O R N OTH IN G — Prodotta in Canada è una tavola pensata per durare e non inquinare: antivibrante con legno impiallacciato e utilizzo di fibre al 100% naturali e biodegradabili e di fibre di carbonio riciclato, vernice ad acqua, sidewall in bambù. 649 € www.yunikaboards.com
SK INALP O FFICE BAG — Una borsa porta computer in parte ricavata a partire dagli scarti di lavorazione delle pelli Pomoca. 150 € www.skinalp.com
VAUD E H AZ EL — Uno zaino particolarmente elegante o un assistente ben organizzato ed ecocompatibile per muoversi in città? Hazel è entrambe le cose ed è realizzato in un mix in filato di canapa molto resistente, abbinato a cotone biologico. Costa 125 € www.panoramadiffusion.it
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PAROLA D’ORDINE: INCLUSIONE GLI AT TACCHINI DELLA DYNAFIT SON O ASSEMBLATI DA PERSONE DISABILI
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Forse non lo sai, ma i tuoi attacchi da scialpinismo probabilmente sono stati assemblati da lavoratori disabili. Infatti nel 2018 quelli marchiati Dynafit sono stati realizzati, insieme ai pezzi di ricambio, in uno stabilimento a poca distanza dalla sede di Monaco dell’azienda che impiega solo persone con disabilità fisiche. L’intervento riguarda l’ultima fase e, come tutta la produzione Dynafit, anche gli attacchi vengono sottoposti a severi test di controllo per garantire la massima sicurezza. Però alla casa del leopardo delle nevi possono dire con orgoglio che i loro attacchini sono al cento per cento figli dell’inclusione sociale e lavorativa. «Siamo felici di produrre i nostri attacchi con l’aiuto delle persone disabili - ha dichiarato Benedikt Böhm, general manager di Dynafit - Anche se questo approccio richiede tempo e uno sforzo maggiore, è di grande motivazione per tutti noi vedere come le persone portatrici di handicap siano diventate una parte fondamentale della famiglia Dynafit». Sono ben 170 i lavoratori impiegati nell’ambito di accordi con organizzazioni differenti, dalla Caritas, con la quale Dynafit collabora dal 1999, e Herzogsägemühle Werkstatt Peiting e Barmherzige Brüder Algasing. Con queste due ultime realtà è stato concluso un accordo nel 2016 e nel 2017 per riuscire a seguire l’assemblaggio di tutti gli attacchi. L’obiettivo finale è quello di consentire alle persone con disabilità di entrare nel mondo del lavoro fornendo loro strutture che soddisfino le esigenze specifiche dei lavoratori coinvolti in modo da ottenere l’indipendenza, il coinvolgimento e il riconoscimento che meritano. Ecco, quando scegliete un attacchino Dynafit, dentro non c’è solo tecnologia e sicurezza…
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T LT 8
H OJI FREE
Solo 1.020 grammi, la fibbia superiore ha due funzioni: leva per il meccanismo ski-walk e sistema di apertura per il gambetto. Adotta il celebre speed nose, la punta ridotta, ed è utilizzabile in abbinata con il leggerissimo rampone Cramp-In di Salewa, da 260 gr. La rotazione del gambetto di 60 gradi (15 o 18 in discesa) consente una camminata naturale e ha una larghezza pianta di 103 mm, lo scafo è in Grilamid rinforzato con fibre di vetro.
Dopo Hoji Pro Tour arriva Hoji Free che, grazie alla specifica costruzione della punta e al tallone modificato, è compatibile anche con gli attacchi da sci alpino e freeride. Scafo in Grilamid con fibre di vetro e flex progressivo di 130, pianta 102 mm, rotazione gambetto di 55 gradi e di 11 o 15 in discesa, pesa 1.550 gr. Nuova scarpetta firmata Sidas, l’azienda specializzata in plantari e bootfitting e suola grippante by Pomoca.
5 NOVITÀ DYNAFIT PER IL 2020 LE PROPOSTE PER IL PROSSIMO INVERNO DEDICATE ALLE DIVERSE FAMIGLIE
LOW TECH RACE 105 105 sta per grammi, vale a dire il peso di questo leggerissimo attacco agonistico a pin che fa scendere ancora di cinque gradi la lancetta della bilancia rispetto al predecessore. Per ridurre ulteriormente il peso, la composizione dei materiali è stata modificata e anche la leva di bloccaggio dell’attacco è realizzata in leggero alluminio forgiato 7075. Rispetta il regolamento ISMF.
PRODOT TO, PER ANDARE INCONTRO ALLE ESIGENZE DI OGNI TIPO DI SKIALPER www.dynafit.com
SPEED 3L REFLECTIVE
SPEEDFIT PRO 81 Con una larghezza al centro di 81 mm, è stato creato appositamente per lo skialp su pista, ma è adatto anche ad ascese veloci in fuoripista. Pesa 1.150 grammi e ha il nucleo in Pioppo e Paulownia per unire resistenza e leggerezza. Carbonio direzionale in punta per alleggerire la struttura e irrigidirla, costruzione e sidecut sono diversi e riadattati a seconda delle diverse misure di sci, rocker in punta e coda per facilitare le curve. Perfetto abbinato con lo scarpone TLT Speedfit pro.
La stampa riflettente all-over abbinata a funzionalità e affidabilità di una giacca hard shell triplo strato rendono la Speed 3L Reflect il capo ideale per lo scialpinismo con condizioni meteo avverse o dopo il tramonto. Pesa appena 316 grammi in versione maschile e 268 grammi in quella femminile, elastica e comprimibile, è realizzata con la membrana Dynashell 3L. Cappuccio per casco, due tasconi frontali con zip, cuciture incollate. Da abbinare ai pant Speed Jeans Dynastretch Hose.
