Italian Cycling Magazine
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6 euro BIMESTRALE marzo 2020 alvento.cc
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OMNES VIAE UNLIMITED — PEDALIAMO SU STRADE BIANCHE DA PRIMA ANCORA CHE DIVENTASSE UNA MODA,
E FORSE È PROPRIO PER QUESTO CHE NON CI PIACE LA PAROLA “GRAVEL”.
NON È UN ALTRO SPORT, L’APPROCCIO È LO STESSO, LA PASSIONE È LA STESSA, GLI ALTRI LO CHIAMANO “GRAVEL” NOI LO CHIAMIAMO UNLIMITED. CASTELLI-CYCLING.COM
«Da ragazzino, a dodici o tredici anni, prendevo la bici e lasciavo detto a casa che mi andavo ad allenare. Non dicevo dove sarei andato ma mi lasciavano uscire. Partivo da solo senza che nessuno sapesse niente di dove ero diretto o mi seguisse - facevo di tutto se capitava che eravamo in gruppo perché nessuno riuscisse a tenermi la ruota - e poi andavo. Lontano. Arrivavo in certi posti in collina che non conoscevo neanche e che stavano a trenta o quaranta chilometri da casa mia. Era una cosa eccezionale per un ragazzino della mia età: potevo girare libero e andarmene da solo dove volevo andare, mentre gli altri miei compagni di scuola invece non si muovevano da casa. Vivevo a cento metri dal mare, io ci sono nato al mare. Il mare è mio. Le montagne invece, quelle non erano mie. Quelle ho dovuto andare a scoprirle. La bicicletta per me è questo: è libertà. È come una chiave che apre delle porte che altrimenti, tu, non sapresti neanche che esistono». — Marco Pantani
INDICE
0202.2020 POCI'S ELIA VIVIANI di Filippo Cauz
18
L A F I N E DE L C IC L OC ROSS 36
di Emilio Previtali
di Andrea Pozzobon e Simone Colpo
P
O
MOGAST MOGAST MOGAST
di Mauro Illaretti
54
NON MURI MA PONTI 76
R
T
44
F
O
L
I
O
SCOMODI T À 62
di Simone Barberi
DA GRANDE VOGLIO VINCERE IL GIRO D'ITALIA di Michele D'Attanasio
IL GRANDE CIRCO DELLA
84
di Filippo Cauz
92
SCALATELLA
AD ESEMPIO A ME PIACE IL SUD
di Paolo Ciaberta
INDICE
102
IL FUGHINO
108
di Daniele Cappato
CARTELLI PAZZI
di Dario Reda
Ips typographus Il bostrico tipografo popola gli alberi più deboli o quelli appena morti. I cambiamenti climatici in corso stanno alterando l’ambiente, l’aumento delle temperature causa maggiore fabbisogno di acqua per le piante a cui si somma il calo delle precipitazioni. Gli abeti rossi, soffrono.
110
I BOSCHI TORNANO SEMPRE di Giovanni Battistuzzi
foto di Giuseppe Ghedina
120
BIGLIE
124
L A
F A C C I A
D I
BEPPE SARONNI
di Stefano 'Drago' Dragonetti
di Romina Venier
di Andrea Benesso
UMBERTO 130
138
QUANDO PIOVE di Michele Sarzilla
142
ALLA PIOGGIA di Simone Frassi
144
SUCCHIAMANUBRI di Francesco 'Paco' Gentilucci
ROADS ARE WHERE YOU FIND THEM. #myridemytime
bergamont.com
ZOOM
Vasil Kiryienka
Molti di voi probabilmente ricorderanno la fotografia che vedete qui a fianco. È la prima copertina di Alvento, pubblicata nell’estate del 2018. Scegliere quella fotografia tra tante altre era stato complicato ma una delle cose che ci aveva fatto pensare che fosse quella giusta per il primo numero della rivista era anche il fatto che il corridore ritratto nell’immagine non fosse un campione celebrato. Intendiamoci: quell’iride disegnato sulla manica della maglia, corrispondente alla vittoria al Campionato del Mondo a Cronometro a Richmnond del 2015, diceva che il legittimo proprietario delle gambe doveva essere uno forte. E in effetti, lo era. Però così, visto di spalle, diceva anche che poteva essere un qualsiasi atleta in gruppo nel momento di massimo sforzo in piedi sui pedali, una specie di sei tutti noi del ciclismo. Noi sapevamo che si trattava di uno che aveva fatto dello stare al vento un marchio di fabbrica del suo essere ciclista che voleva esser anche il nostro. Vasil Kiryienka in carriera (le gambe erano le sue) ha fatto centinaia di ore di corsa in testa al gruppo tagliando l’aria in due per i suoi capitani. Chris Froome deve senz’altro anche al suo lavoro una parte delle vittorie. Nato a Rechytsa, una delle città bielorusse più colpite dal disastro di Chernobyl, Vasil cominciò la sua carriera correndo in pista per sfuggire al nulla e alla desolazione per poi approdare alla strada come professionista nel 2007, a 27 anni suonati. Passista, forte a cronometro, era il corridore perfetto per una squadra super strutturata come la Sky alla quale approdò nel 2013. Vasil Kiryienka ha annunciato qualche settimana fa, a 38 anni, il suo ritiro dal professionismo per problemi di idoneità agonistica. I suoi compagni di squadra della Ineos dicono che fosse uno che parlava davvero poco, soprattutto menava sui pedali. E comunque, quando parlava Ci faceva un sacco ridere ha detto Luke Rowe, suo storico compagno di squadra. Non ci aspettiamo di rivedere in circolazione tanto presto Vasil, che è un tipo riservato che non ama i social media. Dal suo ritiro ad oggi, nessun tweet, nessun post, nessuna foto su Instagram. Dicono che Vasil abbia passione per l’allevamento dei pappagalli. Probabilmente è impegnato, meglio così. Grazie di tutto, Vasil.
COVER STORY
«Il lavoro che faccio in gruppo è faticoso. Quando arrivo a casa dopo tre settimane di Tour resto completamente svuotato e privo di energie per tanti giorni. Tutto quello che riesco a fare in quei giorni è un piccolo giro di allenamento di pochi chilometri, di solito pedalo fino a un posto dove c’è un bar vicino a un lago e mi fermo. Sto lì un po’ a riposare, bevo un caffè seduto a un tavolino e poi rientro. Poi quando rientro certe volte sono così stanco che devo andare a dormire. In corsa do tutto quello che ho perché ho passione per ciò che faccio. Poi a casa, crollo».
VASIL KIRYIENKA
Vasil Kiryenka / Tre tappe vinte al Giro, quattro titoli nazionali e un Campionato Mondiale a cronometro a Richmond nel 2015. Nel 2008 su pista è stato Campione Mondiale della corsa a punti
© Russ Ellis
Direttore Responsabile Luca Giaccone
Francesco “Paco” Gentilucci
Direttore Editoriale Emilio Previtali emilio.previtali@alvento.cc
Gli piace scrivere, ha un blog che si chiama Unghie Rotte, Mani Aperte e scrive una fanzine. Fino ai 19 anni ha corso in bici poi ho dovuto mollare per una serie di operazioni chirurgiche (all’uretra, tiene a precisare). I medici avevano vietato la bici, perfino la Graziella. Dopo 10 anni, ha ripreso a pedalare.
Design e Art Direction tundra visit@tundrastudio.it Pr, Informazioni e Pubblicità info@alvento.cc Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi Editing e revisione testi Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it
Michele D'Attanasio
Maratoneta olimpionico mancato, prova a levarsi qualche soddisfazione nel cinema, tipo vincere il David di Donatello come direttore della fotografia di Veloce come il Vento di Matteo Rovere nel 2017. Pare si sia rimesso a correre.
Segretaria di redazione Elena Volpe elena.volpe@mulatero.it Amministrazione Alessandra Gianola amministrazione@mulatero.it
Filippo Cauz
Logistica e magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it
C O L O P H O N
In copertina, Foto di Gruppo di Poci’s - Andrea Pozzobon / Simone Colpo Hanno scritto su questo numero: Simone Barberi, Giovanni Battistuzzi, Andrea Benesso, Daniele Cappato, Filippo Cauz, Paolo Ciaberta, Michele D’Attanasio, Stefano Dragonetti, Simone Frassi, Francesco “Paco” Gentilucci, Mauro Illaretti, Davide Marta, Dario Reda, Michele Sarzilla, Stefano Viale, Romina Venier Hanno fotografato su questo numero: Michele D’Attanasio, Daniele Cappato, Paolo Ciaberta, Federico Damiani, Francesco Dolfo, Russ Ellis, Simone Frassi, Dani Fiori, Giuseppe Ghedina, Poci’s - Andrea Pozzobon e Simone Colpo, Federico Ravassard, Tornanti.cc - Francesco Rachello e Eloise Mavian, Sirotti.it, Luca Tonin
Romina Venier
Origini friulane, vive a Cortina d'Ampezzo. Pedala sui passi delle Dolomiti in sella ad una bici da corsa, sua prima passione. L’altra passione è raccontare e lo fa sul suo blog passogiaupercolazione.com. Insieme alle sorelle e alla mamma, sulle orme del papà Asco, tiene in vita il negozio Ascosport in provincia di Udine.
Pedala poco e piano ma dedica quasi tutte le proprie giornate al ciclismo, osservandolo e leggendolo, in genere dal divano. Ex vulcanologo, cartografo e bike messenger, cultore di Sven Nys e coinquilino di due gatti e altrettante biciclette, nell'ultimo decennio in compagnia di alcuni soggetti affini ha organizzato oltre 200 concerti, ha riaperto il velodromo Vigorelli e ha fondato il magazine Bidon.
stampa BOOST PRINTING Cenate Sotto (BG)
Autorizzazione del tribunale di Ivrea n. 1 del 27/06/2018 (Ruolo generale 1904). La Mulatero Editore è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.
© Mulatero Editore Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge.
Andrea Benesso
Giovanni Battistuzzi
Nato il 5 gennaio, nel giorno più freddo del secolo scorso dove la pianura incontra il Prosecco. Veneto. Ciclista urbano. Pantaniano. Milanista. Scrive di sport, ciclismo soprattutto, su Il Foglio. In libreria trovate Girodiruota, che è anche il nome del suo blog.
Per anni ha raccontato di essere un macchinista e che guidava i treni. Gli piaceva l’idea di manovrare cose enormi ma soprattutto evitare di spiegare cosa fa un addetto stampa. Ora, da quando ha la sua agenzia 3Parentesi, dice che fa l’alpinista, così evita di spiegare cosa fa la sua agenzia. Però un po’ alpinista lo è davvero. I treni invece, non li ha mai guidati.
2 / Fontaines D.C. Dogrel
4 / Knifeplay Pearlty
Questo e uno dei miei dischi preferiti dell’anno. L’outsider che nessuno si aspetta, l’esordiente che ti passa con la faccia irriverente. Questa traccia è un looser che vince, una delle cose più belle a cui assistere. È il corridore che in maniera sgraziata riesce ad arrivare al traguardo, lancia la bici, si prende gioco dei giornalisti, limona la ragazza della premiazione e si scola la bottiglia con cui avrebbe dovuto annaffiare i compagni. «La mia infanzia fu umile ma io diventero un grande» – “Big” TRACK: Big | Too Real
Siamo abituati a digitare sulla tastiera anche solo le prime lettere, sulla barra di ricerca compare per intero cosa stiamo cercando e iniziamo a selezionare i link in ordine verticale. Questo non succede con i Knifeplay. E non ne capisco il motivo. Ho iniziato a dubitare dei miei gusti e delle mie preferenze, con quella sindrome da approvazione, da costante ricerca di conferme. Immaginate di pedalare nella nebbia con un rapporto duro che non cerca la velocità. La strada e bellissima ma non si vede. L’aria è umida ma non fa freddo. Non serve troppa luce. TRACK: Tears | Suffer
7 / Spoon Everything Hits at Once: The Best of Spoon
Mi era capitato di scrivere che chi sa suonare ha il coraggio di far uscire dischi dal vivo. E infatti ce ne sono sempre meno. Sono contento che uno di questi sia italiano e lo faccia veramente bene. Ascoltarlo è un po’ come sudare insieme sullo Zoncolan. TRACK: La fine dei vent’anni | Ed è quasi come essere felice
Una vecchia VHS che riporta solo le volate finali dei tour, le salite epiche, le sfide più massacranti. Sono fondamentali le tappe per intero, è chiaro, per capire il contesto, la gara, gli atleti, l’anno e le condizioni in cui si corre. Però ogni tanto serve un concentrato di emozione, una selezione del meglio, un riassunto di intere stagioni. Il nostro cervello fa qualcosa di simile con i ricordi, ma purtroppo è tarato per conservare anche quelli piu brutti. Il bello dei Best of invece, è che ci ricordano solo i momenti piùalti. In questo caso con l’aggiunata di un inedito. TRACK: No bullet spent | Everything Hits at Once
3 / Apparat LP5
1 / The National I Am Easy To Find distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921
6 / Motta Motta Dal Vivo
Ci sono quelle giornate fredde e belle. Il ritmo ovattato, i panorami intorno sfocati ma confortanti. I muscoli rigidi e il bisogno di calore. Tornare a casa e trovare fedele una coperta e una doccia calda e la stessa sensazione che procurano i dischi dei National. In questo lavoro si aggiungono diverse voci femminili ad amplificare quella bellissima sensazione di un abbraccio rassicurante. TRACK: Quiet Light | Rylan
Molto spesso valutiamo solo l’esito finale di un gesto atletico, il prodotto finito di un bene di consumo, l’azione di un uomo. Molto meno spesso ci chiediamo cosa ci sia stato dietro, la preparazione, l’allenamento, i processi creativi. La musica di Apparat andrebbe ascoltata cercando di capire tutti gli strati che si sono sovrapposti per arrivare proprio li. Gli strumenti e le melodie che si sono fuse, sovrapposte, rincorse e conciliate. L’eleganza e la contemporaneitàche raggiunge la sua musica elettronica è il frutto di strutture complesse che architettonicamente vengono domate e restituite all’ascolto. TRACK: Heroist | Caronte
5 / Interpol A Fine Mess Un criterium, 5 giri secchi che tagliano le gambe. Mi viene in mente questo ascoltando l’EP dei newyorkesi, 5 pezzi secchi che suonano come nei primi lavori, come al loro meglio. A volte concentrare lo sforzo è la strategia migliore. TRACK: Fine Mess | Weekend
Cliccate play e disegnate la vostra strada A CURA DI STEFANO VIALE
bit.ly/alvento1
8 / Wilco Ode To Joy
Semplice come quando andavi in bici, senza aver ancora deciso di andare in bici un po’ più seriamente. Quelle pedalate in campagna con gli amici, bici sgangherate, tanti sorrisi, poco ritmo e tempi dilatati. La leggerezza di lunghe pause estive. Ode to Joy è un titolo che dice già tutto, e suggerisce di cercare la gioia nelle piccole cose, nella quotidianita. Da usare come un medicinale che fa bene. TRACK: Everyone hides | Love is everywhere (beware)
9 / DIIV Deceiver
telaio in acciaio. Sai benissimo che oggi il mondo è andato oltre, che forse risulti essere solo un romantico. Ma la certezza di avere in garage quegli otto tubi saldati ti fa sentire custode del tempo. Non dare mai via quella bici. TRACK: Horsehead | Blankenship
10 / Chromatics Closer To Grey Non avete mai la sensazione di essere in un film? State pedalando nella notte, avete perso la cognizione dello spazio e del tempo, c’èsolo un filo di luce ad illuminarvi la strada. Eppure sapete che arriverete e che ce la farete. C’è qualcosa di rassicurante nell’aria. Ho conosciuto i Chromatics anni fa, nella bellissima colonna sonora del film Drive. Continuo a pensare che sappiano produrre la perfetta colonna sonora, qualsiasi sia il film che vi state facendo. TRACK: You are no good | Touch red
LIST
via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it mulatero@mulatero.it
L’idea è quella di mettervi a disposizione una playlist con la quale poter leggere gli articoli mentre ascoltate i pezzi scorrere via. Per farlo avete a disposizione su Spotify una selezione di brani creata apposta da Stefano Viale che qui sotto vi anticipa cosa state per ascoltare.
TRACK
CONTRIBUTORS
direttore Davide Marta davide.marta@mulatero.it
Amare certi suoni di chitarre, i feedback e certe distorsioni è come continuare ad amare un
THE DISCOMFORT ZONE
ZONA
ATTIVITÀ
Z5 Z4 Z3 Z2 Z1
V02 MAX SOGLIA TEMPO CAPACITÀ AEROBICA RECUPERO ATTIVO
DIVERTIMENTO Si fa presto a dire: divertirsi. Ma non c’è divertimento senza il tentativo di uscire dalla propria comfort zone, perlomeno nello sport e in particolare nel ciclismo. Fare fatica andando in bici è piacere. Non sacrificio, ma gioia, un vero lusso. E per voi, il divertimento cos’è?
INTENSITÀ % of FCmax
DURATA
TRAINING BENEFIT
90-100%
3 - 6 secondi
Z5 è il luogo del massimo sforzo e della massima sofferenza. Restateci il meno possibile, ma andateci.
80-90%
8 - 30 minuti
La Z4 è la porta di accesso della discomfort zone. Rimanerci a lungo fa di voi un fachiro.
70-80%
1 - 4 ore
In Z3 si parla già di fitness e di prestazione. Non c’è nessun motivo di arrivarci se non per tentare di migliorare un po’ e di puntare a qualche obiettivo.
60-70%
1 - 6 ore
La Z2 è gioia pura. La traspirazione corporea è leggera, l’andatura brillante e la si può tenere per molte ore.
50-60%
30 - 90 minuti
La Z1 è quella della felicità. Si può pedalare e chiacchierare, guardarsi in giro e sorridere e, alimentandosi bene, pedalare per tutto il giorno.
TIPO 1 TIPO 2 TIPO 3 Il divertimento di tipo uno è piacevole intanto che lo fai. Come ad esempio il sesso, una birra con gli amici, un giro con la bici gravel non troppo impegnativo o una grande salita alpina in cui il tuo cuore non sorpassa mai la Z3, se non per qualche minuto. In fondo la ragione per cui quasi tutti andiamo in bici è questa.
Non tutte le cose divertenti devono esserlo mentre le fai. Alcune intanto che le stai facendo non sono per niente divertenti, è il caso di tutte quelle leggermente al di fuori della tua portata e che ti obbligano a entrare nella tua discomfort zone. Un viaggio in bici per attraversare la nazione in cui vivi. Un’ultramaratona. Un giro in salita con degli amici molto più allenati di te che sai già non ti aspetteranno. Scrivere un articolo per Alvento. Certe cose in cui ci si imbarca costano fatica ma poi, in retroispettiva, sono divertenti.
Il divertimento di tipo 3 non è per niente divertente, nemmeno a distanza di tempo. Sono le classiche cose che non avresti mai dovuto fare ma che alla fine, quasi sempre, sei contento di aver fatto. Qui non è qustione solo di entrare nella discomfort zone, in certi casi si tratta di puro masochismo. Ma in fin dei conti, chi lo ha detto che il divertimento, deve per forza essere divertente? A volte, semplicemente non lo è.