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ALP TRACKS 94 LEGGERO E VERSATILE, PAROLA DI DENIS ABBIAMO MESSO AI PIEDI DI TRENTO LO SCI CENTRALE DELLA LINEA TOP DI MOVEMENT PER LO SCIALPINISMO, UNA PROPOSTA EFFICACE IN TANTE SITUAZIONI CON RISPOSTE SPECIALI IN NEVE PROFONDA Foto di Stefano Jeantet
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Quale miglior parco giochi del terreno d’alta quota del Monte Bianco per provare Alp Tracks 94, il gioiello del più puro stile Movement? E quale miglior testatore di Denis Trento, che utilizza spesso il modello centrale di questa particolare gamma della casa della mela, ma conosce bene anche i fratelli 85, 89 e 100? Detto fatto. Non ci abbiamo pensato su troppo, e a fine febbraio siamo saliti a Punta Helbronner per mettere alla prova questo modello che inseriamo nella categoria ski touring per geometrie e peso, ma che si propone come soluzione sofisticata per sciatori free con tendenza performance atletica. Insomma uno ski touring coi fiocchi, per esigenti, ma adattabile ad una cerchia più ampia di utilizzatori. Perché quello che emerge dal test, sia quello della nostra Buyer’s Guide che quello con Denis, è che si tratta comunque di un attrezzo affidabile e soprattutto versatile per utilizzatori evoluti. Non per tutti, ma per tutti quelli che sciano bene. Forse sarebbe sottoutilizzato impiegandolo solo nelle uscite ordinarie, perché l’estrema leggerezza della tecnologia e la larghezza al centro sono perfette per escursioni lunghe e con forte dislivello su ogni terreno. Ma la costruzione permette anche un’altissima trasmissione della forza in ottica freeride. Ne risulta un attrezzo che, per buoni sciatori, può essere anche lo sci unico. Per la montagna aperta, per il ripido alpinistico, e anche per l’approccio freetouring. Cuore segreto Il processo costruttivo è il cuore delle doti di Alp Tracks 94 e della sua versatilità. La linea Alp Tracks integra lo stato dell’arte di ricerca e sviluppo Movement sui compositi sottili. L’assemblaggio ad altissima pressione, con l’utilizzo di meno collante possibile, unisce gli strati in composito con la parte in legno di Carrubo ultraleggero rendendoli di fatto un solo elemento. Sottile, deformabile, meccanicamente forte, e reattivo. Si tratta di una costruzione in buona parte top secret, nella quale la manualità riveste il ruolo principe. Sulla neve con Denis Nei test della nostra Buyer’s Guide avevamo rilevato che Alp Track 94 è sensibile e rapido, non subisce la velocità, richiede il polso e la tecnica di uno sciatore sicuro. Ci aveva inoltre sorpreso sul duro in rapporto a dimensioni ed estrema leggerezza, conseguenza di un assetto ben aderente al fondo e preciso sullo spigolo, esente dalle reazioni nervose tipiche del composito. Denis ha confermato le nostre sensazioni. «Io lo uso anche per dislivelli importanti, sopra i 1.500 metri, perché è davvero leggero. Ma la leggerezza non deve trarre in inganno: risponde bene anche in velocità e in condizioni impegnative come le superfici segnate o rigelate» dice Denis. «Va abbastanza bene anche sul duro, in rapporto a struttura e geometrie, ma risponde al meglio nella neve polverosa, fino a 30-40 centimetri di fresca». Quali le differenze dunque con gli Alp Tracks più stretti e più larghi? «Fondamentalmente la maggior portanza che lo fa galleggiare bene sulla neve soffice. Per questo ha un utilizzo più versatile, oltre i 40 centimetri soffici è chiaro che Alp Tracks 100 è più indicato». In conclusione? «Mi piace perché è uno sci di carattere ma da montare leggero, poi puoi decidere di usare scarponi più duri con neve più dura visto che lo sci risponde bene, mentre con la polvere puoi fare scelte più soft». Davvero versatile: dimensioni, leggerezza e forza in un solo Alp Tracks.
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Denis Trento Ex atleta di altissimo livello del CS Esercito nello scialpinismo, con medaglie mondiali, un podio alla Pierra Menta e una vittoria al Mezzalama, allenatore della nazionale di skialp, Guida alpina, è anche uno dei migliori interpreti dell’alpinismo in stile fast & light. Tra le sue ultime imprese la salita della Cresta dell’Innominata insieme a Robert Antonioli in sei ore e dieci minuti la scorsa estate.
Denis e gli altri Denis Trento è solo uno dei tanti sciatori di montagna che utilizza Movement, tra gli altri, oltre ad atleti e freerider, anche Hervè Barmasse e Caroline Gleich.
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Alp Tracks 94 Lunghezze: 169, 177, 183 cm Sciancratura: 130/94/119 mm (177 cm) Peso: 1.120 gr (+/- 30 gr, misura 177 cm) Raggio: 19 m (177 cm) www.movementskis.com Prezzo: 949 € Un doppio inserto in fibra di vetro e titanio sotto l’attacco garantisce la solidità dell’ancoraggio delle viti di fissaggio
Uno strato gommoso con fibra di vetro assorbe le vibrazioni in punta L’inserto ASA funziona da shock absorber sotto il piede
Anima con legno ultraleggero di Carrubo certificato FCS e PEFC
La famiglia Alp Tracks La gamma Movement Alp Tracks prevede sei diversi sci, con larghezza al centro 85, 89, 94, 100 e 106 cm, oltre alla versione 85 da donna. I pesi vanno dagli 850 grammi della versione donna ai 1.400 del 106 più largo e sono straordinariamente contenuti in rapporto a struttura e portanza.
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IL COMPLETO UNDERWEAR DEL MARCHIO SVIZZERO PER IL PROSSIMO INVERNO ADOT TA INTELLIGENTI BREVET TI PER UNA GESTIONE DELLA TEMPERATURA UNICA ED ESTREMAMENTE EFFICACE. RAFFREDDA QUANDO SI SUDA , RISCALDA QUANDO SI HA FREDDO.
X-BIONIC ENERGIZER 4.0 IL GIUSTO MICROCLIMA PER LO SKIALP www.x-bionic.com
Retina è un intelligente sistema di lavorazione con trame più dettagliate per un esatto posizionamento delle fibre sul corpo dell’atleta e maggior compattezza. Il risultato? Capi capaci di migliorare la termoregolazione, con conseguente incremento delle performance sportive. La costruzione Thermosyphon prevede tessuto con una struttura a spirale sul petto, sulla schiena e nelle zone di maggior sudorazione del corpo, costituita da canali orizzontali e verticali, che agevolano l’uscita del sudore. Così si riduce la sensazione di surriscaldamento tipica dell’attività sportiva e diminuise il rischio di raffreddamento durante le fasi di riposo o recupero.
Il sistema brevettato Expansion Ribs tutela gomiti e ginocchia con una costruzione più spessa del tessuto, una sorta di cuscinetto a ulteriore protezione dal freddo. Nella parte concava delle articolazioni, dove la sudorazione è maggiore, la trama è invece più leggera ed elastica.
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Aircomplex-Zone è un altro dei brevetti di questo completo e prevede una costruzione più spessa del tessuto, a protezione dei recettori che influenzano la percezione di benessere, nell’area del plesso solare appena sotto il diaframma, all’altezza della dodicesima vertebra. Il risultato? Una sensazione di maggiore benessere dell’atleta a tutto vantaggio delle performance.
Tecnologia brevettata ShoulderPads sulle spalle caratterizzata da un materiale extrasottile, rinforzato con una costruzione a nido d’ape, che permette alle spalle di rimanere asciutte.
il fit Ergoband prevede maggior vestibilità e una quantità di tessuto maggiore nella parte posteriore dei capi, quella che poggia sul busto, e sul fondo manica delle maglie, in concomitanza con il dorso della mano. Questa costruzione permette di evitare che l’abbigliamento tecnico si muova durante la pratica dell’attività fisica.
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GORE-TEX ECO-FRIENDLY 5 CAPI IMPERMEABILI, ANTIVENTO E AMICI DELL’AMBIENTE
W. L. Gore & Associates, l’azienda che produce le membrane Gore-Tex, è tra le più attente all’impatto ambientale dei propri prodotti. Alla base c’è la valutazione del ciclo di vita dei prodotti come principale metodologia scientifica per comprendere le aree in cui è possibile ridurre con maggiore efficacia l’impatto. E proprio questo ha permesso di capire che il miglioramento della durata del prodotto è il modo migliore per minimizzare l’impatto sull’ambiente che è determinato per il 65% da produzione e distribuzione, per il 34% dall’utilizzo e per l’1% dal fine vita e smaltimento. La seconda decisione è stata quella di utilizzare in maniera responsabile i materiali, con sempre più tintura in massa, pratica che garantisce qualità superiore, minore impronta ambientale e maggiore uso di materiali riciclati. Gli stabilimenti sono tutti certificati bluesign, il 70% dei laminati è già certificato bluesign e entro il 2020 l’obiettivo è di arrivare all’85%. Gore applica anche lo standard OEKO-TEX 100, a garanzia contro le sostane nocive. Ma la decisione più importante riguarda l’utilizzo dei fluorurati nei trattamenti DWR (durable water repellent): dallo scorso autunno viene impiegato un trattamento senza PFC di Rilevanza Ambientale (PFCec) per i prodotti generici per l’outdoor; dal 2020 l’85% dei laminati destinati ai capi d’abbigliamento verrà realizzato con DWR senza PFC di Rilevanza Ambientale e con membrana; entro la fine del 2023 il 100% dei laminati destinati ai capi d’abbigliamento sarà con DWR senza PFC di Rilevanza Ambientale e con membrana. Il trattamento idrorepellente nel tempo PFCec free Gore-Tex è approvato dai sistemi bluesign e soddisfa i criteri stabiliti da OEKO-TEX Standard Class II. Sulla base delle analisi condotte offre la più elevata performance complessiva tra le 26 composizioni chimiche DWR PFCec free testate. Test d’uso su vasta scala con utilizzatori outdoor (hiking, camminata all’aperto, abbigliamento casual, lavoro all’aperto e spostamenti urbani - 116 partecipanti con una media di 241 ore di utilizzo, di cui circa 50 sotto la pioggia) si sono chiusi con il 90% dei testatori soddisfatti dell’impermeabilità.
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Maloja Giacca antipioggia multisport da uomo RövenM (300 €) e da donna VidosM (330 €). Realizzata con Gore-Tex Paclite PFCec, tecnologia di prodotto molto traspirante, impermeabile e facilmente comprimibile.
Montura Giacca per attivitĂ outdoor dinamiche, alpinismo e arrampicata Legend (349 â&#x201A;Ź). Realizzata con poliestere DWR Gore-Tex con PFCec Free 3 strati e costruzione Twill, morbido al tatto. Membrana impermeabile e traspirate 28K/<9 RET.