MARCIAPIEDI BRUTTI Emilio Previtali
Nella foto / Danilo Di Luca prima di una gara ad inizio anni ’90
Uno dei posti dove mi alleno in bici nelle pause di lavoro è un luogo abbastanza squallido. È un rettilineo di asfalto lungo dieci chilometri e io ci vado avanti e indietro per un po’. Avanti e indietro, da solo. Lungo il percorso ci sono cinque rotonde, il traffico non è eccessivo e scorre veloce, l’asfalto è liscio e la carreggiata è larga, con un po' di attenzione si può fare velocità usando la bicicletta da cronometro senza bisogno di fermarsi o interrompersi. È una zona industriale con capannoni, camion, e campi coltivati, è davvero bruttina. Sullo sfondo, in lontananza, delle belle colline con dei vigneti a cui io però, quando pedalo, non faccio caso. Guardo fisso il contachilometri, il cardiofrequenzimetro e il misuratore di potenza e soprattutto ascolto il mio corpo. Mi sento. È per quello che vado lì, per parlarmi. Cerco di farmi piccolo e rendermi invisibile all’aria. Fatico. Provo a non pensare a niente. Cerco un altro me che incontro soltanto lì, oltre quel range di fatica quando il cuore accelera e va oltre un certo regime, oltre una certa frequenza cardiaca. A un certo punto dell’allenamento, se tutto va bene, entro nella mia discomfort zone e cerco di rimanerci più che posso. Z4. Ci incontriamo lì io e l’altro me, oltre quel confine dello sforzo fisico dove quando sto per mollare il colpo divento vigliacco e la mia mente cerca tutte le scuse possibili e immaginabili per dire basta, per mollare. Intanto lui, l'altro io, è lì e mi apre delle porte. Mi fa vedere. Mi mostra degli spazi della mia mente che esistono e che non sapevo che ci fossero. Sul diario di allenamento ho scoperto di avere percorso questo tratto di strada varie centinaia di volte, 374 per l’esattezza. Conosco ogni metro, ogni tombino, ogni tratto di asfalto di questa strada, eppure non mi stanco mai di rifarla, mi piace ripetere. Deve essere una specie di tara mentale la mia. Mi rendo conto che a me oltre che viaggiare e conoscere il mondo andando a vedere, piace ripetere e rifare all’infinito sempre le stesse cose. Comprendo che ripetere è démodé. È anche da sfigati, forse. Però capisco anche che nella mia tara, dentro al mio limite, pulsa un mondo che altri
non comprenderanno o conosceranno mai, semplicemente perché non hanno pazienza abbastanza, testa dura abbastanza per restare lì in quel territorio della fatica e della scomodità che imparo a conoscere ogni volta che mi ci inoltro. O forse, soltanto, io sono più stupido di altri. Sono il Re degli Stupidi. Per esplorare non serve andare lontano, basta provare a spingersi poco oltre il proprio limite. Alla fine dell’allenamento di solito mi piace scendere dalla bici, sedermi sul bordo del marciapiedi di una delle strade di questa zona industriale bruttissima e intanto che il sole tramonta restare lì a godere del mio cuore che rallenta il ritmo. Godo della sensazione della fatica che si dissolve, del rumore delle auto che mi sfrecciano davanti e del verde e dell’argento delle foglie di pioppo mosse dal vento che brillano nell’aria, ci sono dei grandi alberi lì vicino. Godo all'idea di avere superato un mio record, quando capita che ne miglioro uno, che è il record del Re degli stupidi, un record inutile, ridicolo e insignificante. È il mio record. Un segno. Il piacere che provo andando in bici non è semplicemente legato ai bei luoghi in cui vado o a quello che so fare bene, alla fatica che so di poter sostenere ma piuttosto a quello che non so fare e a quei momenti lì in cui con calma, con distacco, dopo essermi impegnato con tutte le mie forze per spingermi oltre un mio limite mi godo il piacere della quiete. È un ciclo che si ripete, quello che mi tiene in equilibrio credo sia questo, l’insieme. Quei capannoni e quei parcheggi vuoti della zona industriale che ho intorno, certe sere dopo aver fatto tutta quella fatica, mi sembrano addirittura un posto bellissimo. E per me, questo, è abbastanza.
PER PRECISIONE
Dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1946 l’Italia era tutta da ricostruire e la Milano-Sanremo tornava dopo due anni di stop. A pochi chilometri dalla partenza Coppi andò in fuga con un gruppetto di corridori che riuscirono a stargli dietro fino al Passo del Turchino, lo scollinamento verso la Liguria. Poi se ne andò da solo. La leggenda vuole che a Imperia addirittura, informato del distacco che aveva sul gruppo, Coppi trovò il tempo per concedersi un caffè presso il Bar Piccardo per poi ripartire e ricominciare ad accumulare vantaggio. Tagliò il traguardo a Sanremo con 14 minuti di vantaggio sul secondo classificato e 24 minuti sul gruppo di Bartali.
Fumogeni / Alla Sanremo succede sempre, qualcuno li lancia. Fate i bravi: quest’anno evitateli
Come ti chiami Per tradizione, vi sono tre diverse modalità di indicare gli abitanti della città: i sanremaschi sono coloro che da generazioni sono nati e vissuti a Sanremo; i sanremesi, coloro che risiedono o sono nati in città ma hanno origini forestiere (furesti); infine matuziani, usato più raramente, termine che trae origine dall'antico sito romano di Villa Matutia che raccoglie nella globalità gli abitanti della città dei fiori.
Fiori
«Ogni giorno sul mercato di Sanremo passano circa 2,5/3 milioni di fiori, che equivalgono ad un valore di 20/30 milioni di lire». Ing. Sebastiani, vice Sindaco di Sanremo, 1959 Una delle principali attività economiche della Regione è la floricoltura, accentrata nella provincia di Imperia e a San Remo in particolare, che ne è il mercato più importante d'Italia. Nella seconda metà dell'Ottocento, i floricoltori liguri riuscirono a produrre un tipo bellissimo di garofano e da allora si moltiplicarono le piccole terrazze sostenute da muretti di pietre dove si allineano le piantine dei garofani, i quali sono ormai diventati quasi un monopolio di San Remo.
MEMO
“Primo classificato Coppi, in attesa del secondo concorrente, trasmettiamo della musica da ballo”. Nicolò Carosio, speaker radiofonico della Milano-Sanremo del 1946
MILANO — SANREMO
3 CIFRE
CAMPIONISSIMO
CHE GARA!
21 marzo 2020
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CALENDARIO World Tour 2020- Primavera Strade Bianche 7 marzo Tirreno-Adriatico 11/17 marzo Milano – Sanremo 21 marzo Giro delle Fiandre 5 aprile Parigi – Roubaix 12 aprile Amstel Gold Race 19 aprile Freccia Vallone 22 aprile Liegi-Bastogne-Liegi 26 aprile
L'UCI World Tour è il circuito mondiale di ciclismo su strada organizzato dall'Unione Ciclistica Internazionale dal 2011, anno in cui ha sostituito il ProTour e il Calendario mondiale, che tra il 2009 e il 2010 comprendeva le prove ProTour e quelle Historical.
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EQUITÀ
DIFFERENZE
Virtù che consente l'attribuzione o il riconoscimento di ciò che spetta al singolo in base ad una interpretazione umana.
1/10
Ceylin / Si è trasferita nei Paesi Bassi dalla Repubblica Dominicana e ha iniziato a correre nella Rotterdam Cycling Combination Ahoy (RWC Ahoy). Ora corre nella Alpecin-Fenix, la stessa squadra di Mathieu van der Poel
«Nel ciclocross la differenza nella retribuzione tra uomini e donne è grande. C’è sempre più sensibilità sull’argomento e sono felice che in gare come il Superprestige, la Coppa del Mondo e il DVV Trophy uomini e donne ricevano lo stesso montepremi in denaro, però il problema non è ancora risolto. Non è questione di essere femminista o di non esserlo, il punto è che i montepremi devono essere uguali perché è giusto che sia così. Chi dice che gli uomini portano più spettacolo delle donne non ha capito il tipo di problema di cui parliamo. La differenza di guadagno tra uomini e donne è molto grande nel ciclocross. I soldi arrivano principalmente dagli ingaggi e dagli stipendi, più che dai montepremi. Mathieu van der Poel e Wout van Aert, i migliori tra gli uomini, ricevono circa 10-12.000 Euro come ingaggio per la partecipazione ad una gara. Io prendo un ingaggio che va dai 600 ai 1.200 euro, circa dieci volte meno. Non è difficile capire perché almeno i montepremi, tra uonini e donne, devono essere uguali». Ceylin Del Carmen Alvarado, Campionessa del Mondo Ciclocross 2020
0202 2020 testo / Federico Cauz immagini / Tornanti.cc
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Il 2 febbraio del 2020 è un giorno palindromo, una data che si può leggere in entrambe le direzioni. Come i nomi Anna o Ada. Come i termini kayak o ossesso. Come il titolo di Guy Debord In girum imus nocte et consumimur igni. Come l'oro, che della tavola periodica è l'unico elemento dal nome bifronte, nonché il più pregiato. Con l'oro lo sport celebra i vincitori più grandi, ma al ciclismo l'oro non basta: non si limita a mettere una medaglia al collo dei suoi campioni del mondo, bensì li cinge con i colori dell'arcobaleno. L'iride che celebra la pioggia che arriva e se ne va, lasciando spazio al sole. Se si guarda al cielo almeno; se invece si abbassa lo sguardo verso terra, lascia spazio al fango.
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Campionato Mondiale / Elite, U23, Donne, un campionato mondiale è un intero week-end di gare
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La domenica palindroma di inizio febbraio ha concluso il campionato del mondo di ciclocross, un weekend di gare ospitato dalla cittadina svizzera di Dübendorf, sobborgo di Zurigo. Legato a triplo filo con pubblico ed economia belgi ed olandesi, il ciclocross ha alle sue spalle una storia ben più globale e diffusa sul suolo europeo. Una storia in cui la Svizzera ha giocato un ruolo da protagonista, con una serie di campioni come Albert Zweifel, Gilles Blaser, Peter e Thomas Frischknecht, Pascal Richard, titolati protagonisti delle più importanti competizioni a cavallo tra gli anni '70 e '90. Ma per trovare l'ultimo iridato elvetico bisogna tornare proprio all'ultimo mondiale in Svizzera, nel 1995, vincitore Dieter Runkel. Poi qualcosa è cambiato: il movimento svizzero ha puntato tutto sulla mountain bike, portando con se progetti, campioni e successi, mentre il circuito del ciclocross proseguiva, tenace e partecipato ma ben poco visibile dall'estero. La lenta clandestinità del ciclocross elvetico è coincisa anche con un cambiamento di attitudine di questa disciplina, che progressivamente ha abbandonato i circuiti più difficili dal punto di vista tecnico e soprattutto altimetrico, per spostarsi sulle pianure, sui muri e sul fango delle Fiandre; tanto che non sono pochi a rimpiangere lo stile svizzero, con le sue gare fisicamente massacranti. Sono gli stessi che avevano festeggiato il ritorno della rassegna iridata in terra elvetica, per poi ritrovarsi immediatamente delusi nell'apprendere che il terreno di scontro sarebbe stato il più piatto possibile: un aeroporto. Ai primi del Novecento, in un'epoca che già
Quando si corre fuori strada le asperità non sono necessariamente da ricercare nelle salite, spesso a rallentare la bici, a rendere ogni pedalata un macigno da spostare, ci pensa il terreno.
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ribolliva di conflitti pronti e deflagrare, la Svizzera decise di dotarsi di un nuovo aeroporto nei pressi di Zurigo. Un progetto più facile a dirsi che a farsi, dato che la regione è composta perlopiù da strette vallate fluviali che culminano in laghi e corsi d'acqua. In mezzo tra questi però qualche lembo di pianura non mancava: aree paludose sviluppatesi nel corso dei secoli, tanto diffuse da aver ospitato un decimo di tutti i villaggi preistorici di palafitte dell'arco alpino. L'aeroporto di Dübendorf nasce da una bonifica: dove un tempo c'era una palude di acqua e melma spuntano prati e piste, decollano centinaia di velivoli. Durante la seconda guerra mondiale è qui che vengono dirottati tutti i (pochi) voli militari intercettati dalla neutrale Svizzera, ed è proprio l'aeronautica militare a prendere il totale controllo della base quando un nuovo aeroporto internazionale viene aperto a nord di Zurigo. Oggi la storia di oltre un secolo di velivoli da guerra è raccolta nel Flieger Flab Museum, l'esposizione che ha riempito gli hangar della base area ormai in disuso. È in mezzo a vecchi aeroplani appesi al soffitto che il mondiale di ciclocross ha stabilito il suo campo base, qui lavorano giudici, organizzatori e giornalisti, mentre al di là del muro, tra le vecchie piste, l'area sta tornando alle sue origini: una distesa di fango. Il primo a suonare il campanello d'allarme sul circuito svizzero è stato la leggenda del ciclocross moderno. Dopo una ricognizione in sella, alla vigilia del mondiale Sven Nys ha ammonito tutti con un'intervista alla televisione fiamminga. Il percorso di Dübendorf sarà anche piatto come una tavola, con solo due terrapieni e qualche ponte di impalcature a far da dislivello, ma è molto più faticoso di quello che sembri. Perché quando si corre fuori strada le asperità non sono
necessariamente da ricercare nelle salite, spesso a rallentare la bici, a rendere ogni pedalata un macigno da spostare, ci pensa il terreno. E Dübendorf è una palude: anche prima che cominci a piovere il suolo è già all'opera in un invisibile esercizio di risucchio. Il fango di Dübendorf si muove come le sabbie mobili dei vecchi film western; è fermo all'apparenza ma ad ogni passaggio intrappola sempre di più e tira verso il basso. Per domare un terreno simile ci vuole la tecnica, ma soprattutto occorre una scorta extra di potenza. Una scorta che col passare delle ore si farà sempre più necessaria. Dübendorf accoglie il popolo del ciclocross con il sole. Qualcuno si aggira persino in maglietta ad esplorare curve e ponti, mentre il cielo terso offre visioni differenti. A ovest si scorgono le carlinghe fluttuanti di arei in decollo; si susseguono a gran ritmo esibendosi in curve secche come stormi di uccelli e imbucandosi nelle foto e nelle riprese di chi immortala il tracciato. A est l'orizzonte è distante e bianco, puntellato dalle cime innevate dell'Hörnli, del Bachtel e dell'Höchhand, promemoria rocciosi della limitatezza della pianura locale. Scompariranno presto in un grigio uniforme, ma non se ne accorgerà quasi nessuno, nel momento in cui i poli di attenzione si fanno sempre più vicini: le corse che iniziano, la musica che cresce, il
Italia / Non un campionato mondiale esaltante per i colori azzurri. Tra le Elite Lecher 7° e Arzuffi 17°. Borello 19°, prima delle juniores
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Fango / Il temporale della vigilia ha reso il terreno pesante e fangoso
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tifo che si scalda. La curva dei sostenitori di Annemarie Worst è una grande chiazza arancione raccolta dietro ad un grande striscione blu a forma di cartello stradale: c'è scritto Nunspeet, è il nome del loro paese. Ad ogni passaggio della corsa i decibel si innalzano, segnale di una giornata già abbondantemente festosa. I tifosi olandesi hanno già fischiettato l'inno in entrambe le gare disputate in mattinata, grazie a Shirin van Anrooij (vincitrice della prima edizione di sempre del mondiale donne junior) e all'under 23 Ryan Kamp, ma è con la prova donne élite che si toccherà l'apice. Lo sanno già tutti. Qualcuno prima del via si lascia andare alla sincerità: «ci aspettiamo come minimo di vincere oro, argento e bronzo». E in effetti basta mezzo giro per fare di questo mondiale un rendez-vous monocromatico: quattro maglie arancioni in testa, dietro il vuoto. I tifosi di Worst si aspettavano di festeggiare i Paesi Bassi ma ancora di più la propria atleta locale, invece il fango di Dübendorf nasconde insidie anche in giornate di sole. Annemarie fa tutto perfetto, entra in testa nel rettilineo finale pronta per festeggiare un'altra volata vinta, ma quando mancano una manciata di metri al trionfo vede irrompere una sagoma alla sua sinistra e le sue gambe si bloccano. «Ci siamo sfidate tutto il tempo, è finita allo sprint e, come avete visto, l'ho perso», racconterà inconsolabile mezz'ora più tardi. Il suo argento pesa come una sconfitta, e poco aiuta il conforto di chi l'ha battuta, il sorriso inestinguibile di Ceylin Del Carmen Alvarado. Quella della ciclista caraibica è la storia più bella di questa stagione. Nata in Repubblica Dominicana, dove ha trascorso i primi anni di vita insieme alla madre Ramona e al fratello Salvador, all'età di cinque anni Ceylin e la sua famiglia sono volati in Europa per raggiungere il padre nei Paesi Bassi. Ad accoglierli è stato il quartiere di Beverwaard, nella periferia più povera di Rotterdam. L'ascesa di Alvarado sino al
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Mathieu ama il fango, sguazzarci in mezzo lo rende felice, negli anni ha imparato a individuarne le differenti tipologie e ad adattare la sua pedalata.
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culmine del ciclismo è lo sviluppo naturale di un percorso di talento e di abnegazione, più forte di parecchie difficoltà. C'erano gli ostacoli di natura economica, naturalmente, ai quali la famiglia Alvarado ha ovviato trasformandosi in un piccolo team: tutti in furgone con il fratello autista (e corridore), il padre meccanico, la madre nutrizionista... e capo-tifosa. Una presenza che inevitabilmente si faceva notare: in un ambiente così omogeneo per aspetto, lingua e abitudini come il ciclocross, questa chiassosa famiglia caraibica si è trovata spesso circondata da sguardi sospettosi. A metterli in fuga ci ha pensato sempre Ceylin con il suo talento, precocissimo. A 21 anni e mezzo è già maglia iridata tra le élite: la squadra avrebbe voluto mantenerla tra gli under 23 anche in questa stagione, ma i risultati hanno parlato chiaro. Dopo dodici vittorie e una Coppa del Mondo sfumata all'ultima semicurva, non si poteva trattenerla dalla possibilità di sfoggiare il suo sorriso anche sul palcoscenico più importante. A prescindere dal risultato, perché Ceylin Del Carmen Alvarado il sorriso lo porta sempre con se', a illuminare di luce il suo viso. Vedere questo sorriso accompagnato da una maglia iridata è qualcosa che riempie ogni cuore: è l'immagine del ciclismo più felice, quello che riscatta e unisce. Nel fango di Dübendorf Ceylin ha faticato come tutte le altre, ogni differenza è sfumata nell'inseguimento di un obiettivo che accomuna tutte. Ha provato ad arrivare da sola ma non ci è riuscita, eppure si è gettata nella volata come se nulla fosse, nonostante sin qui gli sprint finali li avesse persi tutti. Non quello più importante, agguantato più con la determinazione che con le gambe, per poi gettarsi a terra e abbandonarsi a una sensazione magnifica e stupefacente. Al camper della Alpecin, la squadra di Alvarado, si festeggia. Un meccanico al telefono prenota una cena celebrativa: «Ho una buona notizia, abbiamo appena vinto il campionato del mondo. C'è posto per una tavolata per venti persone stasera?». E si festeggia anche sotto il tendone dei tifosi, il
A destra / Mathieu van der Poel ha prima staccato gli avversari e poi ha controllato la gara
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Women / Tra le donne Elite la gara è stata piÚ equilibrata, con alla testa della corsa il team olandese impegnato in una specie di cronosquadre
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cui pavimento è diventato una distesa di bicchieri di plastica. Ballano i sostenitori della sconfitta Worst e della vincitrice Alvarado. Ballano i belgi in una giornata che così magra ad un mondiale di ciclocross nemmeno se la ricordano. Ma si spogliano, ne ordinano un'altra e ballano sulle note di Dj Broekie, che da nove anni presta il suo servizio in consolle alla rassegna iridata. Sono tutti talmente concentrati nel festeggiare, che nessuno si accorge della pioggia che ha preso a cadere, e della terra d'aeroporto e di palude che ha cominciato ad assorbirla. Il due febbraio del 2020 è una data palindroma: è la giornata di chiusura del mondiale di Dübendorf e il tempo va all'indietro. La pioggia della notte ha riportato l'aeroporto al suo stato di palude. Il fango da sabbie mobili è diventato una distesa di palta collosa, che ingigantisce le fatiche dei corridori e fa arrancare persino gli spettatori. Ogni passo è uno sforzo, che aumenta con il crescere del peso delle scarpe. Ma è una domenica di festa, specie per chi col fango ama giocare. Mentre i tifosi si sforzano e scivolano verso le transenne, i bambini sguazzano come fossero in un enorme parco giochi. Impermeabili gialli e giacche a vento fluorescenti si trasformano in pochi minuti, in un mosaico di chiazze marroni e risate fragorose. I bambini che giocano nel pantano sono i ciclocrossisti di domani: prendono confidenza con la sostanza viscosa che li accompagnerà pedalando. Basterebbe chiederlo ai due figli d'arte che a distanza di poche ore diventeranno entrambi campioni del mondo. Oltre alla maglia iridata, di cose in comune Thibau Nys e Mathieu van der Poel ne hanno parecchie. Indubbiamente si può estendere ad entrambi la definizione data da Tom Pidcock del fenomeno olandese: «Cosa ha di così speciale? Penso che vada davvero forte in bicicletta». Ma ciò che più li accomuna è l'essere figli di altrettanti campioni del mondo. Nel caso di Thibau si va direttamente al più grande di tutti, Sven Nys, l'uomo che ha portato il ciclocross nella modernità. Nel caso di Mathieu, che prima o poi cercherà si
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sottrarre a Nys proprio lo scettro di eterno, si tratta di un corridore di gran classe quale Adrie van der Poel, prototipo di quella completezza trasversale già mostrata dal figlio. Avere dei campioni come genitori significa trovarsi un maestro in casa, ma soprattutto significa abituarsi a muoversi nei campi del ciclocross sin dalla più tenera infanzia. Thibau e Mathieu giocano nel fango da sempre: un tempo erano come gli inzaccherati bambini di Dübendorf, oggi sono i protagonisti della corsa. C'è un altro aspetto che accomuna i due: a Dübendorf sono venuti solo per vincere. Nessun altro risultato era accettabile, al termine di una stagione quasi da imbattibili. E naturalmente nessun altro risultato è mai stato contemplato dal destino. Thibau Nys vince il mondiale juniores 23 anni dopo il primo titolo giovanile di suo padre; resiste alla pressione e si esalta su un percorso diventato di colpo assai più duro. Vince e risolleva i cuori dei belgi, con un podio monocolore che lascia quantomeno sperare in un futuro di restaurazione dopo quest'epoca di dominio dei Paesi Bassi. Vince e fa commuovere il genitore cannibale come in quel pomeriggio del 2016 a Oostmalle, l'ultimo giorno di gara per Sven con il giovane Thibau ad attenderlo all'arrivo, il primo ad abbracciarlo e baciarlo. A Dübendorf vince Thibau e i ruoli si invertono: Sven Nys gli corre incontro senza celare gli occhi umidi, lo abbraccia incurante della maglia
Tom Pidcock / Seppur da lontano, il giovane atleta inglese ha tenuto testa alla concorrenza belga
Ballano i belgi in una giornata che così magra ad un mondiale di ciclocross nemmeno se la ricordano. Ma si spogliano, ordinano un'altra birra e ballano.