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Millet Giacca da donna per trekking e alpinismo LD Grays Peak (269,95 â&#x201A;Ź). Realizzata con Gore-Tex Paclite 2.5 strati facilmente comprimibile, impermeabile e traspirante 28K/<9 RET. Ă&#x2C6; stata studiata secondo i principi del Low Impact Design Millet, con il 40% di materiali a basso impatto ambientale o lâ&#x20AC;&#x2122;80% certificati bluesign.
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Berghaus Giacca year-round per attività sportive dinamiche Paclite 2.0 (180 €). Realizzata con Gore-Tex Paclite PFCec free, è traspirante, impermeabile e facilmente comprimibile.
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Per tanti, molti, ormai il bastone è un attrezzo indispensabile. Che si vada a camminare o correre. E la scelta di quello giusto per certi versi facile, per altri più difficile. La varietà dell’offerta è talmente ampia da accontentare tutti, ma anche da richiedere una scelta ben oculata per trovare quello adatto alle proprie esigenze. Poi ci sono modelli quasi perfetti per stare nel mezzo, per essere degli allround. Uno di questi è Masters Speedster Calu. È leggero ma non troppo, pratico e corto quando chiuso, ma resistente e stabile. Perfetto sicuramente per camminare, nella versione più o meno veloce, questa è sicuramente la sua vocazione. Ma non sfigura neppure in qualche trail per utilizzatori non top e potrebbe fare pure qual-
che escursione con gli sci, con la rotella da neve. L’azienda veneta lo inserisce nella sezione Fitness del suo catalogo e noi l’abbiamo messo alla prova in una sessione di speed hiking. «È leggero, l’impugnatura è bella comoda, fornisce un valido sostegno sia in fase di spinta che nella discesa e quando è richiuso, anche se non è del tipo a sonda, occupa poco spazio» dice Filippo Bianchi, trail runner che per allenarsi non disdegna qualche uscita veloce in autonomia con il suo cane nella selvaggia Valle del Caffaro. Difetti? Non ne ha, nel corso dei test ai quali lo abbiamo sottoposto per la nostra Outdoor Guide, è risultato che il comodo lacciolo imbottito alcuni lo avrebbero preferito un po’ più largo. De gustibus.
IL LEGGERO BASTONE DELLA CASA VENETA È PERFET TO PER TREKKING E SPEED HIKING E CORTO NONOSTANTE IL SISTEMA DI REGOLAZIONE TELESCOPICO
SPEEDSTER CALU MASTER(S) IN VERSATILITÀ
Realizzato in Calu, anima di alluminio rivestita in fibra di carbonio Pesa 220 gr, chiuso misura 52 cm, aperto è regolabile fino a 130 cm Quattro sezioni 18-16-14-12 mm, sistema di chiusura Clamper per la sezione da 18 mm, BS con plastiche DuPont per quelle da 16-14 mm: garantisce prestazioni nel tempo ad alte e basse temperature Prezzo: 119,95 € - www.masters.it
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THE LEGEND DA MERALDI A COLLÈ I CAPI PER SKYRUNNING E TRAIL RUNNING DI CRAZY SONO STATI STUDIATI DAL GRANDE CAMPIONE VALTELLINESE E ADOT TATI SUBITO DAL VALDOSTANO DUE VOLTE VINCITORE DEL TOR www.crazyidea.it
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È il 4 luglio 1993, ad Alagna si sta riscrivendo la storia della corsa in montagna: nasce lo skyrunning. Sono passati più di 25 anni da quando la prima skyrace si è corsa sulle pendici del Monte Rosa, un progetto ambizioso che ha rivoluzionato il modo di correre in montagna e ha dato inizio a un movimento globale. La sfida è correre da Alagna fino alla vetta del Monte Rosa, raggiungendo la Capanna Regina Margherita; gli atleti, i primi corridori del cielo, toccano quota di 4.554 metri coprendo 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello in salita e discesa tutti d’un fiato. Fabio Meraldi in 4 ore e 24 minuti vince la gara e segna il record che è resistito fino all’anno scorso, battuto solo da Marco De Gasperi, un record che è stato solo l’inizio della sua leggenda. Partendo da questa data è iniziata la storica cavalcata di Fabio, vera icona dello skyrunning e dello scialpinismo. Fabio vanta vittorie e record come pochi altri, alla Everest Sky Marathon, al Trofeo Kima e alla Dolomites Sky Race. Record allo Shisha Pangma, Monte Kenya, o quello mitico da Courmayeur al Monte Bianco e ritorno, imbattuto per oltre 20 anni. Nel 1995 Valeria Colturi, titolare di Crazy, allora piccola azienda artigiana di Bormio, si appassiona a questo sport. Dopo aver
T-Shirt Sky Run The Legend – 130 € È stata studiata con l’obiettivo di creare un capo che permettesse di non utilizzare lo zaino e gestire in completa autonomia lunghi chilometraggi. Caratteristiche: ––Tessuto luminescente ––Stampa rifrangente ––Orlo incollato ––Zip invisibile incollata ––Silicon grip ferma zaino ––Fischietto tascabile ––Laserature traspiranti ––Fondo incollato con serpentina in silicone ––Tasche porta flask in tessuto traforato ––Scritta laser traforata traspirante ––5 tasche a rete portaoggetti
Shorts Sky K-Run The Legend – 120 €
dato una svolta al modo di vestirsi per le competizioni di scialpinismo, inventando la famosa tutina, crede in questo nuovo modo di affrontare la montagna e crea i primi capi di abbigliamento dedicati. Oggi l’evoluzione di quella prima collezione si chiama The Legend, una linea studiata a quattro mani con Fabio Meraldi, la collezione perfetta per lo sky e il trail. L’obiettivo del progetto The Legend è quello di sensibilizzare sulla sicurezza e puntare al comfort. La collezione si rifà all’originale, uno
Il tessuto esterno è leggerissimo, tasche multiuso, lo short interno contenitivo e lo slip sostenitivo. Caratteristiche: ––Doppia tasca in rete, con zip e gancetto portachiavi ––Slip interno con sistema Suspension Plus sostegno extra, massima ventilazione per prevenire la formazione di varicocele ––Doppia tasca in gel ––Pantaloncino esterno incollato ––Pantaloncino interno contenitivo con tessuto Magic Print ––Fori laserati ––Cover impermeabile estraibile per lo smartphone ––Elastici porta bastoncini ––Tessuto superelastico water repellent traforato
studio che già era stato fatto fin nei dettagli a metà degli anni ’90. Fin da allora Crazy sapeva bene quali fossero le esigenze degli skyrunner, esigenze che nel tempo non sono cambiate, gli aggiornamenti sono il frutto di evoluzioni tecnologiche dei tessuti. Un altro grande della corsa tra i monti oggi utilizza i capi The Legend, Franco Collé, vincitore due volte del Tor des Géants. «Credo sia fondamentale in gare come il Tor, o comunque sulle lunghe distanze, la qualità dell’abbigliamento. Spesso si sottovaluta questa componente che invece risulta essere fondamentale, tanto quanto una scarpa o uno zainetto ben studiato», esordisce Franco. T-shirt e pant The Legend sono stati utilissimi anche durante il Tor. «I tessuti utilizzati sono molto piacevoli al tatto, leggerissimi e senza fastidiose cuciture, la vestibilità dei pantaloncini è davvero perfetta e la t-shirt ha due praticissime tasche porta flask e altri cinque vani molto utili» aggiunge il valdostano che ricorda, a riprova della validità dei pantaloncini, che durante l’ultimo Tor non li ha mai sostituiti.
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LA PROPOSTA PER TRAIL E ULTRA TRAIL DI NEW BALANCE PUNTA SU DUE MODELLI CHE COPRONO LE DIVERSE ESIGENZE DI CHI CORRE IN NATURA . CON IL COMFORT SEMPRE AL PRIMO POSTO
KOM E HIERRO PER ARRIVARE IN FONDO
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Dici New Balance e dici soprattutto no problem. Le scarpe per correre offroad della casa americana sono da sempre sinonimo di buona ammortizzazione e comodità, soprattutto per le lunghe distanze. Chi non ricorda la Leadville, compagna fidata di generazioni di ultra-trailer? Passano gli anni e l’offerta diventa più ampia e si segmenta, e oggi la gamma da trail di New Balance si articola soprattutto su due prodotti: Fresh Foam Hierro v4 e Summit KOM. Due scarpe per certi versi simili, per altri diverse. Le abbiamo messe alla prova nei piedi di Giulio Piana, atleta che corre con le scarpe NB e conosce molto bene le Hierro, mentre sta iniziando a usare le KOM. Giulio è un testatore perfetto per queste scarpe perché, oltre a essere atleta top (i risultati che riportiamo nel box di queste pagine parlano chiaro) è anche un utilizzatore alto e più pesante della media dei top. Non corre certo come un trail runner pesante della pancia del gruppo, però può fornire qualche indicazione in più per utilizzatori comuni mortali.
G IUL IO P I A NA Classe 1981, modenese, Giulio Piana ha 822 punti ITRA. Nel 2018 un secondo posto al Tartufo Trail e al Cima Tauffi Trail. In palmarès le vittorie al Quadrifoglio, Amorotto, Cima Tauffi, un secondo posto alla Maremontana e alla UTLO e un diciottesimo alla CCC.
Fresh Foam Hierro v4
Summit KOM
La Fresh Foam Hierro v4 è una scarpa pensata per trail su distanze lunghe, in gara e allenamento, con l’obiettivo del cushioning. Per certi versi un’alternativa alle massimaliste. Questa versione 4, in vendita da qualche settimana, è un’evoluzione della 3, uscita l’anno scorso, che non viene snaturata, ma solo migliorata in due dettagli. Per intenderci: non è un salto come dalla 2 alla 3, che sono scarpe abbastanza diverse nell’aspetto. Gli interventi riguardano tomaia e tallone. La prima è realizzata ora in Stretch Film, un materiale termosaldato simile a quello utilizzato l’anno scorso, ma con aperture di dimensioni differenti. In pratica sulla 3 c’erano delle piccole squame, ora fori di dimensioni diverse per assicurare traspirazione dove serve e più fasciatura del piede e resistenza in altri. Il tallone invece adotta una nuova struttura di sostegno per avvolgerlo meglio. Per il resto è la scarpa del 2018, con tanta ammortizzazione (profilo 28-20 mm) e 8 mm di drop. Per fare tanti chilometri su terreni poco o mediamente tecnici. «Confermo, l’anno scorso ho corso sempre con Hierro, in allenamento e in gara, perché voglio arrivare sempre in fondo e in buone condizioni, per me questa è la priorità: avere una scarpa con la quale poter correre ai ritmi richiesti da un trail e da un ultra trail, ma che sia comunque protettiva e mi supporti bene» dice Giulio. Una macina chilometri per arrivare fino in fondo. «Il grip è sempre valido e anche a fine gara hai quel comfort che può fare la differenza, il disegno della suola non è pensato per terreni eccessivamente fangosi, ma la superficie ampia e il disegno danno comunque un aiuto» aggiunge Giulio. Le indicazioni di utilizzo vedono Hierro più sbilanciata sulle lunghe distanze (anche cento miglia) e valida proposta per utilizzatori di medio livello e runner anche pesanti, volendo pure in chiave speed hiking, ma Giulio Piana dimostra la versatilità del prodotto, valido anche per atleti di livello su gare da ritmo medio o per distanze più corte. La suola utilizza Vibram Megagrip, garanzia di trazione e aderenza.