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Wout van Aert / Grandissima attesa ma niente più del quarto posto per van Aert
imbrattata di pantano. Sven vuole sporcarsi con il campione del mondo Thibau: è il fango che li unisce, ancora una volta. Gli altoparlanti di Dübendorf diffondono messaggi minacciosi nell'aria del pomeriggio. La bufera è in arrivo, la pioggia è debole ma sono attesi venti con raffiche sopra i 60 km/h. Non potendo mandare il pubblico a casa, l'unica indicazione fornita è di stare attenti. Ma il fulcro dell'attenzione di tutti i presenti è un'altra forma di tornado, il dominatore trasversale di queste stagioni: Mathieu van der Poel. Il fenomenale figlio (e nipote) d'arte stronca anche la prova più importante della stagione nello spazio di poche pedalate. Prende la testa al via e non la cede più. Gli avversari provano a sfilargliela giusto per i primi trenta secondi, ma la corsa per l'oro dura all'incirca sei minuti, dopodiché è uno spettacolo solitario. La maglia arancione di van der Poel raccoglie la forza del vento e prende il volo. Intorno a lui si agitano bandiere svizzere con l'effigie di una mucca accompagnate da enormi campanacci, sventolano i vessilli regionali belgi e olandesi, in cima ai quali c'è chi ha incollato maschere o peluche di animali, sbatacchia lo striscione che incita all'eroe di casa Simon Zahner con un grande logo della sua band preferita, gli Iron Maiden, mentre si disperdono nel cielo le nuvole di coriandoli che qualcuno spara dal mezzo della folla. A Mathieu van der Poel basta completare il primo dei sette giri con una dozzina di secondi di vantaggio per spiegare le ali. Userà esattamente questa espressione per descrivere la sua vittoria, come se il vento lo avesse reso aliante, come se il fango lo avesse riportato all'infanzia. Perché Mathieu ama il fango, sguazzarci in mezzo lo rende felice,
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negli anni ha imparato a individuarne le differenti tipologie e ad adattare la sua pedalata. Ha smesso di giocare rotolandosi come da bambino, ma ha continuato a divertirsi pedalando. La bufera attesa non arriva dal cielo ma da un ciclone che travolge la corsa e tutti gli avversari. Il commentatore olandese Thijs Zonneveld il giorno dopo racconterà l'impresa di Mathieu van der Poel con la drasticità di un meteorologo: «Si poteva solo fermarsi a fissarlo, nello stesso modo in cui si guardano i temporali». Non passa molto dal termine della prova maschile élite che il cielo sopra Dübendorf ricomincia a rasserenarsi. Il vento non ha mandato le raffiche temute ma è bastato per scacciare via le nubi e raffreddare l'aria. Presto gli aerei torneranno a solcare il cielo e la palude di fango lentamente si riassorbirà. Tanti tifosi in trasferta sono già ripartiti, ma sotto il tendone la musica è ancora alta, anche durante la premiazione. Mentre Mathieu van der Poel si riveste con i colori dell'iride, il Dj passa da Blauw, hit olandese degli anni '80, a un remix di Angel di Robbie Williams. Il cielo ha trattenuto l'arcobaleno, ma ha cominciato a celebrare ugualmente i nuovi campioni del mondo con le tinte arancioni del tramonto, e prima che scendano le tenebre qualcuno ancora non ne vuole sapere di uscire dal fango. Sono due chiassosi ragazzini svizzeri avvolti in giacche ormai impresentabili: ridono e si spintonano, fanno a gara a scivolare nella melma incuranti dei richiami dei genitori. Se qualcuno glielo domandasse, probabilmente non saprebbero fare il nome di nessuno dei vincitori del weekend. Eppure sono lì a prendere le misure col fango, un giorno potrebbero essere loro a ripulirsi la maglia prima di salire su un podio mondiale.
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testo / Emilio Previtali immagini / Federico Ravassard
TUNNEL -DEL POLI
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Non so se avete mai fatto quel gioco di mettere il palmo della mano fuori dal finestrino di un’auto e giocare con la resistenza dell’aria. Provate a farlo a 65 km/h e pensate di essere all'aria a sgambettare con tutto il corpo, invece che con la sola mano.
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Ancora un po’ intontito dalle vacanze di Natale, nel giorno più freddo dell’inverno, una mattina di inizio gennaio arrivo al parcheggio del Politecnico di Milano. Posteggio, spengo il motore e scendo dall’automobile. Sono in anticipo. L’appuntamento è fissato per le 13 ma noi (mi devo incontrare con Federico, che arriva da Torino e che farà le fotografie) prima di mezzogiorno siamo già lì. La gente di montagna quando scende in città non sa prendere le misure degli spostamenti e finisce per fare sempre tutto con troppo anticipo. Va be’, aspetteremo. In galleria del vento del Politecnico di Milano ci sono stato altre volte. Una volta perfino ho avuto il privilegio di fare da tester e di collaborare alla raccolta dati per
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la messa a punto di un nuovo modello di casco. Pura manovalanza, intendiamoci, dovevo pedalare su una bici da crono e fare prendere aria a un casco tenendolo in testa in un certo modo, in ogni caso è stata l’esperienza più educativa che mi sia capitato di fare nel campo dell’aerodinamica applicata al ciclismo. Per dire una cosa che ho imparato: lo sapete voi che se staccate il dito pollice dal manubrio e lo muovete di qualche millimetro nell’aria il vostro coefficiente aerodinamico cambia così considerevolmente che il sistema di misurazione se ne accorge? La pressione che l’aria esercita su di voi si scompone in una forza resistente all’avanzamento misurabile in Newton che il sistema rileva. Lo si può vedere immediatamente sul monitor mentre pedalate, è pazzesco. Era una cosa che non sapevo fino a quel momento e se qualcuno me lo avesse raccontato, non ci avrei creduto. Il programma di oggi è seguire Elia Viviani nei suoi test per la messa a punto dei materiali in vista di Tokyo 2020, l’appuntamento olimpico di agosto non è poi così lontano. Quando Marco Belloli, coordinatore della ricerca aerodinamica applicata allo sport del Politecnico, mi ha chiamato al telefono proponendomi di assistere ai test non ci ho pensato un minuto e ho risposto di sì.
Una sessione di lavoro in galleria del vento è in ogni caso interessante e se a pedalare è un campione poi, è un peccato non esserci. Quando entriamo nell’edificio che ospita la galleria, accompagnati da Stefano Giappino, responsabile tecnico delle prove nel ciclismo, siamo comunque in anticipo di una buona mezz’ora. C’è tempo per visitare la sala macchina della galleria da cui si guidano i motori da 1.5 megawatt di potenza che spingono l’aria nel tunnel e dare una occhiata al wall of fame con le firme di tutti gli atleti di tutti gli sport che
Stefano Giappino / Il responsabile tecnico delle prove nel ciclismo verifica il profilo di Elia Viviani
sono passati di qui. C’è anche la mia, per via della partecipazione a quel test, un po’ sono in imbarazzo e un po’ sono orgoglioso del fatto di avere un posto tra a quella di Alberto Contador e quella di Domink Paris, campione di sci. Ad attendere Elia Viviani c’è già la troupe di Eurosport arrivata ancora con più anticipo di noi, con il commentatore Luca De Gregorio e altri tre ragazzi addetti alle riprese, seduti in attesa. Prima della sessione di test registreranno una breve intervista video. A guardare le loro facce devono essere lì già da un bel po’, sembrano ibernati con cappotti abbottonati, le sciarpe e berretti di lana in testa. Non so che idea avete di una galleria del vento ma se pensate che sia un luogo caldo e confortevole, beh vi sbagliate. La galleria a bassa turbolenza (quella che verrà usata per i test di oggi è la più piccola delle due di cui dispone il Politecnico di Milano) è una stanza a pianta rettangolare costruita in tralicci e pannelli di acciaio che ricorda vagamente la forma di un container, un po’ più grande però. La bocca d’ingresso del tunnel è quadrata con il lato di 4 metri. Al centro della camera centrale c’è montata una pedana di misurazione, si tratta in pratica del cuore del tunnel ed è il luogo in cui tre studenti della facoltà di ingegneria stanno posizionando la bici di Elia, quella con cui corre in pista con la nazionale. Davanti a questa camera, che si perde nell’oscurità bluastra, c’è una zona a forma di imbuto dove i motori accelerano l’aria e la spingono dentro alla camera. Di fronte, sul lato opposto, con la stessa identica forma, c’è una zona di decelerazione e espulsione dell’aria verso l’esterno della galleria. Dopo essere transitato nel tunnel per consentire le misurazioni, il flusso d’aria viene espulso all’esterno della camera. Immaginate questa gigantesca corrente d’aria generata dai motori che viene introdotta nel tunnel e che investe l’atleta sottoposto ai test e poi se ne va via uscendo da dietro. Ecco: se pensate che stare in pantaloncini e
La galleria a bassa turbolenza del Politecnico di Milano è una stanza a pianta rettangolare costruita in tralicci e pannelli di acciaio che ricorda vagamente la forma di un container, un po’ più grande però. La bocca d’ingresso del tunnel è quadrata con il lato di 4 metri.
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* L’Omnium non si articola più in sei prove da disputare in due giorni come era stato a Rio nel 2016 ma in quattro prove da disputarsi tutte nella stessa giornata. Sono rimasti lo scratch, l’eliminazione e la corsa a punti, mentre sono stati tolti dal programma il chilometro da fermo, il giro lanciato e l’inseguimento in favore di una corsa a tempo, una piccola gara a punti da svolgersi sui 10 chilometri che a ogni giro prevede degli sprint che assegnano dei punti ai corridori.
maglietta a pedalare lì dentro sia piacevole e che l’aria di gennaio che vi investe sia calda, vi sbagliate di grosso. Chiedete ai ragazzi di Eurosport. Elia Viviani nel frattempo è arrivato. È un tipo decisamente spigliato e che pare estremamente concentrato sul lavoro che deve fare, restando però allegro e scherzoso con tutti. Sembra simpatico, ci salutiamo. Ad assistere alle prove c’è il direttore tecnico della squadra nazionale Marco Villa. La parola esatta che viene alla mente mentre osservo Elia togliersi i vestiti da città e rivestirsi con i prodotti da testare è giuizzante. Si capisce che è molto determinato e motivato a testare ed anche che è abituato ad avere un sacco
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di gente intorno e a non farsi disturbare. Mentre si veste dice che testare in galleria del vento gli piace, non per tutti gli atleti è così, non a tutti piace. Elia sa che i test sono un passaggio fondamentale per il progetto olimpico e indirettamente anche per la stagione su strada con la Cofidis, la sua nuova squadra. Il test è organizzato della Squadra Nazionale di ciclismo su pista. Elia alle Olimpiadi di Tokyo, dopo la medaglia d’Oro di Rio 2016 nell’Omnium, punterà al bis, anche se la gara è cambiata nel format*. Oggi non si lavorerà sulla posizione ma sull’abbigliamento, ci sono una serie di body e sovrascarpe da testare. Ciascuno di questi prodotti va provato a differenti velocità perché non è detto che un tessuto che ha ottime caratteristiche di aerodinamicità a 50 km/h riesca a conservarle anche a 65 km/h, la velocità a cui si corrono le fasi salienti delle gare di Elia. La caratteristica di questa sessione di test sarà proprio l’alta velocità dell’aria a cui verranno testati i prodotti. Non so se avete mai fatto quel gioco di mettere il palmo della mano fuori dal finestrino di un auto e giocare con la resistenza dell’aria. Provate a farlo a 65 km/h e pensate di essere lì fuori a sgambettare con tutto il corpo, invece che con la sola mano. Il protocollo con cui vengono svolti i test prevede, per cominciare, una sessione di riferimento in cui l’atleta, con una combinazioni di materiali già collaudati, registra i suoi parametri iniziali di resistenza all’aria che serviranno poi da baseline per tutte le prove seguenti. È fondamentale anche fissare la posizione dell’atleta in sella, che nel frattempo pedala appoggiato sui rulli della pedana. Lo scopo è ripetere i test e confrontarli tra loro usando indumenti
diversi con la certezza che l’atleta sia sempre nella stessa identica posizione, anche una piccolissima variazione sull’assetto di base potrebbe invalidare il lavoro. Dopo un grande numero di tentativi e di sistemi di posizionamento basati su marker digitali e fotocamere, il metodo più efficiente messo a punto per verificare il corretto asseto in sella di un atleta è stata quella di fissare una sagoma di contorno con il pennarello con il corpo dell’atleta disegnata su un foglio di plastica trasparente e fissata sullo schermo del computer. Questo stratagemma ha il duplice scopo confermare ai tecnici che la posizione dell’atleta è corretta e si può quindi cominciare la rilevazione dei dati e quello di fornire all’atleta un riferimento visivo e un feedback immediato circa la propria posizione. È sorprendente a volte constatare come le soluzioni più semplici siano anche quelle che funzionano meglio. Sul pavimento della pedana di misurazione, su uno schermo visibile all’atleta, viene fornita l’immagine del corpo ripreso di lato con una telecamera che l’atleta deve far combaciare con la sagoma proiettata sullo schermo. Un numero decimale che esprime in Newton la resistenza all’aria fornisce un feedback immediato all’atleta sulla qualità della sua posizione e grazie a questo stratagemma è possibile a collegare una sensazione a dei dati numerici. È un esercizio importantissimo. Si vede che Elia è stato spesso in galleria del vento, l’efficienza e la precisione con cui lavora per testare ogni prodotto è quella di un professionista esperto. È concentrato nel suo lavoro ma rimane allegro e disponibile con tutti. Dopo qualche ora di test siamo tutti un po’ provati, tranne Elia. I giornalisti sono già andati via tutti, siamo rimasti
soltanto io e Federico, c’è un po’ quell’atmosfera da ultimo giorno di scuola. Marco Villa ci aggiorna sulle ultime notizie del velodromo coperto in costruzione a Spresiano in provincia di Treviso. È una persona molto gentile e affabile. Anche gli ingegneri del Poli sono contenti di vederci ancora lì con loro, interessati al lavoro che fanno. In fondo noi siamo proprio come loro, il nostro lavoro è anche la nostra passione. Prima di concludere i test Elia ci concede ancora una sessione fotografica, veste finalmente i prodotti che possiamo fotografare, altri invece erano top-secret. Tra questi dati alla mano ce n’è stato qualcuno che ha fornito riscontri davvero interessanti, i tecnici sono soddisfatti e anche Marco Villa lo è. Anche un semplice copriscarpa in uno sprint olimpico può fare la differenza per la vittoria. Salgo la scala in metallo che porta alla galleria del vento con Alvento 8 in mano, l’ultimo numero uscito, quello che ha proprio una foto di Elia in copertina e un servizio sulla
Watt / La porosità di un tessuto o l’altezza di pochi centimetri di un copriscarpe possono modificare di qualche watt il rendimento in pista
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sei giorni di Londra che lui ha vinto. Tengo il giornale al riparo dagli sguardi, un po’ mi vergogno. Non so cosa chiedergli di fare con il giornale, in effetti. Non vorrei infastidirlo. Decido di lasciar correre ma proprio mentre sto facendo passare la rivista da una mano all’altra per nasconderla dietro alla schiena, Elia la vede e da seduto sulla bicicletta lo indica e mi dice, puntandola con il dito: Bella quella! È un guizzo. Io resto di sasso. È un po’ come se la medaglia olimpica l’avessero data a me, in quel momento. Sì, lo so, sono stupido. Però è una soddisfazione che Elia conosca la rivista e gli piaccia. Mi chiedo che soddisfazione si provi a vincere una medaglia d’oro olimpica. Federico mentre sta scattando prende la palla al balzo e chiede a Elia se possiamo fare qualche scatto di lui con il giornale in mano mentre pedala, Elia si presta volentieri. Sembra contento e chiede perfino in che posizione vogliamo che tenga il giornale, Federico gli da le dritte. Io guardo. Dentro di me sento una gioia limpida. Penso a questi anni in cui ho lavorato a questo progetto, con impegno ed entusiasmo. Penso a quanta fatica costa costruire qualcosa e a quanta parte del lavoro di questi corridori resta invisibile agli occhi di un comune spettatore che guarda
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le gare in tv. Sembra tutto facile, quando vinci. Mi sarebbe piaciuto chiedere a Elia di fare una fotografia insieme, io e lui nel tunnel del Poli con la copertina del giornale davanti a noi, ma non ho avuto il coraggio. Sono un pirla, lo so. Magari dopo Tokyo, se capiterà un’altra occasione, ci faremo una foto. Speriamo. Forza Elia!
Pazienza / Il lavoro di ricerca delle soluzioni ottimali richiede capacità, attenzione ai dettagli, metodo e soprattutto pazienza
Ciascuno dei prodotti va provato a differenti velocità perché non è detto che un tessuto che ha ottime caratteristiche di aerodinamicità a 50 km/h riesca a conservarle anche a 65 km/h.