Con un nome così (KOM è l’acronimo di King Of the Mountain) corri incontrastato ovunque. Ed è proprio la versatilità quello che piace di questa scarpa, pensata per distanze medio-lunghe ma che può trovare pane per i suoi denti anche su qualche trail più corto. Versatilità che, grazie a suola con mescola Vibram Megagrip e struttura della tomaia avvolgente, permette di spingersi più sul tecnico rispetto a Hierro. Il rockstop inoltre protegge sempre bene dalle asperità del terreno. «Sto iniziando a usarla in allenamento, è un po’ meno soft come impostazione, la vedrei per allenamenti e distanze medie o lunghe ma più corte della Hierro, però il cushioning rimane un aspetto importante» dice Giulio. L’anno scorso era stata una delle sorprese della nostra Outdoor Guide e conferma quanto di buono emerso. Per chi e cosa? Distanze fino a un massimo di 70-80 chilometri, allenamenti intensivi, utilizzatori di medio-alto livello su ritmi medi e veloci. E anche in questo caso chi pesa un po’ di più è accontentato. L’impostazione è sicuramente meno voltata al comfort e apparentemente più rigida di Hierro, con un rebound energico e probabilmente durevole nel tempo dato dalla tecnologia RevLite usata per l’intersuola, ma l’ammortizzazione non manca. Come per le auto, c’è chi preferisce una molleggiata francese e chi una rigida tedesca e New Balance accontenta tutti, facendoli arrivare sani al traguardo.
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N E W BAL ANCE S UM M I T KOM
Peso: 310 gr Drop: 8 mm Suola: Vibram Megagrip Prezzo: 125 â&#x201A;¬
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N EW BAL AN C E FRESH FOAM HI E R RO V 4
Peso: 324 gr Drop: 8 mm Suola: Vibram Megagrip Prezzo: 140 â&#x201A;¬
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GORE WEAR A PROVA DI SPORT
I CAPI PER RUNNING E FAST HIKING DEL MARCHIO CHE PRODUCE ANCHE LE MEMBRANE IMPERMEABILI E TRASPIRANTI SONO UN CONCENTRATO DI FUN ZIONALITÀ E DET TAGLI PER SPORTIVI ESIGENTI
Il marchio Gore, nell’immaginario collettivo, è associato alla membrana e alle tecnologie Gore-Tex, però Gore è anche una marca di abbigliamento, che si può richiedere nei negozi sportivi più specializzati. Gore Wear è un po’ il laboratorio di tutta una filosofia e realizza prodotti altamente funzionali a partire dalle membrane e tecnologie Gore-Tex. Abbigliamento per ciclismo, mountain bike, corsa, trail running, fast hiking, sci di fondo pensato per un utilizzo sportivo specifico e intenso, che integra il know-how Gore con design e dettagli mai presenti per caso. Abbiamo provato un completo da running e trail running e uno indicato per fast hiking cercando di concentrarci proprio sulla funzionalità e di andare a cercare tanti piccoli particolari che sono quelli che, a parità di materiali utilizzati, possono fare la differenza. Vista la specificità del marchio e della proposta abbiamo scelto due testatori particolari. Le proposte da uomo le ha indossate Filippo Bianchi, trail runner e sky runner di punta (vanta anche una convocazione ai Mondiali di corsa in montagna) che è escursionista appassionato, naturalmente nella modalità fast… Indubbiamente un consumatore molto esigente. Il completo da fast hiking da donna lo abbiamo fatto indossare invece a Erika Giordana, che con Danilo Noro gestisce il negozio XL Mountain, nostro partner per i test della Buyer’s Guide. Chi meglio di una negoziante esperta, che maneggia tutti i giorni capi sportivi e di una praticante outdoor assidua come lei per giudicare la proposta Gore Wear?
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Foto di Alice Russolo
www.gorewear.com
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Running, R7 2in1 shirt e shorts La proposta per correre prevede un completo con pant corti 2in1 e una maglia a maniche corte. «Premetto che non sono un amante dei pantaloncini doppi, personalmente preferisco quelli unici, ma con questi mi sono trovato bene, perché la parte stretch a contatto con la coscia non è stretta e soprattutto il materiale è molto leggero e piacevole al tatto, quella sopra è invece bella larga» esordisce Filippo. Tanti i dettagli, dalla comoda tasca con zip sul retro, a quelle laterali per i gel. La regolazione in vita avviene tramite coulisse piatta. «Ci sono anche tanti loghi riflettenti, sempre utili per essere visti quando scende il buio e la ventilazione, anche grazie agli inserti in rete e alle caratteristiche del tessuto, è buona» aggiunge Filippo. Più indicata per allenamenti e camminate veloci la maglia, di un piacevole e leggero tessuto, pensata per assecondare la vestibilità e con inserti in silicone sulle spalle per lo zaino. Si asciuga velocemente, non aumenta di peso se bagnata e punta sulla regolazione del microclima grazie alle tecnologie del tessuto e non su inserti in rete o costruzioni differenziate. «È sempre piacevole al tatto grazie alla cuciture piatte Ultrasonic» conclude Filippo.