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Poci's è un'agenzia fotografica di Bassano del Grappa nata dalla collaborazione tra Andy Pozzobon e Simone Colpo pocis.it
POCI'S 46
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PORTFOLIO 48
ANDREA POZZOBON E SIMONE COLPO
Sulle strade del Tour de France alla ricerca di un punto di vista diverso e dei tifosi a bordo strada
Se chiedete a loro, si definiscono osservatori per passione e fotografi per necessità. Fotografano con l’idea di poter prestare i propri occhi a chiunque, per condividere le emozioni e le gioie che le gare di ciclismo gli regalano. Scattano soprattutto in corsa dove il loro più grande nemico è il tempo, ma non dimenticano di guardarsi intorno. Tra le loro fotografie abbiamo cercato gente, notte, polvere, strada. 49
NOTTE
Luce e buio, dettagli e quadri di insieme, grandangolo e tele, la fotografia è il gioco degli opposti
«Sono circa dieci anni che lavoriamo insieme, prima saltuariamente adesso in pianta stabile. Ci siamo conosciuti ad una festa della birra, tra un bicchiere e l'altro, parlando di passione per la fotografia. Il feeling è stato immediato. Ciò che ci attrae della fotografia è la posizione di privilegio che abbiamo nel raccontare storie. Quello che tentiamo di fare è tenere nel nostro pensiero tutti gli appassionati di ciclismo e di sport che non possono godere di certi spettacoli dal vivo, in prima persona, da una posizione privilegiata, come succede a noi. A queste persone che guardano le nostre fotografie noi abbiamo la presunzione di prestare i nostri occhi per condividere le emozioni che viviamo in corsa, per strada, vicino ai corridori». 50
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POLVERE
Paris - Roubaix e Strade Bianche sono le gare in cui la polvere ci ricorda l’epica del passato
«Le nostre gare preferite sono la Parigi - Roubaix e la Strade Bianche, due gare per certi versi simili che si corrono in situazioni atipiche ed estreme, se vogliamo anacronistiche. Queste corse sono quanto di più vicino c’è a quelle che erano le normali competizioni dell'epoca romantica ed eroica del ciclismo. Proprio questo aspetto epico del contesto e del percorso crediamo che contribuisca a dare quel sapore unico al materiale scattato, che lo renda unico e dannatamente affascinante. In queste due corse fotografiamo uomini o donne, più che corridori». 52
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STRADA Nel ciclismo la strada è corsa e attesa, corridori e pubblico, rettilinei da percorrere in gruppo o tornanti da affrontare in piedi sui pedali
«L’elemento principale, che è poi il fattore comune a tutta la fotografia sportiva, secondo noi, è conoscere a fondo l'attività che si va a fotografare e soprattutto quello che puo vivere l'atleta, il suo stato d’animo durante la competizione. Senza questo aspetto essenziale ci troveremmo di fronte ad una didascalia o a una descrizione, più che a una foto. La tecnica di base e un’attrezzatura di qualità sono elementi fondamentali e imprescindibili. L'esperienza infine crediamo sia l' elemento chiave: capire come muoversi, dove andare, dove fermarsi, conoscere i corridori e le dinamiche di corsa, sapersi orientarsi e saper leggere una carta geografica. Stare dietro ai corridori in corsa tentando di anticiparli o seguirli non è per niente facile! Sono tutti elementi che a prima vista sembrano avere poco a che fare con la fotografia, ma senza questi nessun fotografo può essere in condizione di raccontare una storia per intero». 54
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te im sto m /M ag a in ur i/ o Lu Ill ca ar To etti ni n
MO MO G MO G AS A GA S T T S
Strade / Pedalare il Mogast significa affrontare stradine secondare e i più grandi passi delle Alpi
La retorica del muro è acqua passata. L’elemento che ha contraddistinto gli ultimi trent’anni di Berlino sono i suoi ponti: per densità rivaleggia con Venezia, per numero assoluto la doppia abbondantemente. Forse nessun altro simbolo come il ponte testimonierebbe in modo più efficace una città che coltiva il culto dell’unione, della trasversalità e delle minoranze forti. Alcuni dei più fascinosi sono addirittura ponti immaginari, il celebre quello che all’apice della guerra fredda l’ha legata alla Germania Ovest. Il Luftbrücke, o ponte d’aria, che per due anni scarsi gli alleati hanno sorvolato con stacanovistico piglio per bombardare di cibo e vestiti la parte Ovest della città, dopo che il blocco sovietico l’aveva isolata da ogni forma di collegamento terrestre. Una di questa connessioni immaginarie si apre sulla Müllerstraße: 3,5 chilometri al 2% di sincretismo multietnico nel quartiere popolare di Wedding e porta ai piedi del Mortirolo, ai suoi 12 chilometri
spaccagambe di apparentemente intatta, ombrosa, laboriosità alpina. Niente mattoni, dimenticate il calcestruzzo. Un pugno di amici che vivono a Berlino e qualche altro sparso per l’Europa, il vecchio gioco dell’iperbole, una provocazione, un paio di sms ed eccovi servito il materiale di costruzione di questo ponte. Così, a mille chilometri di distanza, nasce il Mogast, acronimo di Mortirolo, Gavia e Stelvio. Ritrovo diluito su tre giorni e culminante in una sgambatina, rigorosamente non competitiva, sui tre passi tra i più celebri delle Lepontine-Retiche lombarde. In realtà la strada, che per tradizione è sporca, ignorante e poco avvezza alla disciplina grammaticale ha poi tradotto questo acronimo in modi molto diversi. Dopo due edizioni che sono filate lisce, ad inizio 2019 il ventre del Monte Confinale ha cominciato a muggire. Una frana in fase di distaccamento e la conseguente chiusura forzata del Gavia, sommata alle nevicate di un
Telai in acciaio, titanio ed alluminio escono dall’oscurità per venire additati sui passi alpini da cicloturisti di tutto il mondo con lo stesso genuino entusiasmo con cui si nota un camoscio o uno stambecco.
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MOGAST è acronimo di Mortirolo, Gavia e Stelvio ma è anche sinonimo della ricerca di una bellezza insolita, a volte timida, spesso scalcagnata.
Fare gruppo / Al Mogast c’è tempo per pedalare in compagnia o per fermarsi a bordo strada a godere del paesaggio
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maggio in crisi d’identità hanno sconvolto il percorso, che si è infilato in valli laterali, strapiombi e serpentine. Tre passi alla fine anche in questo caso, perché comunque andare in bicicletta gli piace davvero. Tre giorni perché alla fine il cuore del MOGAST è festaiolo e mondano. Cinque gli ideatori, ovviamente un mélange eterogeneo. Volendo elencarli si fatica a non pensare ad una barzelletta degli anni Ottanta: un tedesco, un olandese, due italiani, un italo-tedesco. Nessuno direttamente coinvolto nel mondo della bicicletta: unica eccezione Niccolò Bonanno, telaista milanese in fuga, ora di stanza a Berlino. Già perché nell’Italia ossessionata dai cervelli in fuga ogni tanto ci si dimentica delle mani sapienti che salutano e vanno all’estero. Per il resto un geologo, un medico anestesista, un designer che da grande vuol fare l’infermiere, un corriere in bici. Il fulcro di questo piccolo evento, sempre rimasto intorno alla sessantina di partecipanti, è l’antica casa di guardia di uno sbarramento sul fiume Adda, all’altezza di Sernio in Valtellina. Sita sul punto più basso della
valle, offre a una tribù di David festanti ma rispettosi una visuale perfetta per guardare in faccia il proprio Golia, il Mortirolo. Una casa con un giardino immenso sul cui prato una volta all’anno sbocciano le tende e si mescolano gli idiomi di partecipanti da tutta Europa. Un giardino i cui centenari tigli si divertono a tornar ragazzini, dondolando una mezza dozzina di amache. Di Berlino il MOGAST conserva, compiacendosene, il feticcio della trasversalità. Lo si nota anche nei mezzi tecnici. Guardandosi intorno alla partenza per un attimo sembra che la dittatura del carbonio dell’ultimo decennio sia stato solo un (brutto?) sogno. Telai in acciaio, titanio ed alluminio escono dall’oscurità per venire additati sui passi alpini da cicloturisti di tutto il mondo con lo stesso genuino entusiasmo con cui si nota un camoscio o uno stambecco. Sul muro più alto della casa ci sarebbe appoggiata anche una tall bike. Appartiene a Valerio, un ragazzone di Roma. Insieme hanno già fatto il giro delle Alpi ma quest’anno non si è potuto allenare per via di un infortunio, non parteciperà,
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Salite / In fin dei conti ogni ciclista che si rispetti sogna di pedalare su un passo alpino
è qui solo per divertirsi e dare una mano. Peccato, perché avrebbe scatenato la standing ovation delle marmotte. In questo paesaggio le contaminazioni si sono mutate lentamente in tradizioni. E allora diventa normale che il benvenuto ai partecipanti sia un piatto di ribollita toscana preparato da una bionda ragazza austriaca. Nella musette un limoncello, caffè nero e frittata per colazione. La giornata del sabato si chiude però con un inchino alla regione, le teste abbassate su un piatto di leggendari pizzoccheri. Cala un silenzio breve, un attimo di stanchezza stemperato dalle papille gustative in contemplazione. MOGAST è anche sinonimo della ricerca di una bellezza insolita, a volte timida, spesso scalcagnata. Una delle espressioni migliori di questo spirito è Sebastian, studente di scienze motorie nella giovane e verde Friburgo. Un Adone biondo, calato dal suo Valhalla su un ronzino d’alluminio di fine anni Novanta preso in prestito da un amico. Sull’avambraccio scritti a penna il numero
d’assicurazione sanitaria e - non si sa mai - il numero di telefono di mamma. Non gli serviranno perché alla fine se la caverà soltanto con del gran accumulo di acido lattico nelle gambe e una leggera insolazione. Hiroshi, meccanico giapponese, ha appena finito di riparare la bici di Carmine, ricercatore e fisico napoletano. Abitano entrambi a Berlino a cinquecento metri di distanza, nel quartiere di Kreuzberg, eppure si sono incontrati qui. Tra gli strumenti utilizzati per regolare pipa e serie sterzo c’è anche una moka da dodici usata come martello. Anche se poi a risultare risolutivo sarà l’impiego di uno schiacciapatate di quelli pesanti. La bicicletta è pronta, i tre Moloch aspettano. Non resta che pedalare.
Cinque gli ideatori, ovviamente un mélange eterogeneo. Volendo elencarli si fatica a non pensare ad una barzelletta degli anni Ottanta: un tedesco, un olandese, due italiani, un italo-tedesco.
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SCOMO testo / Simone Barberi immagini / Federico Ravassard
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Andare in bicicletta d’inverno. Perchè? È freddo, un freddo che ti entra dentro, la vegetazione è stremata, viaggi in un mondo che è diverso da quello bianco a cui sei abituato d’inverno, non scivoli ma scorri, sembra tutto molto alla portata, ma il problema è che se ti fermi un attimo ti congeli. Se ti fermi per un the al rhum, muori. 66
La sera guardo le previsioni meteo, domani danno neve - e penso: domani vado, tanto non nevica. Alle sette del mattino sono in bici, e nevica. Davanti a me una strada bianca, innevata, tutto bellissimo finché la neve non si trasforma in acqua e lì inizia l’incubo. Riesco a malapena a raggiungere la prima stazione dei treni e tremo, tremo talmente tanto che in bici non riesco ad andare diritto, devo sforzarmi per tentare di seguire la linea bianca che delimita la strada. In stazione devo chiedere aiuto per mettere i soldi nella macchinetta per il biglietto del treno. Ecco, uno dice: vado a farmi un giro in ciclabile e quasi ci lascia la pelle per ipotermia. Quando uno è idiota, d’altronde… Non so cosa mi sia successo dopo tanti anni di bianco e sci, la bicicletta si è impossessata di me. Ho sciato, ho sciato tanto, su nevi bellissime, su nevi stupende e ho avuto la fortuna di sciare con delle persone fantastiche. Ho avuto la fortuna di sciare con gente forte, alpinisticamente forte, sciisticamente forte, umanamente forte, ho sciato tanti anni e quest’inverno ho deciso di pedalare, lunghe pedalate, che parti al buio e torni al buio. Parti con temperature sotto lo zero e torni con la strada ghiacciata. Perché?
Neve / In definitiva non ci sono condizioni impossibili per pedalare
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Tutto è cominciato ad una manifestazione che si chiama Carso Trail, dovevo andarci con Kapa, un amico che si è ammalato la sera prima della partenza, non ci volevo nemmeno andare a questa cosa. 350 chilometri e 6000 metri di dislivello, su strade bianche tra l’Italia e la Slovenia, da fare quasi in botta e in autonomia, ma sei scemo? Io proprio non ci volevo andare e alla fine invece ci sono andato da solo, tutta colpa del Kapa. Così mi sono ritrovato con un GPS e una traccia , e mo’ so’ cazzi tuoi, hai voluto la bici, pedala vecchio! Ho trovato in mezzo alla Slovenia il Losco, la Bonori, i ragazzi di UBM, e tutto è imploso. Come quando ho ricevuto a undici anni la bmx in regalo e mi sono sparato 1000 metri di dislivello in salita, e la sera avevo 38 di febbre. Che cosa mi dice la testa a volte non lo so. Forse la voglia e il desiderio di essere libero, l’opportunità che ti danno due ruote una catena e due gambe di raggiungere qualsiasi posto del mondo con le tue forze. È una cosa semplice, ti siedi, appoggi le mani sul manubrio, e fai girare le gambe. E la fatica ti fa spegnere il cervello. Alla fine, se ne hai, con una Graziella fai dei miracoli che il migliore dei telai in carbonio non ti lascerebbe nemmeno immaginare.
Esplorare / L’avventura ciclistica prevede anche i piedi a terra, fossi da scavalcare, bici da mettere in spalla
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L’AC IAIO TI DEVE NTRARE DENTRO COME IL MIGLIORE DEIMETAL ARISUDUERUOTE. 71
Pedalare fino a che non viene giù la serranda e allora ti fermi: sacco a pelo materassino e dormi. Pedalare fino a che non vedi il migliore dei tramonti, e allora ti fermi e rimani incantato. Pedalare fino anche non raggiungi il posto giusto per farti una birra, e allora bevi. Pedalare d’inverno ha la sua dimensione, intima, melanconica, per quel senso di tristezza che la vita scorre e che l’inverno non ti regala quel candore che vorresti, con quel fuoco che ti prendeva a settembre a sciolinare in cantina e a farti le prime uscite con gli sci in ghiacciaio. Che senso ha tutto questo? A gennaio sembra primavera, a ottobre sembra febbraio, a maggio sembra gennaio. Mi sento confuso come lo potrebbe essere un animale selvatico, un orso, un cervo, una lepre, confuso di fronte a tutto questo. Confuso di fronte alla mutevolezza delle stagioni. Confuso di fronte alla mancanza di buon senso. Confuso di fronte alla mancanza di umanità. E così ho deciso di pedalare nei boschi, nella natura, di pedalare piano, di pedalare veloce, con o senza sosta, di partecipare a delle cose dove tutti partono e fanno amicizia per strada, dove ho il piacere di fermarmi per godere di un panorama, dove ho il piacere di fermarmi e
Gruppo/ Grande o piccolo, decine di atleti o un amico solo, il ciclismo è gioco di squadra
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WOW Lago / Ogni uscita invernale italiana alla ricerca del tepore, finisce immancabilmente sul bordo di un grande lago
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Fermarmi…non è che ti puoi sempre fermare in certi posti lassù nel bianco, devi sempre correre, ascoltare le sensazioni, ascoltarti, fidarti delle sensazioni. Cammini su una lama e più alzi l’asticella in montagna, più devi essere attento. Non esiste lasciare tutto al caso, sennò ci lasci le penne. O impari ad accettare questa cosa, o è meglio se invece che andare in montagna stai a casa. Fermarmi, ho voglia di fermarmi, di fronte ad un tramonto, di fermarmi perché dopo essere partito da casa senza allenamento arrivo in bici a Padova dopo essere passato per Chioggia e sono esploso. Esploso. Trovo un parchetto poco distante dalla casa dove vivevo al tempo dell’università, sacco a pelo, materassino e fanculo, qui si dorme. Al mattino mi sveglio e faccio fatica a camminare, ho le gambe e le ginocchia devastate. Penso: se arrivo a Padova prendo il treno e torno a casa. Invece sono arrivato a Bassano, mi sono seduto su una panchina dopo aver comprato un pacchetto di sigarette e ho guardato verso la meta, Asiago, 30 chilometri di salita e ho acceso una sigaretta e poi un’altra ancora. Lo faccio o non lo faccio? Lo faccio. È stata dura arrivarci, fermarsi e pensare e rendermi conto che ho ancora almeno tre ore per arrivare a casa. Il tempo c’è. Fermarsi. In bici impari a fermarti, perché arrivi ad un punto che scendi da quel cavallo d’acciaio e non ce la fai più, esplodi. Ed è lì che impari a fermarti. Questa umanità deve imparare a fermarsi, si deve guardare allo specchio e deve avere l’onestà intellettuale di dire a se stessa che così non può andare avanti, nella vita non ci sono scorciatoie, le puoi prendere ma prima o dopo arrivi al punto dove scorciatoie non ce ne sono, e li vince chi le scorciatoie non le ha mai prese.
Le persone dovrebbero andare di più in bici d’inverno, godrebbero di più il mondo in primavera, godrebbero di più il tepore del sole e il rinascere della natura. Godrebbero del scintillio argenteo mattutino della brina, godrebbero il tepore invernale della fatica, della salita, godrebbero nel sentire la fatica, eviterebbero le scorciatoie e accetterebbero di buon grado la fatica. Godrebbero di sorrisi che compaiono all’improvviso. Vorrei ringraziare Marcello Di Adhoc e Marco Anesi che fomentano questa mia gioia rotolante e Manu che mi ha spinto a scrivere.
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Il direttore della fotografa Michele D'Attanasio, vincitore del David di Donatello nel 2017 per il film Veloce come il vento, racconta la sua amicizia con Danilo Di Luca.
DA GRANDE VOGLIO VINCERE IL GIRO D’ITALIA 78
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In questa storia ci sono tutti gli ingredienti per un soggetto perfetto. Un soggetto perfetto per una grande produzione cinematografica hollywoodiana o per quei film indipendenti, alla Scorsese di Toro Scatenato per intenderci. È una storia di provincia, di un bimbo talentuoso che da un paese abruzzese conquista le vette del ciclismo mondiale. E poi il baratro: il bambino diventato campione è squalificato a vita, allontanato in modo permanente da quello sport che ha sempre amato. Tutti lo abbandonano, ma lui non demorde. Continua con le bici, non potendo più usarle per gareggiare, le inizia a disegnare, a progettare, a costruire. Nel frattempo scrive la sua storia e ne fa un libro, un libro potente, spiazzante, epico. Giro d’Italia / Danilo Di Luca alza il Trofeo Senza Fine al termine del Giro d’Italia 2007
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Come in ogni grande storia ce n’è una più piccola che scorre parallela alla maggiore, facendo meno rumore ma muovendosi verso la stessa direzione, con tempi e modalità a volte diversi.
ABANO TERME (PD), 18 MARZO 1989
Due ragazzini coetanei (del 1976) sono nella stessa camera di albergo. Sono lì perché il giorno dopo disputeranno il campionato italiano CSAIN di corsa campestre. Prima di addormentarsi uno dei due ha già in mente il suo futuro e lo racconta all’altro: Da grande voglio vincere il Giro d’Italia.
MARINA DI UGENTO (LE), 15 GIUGNO 2019
Con il lavoro che faccio mi rendo conto di essere un po’ viziato su alcune cose. Ad esempio quando sono in trasferta ho sempre una camera matrimoniale ad uso singola. Nessuno mai si sognerebbe di mettermi in doppia con qualcun altro. Questo weekend è diverso. Non sto lavorando in trasferta, ma sto girando a Roma il nuovo film di Nanni Moretti, e quando sei a Roma giri dal lunedì al venerdì. Quindi questo sabato accompagno un mio amico che è ospite ad una convention che si svolge in Salento, esattamente a Marina di Ugento. L’organizzazione della convention ci sistema nella stessa camera; all’inizio mi sembra strano ma comunque non ho alcun problema in merito, anche perché io e il mio amico ci conosciamo da molto tempo. Effettivamente però, nonostante la frequentazione di lungo corso, non abbiamo mai dormito assieme. Dopo poco però pensandoci meglio mi viene l’illuminazione: Danì ma ti ricordi quando abbiamo dormito assieme ad Abano Terme? Quando mi dicesti che da grande volevi vincere il Giro d’Italia? Danilo il Giro lo ha vinto. Lo ha vinto nel 2007. Il giorno dopo avermi raccontato questa sua voglia di vincerlo, in quel freddo e nebbioso inverno del 1989, i tacchetti delle mie chiodate scorrevano veloci sul terreno molle e fangoso della pianura padana e mi portano per primo sulla linea del traguardo. Avevo vinto, ma non stravinto, e quando sei così ragazzino o sei due volte più forte degli altri oppure difficilmente diventerai un campione. Danilo nel ciclismo, il suo sport, era nettamente superiore già a 12 anni. Danilo ha continuato nello sport, nell’agonismo, io invece ho smesso da lì a poco. Danilo sempre più ciclista professionista, io in preda alle turbe adolescenziali. Quando poi capii che il cinema era la mia strada ero poco più che un ragazzino. Ma l’età anagrafica dello sport è diversa da quella della vita reale, Danilo infatti, ragazzino non lo è mai stato. Nel 1999 quando io dividevo un minuscolo sottotetto bolognese con altri studenti del Dams, mangiavo pasta e tonno per risparmiare, pensando ad un’idea utopica di cinema e arte, Danilo era già secondo nella classifica della prima settimana del Giro d’Italia.
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Mentre aspetto una telefonata, cammino senza una meta nelle strade adiacenti Piazza Vittorio. Una telefonata che sapevo sarebbe arrivata da lì a poco, una chiamata che probabilmente aspettavo da qualche anno. Il giorno prima ho vinto il David di Donatello per la fotografia di Veloce come il vento. Appena ho sentito il mio nome ho esultato all’unisono guardandomi dritto negli occhi con Ilaria, la mia fidanzata. Mi sono alzato di scatto e sono salito sul palco di corsa, come per disputare una volata per il primo posto. È stato come vincere una gara, ma non una gara qualsiasi, una gara importante, una gara epica, quella gara che i tuoi tifosi ricorderanno a lungo. Lì sul palco, davanti a tutti, non ho alzato il David al cielo con le due mani perché ero molto emozionato, sennò lo avrei sicuramente fatto. È Danilo al telefono: si complimenta con me, mi dice che ora non sarà più come prima, che ce l’ho fatta, che è contento per me. Mi manda un filmato su whatsapp, un filmato della diretta Sky della mia vittoria trasmessa alla televisione: sento le voci di Danilo e Rosita (la sua compagna) che fanno il tifo per me. Quando annunciano i cinque candidati, di uno dei miei avversari Danilo dice questo è uno tosto... e poi, quando Ninì Bruschetta, affianco ad Eva Riccobono, annuncia il mio nome come vincitore, Danilo esulta, e lo fa in maniera forte e genuina. Quando ho visto il filmato sullo schermo del telefonino mi sono commosso: pochi anni prima io ero davanti ai televisori di mezza Italia, davanti ai televisori a tubo catodico che mi esaltavano per le imprese di Danilo, quando lo vedevo scattare imperterrito, quando lo vedevo soffrire terribilmente, quando lo vedevo vincere. Ed ora è lui che si complimenta con me, così semplicemente, non mi pare vero. Quando chiudo la telefonata mi sento di far parte di un’élite e ora cammino con un passo molto più leggero rispetto a prima.
ROMA, 28 MARZO 2017
A soli sette secondi da Jalabert, in quel giro drammatico che segnò l’inizio della sconvolgente fine di Marco Pantani, Danilo era più che adulto, aveva già visto cose e vissuto emozioni e situazioni particolari che molti non avranno modo di fare in tutta la loro vita. Continuando a parafrasare l’età anagrafica dell’atleta Danilo e dell’aspirante cineasta Michele, nel 2007 a trentuno anni, quando Danilo, al culmine della sua carriera agonistica, vince sia il Giro d’Italia che la Liegi BastogneLiegi, io non mi trovo più nei sottotetti bolognesi ma faccio già il direttore della fotografia da ormai tre anni. I film che realizzo non sono da Giro d’Italia ma soprattutto opere prime e piccole produzioni. 2014: Fine della carriera sportiva di Danilo, l’anno prima è stato il suo ultimo da corridore. Io realizzo invece due film che segneranno una svolta nella mia carriera da direttore della fotografia. Nell’ordine sono: Lo chiamavano Jeeg Robot e Veloce come il vento.
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Scambio / Danilo e Matteo si scambiano Trofeo Senza Fine e David di Donatello
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FRECCIA BIANCA 8881 PESCARA-LECCE, 15 LUGLIO 2019
Finalmente io e Danilo siamo nuovamente coetanei. Come lo eravamo stati in quell’inverno del 1989, torniamo ad esserlo ora. Mentre penso a questo mi soffermo sulla busta di cellophane sotto il sedile di Danilo. Lì dentro c’è il trofeo senza fine destinato al vincitore del Giro d’Italia. Mi sembra un po’ sacrilego portarlo in quel modo, lì dentro, fino a Lecce, ci vorrebbe almeno una berlina con autista e scorta a seguito per trasportarlo. Mi rendo conto però che è tutto relativo: qualsiasi cosa tu abbia fatto perché ne avevi un bisogno assoluto, quasi come respirare, e questa cosa ti è riuscita bene, vuol dire che non avrai rimpianti, vuol dire che sarai in pace con te stesso, che non avrai nessun interesse a porti al di sopra degli altri, perché la tua vita, la tua passione, ti hanno già gratificato totalmente. E allora capisco il perché del cellophane, e il perché sono ora lì con Danilo
STATALE 16 ADRIATICA, 21 AGOSTO 2019
Stazione di Lecce / Matteo e Danilo in attesa del treno per Pescara, fotografati con una vecchia Kiev4 - macchina russa degli anni '50 (il trofeo senza fine è nel sacco di plastica)
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Danilo pedala velocemente ed io gli sono a ruota. No, non c’è nessuna gara. Abbiamo fatto un giretto qualche chilometro più a sud di Pescara. Io oggi non ho nulla da fare, ma Danilo è un po’ in ritardo perché deve riaprire il negozio di bici. Quindi inizia ad aumentare il ritmo, aumenta chiaramente sapendo che dietro ci sono io, quindi è un aumento che anche un super amatore saltuario come me riesce a tenere. Mi devo concentrare però, il contachilometri segna più di 40 chilometri all’ora e quindi devo stare incollato alla ruota di Danilo per non perdere la scia. Nel fissare la ruota che ho davanti, non posso fare a meno di fissare anche le gambe di Danilo, e allora mi viene in mente l’incipt di Camera Chiara: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’imperatore» dice con stupore Roland Barthes vedendo una foto del 1852 di Girolamo, l’ultimo fratello di Napoleone. Ecco io sto vedendo dal vivo, dallo stesso punto di vista, dalla stessa soggettiva che hanno avuto in passato campioni dal calibro di Pantani, Valverde, Contador, Armstrong, Ullrich, Bartoli, Bettini, sto vedendo le stesse gambe, alla stessa distanza. Ecco, ora mi sento in pace con me stesso e credo che lo sia anche Danilo
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testo / Filippo Cauz immagini / Francesco Dolfo
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Nell'inverno del 2016 lo scalatore statunitense Joe Dombrowski lanciò un'idea: organizzare un record dell'ora in salita. La prova sull'ora stava conoscendo una rinnovata vitalità nei velodromi, e gli scalatori guardavano con invidia a tutto questo movimento.
Perché non scegliere dunque una lunga ascesa su cui mettere a confronto le proprie VAM in una prova individuale? Quella di Dombrowski era soltanto una boutade, ma fu apprezzata da molti: le cronoscalate sono una disciplina in via d'estinzione nel ciclismo, troppo complicate dal punto di vista logistico e troppo poco selettive nel panorama attuale, dove persino le ascese di scalatori solitari sono divenute un evento raro. Eppure il loro fascino resta intatto, tanto che in un ciclismo più distante che mai da quello dei grandi giri e dei professionisti, decisamente più vicino a quelle delle sfide dei bambini nel cortile della scuola, un paio di anni fa è nata una cronoscalata imprevedibile. Talmente inattesa da disputarsi in un luogo privo di salite.
Milano è una città piatta: il massimo dislivello cittadino è di 45 metri. Tuttavia anche Milano ha le sue salite e non mancano i ciclisti che a queste brevi ascese, benché tutte artificiali, si sono affezionati. C'è la più impegnativa, lo sterrato che sale in vetta al Monte Stella. Ci sono i romantici tornanti che scavalcano la ferrovia per buttarsi verso la Triennale. E poi c'è un reticolo di cavalcavia e sottopassi costruiti per permettere al traffico di scorrere più fluente evitando intersezioni problematiche. Chiunque conosca il traffico veicolare di Milano sa bene che il termine fluente non è applicabile, ma l'urbanistica è fatta anche di fallimenti: se lo scopo principale di questi manufatti è finito presto vanificato, il tempo ha fornito una motivazione nuova alla loro esistenza. Sono le salite della Milano che pedala.
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Nel 2002 i ciclisti della Critical Mass costituirono persino un ente immaginario per sostenerle: il Comitato per la Salvaguardia delle Salite e Discese Milanesi. Era uno scherzo, un atto d'amore, uno stimolo a pedalare su tutti questi dislivelli.
Bambini / Il futuro del ciclismo sono loro, oltre ad appassionarli serve creare gli spazi per pedalare
Più di quindici anni dopo l'idea è tornata a galla nel momento in cui uno dei negozi più creativi della città, la Stazione delle Biciclette, ha traslocato proprio alle pendici di un cavalcavia: «perché non organizzare un circuito di cronoscalate sulle salite della città?». Una visione fin troppo ambiziosa, ma che in qualche modo si realizza da due anni, in un pomeriggio di settembre durante il festival Milano Bike City. Scala lo Scalo, la prima cronoscalata cittadina, dal semaforo davanti al negozio sino in vetta, una corsa di una manciata di secondi per coprire i 400 metri scarsi del Cavalcavia di Corso Lodi, è nata così. Un modo giocoso per rendere omaggio alle salite di Milano, per esplorare le mille diversità del ciclismo urbano, e per portare nel quartiere la festa di strada che è il ciclismo. Corso Lodi è infatti una grande arteria urbana, con due ampie carreggiate trafficate divise da una pista ciclabile, che si snoda lungo il tracciato un tempo occupato dal Canale Redefossi. Ma prima di tutto è una strada di quartiere, su cui si affacciano decine di negozi di ogni genere, i cui marciapiedi sono trafficati di pedoni ad ogni ora, che camminano tra palazzi densamente abitati. La scuola e la chiesa sono dietro l'angolo, tanto che non sembra nemmeno avvertire l'imminente minaccia di una trasformazione già cominciata nelle aree adiacenti, che presto coinvolgerà l'intera area dello scalo ferroviario di Porta Romana, sradicando quella bizzarra foresta urbana sviluppatasi spontaneamente tra i binari abbandonati sotto al cavalcavia. Scala lo Scalo è una cronoscalata con tutti i crismi, ci sono lo starter (che sventola una bandiera europea), l'arco gonfiabile al traguardo, un cronometro ufficiale con fotocellule, un cronista che dà il via e accompagna i concorrenti e una sfilza di premi per ogni categoria. Ciò che la differenzia da tutte le altre, però, è che manca del tutto l'esasperazione. Sì, un paio di men in lycra sono passati, ma la stragrande maggioranza del gruppo è composta da adulti e bambini che si presentano per divertirsi, per far parte di un circo in cui gli stessi organizzatori si agitano vestiti in maniera strampalata, cercando di gestire un pomeriggio che ha tutti gli elementi per diventare incontrollabile. Si corre sempre in due, per quanto le classifiche siano a tempo, un po' come una prova di inseguimento individuale su pista, solo che non c'è spazio per inseguirsi e la pista è... ciclabile. I primi a sfidarsi sono i bambini, suddivisi in due categorie: con o senza rotelle. Categorie abbastanza flessibili, a dire il vero, visto che si presentano monopattini, draisine o skateboard,
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ma non se ne accorge nessuno. Per i bambini la sfida è con il concorrente diretto, il cronometro non viene degnato di uno sguardo. C'è chi infrange le categorie perché vuole sfidare un genitore (e immediatamente viene generata una graduatoria apposta) e chi ruzzola a terra dopo pochi metri. È il caso in cui alle piccole sbucciature si aggiunge l'imbarazzo dell'errore in pubblico, con conseguente pianto a dirotto. Ma è anche il caso in cui chi cade viene coccolato, rincuorato, rifornito di ginocchiere e gomitiere in prestito e riavviato verso il traguardo. I bambini che cronoscalano sono i primi a mettersi in gioco, arrivare al traguardo per loro è motivo di orgoglio, è un'impresa che appare come quella di un campione sulle Alpi.
Acciaio e strano / I tubi di acciaio sono il materiale con cui si può costruire qualsiasi tipo di bici
E mentre i più piccoli si sfidano, al tavolo delle iscrizioni (il cui raccolto andrà tutto a sostenere World Bicycle Relief, organizzazione internazionale che distribuisce biciclette nei Paesi più poveri) si segnano i tempi dei concorrenti su una distesa di post-it e si inventano le categorie per le gare successive.
Bici da corsa, a scatto fisso, pieghevoli, cargo (caricate di copertoni, fusti di birra o spettatori), tall bikes... ma c'è spazio anche per la sfida tra mezzi del bike sharing o per i tandem impossibili, ovvero due persone sulla stessa bici. Tutti gli altri vanno nello stile libero, la gara più partecipata, quella dei ciclisti urbani.
Sono poco meno di un centinaio i corridori che si presentano al via in questo giovedì pomeriggio di fine estate. In palio ci sono dei trofei autoprodotti unendo vecchie coppe, pezzi di bicicletta e legno, incollati in maniera nemmeno troppo salda, perché a tenerli insieme davvero sono quei legami indissolubili che rappresentano il vero spirito di questa iniziativa, uno dei più schizzati, creativi e coinvolgenti eventi sportivi in circolazione. I premi migliori vanno sempre alle categorie più bizzarre, naturalmente. Ma in palio c'è soprattutto la felicità, perché alla scalatella sorridono tutti: i partecipanti e chi li ha accompagnati, i passanti, i negozianti della via che offrono frutta e gelati, le anziane signore affacciate alle finestre... c'è persino un gruppo di amici che ha preso posto su una terrazza con vista sul cavalcavia e assiste alla corsa in mutande bevendo birre fresche, tanto che a guardarli sembra quasi di essere
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nelle Fiandre. Invece è il sud di Milano, il muro è una striscia rettilinea di cemento senza pendenze esigenti, e alle spalle del cavalcavia il sole si sta coricando in un cielo rosso. Tra poco si accenderanno le luci, i fusti di birra da svuotare si accumuleranno, il traffico di Corso Lodi scemerà e lascerà spazio alla socialità e alla festa. Alle dieci di sera, a premiazioni finite, dalla vetta del cavalcavia sbuca lo sciame della Critical Mass, passato per una sosta che si tramuterà in un punto d'arrivo. Tra loro si aggira un ragazzo vestito da zebra; dice che è il suo modo di rispondere alla Settimana della Moda che sta soffocando di auto la città, ma a guardarlo pedalare sembra di più un animale raro sfuggito dallo zoo... e approdato al circo. Alla festa del ciclismo urbano, che come ogni circo è pieno di splendide acrobate e di strani freaks, ed è questa diversità a dare a tutti la forza per arrivare in cima ad ogni salita.
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Ad esempio a me pia ce il Sud testo e immagini / Paolo Ciaberta
“Ad esempio a me piace la strada Col verde bruciato, magari sul tardi Macchie più scure senza rugiada Coi fichi d'India e le spine dei cardi” [Rino Gaetano, cantante]
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Così inizia la canzone Ad esempio a me piace il sud di Rino Gaetano e, ad esempio, il sud piace anche a me che spesso lo scelgo come meta dei miei viaggi. Potrei trovare motivazioni nel buon cibo, nel caffe a 80 centesimi, nella luce che trasforma la realtà in bellezza e le foto in quadri, nel caos calmo delle città e dei borghi dove il tempo scorre placido, nelle vecchiette accovacciate dietro le gelosie nelle ore più calde o nelle sedie sui marciapiedi nelle ore più fresche; ma no, i motivi non sono questi o meglio, non sono solo questi, quello che più mi piace è sentirmi rapito e portato altrove, sensazione non solo fisica ma anche mentale, il sud che aggredisce i sensi e astrae dal mondo esterno, il caldo sulla pelle, la luce accecante, l'incessante ed estenuante frinire di cicale, l'odore di terra bruciata, le pedalate circolari e ripetitive, tutto questo mi induce uno stato di abbandono, una sorta di trance sui pedali o per rimanere in tema di citazioni musicali un rapimento mistico e sensuale.
Trance... In queste condizioni il viaggio diventa una meditazione in movimento e se poi ci aggiungi tutte le rappresentazioni religiose ai bordi delle strade, allora il quadro si fa completo, un Padre Pio di qua, un Gesù di la e Madonne ovunque fanno sì che la meditazione sconfini nel misticismo. Ma partiamo dall'inizio, essendo nato nel '900 decisamente non rientro nella categoria millenial e questo fa di me uno con alcune abitudini che si possono definire all’antica ed aprire la cartina sul tavolo è il primo passaggio che faccio quando preparo un viaggio in bici, sì la cartina, quella cartacea che apri in un attimo ma poi non sai mai richiudere bene e ti accontenti quando almeno riesci a renderla un rettangolo accettabile. La cartina è grande, ti da un'idea chiara del contesto, ti permette di scorrere il dito sopra i vari paesi che
Niente auto / In alcuni casi, come in un film di Montalbano, pedalare al Sud significa non avere auto intorno
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Trance, dal francese transe estasi, rapimento, o dal latino transire passare, trapassare 97
attraversi e di cerchiarli con una matita e scriverci sopra appunti, questo però non significa che rifiuto la tecnologia, i file GPX, le altimetrie, a tracciare i percorsi sui siti cartografici mi ci diverto pure ma per me il primo approccio deve essere con le vecchie mappe, deve essere tattile perché come dice Paolo Rumiz, le mappe non servono a orientarsi, ma a sognare il viaggio nei mesi che precedono il distacco. Quel giorno, su quel tavolo con la grande cartina sopra disegnai una delle tappe più brevi di sempre, quasi non ci credo, appena 50 chilometri, ma mai la scelta fu più azzeccata, il dito scorreva su nomi altisonanti di paesi che non puoi attraversare senza concederti soste; Alberobello, Locorotondo, Martina Franca e Grottaglie tutto in soli 50 chilometri. Distanza veramente minima per un tragitto a tappe ma visto che i viaggi per me sono anche esplorazione non li misuro solo in distanza ma anche in profondità e quindi non mi sono fatto scrupoli.
Paradiso Bianco / Alberobello, Locorotondo, Martina Franca e Grottaglie: tutto nel raggio di 50 km
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Fate il caffè, una volta pronto mettetelo in una tazzina, intanto mettete in un bicchiere di vetro qualche cubetto di ghiaccio e un dito di latte di mandorle, aggiungeteci il caffè che necessariamente deve passare prima dalla tazzina. Variante: aggiungere una piccola scorzetta di limone. 100
Caffè leccese (Caffè, ghiaccio e latte di mandorle).