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Fast hiking, Giacca con cappuccio GORE® H5 GORE-TEX Active e Pantaloni GORE® H5 GORE® WINDSTOPPER® Hybrid A vederli, pantaloni e giacca, sembrano più pesanti di quanto realmente siano. Li abbiamo provati in una giornata primaverile ventosa, ma non particolarmente fredda. E il primo commento, sia di Filippo che di Erika, è che non sono caldi. Intendiamoci, garantiscono il giusto microclima, anche se c’è fresco, ma non fanno sudare. La giacca con cappuccio è impermeabile all’acqua, antivento e altamente traspirante. «A conti fatti potrebbe anche essere utilizzata come strato per chi corre, è davvero light e poco ingombrante» dice Filippo. «È un capo piacevole da indossare con la consistenza di un k-way e lascia una bella libertà di movimento, anche quando si forza il ritmo» gli fa eco Erica. Questo guscio è particolarmente ricco di dettagli: «la coulisse regolabile in vita assicura la giusta vestibilità ed evita la dispersione del calore, il polso con velcro è pratico e meglio di quelli elastici che alla lunga cedono» dice Erika. «È ben compatibile con lo zaino e non ha cuciture sulle spalle» aggiunge Filippo. A un primo sguardo i pantaloni incuriosiscono. Sono forse il capo dove i dettagli fanno ancora di più la differenza. Abbinano il tessuto GORE® WINDSTOPPER® a inserti in GORE-TEX per fare scivolare via il gocciolamento dalla giacca, ma soprattutto tessuto stretch per assecondare i movimenti e la vestibilità dove serve, che li rende anche piacevolmente morbidi. «La regolazione in vita con cintura a velcro è molto comoda» nota subito Filippo, mentre Erika apprezza il fit e la fascia grip interna al giro vita. Non mancano anche in questo caso i dettagli riflettenti, nulla è lasciato al caso.
Pantaloni GORE® H5 GORE® WINDSTOPPER® Hybrid ––Prodotto GORE® WINDSTOPPER® morbido e versatile: antivento, idrorepellente e altamente traspirante ––Inserti GORE-TEX sulle cosce dove la pioggia scende dalla giacca ––Tasche laterali con zip ––Cintura con ganci e regolazione in velcro ––Cuciture termonastrate per una migliore protezione dalla pioggia ––Costruzione con cuciture aperte sul ginocchio per una maggiore libertà di movimento ––Apertura zip sul fondo gamba con soffietto in tessuto ––Materiale interno gamba resistente all’abrasione ––Prezzo: 279,95 €
Giacca con cappuccio GORE® H5 GORE-TEX Active ––Prodotto GORE-TEX Active: superleggera, estremamente traspirante, impermeabile all’acqua e al vento ––Polso antipioggia e coulisse in vita per bloccare il calore corporeo e impedire l’effetto windchill ––Spalla senza cuciture per l’uso con lo zaino ––Logo e stampa riflettente ––Elastico parziale sui polsini con regolazione in Velcro ––Cappuccio integrato con orlo frontale rinforzato ––Coulisse davanti e sul retro del cappuccio per regolare larghezza e taglia ––Compatibile con lo zaino: tasche e cuciture si adattano perfettamente a quello da escursionismo ––Prezzo: 349,95 €
Maglia GORE® R7 Maglia ––Ultraleggera, offre traspirabilità e ottima gestione dell’umidità durante le corse più lunghe in caso di temperature elevate ––Il tessuto più leggero assicura che la maglia non aumenti di peso se bagnata ––Meno frizione grazie alle cuciture Ultrasonic ––Dettagli riflettenti su tutti i lati per una visibilità a 360 gradi ––Prezzo: 89,95 € Pantaloncini 2in1 GORE® R7 ––Tessuto altamente tecnico per la massima traspirabilità ––Mix di materiali altamente funzionale ––Pantaloncino interno fisso ––Fodera in rete traspirante e leggera ––Cuciture piatte ––Inserti in rete parziali per una migliore ventilazione ––2 comode tasche laterali e tasca posteriore con zip ––Dettagli neon sul davanti ––Prezzo: 99,95 €
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EV ENT I
DONNAS CAPITALE OUTDOOR 11 E 12 MAGGIO
L’OUTDOOR CHALLENGE PROPONE TEST
© Alice Russolo
www.donnasoutdoorchallenge.it
MATERIALI, CORSI E GARE DI TRAIL , MOUNTAIN BIKE, BOULDER E TANTO ALTRO
A volte abbiamo dei tesori dietro casa e non ce ne rendiamo conto. Prendi Donnas, piccolo borgo all’inizio della Valle d’Aosta: è una vera e propria outdoor destination dal clima mite quasi tutto l’anno (coltivano anche gli ulivi…) dove praticare trail running, mountain bike o arrampicare su una delle tante falesie. È proprio così e possiamo metterci la mano sul fuoco perché qui abbiamo provato le scarpe da trail e da hiking per la nostra Outdoor Guide 2019. Se anche voi volete scoprire questo piccolo paradiso degli sport outdoor, l’occasione migliore è quella di venire al Donnas Outdoor Challenge, il prossimo 11 e 12 maggio. Saranno due giorni all’insegna dell’outdoor con il vecchio borgo trasformato in un centro test di scarpe, mountain bike e attrezzatura e le cantine trasformate in vere e proprie officine. Ma Donnas Outdoor Challenge è molto di più. Negli stessi giorni ci sarà anche il Donnas Outdoor Boulder, contest che si svolgerà
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pure sull’arco romano che dà accesso al centro storico. Per chi preferisce gli sport di fatica, sabato 11 appuntamento con il Donnas Duathlon, abbinata trail (9 km) e mountain bike (13 km) riservata anche alle coppie, nella versione non competitiva. E poi tante attività per la famiglia, dal rally nature con i guardaparco del Parco Naturale del Mont Avic, alla slackline, passando per rafting, family trekking, corsi di yoga e clinic di mountain bike per i bambini. E dopo lo sport, una buona cena perché qui ci sono ristoranti gourmet in location di charme come quello dell’albergo Le Coeur du Pont e si coltivano vigneti che producono vini rossi interessanti. E anche per dormire c’è l’imbarazzo della scelta, dagli alberghi tradizionali ai graziosi bed&breakfast come Lou Rosè. Donnas è facilmente raggiungibile in autostrada, uscendo al casello di Pont-Saint-Martin della Torino-Aosta. Cosa aspetti a segnare la data in agenda?