Incontri / Pedalare al Sud significa incontrare cicloviaggiatori e pedalatori locali
Giuseppe Pedalo leggero e spensierato verso sud quando sulla strada vengo raggiunto da Giuseppe, non ci conosciamo ancora ma quando incroci qualcuno che pedala in solitaria tra le lande desolate della Puglia a luglio, allora non puoi che percorrere un tratto di strada insieme. Scopro che Giuseppe organizza l'Apulia Trail e sta ispezionando il percorso che attraversa alcuni dei luoghi più belli della regione. Parliamo della ciclovia, delle difficoltà che incontrano per svilupparla al meglio ed entriamo nelle problematiche burocratiche e organizzative che riguardano gran parte dell'Italia, in bicicletta si possono fare grandi discorsi e sulle strade minori, sgombre di auto, è un piacere. Prima che una foratura ci separasse mi conduce tra le vie strette e labirintiche di Alberobello, a parte la quantità di turisti che affollano la città non posso che rimanere estasiato da tanta grazia.
Dopo esserci fatti a vicenda le foto di rito il mio viaggio continua nel bianco predominante di Locorotondo, nell'eleganza di Martina Franca, nelle ceramiche e nella decadenza di Grottaglie dove mi fermo per la notte.
Eupremio A Grottaglie ho conosciuto Eupremio, sono stato il primo ospite nella sua casetta di pietra in pieno centro storico, luogo barocco con evidenti segni di abbandono e decadenza ma di altrettanta vitalità e antica bellezza. Eupremio fa il musicista e la sera mi ha invitato a mangiare insieme nel pub del paese, Piazza del Congo, antico e bel locale con una buona birra artigianale e hamburger del presidio, che son sempre hamburger ma più buoni. Abbiamo parlato della vita del paese, di suo figlio di otto anni che gioca a calcio e fa il portiere e potrà giocare
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Gravel / La bici da viaggio per il Sud deve essere adatta alle deviazioni sulle strade sterrate
ovunque tranne che nel Foggia, delle percocche che non si trovano al nord e sono ottime per aromatizzare il vino, del sindaco che fa parte di un partito che si chiama movimento per il sud e degli sforzi per recuperare le bellezze barocche da troppo tempo trascurate ed infine degli immancabili temi di quel momento; il Mondiale di calcio e il passaggio di Ronaldo alla Juventus. Parliamo anche dei molti murales che tappezzano il paese, ispirati ai cartoni animati degli anni '80 e '90, li realizza un suo amico ma non a caso qua e là, i suoi muri li sceglie con cura. La valle d'Itria è dolci colline, verde di vigneti e campi coltivati, bianco di trulli distribuiti nel paesaggio e giallo di scorzetta di limone del caffè leccese, la terra d'Arneo invece è una tavola piatta, verde di ulivi centenari e rossa di terra bruciata, la scorzetta qui non la mettono e l'odore del mare si fa più persistente.
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Gran parte del viaggio l'ho fatto percorrendo la ciclovia dell'acqua, uno stralcio di un più grande sistema di circa 500 chilometri che fa parte del progetto CYRONMED (Cycle Route Network of the Mediterranean) ed inserito nel piano della rete ciclabile della Regione Puglia. Il tratto che ho attraversato comprende la Valle d'Itria, porzione di territorio pugliese raggruppato tra le provincie di Bari, Taranto e Brindisi e la terra d'Arneo, ideale confine dove inizia il Salento. Sì, il Salento del sole del mare e del vento. Ma questo è un altro viaggio. Amo il sud perchè è ricco di bellezza, non so cosa intendesse Dostoevskij quando scrisse che la bellezza salverà il mondo ma istintivamente mi viene da essere d'accordo e se poi proprio non salva il mondo, di sicuro salva me.
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IL NOSTRO testo e immagini / Daniele Cappato
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FU GHINO 105
ORE 7:57 Nelle pause caffè del Novembre più piovoso di sempre fantasticavamo di mettere a segno quella che, senza troppa fantasia, avevano denominato la fuga.
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fughino s. m. [der. di fuga, con suffisso dim.]. – In usi region., fare fughino, marinare la scuola; è espressione del gergo studentesco, corrispondente alle più note fare forca, fare sega [Treccani]
Il piano era semplice: al primo giorno utile di sole infrasettimanale, dopo aver espletato le pratiche di padri accompagnatori di prole all’asilo, avremmo inforcato le biciclette dirigendoci verso sud, senza necessariamente avvisare le mogli o cancellare tutti le riunioni dalle rispettive agende. Le ore dei fine settimana volavano via in quella routine familiare - piscina, lezione di musica, festa di compleanno, pranzo in agriturismo, cinema o pizza - che lascia spazio alla bici solo nelle primissime ore della mattina, impraticabili in pieno inverno. Iniziavamo a essere in crisi di astinenza e fuggire via in un giorno lavorativo ci sembrava l'unica opzione possibile per rimetterci in sella. Un Dicembre che profumava di Natale, un paio di brindisi di troppo e improrogabili impegni lavorativi da chiudere assolutamente entro l’anno fiscale sono stati sufficienti a mandare all’aria il nostro già fin troppo velleitario piano. Gennaio è il mese dei buoni propositi, e la fuga ci tentava come le caramelle della Befana. Assentarsi dall’ufficio dopo due settimane di ferie pareva, tuttavia, poco professionale. Il giorno 22 gennaio il sole sorge alle 7:57 e questo dato astronomico di poca importanza per i più, è stato per noi determinante per deliberare, alquanto arbitrariamente, che avremmo goduto di luce sufficiente a completare un giro in bici, ribattezzato subito come il fughino, prima di andare in ufficio. Negoziata la consegna pargoli con le rispettive consorti ci siamo dati appuntamento ben prima dell’alba sui Navigli, ma forse non presto abbastanza: il buio di Milano era già invaso da automobilisti desiderosi di arrivare (dove?) che ci obbligavano
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-5 GRADI
a restare in campana fin dai primi metri della nostra pedalata. Luci accese, casco ben allacciato in testa e caviglia pronta a sganciarsi in ogni momento. L’alba ci ha colti sulla ciclabile del naviglio Pavese, schizzando i primi brandelli di azzurro chiaro con lame di rosso fuoco mentre sulla statale sfrecciavano indisturbate truppe di camion e tir. A noi quel nastro d’acqua, il naviglio appunto, bastava per separare la vita reale dalla nostra avventura, il traffico della statale dai campi pieni di brina che finalmente riuscivamo a vedere alla nostra destra.
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Nei pressi di Badile le ruote hanno abbandonato l’asfalto per raccordare una serie di sterrati e strade di campagna che ci avrebbe portati fin sul Naviglio Grande. A meno di 15 chilometri dalla Madonnina eravamo nel nostro parco giochi preferito: il Parco Agricolo Sud. Sterrati coperti di brina, pozzanghere ghiacciate che si rompevano con rumori sinistri al nostro passaggio, aironi che ci danzavano intorno, il massiccio del Monte Rosa illuminato dalla luce sempre più tersa del mattino e bianco, bianco dappertutto che risplendeva intorno a noi. Ci risveglia dal nostro idillio una strada di campagna asfaltata a una corsia sola dove orde di macchine si erano precipitate per evitare un ingorgo sulla statale poco più in là. Eravamo diventati trasparenti, forse perché in perfetta sintonia con l’ambiente circostante. Ci è mancato veramente poco che il nostro giretto si concludesse sul cofano di un automobilista accecato dal desiderio di arrivare in ufficio. Rompiamo il ritmo, rallentiamo, anzi ci fermiamo ogni volta che veniamo attaccati da una batteria di automobili e il freddo, complici i -5 gradi dell’atmosfera, ci entra definitivamente nelle ossa. Raggiungere il successivo pezzetto di sterrato significava la salvezza. Il rumore delle ruote sulla ghiaia ci riporta in quella dimensione magica capace di alleggerire l’ingombro di una giornata lavorativa alle porte. Poco importa se ci siamo pure un po’ persi, se la media di velocità non sarebbe stata quella di una Granfondo o se il telefono del lavoro iniziava a riempirsi di notifiche. Trovarsi a fare a gara a chi vedeva il prossimo airone, cigno o semplice anatra come bambini di città che vedono per la prima volta la campagna suggeriva
di riconsiderare le priorità della giornata. La bici è il mezzo che usiamo per riconnetterci con la natura, il modo per evadere dalle colate di cemento che invadono città come Milano. La strada di ghiaia che si perde nei campi è l’irresistibile tentazione che ci spinge a conquistare ad ogni uscita un pezzetto nuovo di campagna. Il profumo di brioche di un forno di Gaggiano ci rapisce proprio mentre le falangi iniziavano a dare forti segnali di congelamento e pazienza se arriveremo tardi alle rispettive riunioni delle 10, il mantenimento della mobilità articolare delle mani è diventato un bisogno primario. Zampettando goffi nelle scarpette da ciclista incontriamo gli sguardi severi degli avventori locali. Neppure in inverno andate a lavorare la mattina? sembrano chiederci in coro. La ciclabile lungo il Naviglio Grande è un lento ritorno alla realtà. A mano a mano che si procede verso il centro città, il cemento riempie gli spazi vuoti, coprendo i prati e riportandoci in un mondo a noi fin troppo familiare. Quel giorno, riguardando le tracce su Strava alla pausa caffè, tra un colpo di tosse e uno starnuto, abbiamo realizzato che l’avventura è facilmente raggiungibile anche per tre impiegati intrappolati nel centro città come noi. Bastano due ruote e qualche manciata di strade bianche ricoperte di brina. Provare per credere.
Parco Agricolo Sud. Sterrati coperti di brina, pozzanghere ghiacciate che si rompevano con rumori sinistri al nostro passaggio, aironi che ci danzavano intorno, il massiccio del Monte Rosa illuminato dalla luce sempre più tersa del mattino e bianco, bianco dappertutto che risplendeva intorno a noi. 109
testo / Dario Reda
CARTELLI PAZZI Sono a Barcellona e ho un appartamento in centro tutto per me. Il giorno prima avevo concluso la mia Three Peaks Bike Race, evento bikepacking da Vienna a Barcellona, passando per lo Stelvio, il colle delle Finestre e l’Arcalis Ordino in Andorra. Cercavo un alloggio, ho trovato il fratello di un mio amico che non solo mi ha ospitato ma mi ha perfino lasciato le chiavi di casa, lui doveva tornare in Italia per le vacanze estive. Salutandomi mi dice: Dario, stai qui quanto vuoi, fai come se fosse casa tua. tua. Erano ufficialmente iniziati i problemi. Sí, perché avevo finito la TPBR ma la mia avventura estiva doveva continuare verso la Spagna del sud e poi verso il Portogallo. Purtroppo le mie energie, soprattutto quelle mentali, stavano finendo e avere una casa tutta per me a tempo indeterminato in una città come Barcellona non aiutava di certo a proseguire nel mio viaggio. Mi scrive un mio amico dall’Italia dicendomi che sta per arrivare anche lui nella città catalana per una vacanza e mi convince a fermarmi ancora qualche giorno. Dopotutto, non ho cronometri che scorrono, ho una casa tutta per me e nessuno che mi rincorre. Il giorno di pausa si trasforma in tre giorni di vacanza totale, dimenticandomi completamente dell’avventura programmata ed arrivando a pensare di fermarmi una settimana a Barcellona per poi rientrare a Padova con un aereo. In fondo, chi me lo fa fare?
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Pensavo al motivo per cui stavo facendo tutto questo, al motivo per cui pedalavo, al perché avrei dovuto continuare la pedalata e non riuscivo a trovare una risposta. La sera del terzo giorno di pausa, andando verso il ristorante, vedo una serie di cartelli di passo carrabile attaccati fuori da vari garage. Passo carrabile in spagnolo si dice vado permanente,, ripeto, VADO PERMANENTE. te Capite? Comincio ad unire i puntini. In italiano la frase punta sul negativo, si dice infatti DIVIETO DI SOSTA, cioè vietato stare fermi, fermi, mentre in spagnolo è traducibile, mettendoci un po’ di romanticismo, in moto continuo,, ed è una figata, no? Cavolo, ora continuo capisco perché e per chi faccio tutto questo. Per me. Per questo mio moto interiore che devo soddisfare. Per questo non riuscire a star fermo. Non per una gara e nemmeno per un ordine di arrivo, ma per me, per questo mio vado permanente che mi porta a girare, a pedalare a non fossilizzarmi in un posto e ad andare sempre avanti. Ecco a quel punto era tutto chiaro. La mattina seguente sono ripartito alla volta di Valencia, lasciando una casa tutta per me, una bella città, degli amici e delle sicurezze. Non nego che i primi chilometri, uscendo da Barcellona, guardavo indietro. La tentazione di ritornare dove c’erano le mie sicurezze era tanta e molto forte, ma il mio vado permanente ha prevalso di nuovo. Vietato sostare.
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I boschi tornano sempre testo Romina Venier immagini Giuseppe Ghedina
«Un giorno mentre la lavi, ti scivola dalle mani e si rompe, la tazzina della nonna. All’inizio ti disperi: potrai mai sopravvivere senza quella tazzina che era così bella, piena di ricordi, significati, amore? Quasi subito ti accorgi che sì, puoi sopravvivere benissimo. E così da quella tazzina in avanti, capisci che le cose, e anche le persone, le puoi lasciare andare tutte». Benedetta Barzini
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nche io ho imparato a fare senza delle mie radici che ho lasciato in Friuli. Per un lungo periodo me ne ero scordata, affascinata dalla novità ho cavalcato il senso di scoperta, qui in Ampezzo. Le Dolomiti sono un territorio immenso in termini di bellezza. Partire all’alba, portarmi sotto al campanile prima del suono dell’Ave Maria, sentirne i rintocchi mentre imbocco la strada per Pocol, il profumo di caffè della moka che esce dai balconi delle case la mattina, o il profumo dei lieviti che sale dai laboratori di pasticceria, il primo sole sulla pelle. Gli ultimi due chilometri per il Passo Giau: se la memoria non mi tradisse potrei pensare che questo luogo è sempre stato così, appartenuto ai pascoli verdi e alle mucche che si alternano da un lato all’altro della strada. I pendii di rododendro fioriti, l’erba bruciata dal freddo durante l’autunno che attende l’arrivo della neve.
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I confini della foresta sembra stiano cambiando: i boschi alpini resisteranno solo alle quote più elevate, probabilmente si impadroniranno dei pascoli, sembra che la linea dell’abete rosso si alzerà di duecento metri e che farà troppo caldo per queste piante per crescere sotto i 700 metri di altitudine.
Le lucciole, che dolce ricordo. La tempesta Vaia è stata rivelatrice di boschi stressati da tempeste, crolli, temperature elevate. C’è un parassita lungo cinque millimetri di nome Bostrico che sta attaccando gli alberi stressati e li secca, spostandosi da una pianta all’altra.
Partire in bici di mattino inoltrato ormai lo faccio solo ad ottobre. Nei mesi estivi la calura è talmente insopportabile da indurmi a pensare che un domani nemmeno partire all’alba basterà più e mi toccherà pedalare di notte. Probabilmente saremo in molti ad adottare questo espediente in futuro, non solo ciclisti. Le torce di alpinisti e camminatori notturni si susseguiranno come sciami di lucciole, compariranno e scompariranno nel buio.
In Repubblica Ceca ha attaccato metà delle foreste. In Friuli è già un problema. La tempesta Vaia ha aperto nuovi panorami: lo vedo pedalando lungo la Ciclabile da Cortina a Cimabanche, nuovi profili di montagne si scorgono dove prima esisteva solo una quinta fatta di tronchi, rami e ombra. Oppure raggiungendo Cernadoi da Colle Santa Lucia dove interi versanti si sono spogliati degli alberi. Ma i boschi tornano sempre.
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Stagioni / Pedalare in futuro significherĂ sempre di piĂš andare incontro a stagioni sempre piĂš strane
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«Un bosco è distrutto solo se sostituito da un’autostrada, un campo da gioco, un ospedale. Se gli alberi vanno giù in un modo o nell’altro questo fa parte della storia naturale di quel bosco, che rimane tale anche se oggi sembra che non abbia più alberi». Mario Pividori / Docente di Ecologia Forestale a Padova
Come ama ricordare un mio amico a fare senza, non è come stare senza. Abbiamo imparato a fare senza il tempo speso nei boschi, proprio come con quella tazzina che ci è caduta dalle mani, abbiamo lasciato andare le cose, anche quelle che andavano assolutamente custodite. Abbiamo scordato cosa significassero i boschi, scordato i ricordi che si portavano dietro. Anche io l’ho fatto per un lungo periodo, inebriata dalla bellezza di questo piccolo mondo antico che è la conca d’Ampezzo. Ma gli alberi tengono memoria di tutto e si adattano ad ogni cosa: nei tronchi si trovano ancora le schegge della
Grande Guerra, gli operai delle segherie hanno imparato a riconoscerle prima che spacchino i denti delle lame, si vede un’ombra blu sulla corteccia. C’è una voce che mi chiama ogni volta e che mi dice di prendere la bicicletta e andare, anche io ho ritrovato memoria e ho imparato a riconoscerla, questa voce. È un richiamo verso luoghi che altrimenti non frequenterei, che mi accompagna per ore o giorni fino a raggiungere il mio obiettivo. Dapprima mi bastavano le Dolomiti, ora questa voce e il ricordo mi chiedono di valicare verso il Friuli dove ho lasciato le mie radici. Sento la voglia di andare più lontano.
«Una volta che ti sei tagliato le radici, non le rimetti più davvero in nessun posto. E in nessun posto ti sentirai più davvero a casa. Puoi anche provare a tornare ma troverai tutto cambiato, perché a non essere più lo stesso, sei tu. È a quel punto, allora, che cominci a chiederti a chi davvero appartieni».
Parco ciclistico / Le Dolomiti sono probabilmente il parco ciclistico più grande del mondo
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Nevica. Se fossi da abbastanza anni in Ampezzo direi che sta iniziando un inverno come tanti altri. Cioè imprevedebile. Forse sarà un altro inverno con poca neve, forse i boschi si preparano ad impadronirsi dei pascoli e numerosi animali selvatici come lupi, orsi, linci verranno qui a rifugiarsi e ad abitare per sfuggire ad autunni caldi, nevicate importanti, estati torride, tempeste impetuose. Anche loro, forse, lasceranno le loro radici. Nessun essere può sopravvivere senza sapere dove si trova e da dove viene. Tra questi due confini tutto è immaginabile ma non prevedibile. La consapevolezza è l’unico strumento a nostra disposizione per gestire l’imprevedibilità. E il mondo e anche gli inverni sono sempre più imprevedibili.
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Nessun essere può sopravvivere senza sapere dove si trova e da dove viene. Tra questi due confini tutto è immaginabile ma non prevedibile. La consapevolezza è l’unico strumento a nostra disposizione per gestire l’imprevedibilità. E il mondo, è sempre più imprevedibile.
Ips typographus Il bostrico dell'abete rosso è un insetto dell'ordine dei coleotteri e della famiglia dei curculionidi. L'adulto ha un corpo breve, lungo tra i 4 e i 5 mm, di forma grossomodo cilindrica, dentellato sul retro, ed è in grado di volare fino a 4 km per trovare del legno adatto alla riproduzione. Il colore può variare dal nero al rossiccio, e il corpo è ricoperto da peli giallognoli sui lati e sul fronte.