EVENTI
DYNAFIT LANCIA LE RUNNING WEEK: UNA SETTIMANA PER TROVARE LA SCARPA GIUSTA Lo scriviamo sempre nella nostra Outdoor Guide, in uscita a inizio maggio con i test di scarpe per correre, camminare o praticare alpinismo: prima di comprare un modello provatelo sempre bene. È fondamentale, perché i piedi sono tutti diversi, anche tra di loro. E per l’alpine running questo avvertimento vale doppio perché entrano in gioco altri fattori come peso, postura, dinamica di corsa. Un modello ottimo per me, può essere buono, ma non perfetto per te… Ecco allora che Dynafit viene incontro a questa esigenza con un’opportunità d’oro. Le consuete prove gratuite organizzate in collaborazione con i negozianti specializzati di tutta Italia nel corso dei mesi estivi, diventano Dynafit Running Week e permettono di provare più modelli dell’ampia gamma della casa del leopardo delle nevi per l’alpine
DURANTE LE RUNNING WEEK ESTIVE SARÀ POSSIBILE TESTARE I MODELLI DA ALPINE RUNNING PER UN PERIODO PIÙ LUNGO DEL SEMPLICE GIRET TO
running, ma soprattutto di tenerli più giorni per provarli in diverse condizioni. Le scarpe Dynafit rispondono alle specifiche esigenze delle diverse sfaccettature dell’alpine running. Ogni modello è caratterizzato da un valido rapporto peso-prestazione e da dettagli tecnici dedicati alle varie discipline. Si va dalle nuove Feline Up e Feline Up Pro, alle best seller Alpine Pro, le nuove Trailbreaker Evo, e le continuative Trailbreaker, e ancora Ultra Pro e Feline Ultra. Modelli per vertical, skyrace e ultra-trail. Gli eventi sono aperti a tutti e sono organizzati dai negozi più competenti del mercato, dove si può trovare personale qualificato pronto a dare tutto il supporto e le spiegazioni necessarie. Per scoprire il calendario delle Dynafit Running Week è sufficiente andare sulla pagina Facebook del brand.
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O U T RO
… riducendo i nostri consumi, riutilizzando e facendo durare i beni al massimo, riciclando. … scegliendo alimenti più sani e non trasformati, riducendo il nostro consumo di carne (l’allevamento intensivo del bestiame è una delle industrie che contribuisce di più alle emissioni di gas serra) e pesce, scegliendo prodotti locali o biologici.
… prendendo il treno quando possibile, cercando di non usare l’auto da soli, anche quando andiamo in gita, utilizzando i mezzi pubblici, evitando spostamenti inutili o troppo lontani e privilegiando l’outdoor vicino a casa per le avventure mordi e fuggi, cercando di usare l’aereo solo per soggiorni lunghi.
… informandoci sui prodotti e i marchi che acquistiamo, sulla loro politica ambientale e sociale, comprando quello che è necessario e non ragionando soltanto in termini di prezzi e shopping fine a se stesso.
… parlando del riscaldamento globale con gli amici e in famiglia, sul lavoro, condividendo le vostre riflessioni sui social media.
… facendosi domande per capire meglio il riscaldamento globale e mantenendosi aggiornati leggendo riviste e siti autorevoli e competenti.
… qualunque simpatia abbiate, la parola politica significa ‘occuparsi della vita comune’. Fate valere i vostri diritti democratici votando con coscienza (ma soprattutto votando), pretendendo una risposta alla crisi ambientale e manifestando per i valori in cui credete.
Liberamente adattato da www.protectourwinters.fr
TAK E H O M E M ESSAG E
Questo numero è un vero e proprio bombardamento di dati, esempi, denunce, proposte. Davanti a questioni così importanti e di difficile soluzione come il riscaldamento globale ci sono diverse risposte. L’importante è che ognuno di noi faccia qualcosa. Usando la testa, ritornando a pensare a quello che acquista, a come lo acquista, a come vive. E riappropriandosi del proprio tempo. Perché solo riconquistando un po’ di tempo per vivere, lo si trova anche per pensare, coltivare il basilico sul balcone, spostarsi in bicicletta, riciclare gli oggetti e leggere. Per lottare per la propria casa, la Terra.
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AGILITY LIGHTNESS POWER
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MY helMet MY choice
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VIVIAN BRUCHEZ // Partire presto, esplorare, seguire le tracce degli animali, vivere avventure, contemplare: questa è la montagna e la vita che amo. Perché decidere il percorso più semplice quando puoi scegliere il più bello. // #helmetup
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