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testo / Giovanni Battistuzzi illustrazioni / Francesco Pavignano
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ra solo, Gino Bartali. Solo davanti a tutti, almeno una curva sul secondo, oltre due sul gruppetto che era rimasto sui pedali. Su quel breve tratto in salita aveva dato una di quelle stecche sui pedali che pure il Fausto era rimasto di stucco. E staccato. Li aveva superati uno dopo l’altro. Certo Coppi gli si era messo a ruota, aveva stretto i denti, ma alla fine aveva ceduto, quell’acquaiolo. Gino aveva preso e lasciato sui pedali pure Gimondi. E sì che sembrava imprendibile. E sì che c’aveva un vantaggio che metà sarebbe bastato a chiunque. Ma il ciclismo è strano, a volte dà, molte volte toglie. E quella volta aveva tolto. Felice si era ritrovato fuori strada a imprecare per aver calcolato male la traiettoria della curva mentre Ginettaccio lo salutava con un brontolio, l’Airone con eleganza, Anquetil con una pernacchia e Gaul con un ombrello che non lasciava spazio a equivoci. Quando Poulidor e Pantani gli arrivarono a ruota, gli misero una mano sulla spalla. Anche a loro era capitato prima lo stesso destino: un vagare per dune che mai avrebbero voluto esplorare. Eppure erano ancora lì, a poche curve dai primi, pronti a tentare un nuovo arrembaggio, costi quel che costi. C’era ancora una rampa da sfruttare. C’era ancora una strada piena di buche da attraversare. Si doveva solo sperare che questa volta la fortuna sorridesse a loro e la sfiga agli altri. Solo Indurain era fuori gioco. Lontanissimo, alle prese con troppa inesperienza. A tutti gli altri era ancora concesso il lusso del sogno. La salita mandò in crisi Gimondi e Anquetil, mentre Gaul, da Angelo della Montagna iniziò a vedere i diavoli della discesa. Coppi non guadagnava, Pantani provava la sparata, ma Bartali continuava a controllare. Tutto sembrava segnato, conquistato o perduto a seconda della posizione, quando dune, crepe e solchi si presentarono a chiedere conto ai campioni.
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u lì, a un passo dallo striscione d’arrivo, che accadde quello che nessuno mai avrebbe osato immaginare. Raymond Poulidor si guardò attorno, valutò la situazione, la strada che gli stava davanti, il posizionamento degli avversari, raccolse quello che aveva, che altro non era che l’incoscienza della disperazione. Partì. O forse non fece nulla di tutto questo, scattò e basta, fregandosene dell’impossibile. Fu un turbine, un terremoto. Si trasformò in un dardo, in un bulldozer. Uno dopo l’altro riprese e staccò gli avversari che barcollavano incerti sul terreno sconnesso. Superò il traguardo. Primo! PouPou si alzò di scatto e iniziò a correre di qua e di là mentre la sua biglia smetteva di rotolare giù dalla parabolica della prima curva dopo lo striscione d’arrivo: un’alga lunga qualche decina di centimetri attaccata a due stecchi dei ghiaccioli che si erano pappati qualche ora prima. Una scenografia arrangiata alle bene e meglio, ma aveva il fascino di un arrivo del Tour de France. Gli altri ragazzini guardavano l’amico saltare sulla spiaggia in preda a un’euforia esagerata.«Guarda te quante scene per una vittoria», fece uno.«Nemmeno avesse vinto il Mondiale», rincarò un altro.Il vincitore sorrideva, se ne fregava dei commenti degli amici. «È l’ultima corsa dell’estate! È più di un Mondiale. Vale come Giro, Tour e Roubaix tutte assieme». Gli altri storsero il naso. Aveva ragione solo su una cosa: quella era davvero l’ultima corsa dell’estate. Guardarono i loro genitori iniziare a salutarsi. Poche decine di minuti ancora e le vacanze sarebbero finite.«E per di più con Poulidor. Nessuno aveva mai vinto con Poulidor».
essuno ebbe qualcosa da obiettare. Lo sapevano tutti benissimo che Poulidor, ben che andava, finiva secondo. I ragazzi misero le biglie dentro il secchiello. Sarebbero venute buone per l’anno seguente, sempre che i loro genitori avessero rispettato le parole di quella canzone che diceva Per quest'anno non cambiare, stessa spiaggia, stesso mare, torna ancora quest’estate, torna ancora quest'estate insieme a me.Le biglie, quelle biglie, sono venute buone per anni. Estati di gare immaginarie eppure verissime, talmente reali che sembrava di essere a bordo strada. Tutti quei campioni, quelli che avevano riempito le pagine di quel giornale rosa che occupava le attese prima di scendere al mare, erano uno in fila all’altro e loro erano sempre nel punto giusto al momento giusto, quello dello scatto.Le biglie, quelle biglie, erano sempre le stesse. Perché a girare per circuiti pieni di trappole, di salite e di discese, di trabocchetti e paraboliche meglio dei ciclisti non c’era niente. Neppure le bandiere delle nazionali. Perché a immaginarsi Anquetil o Gimondi era semplice, Bartali o Coppi ancor di più. Mica così tanto invece era far l’inglese o il francese, o peggio lo spagnolo o il canadese, che chi aveva mai visto Londra, Parigi, Madrid o Ottawa. Anzi Ottawa neppure era presa in considerazione, dato che il Canada iniziava e finiva lì dove iniziava e finiva il circuito di Montréal.Le biglie, quelle biglie, non cambiavano. Al massimo c’era Bitossi o Merckx, ma ci voleva fortuna.
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ppure Chiappucci, che regalava sempre imprese straordinarie, al limite dell’immaginabile, con la sua maglia da Pimpa ben stampata in quel cerchio di cartone chiuso tra le due semisfere. Rimangono giusto loro, oltre a Indurain, a trattenere nei loro visi invecchiati la magia di quelle sfere in plastica che trasformavano una spiaggia nello Stelvio, nel Tourmalet, nel rettifilo d’arrivo della Milano-Sanremo oppure in un Grammont qualsiasi. Gli altri si sono tutti persi per strada. L’ultimo, poche settimane fa, è stato Raymond Poulidor. Ci ha abbandonato pure lui. Dentro la semisfera trasparente ormai consunta dai granelli di sabbia – perché l’altra era sempre coloratissima –, il suo volto rimane ancora lì a sorriderci. Forse pensa a tutte quelle vittorie in riva a qualche mare che hanno, a sua insaputa, arricchito il suo palmares a dismisura. Forse lo fa solo perché in fondo non c’è nient’altro di meglio che sorridere, perché in questo modo le sconfitte fanno meno male. Forse ha capito che tutte le bambole che si è preso da Anquetil e Merckx, tutte le volte che era finito alle loro spalle, non era davvero colpa sua. Semplicemente qualche indice aveva sbagliato a misurare la potenza, aveva fatto rotolare la sua biglia troppo lentamente o troppo poco.
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Per me il ciclismo è solo un fatto di prepotenza agonistica, non di sentimenti. Volevo vincere unicamente per un motivo: per dimostrare che ero il più forte.
DI BEPPE LA FACCIA SARONNI testo e illustrazione / Stefano 'Drago' Dragonetti immagini / Sirotti.it
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Rimini - S.Marino / A sinistra Giuseppe Saronni con bici, abbigliamento e scarpe superleggere vola verso la vittoria
quel Giro e anche della carriera di Beppe Saronni. Moser aveva preso la maglia con il cronoprologo di Firenze e l’aveva conservata per le sette tappe successive. Saronni la prende a San Marino e la difende sino all’ultima tappa, anch’essa a cronometro, da Cesano Maderno a Milano, in cui vince di nuovo, stavolta con il body rosa, suggellando così la sua vittoria al Giro. In quel Giro Moser e Saronni vinsero tre tappe a testa, ma Saronni riuscì per un solo punto di vantaggio ad aggiudicarsi anche la maglia ciclamino della classifica a punti, sempre su Moser, rendendo il suo trionfo ancora più completo.
La nona tappa del Giro d’Italia 2019 era una cronometro individuale di quasi 35 chilometri con partenza da Riccione e arrivo a San Marino. L’ha vinta l’ex-saltatore con gli sci Primoz Roglic, davanti al detentore del record dell’ora Victor Campenaerts e a Bauke Mollema, liquidando la pratica in quasi 52 minuti, a poco più di quaranta orari di media. Roglic aveva già vinto la prima tappa di Bologna, anche quella a cronometro. Dopo la prima volta, nel 1951, i tornanti della strada che si arrampica sul Monte Titano sono stati teatro del finale di una tappa del Giro d’Italia altre dodici volte, e per ben nove volte si è trattato di una cronometro individuale. Nel 1979, la cronometro partiva da Rimini, e misurava 28 chilometri, seguendo un tracciato più diretto. Quella cronometro l’ha vinta Beppe Saronni. Proprio con quella cronometro Beppe Saronni ha gettato le basi della sua prima vittoria al Giro, rifilando 1’24” al leader della classifica, il favorito Francesco Moser, conquistando la maglia rosa e cominciando a sognare di poter vincere la classifica finale. Quella cronometro è un capolavoro atletico e di stile. Saronni la corre fasciato da uno dei
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primi body in lycra che appaiono in corsa, sicuramente tagliato e cucito artigianalmente, in cui la già elegante livrea bianconera della sua squadra, la Scic-Bottecchia, spogliata di alcuni simboli e scritte, appare ancora più essenziale, quasi austera. Non indossa casco, né cappellino, e nemmeno il dorsale con il numero di gara sulla schiena. La sua bicicletta, dal telaio nero opaco in sottili tubi di acciaio, è stata preparata per essere il più leggera e scorrevole possibile. I tubolari ordinari sostituiti per l’occasione con quelli da pista con la carcassa in seta, gonfiati a undici atmosfere, il manubrio di alluminio nastrato di bianco solo nella parte più bassa dell’impugnatura, come si usava in pista. Non ha nemmeno la borraccia, nemmeno il cartellino fissato al telaio con il numero di gara. Dove Moser sale di forza, con un rapporto lunghissimo, Saronni sale in piedi sui pedali, scattando continuamente con la freschezza dei suoi ventun anni, con il vento che gli scompiglia i capelli neri. La sua cronometro è una danza che trasuda velocità, eleganza e ritmo. Quella vittoria di San Marino segna lo spartiacque di
Approdato fra i professionisti solo due anni prima, con un brillante passato da pistard (circa duecento vittorie nelle categorie giovanili, tra cui spiccano i Campionati Italiani nella velocità da allievo e nell’inseguimento da juniores), e dotato di un talento indiscutibile (si piazzò secondo alla sua prima corsa su strada da professionista, il Trofeo Laigueglia del 1977, e colse la prima vittoria un mese dopo, al Trofeo Pantalica) si presentò al Giro forte delle vittorie già ottenute quell’anno al Campionato di Zurigo e al Giro di Romandia, ma molti dubitavano che avrebbe avuto la maturità e la tenuta atletica per resistere alle tre lunghe settimane di un Giro. E invece Saronni si dimostra ben più di un pistard prestato alla strada, ben più di un velocista. Vince a cronometro battendo gli specialisti e resiste in montagna, irrompendo fragorosamente sul palcoscenico del ciclismo italiano che da quel momento in poi dividerà con Moser.
quella che sarebbe diventata una delle più grandi rivalità della storia del nostro sport. Il tifo ciclistico si divide, o stai con l’uno o stai con l’altro. Anche perché i due se le suonano, oltre che in bici, anche a parole, con provocazioni, battute e punzecchiature continue. Sono spesso stuzzicati da giornalisti e commentatori, ma sono comunque già bravissimi da soli ad innescare e alimentare le polemiche. Restando solo al Giro 1979, ad esempio dopo la sedicesima tappa TrevisoPieve di Cadore, i due, intervistati nella trasmissione del dopotappa Tutti al Giro si ritrovano a discutere animatamente per dieci minuti, rinfacciandosi a vicenda ognuno la condotta di gara dell’altro. Il video di quel loro infinito battibecco in tuta e ciabatte si trova ancora in rete, e risulta anche piuttosto divertente. Saronni è veloce e può permettersi di essere più attendista in corsa, di risparmiare energie aspettando la volata, o al massimo l’ultimo chilometro. Moser invece no, ed è costretto ad essere più generoso per rendere la corsa dura e fare selezione. Dopo la sua famosa vittoria al mondiale nell’82 a Goodwood, forse la più prestigiosa, Saronni spiegò «che anche ad aspettare l’attimo finale della corsa si soffre, anche giocarsi quell’unica carta non è indolore perché dentro alla testa di chi aspetta chilometro dietro chilometro ci sono incertezze, ansie». E lo stesso Moser confidò: «Lo ammetto: fossi stato Saronni, avessi avuto come dono divino il suo sprint, beh nelle gare mi sarei comportato forse peggio di lui. Intendo che non avrei tirato una corsa, dico una... limitandomi a sguazzare felicemente in volata». Il musicista toscano Manolo Strimpelli ha dedicato proprio quest’anno a Saronni, uno degli eroi della sua infanzia, un allegro e divertente omaggio in forma di canzone, una marcia dal titolo La borraccia di Beppe Saronni, realizzata insieme alla Filarmonica Puccini, la banda del paesino di Segromigno in Monte, in Lucchesia. La storia della genesi della canzone, che tra l’altro è diventata la sigla delle trasmissioni del Giro
Ecco appunto. Moser, che ha sei anni di più, si vede soffiare sotto il naso il Giro (che inseguiva già qualche anno e che riuscirà finalmente a vincere solo nel 1984) da questo ragazzino terribile con la dinamite nelle cosce e lo scatto fulminante che lo batte proprio sul suo terreno. A quel punto in Italia esplode definitivamente
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Pordoi / Giuseppe Saronni in salita al Giro d’Italia sulle rampe del Pordoi
«Anche ad aspettare l’attimo finale della corsa si soffre. Anche giocarsi quell’unica carta allo sprint non ti solleva dal dolore e perché dentro alla testa di chi aspetta chilometro dietro chilometro il rettilineo d’arrivo ci sono incertezze, ansie, paura». 130
d’Italia 2019 sulle reti Eurosport, l’ha raccontata lo stesso Strimpelli: «Ero con mio nonno sul percorso di una tappa del Giro. Saronni passò e gettò la sua borraccia, mi ci fiondai, avevo nove anni. Quella borraccia è stato l’oggetto culto della mia infanzia: c’era l’eroe, c’era il sogno e c’era la strada». Il video della canzone è bellissimo, e Saronni quando l’ha visto si è commosso. Vi appare anche l’inevitabile biglia da spiaggia con la faccia di Saronni corridore. E Beppe Saronni da corridore aveva una faccia da eterno ragazzino, liscia, senza l’ombra di barba. I lineamenti morbidi, la fronte spaziosa, lo sguardo franco e vispo, che denota un’ intelligenza che in corsa diventava scaltrezza tattica. E per qualcuno, soprattutto i moseriani, racchiudeva anche una buona dose di furbizia. Insomma, un po’ la stessa faccia che ha anche adesso, solo che gli anni ci hanno inevitabilmente depositato sopra qualche ruga e i capelli sono diventati grigi. Nei ritratti fuori corsa l’espressione è sempre serena, quasi rilassata, i tratti distesi, nelle immagini di gara invece lo sguardo si fa spesso più profondo, a volte cupo, e vi traspare la determinazione, la tensione della competizione. C’è una foto di corsa, anch’essa degli anni della SCIC, in cui Saronni è ritratto mentre è in testa a tirare. Probabilmente è in fuga. Alla sua ruota ci sono due corridori, uno in maglia Peugeot-Esso-Michelin, e l’altro, di cui si intravede solo una spalla, in maglia Sanson, che forse è proprio Moser. In quella foto la faccia di Beppe Saronni appare completamente trasfigurata. La consueta serenità è evaporata, spazzata via dalla grinta agonistica, dalla voglia di vincere che si è rattrappita in una smorfia, in un ghigno assassino. In quella foto Saronni è una furia che emana rabbia e cattiveria, pronto a sbranare gli avversari, a travolgere chiunque voglia batterlo o provi a ostacolarlo. Fa paura. Sembra che non stia semplicemente pedalando a tutta, ma che
con il suo sforzo voglia svellere l’asfalto dalla strada. In quella smorfia c’è tutta la violenza dello sforzo, la fatica, la sofferenza. Quella foto è un urlo. Nel ciclismo, che prende spesso a prestito parole dal francese, per raccontare chi non si accontenta ma sceglie di rischiare, chi cerca l’impresa, chi osa, chi getta il cuore oltre l’ostacolo incurante delle conseguenze, si usa spesso la parola panache. Ecco, quella faccia di Beppe Saronni è forse la definizione migliore del termine panache che in cui io mi sia mai imbattuto. Giuseppe Saronni è stato un ottimo pistard per poi diventare grandissimo stradista. Il suo straordinario palmares da professionista conta 193 vittorie. Fra i tanti successi: il titolo italiano nell'80, il Mondiale nell'82 a Goodwood (con un secondo posto a Praga nell'81 ed un terzo a Colorado Springs nell'86). La prima classica all' estero nel '79 (Campionato di Zurigo); poi la Freccia Vallone e il Giro di Lombardia nell'80, la MilanoSanremo nell'83 (dopo 3 secondi posti consecutivi '78, '79, '80). Due Giri d'Italia portano la sua firma ('79 e '83) e moltissime altre corse a tappe e in linea dalla Tirreno Adriatico, al Giro della Svizzera, di Sicilia, di Puglia, Midi Libre, Tre Valli Varesine, Coppa Agostoni, Coppa Sabatini.
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Qui si parla di amore, di viaggi, di fabbriche, di Kerouac, di officine, di fughe da casa, di jazz, di ciclisti alla moda e di ciclisti che no, di nostalgia e di kilometri. E poi si parla anche di bici, ma solo perché a volte le bici, in qualche modo, c’entrano con tutto quanto sopra. E poi del mio amico
UMBERTO testo / Andrea Benesso illustrazione / Francesco Pavignano
Ecco, questo vorrebbe essere un ritratto di un ciclista impossibile da ritrarre, come quando Frank Zappa diceva che scrivere di musica è come ballare di architettura. 42 chilometri sono la distanza della maratona. Una specie di unità di misura per chi corre. Per Umberto sono la distanza tra casa e la fabbrica. Più di 9000 chilometri l’anno in sella solo per andare e tornare dal lavoro, come in un film di Monicelli: pioggia, sole, neve, poco importa. «Mi cambio in garage prima di salire in bici e quando torno la sera, l’officina è l’ultimo posto che vedo prima di partire e il primo quando rientro. È la mia chiesa, il luogo sacro dei miei silenziosi riti prima e dopo la battaglia di ogni giorno». Umberto, 44 anni, 1 metro e 85, 70 chili, non è un ciclista Rapha e carbonio, è un ciclista di quelli con il fango sul telaio, quando piove, e la neve sul casco, quando nevica. E poi c’è la bici nel fine settimana, con la squadra di vecchi feroci, di quelli che pestano tutto il tempo e non si fermano neanche per il caffè. «Tutto questo è successo solo perché non ero figo come Marlon Brando, sennò non avrei battagliato tanto. Ognuno deve trovare i suoi mezzi. In vita mia ho fatto pochi viaggi veri e propri. Negli altri casi era più un modo di essere che viaggiare. Il mito della strada americano è un po’ di tutto, libertà, letteratura, moda, sviluppo interiore, cinema, arte, fantasia, amicizia; tantissime cose ma non viaggio. Gli eroi di Kerouac, per esempio, non viaggiano, ma vivono una vita di strada. Cosicché io inconsciamente, forse, ho cercato di vivere più che di viaggiare, quindi la strada è più che altro una metafora. Se c’è una cosa che mi ha insegnato On the road, dopotutto, è di cercare onestamente di campare in una vita e in un mondo in cui, per qualche ragione, ti senti un loser. Vorrei che questo qualcuno ricordasse di me: pieno di problemi, contraddizioni, sogni, in-attitudini, lampi di genio e momenti di depressione, ho cercato di inseguire una specie di onestà, apolitica, senza nessuna verità rivelata, umana. Così, in qualche modo, ho potuto appassionarmi di tutto. Il jazz, la bicicletta, l’officina e la figura dell’operaio spigoloso e meditabondo come una figura di Cèzanne, lo sport, la letteratura, la vita da soldato, le donne, il vino, le grandi città, i grandi spazi». Umberto è entrato nella mia vita una mattina di giugno del ’92, prima della maturità, quando eravamo compagni di classe. Aveva suonato il campanello di casa mia alle 8 di mattina, di domenica. Era vestito in canottiera ed era in bici, a 20 chilometri da casa sua. «Mi puoi dare qualcosa da mangiare? Ho litigato con mio papà e sono andato a Albarella in bici, ho dormito in spiaggia. Son due giorni che non mangio». Padova-Albarella, con una bici da città, senza mangiare, sono 140 chilometri faticosi. E lui era distrutto. La bici, quella lì, con lui sopra che pedala per andare lontano, è rimasta: il modello è diverso, la pedalata verso un altrove è la stessa.
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Al Liceo lui era quello biondo con gli occhi azzurri, il più intelligente di tutti noi, una specie di ribelle che faceva impazzire le ragazze. Ma sarebbe poi stato anche quello capace di crescere i suoi fratelli più piccoli, di arrivare a due esami da una delle lauree più difficili d’Italia e poi decidere di fare il metalmeccanico, diventando un padre perfetto, tutto amore per la famiglia, lavoro e bicicletta. Appunto, la bicicletta. «Oggi c’era poca gente in officina, si lavorava poco. Con qualcuno abbiamo parlato di ciclismo, e pensavo che quando un discorso fila, e tutti partecipano con pertinenza, è come se nascesse un pezzo jazz. Il ciclismo sta alla base della mentalità italiana, in qualche modo, perché il discorso si fa subito acceso e ognuno deve dire la sua. Tornando, lungo il Piovego, pioveva con il sole, uno spettacolo insolito mentre guardavo le cupole del Santo. Quello che i grandi filosofi non ci spiegavano, è la bellezza di queste situazioni semplici, come oggi pomeriggio. Nel frattempo, un mio collega mi ha mandato la foto di sua figlia, ex campionessa juniores di ciclismo. Mollò tutto essendo rimasta incinta che era ancora a scuola, al Liceo scientifico. Ha fatto in tempo a laurearsi in ingegneria, una strada insolita per una ragazza, adesso lavora per una ditta di meccatronica, suo figlio ha sette anni. Oggi si era presa una giornata di ferie ed è arrivata in cima al Grappa, partendo da Cadoneghe. Veramente la passione non ha confini. Si chiama Vanessa. Oggi anche per me primo giorno di lavoro e… prima foratura. Sono uscito dall’officina e la gomma anteriore era a terra. Avrò cambiato la gomma un centinaio di volte, mi viene naturale come togliermi un sassolino dalla scarpa. Eppure, ogni volta che mi metto all’opera devo suscitare una sensazione esotica, a giudicare da come mi guarda chi mi passa accanto. È il famoso stato d’animo da terzo mondo. Un mio amico mi raccontava che in Africa aveva visto due tipi che gonfiavano la ruota di un trattore con una pompa a mano, non avendo di meglio. Bisogna arrangiarsi in qualche modo se vuoi ritornare a casa. E una volta a casa, devo sistemare le cose rimaste in sospeso, che mi attendono nel garage. Catene da smagliare. Raggi da sostituire. Ruote da centrare, camere da rappezzare, corone e pignoni da sostituire. Rubio, il mio amico cane mi guarda affettuoso. Mi piace immaginare che mi osservi con partecipazione perché dalla mia capacità di risolvere i problemi dipende la sua sopravvivenza. Infatti, qual è la differenza tra lui e me se non che io possiedo la tecnica? Comunque, sono di nuovo a casa adesso. Non c’è nulla che mi faccia sentire più vivo che il fatto che anche oggi, attraverso un po’ di tecnica nelle mie mani, sono sopravvissuto».
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QUANDO I L CUORE ACCELERA, T
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TUTTO SI RIORDINA.
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Come dire, è facile innamorarsi di questa gravel di casa Scott, più difficile farne a meno dopo averla provata. Meno di otto chili, equipaggiata con Shimano GRX RX810 Di2 Disc a 22 velocità, telaio in fibra di carbonio HMX, componenti Syncros, robusti pneumatici Schwalbe G-One, freni a disco idraulici. E scusate se è poco. scott-sports.com CASCHI
GRAIL PER TUTTI I TERRENI
GARAGE
A cura di Davide Marta
Sempre di più le aziende nel segmento gravel cercano di mettere sul mercato modelli versatili, performanti su strada, sicuri e confortevoli sullo sterrato. Missione compiuta, in tal senso, per Canyon con la nuova Grail CF SLW 8.0. Noi l’abbiamo provata per mesi sulle tracce del Canavese Gravel (servizio pubblicato su Alvento 8), per cui possiamo dire di conoscerla molto bene. Bici leggerissima, otto chili e trecento grammi, telaio in carbonio, equipaggiata con Sram X01 Eagle AXS con cassetta da 10 a 50, monocorona anteriore e freni a disco idraulici. Che si scelga un differenziale sella manubrio più stradistico o più rilassato, la Grail è innanzitutto comoda come poche altre, anche grazie al particolare reggisella con tecnologia VCLS (due corpi semicilindrici in carbonio accoppiati e traslanti tra loro) che mantiene le promesse di attutire l’effetto degli urti e vibrazioni che provengono dal manto stradale, senza compromettere la rigidità laterale e dunque la precisione di guida. Montata con gli Schwalbe G-One da 40 su ruote DT Swiss (tra le più leggere sul mercato gravel), ne risulta una bici agile, anche tenendo una pressione delle gomme piuttosto bassa, scattante quando serve, sempre in controllo anche sui terreni complicati, pressoché a trazione 4x4 sulle rampe ripide, anche su asfalto. Con profili di gomma più scorrevoli siamo convinti che faccia ottima figura anche su strada. Inutile dire che lo Sram elettronico scatta che è un piacere e finisci quasi per perderti a giocherellarci. Ci siamo divertiti come pazzi, se avete occasione andate a farci un giro, poi ci direte. canyon.com
La nuova Grail CF SLX 8.0 ETAP
CAMBIO IL CASCO E SPENDO POCO
Pensate che possano bastare 100 euro per un casco da strada di un’azienda tra le migliori sul mercato, che deriva dall’esperienza fatta nella ricerca per i modelli top di gamma della UAE, con sistema MIPS-C2, sistema portaocchiali, regolazione della posizione a 360° e 16 canali di aerazione? Vi sembrerà strano, ma sì, bastano. È quanto costa il modello Vinci di MET. met-helmets.com
BICI
TUTTI A TUTTA
Dicono che la bicicletta influenza l’approccio che abbiamo ad ogni uscita su strada. Quando si sale su una Oltre XR4 non si può che spingere, sentire la velocità, spingere ancora. Progettata per massimizzare il vantaggio aerodinamico ed il controllo, è il modello racing per antonomasia dell’azienda di Treviglio, realizzata con il sistema Bianchi CV powered by Countervail. Le grafiche sono state rinnovate per la nuova stagione ed è quella che accompagna il Team JumboVisma. Ma il celeste è sempre quello. Andate sul sito a vedere le diverse configurazioni. bianchi.com
QUANDO PIOVE
MICHELE SARZILLA Michele è Campione Italiano di Triathlon sulla distanza olimpica, seguitelo sulla sua pagina Facebook e su Instagram. Racconta delle storie bellissime, come questa che avete appena letto.
© Dani Fiori
Sei tu, la tua bici e il solito acquazzone che non ti aspettavi. Ad un primo momento pensi che vorresti essere in un altro posto, al coperto, al caldo, sul divano. Sembra che ci sia sempre qualcosa che guasta il tuo allenamento, vero? A volte è il vento, a volte il troppo freddo, o il troppo caldo, o chissà cos’altro. Piove ed esci lo stesso, pedalata dopo pedalata trovi in questo imprevisto un compagno di viaggio. Il vento e le gocce in faccia ti fanno dimenticare la fatica, le gambe bruciano un po' meno, forse solo perché l'attenzione è tutta sull'asfalto bagnato. Sei soprattutto attento a non cadere, a resistere e a non mollare. Per gli altri pensieri non c’è spazio, sei solo tu, la tua bici e quell'acquazzone con cui ormai hai fatto amicizia. Nient'altro. Quello è il momento in cui pensi che essere ciclista o triatleta e lamentarti del tempo sarebbe un po’ come essere marinaio e lamentarsi del mare. Invece di prendersela con le onde, bisogna cavalcarle.
ANATOMIA DI UNA GOCCIA
La forma a goccia dell'acqua è causata da una proprietà dei liquidi chiamata tensione superficiale. Questa proprietà è la conseguenza dell’azione della forza di coesione fra molecole. Le molecole che sono nella porzione centrale della goccia di liquido sono attratte in ogni direzione da tutte le altre molecole, mentre quelle sulla superficie sono attratte solo dalle molecole sottostanti, venendo quindi richiamate verso il centro. La goccia prende così la sua caratteristica forma sferica.
CYCLING KIT ALVENT0 2020
THE DISCOMFORT ZONE KIT
Titolo dida / tatur atur sitatibusdae mil macum usam re volorrum quae pro cusanis .
Vi abbiamo proposto di partecipare alla progettazione del cycling kit Alvento 2020 e ci avete scritto in tanti. Abbiamo ricevuto un centinaio di vostri disegni tra i quali ne sceglieremo uno che abbiamo già battezzato The Discomfort Zone Kit 2020. Sarà una maglia adatta per pedalare in strada ma anche fuori, per allenarsi duramente alla sera dopo il lavoro oppure per realizzare la traversata di un continente. Su mulatero.it potrete trovare la grafica del modello che abbiamo scelto, tenete d’occhio il sito e la nostra pagina instagram/alventomagazine.
Lo scorso anno abbiamo preparato la prima versione del cycling kit Alvento e abbiamo cominciato a usarlo in strada durante le nostre uscite e i nostri servizi fotografici. In molti ci avete chiesto di acquistarlo e così per questa stagione ci siamo organizzati in modo che anche voi lettori, se lo desiderate, possiate acquistare la maglia e i pantaloncini. Il colore del kit Alvento Classic è grigio con i pantaloncini neri, come quello che vedete nella foto. Su mulatero.it potete trovare la size chart e prenotare il vostro modello.
SPORTFUL Sportful è un'azienda italiana fornitrice delle squadre WT Bora - Hansgrohe e BahrainMerida che ha sede a Fonzaso in provincia di Belluno. I modelli selezionati per il cycling kit Alvento Classic sono la Maglia Bodyfit Pro 2.0 Jersey e il Pantaloncino Pro 2.0 Bibshort
ALLA PIOGGIA di Simone Frassi
Scrivo questo articolo dedicandolo ai miei tre cuccioli e a mia moglie, con la speranza che prima o poi anche lei trovi il suo modo di mettersi alla pioggia... Chi dice che tre è il numero perfetto forse non si riferisce ai figli. O, probabilmente, non ha avuto due gemelli un anno e mezzo dopo la nascita della prima figlia. Chi ha provato questa esperienza sa che basta arrivare sul pianerottolo di casa dopo una giornate in ufficio di quelle che basta lei a piegarti in due, e sentire i pianti disperati di due bambini di due mesi che attraversano la porta d’ingresso per pensare che il numero perfetto sia uno, al massimo due se proprio uno adora in bambini. Chi l’ha provato sa che poi,
se apri quella porta e verrai risucchiato dal casino di urla, pianti, culle, giochi e biberon sparsi per casa e sarai costretto a rassegnarti ad una vita di sacrificio che ti porterà dritto-dritto verso un esaurimento nervoso. Oppure, puoi provare a reagire. C’è chi reagisce iscrivendosi a un corso di yoga, chi scaricando la tensione in quei posti dove per una cinquantina di euro ti danno una casa arredata con oggetti raccolti nei vari mercatini di seconda mano ed una mazza da baseball in mano per distruggere tutto; chi semplicemente fingendo di dover lavorare in ufficio tutti i giorni fino alle 10 di sera rientrando a casa a notte inoltrata. Io entro in ufficio tutti i lunedì mattina sapendo che la mia giornata sarà il solito tran tran di ufficio, pranzo con la forchetta in una mano e un pargolo nell’altra (spesso senza neanche chiedermi quale dei due abbia in braccio), lavapiatti, cambio pannolini, ritorno in ufficio, ritorno al cambio pannolini, cena ad una mano sola e maratone notturne per casa cantando ninne nanne ai tre nanetti. Il martedì sarà lo stesso, il mercoledì il giovedì ed il venerdì anche, però so che sabato
mattina tra le 6 e le 9, caschi il mondo, ci saranno le mie 2-3 ore, quelle in cui uscirò in bici finalmente da solo e in silenzio. Senza il pensiero di quelle tre ore messe lì in fondo a alla settimana, non so come potrei andare avanti. Tutti i sabati o domenica mattina alle 6 in punto, che io mi sia addormentato ad un orario normale oppure abbia girato per casa con un marmocchio in braccio fino a cinque minuti prima, quando la sveglia suona, anche se la logica direbbe di lanciarla fuori dalla finestra e godermi a letto ogni minuto di sonno in più che il destino mi concede, il pensiero di come sarò ridotto la domenica sera o il lunedì mattina se non dovessi pedalare almeno un po’ mi da la forza di alzarmi. In silenzio, con il terrore che il minimo rumore possa svegliare qualcuno e scatenare un pianto che manderebbe tutto all’aria. Mi vesto ed esco in bici, che ci sia il sole oppure che piova. Anzi, se piove è meglio. A questo punto non è più solo questione di pedalare e di allenarsi, è una lotta per la sopravvivenza contro le frustrazioni di una vita al limite, più cose hai contro, meglio è. E allora ben venga la pioggia che ti sveglia buttandoti in
faccia l’acqua gelata delle 7 di mattina, che ti fa sentire ancora più solo a lottare contro tutto, che ti costringe a spingere al massimo sui pedali per sopravvivere al freddo; che dà al paesaggio quell’atmosfera grigia più in tinta con l’umore di chi si è alzato alle sei rinunciando alle poche ore di sonno e soprattutto che ti fa sentire come se stessi pedalando ad Harrogate con una maglia azzurra addosso e che trasforma anche una banale pedalata di due ore in qualcosa di epico nonostante tu stia girando in tondo a 10 chilometri da casa. E poi in inverno i boschi senza foglie e la nebbia sono bellissimi. Certo, potrei fare i rulli, ma mi darebbero tutto questo? Che vita sarebbe entrare in ufficio il lunedì mattina con l’idea che sabato all’alba potrai farti due ore pedalando nel guardaroba davanti allo stendino con la biancheria stesa? Lo so, chi mi vede uscire all’alba in giornate da allerta della Protezione Civile o rientrare così zuppo di pioggia e fango che appena mi fermo lascio un laghetto ai miei piedi pensa che io sia completamente esaurito e mi guarda compatendomi. Eppure è proprio per evitare l’esaurimento che pedalo.
Hanno ragione loro, ma ho ragione anche io. La bici è l’unica cosa al mondo per la quale vale la strana equazione due ore di sonno in meno uguale riposo. Quando sono al limite e vedo i miei bimbi con le loro meravigliose faccine, mi rendo conto razionalmente che dovrei adorarli e sentirmi appagato. Eppure sento solo la voglia di piazzarli davanti ad un cartone animato a rincitrullirsi in silenzio lontano da me (per non parlare delle alternative da cronaca nera). Dopo un giro in bici è tutto diverso. Dopo aver scambiato due ore di sonno con due ore a pestare sui pedali (meglio se sotto la pioggia) è tutto diverso. Dopo quelle due ore le guance paffute dei miei figli e i loro occhi ritornano uno spettacolo, sono io a cercarli per giocare insieme a fare l’aereo e tutti i giochi che illuminano ancora di più i loro occhi. Prima o poi spero ovviamente di tornare a pedalare al sole sulle montagne e forse per allora tutti questi giri mi saranno serviti anche come allenamento. L’Ötztaler Rad Marathon probabilmente non sarà neppure per quest’anno, ma a volte basta molto meno per sentirsi vivi, il solo pensiero che questi
mini giri del sabato mi potrebbero servire per tenere aperta la possibilità di partecipare a una granfondo vicino a casa per il momento può bastare. Tutto è relativo d’altra parte, quando hai tutta la giornata per te pensare a qualsiasi cosa che non sia un giro alpino di una giornata intera con 4.000 metri di dislivello è deludente. Quando devi fare salti mortali per trovare 5 minuti anche solo per portarti avanti a gonfiare le gomme il venerdì sera o cercare sulla mappa una stradina sconosciuta dietro casa sfuggita chissà come all’industrializzazione, è un respiro di libertà impagabile. La mia è una situazione particolare, diciamo pure estrema, ma tutti abbiamo i nostri problemi e i nostri motivi di stress, imparare a superarli potrebbe aiutare tante persone. Il ciclismo d’altra parte è anche trovarsi solo sotto la pioggia su una strada deserta e scoprire che fa bene alla salute, la tua e quella di tutta la famiglia. Oramai l’ha capito anche mia moglie, le prime volte che tornavo a casa infangato vedeva solo il laghetto di acqua e fango lasciata davanti alla lavatrice. Adesso vede un papà che gioca innamorato dei suoi figli.
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Testo e disegni Francesco 'Paco' Gentilucci
A volte vai a più di 80 all’ora su ruote di pochi millimetri di gomma con la strada bagnata, raccolto sui gomiti per spingere il manubrio e andare ancora più forte. In quei casi il dialogo interiore diventa veramente intimo. Per quanto riguarda il resto, prendere una buca significherebbe essere morti.
Intimità. Conosco svariati modi per sembrare di star bene quando invece dentro sto soffrendo, mentre vado in bici. A trasformare le smorfie di dolore in sorrisi un po’ tirati ma credibili si impara a forza di andare. I pensieri hanno un rumore? Se penso a quando sono in bici, a tutto il tempo che ho passato pedalando e isolo la memoria ricordo solo silenzio. Frammenti nitidi, puliti e chiari. Pedalare è più una questione di silenzi che di suoni, per me. Gesto ripetitivo delle gambe, i chilometri, la distanza, le salite, la discesa. Il bruciare del dolore, la sensazione intima di parlare rimanendo zitto. La mia testa però spesso si riempie di rumori, di voci. Ultimamente mi è capitato quasi di far fatica a separare le voci esterne da quelle che sentivo nel mio cervello. L’aria in faccia non sempre mi ha permesso di distinguere in modo chiaro se stavo parlando da solo o con qualcuno. Non direi che è stato bello o brutto, più che altro strano e intenso.
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Ore passate sui rulli come silenziosi atti di fede. Da dentro significano un sacco di cose, da fuori sei solo tu che pedali chiuso in camera, mentre continui a rimanere fermo. Quando sei a bordo strada dopo aver forato con le macchine che sfrecciano a pochi millimetri, sei in silenzio; sei in silenzio quando piove, sei in salita e sei in silenzio nelle lunghe pedalate di sera. Sei quasi sempre in silenzio quando stendi i panni dopo aver fatto la lavatrice o quando ti trovi per terra con una gamba bruciata dall’asfalto, la bici oltre il guard-rail e non ricordi più come si chiama tua madre. Anche in quei momenti di solito non parli e stai in silenzio, compi gesti veloci e razionali, senza pensarci su troppo. Lo fai e basta. Non è che uno ha sempre voglia di parlare. A volte bastano pochi attimi per ritrovarsi senza spiegazione per terra sull’asfalto, smarriti. la prima cosa che ti insegnano quando corri in bici è di rialzarti e rimetterti a pedalare, poi capire quanto male ti sei fatto. “succhiamanubri” rimane comunque l’appellativo dispregiativo che preferisco fra quelli che i regolari rivolgono a chi va in bici.
SVILUPPATO SUL KOPPENBERG E PERFETTO PER LA MASSIMA PERFORMANCE. È proprio sui muri fiamminghi che questo capo è stato provato e riprovato dai ciclisti più preparati e dagli stessi professionisti. Se è perfetta per le Fiandre, non ci sono limiti per questo capo.