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BIMESTR ALE in edicola dal 7 agosto 2019

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agosto 2 019

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#6 Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te, sei un po’ strano. Opera numero 13 - Learco Pignaioli [da Le opere complete di Learco Pignagnoli, di Daniele Benati- Aliberti Editore]

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VACANZA PER TE PROBABILMENTE SIGNIFICA PEDALARE SU STRADE CHE SOGNAVI DA UN ANNO. PER NOI È IL MOMENTO IN CUI METTERAI A DURA PROVA I PRODOTTI CHE ABBIAMO PENSATO PER TE. TESTALI, SFIDALI, PORTALI ALL’ESTREMO. NOI, INTANTO, ANDIAMO IN VACANZA TRANQUILLI. PERCHÉ LO ABBIAMO GIÀ FATTO CON I PROFESSIONISTI DEL TEAM INEOS. BUONE VACANZE. E BUONI TEST. CASTELLI-CYCLING.COM


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Giulio, uno di noi

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Appena tagliato il traguardo, Giulio, su la Planche des Belles Filles era tutt'altro che allegro. Era arrabbiato per essersi fatto sfuggire la vittoria di tappa e anche noi eravamo dispiaciuti. Molto. Noi siamo persone che si affezionano, dopo la copertina dello scorso numero – sarà stupido – è un po’ come se Giulio si fosse messo a correre per la nostra squadra. Non l’hanno detto subito, in TV, che aveva preso la maglia gialla. Poi, quando l’hanno detto, ci siamo sentiti come se la avessero data a noi.

© Bettini photo

cover story


© Tornanti.cc

Giro Rosa

Il Giro Rosa è stato un successo sorprendente. Per strada la gente ha accolto i corridori con entusiasmo e attenzione, le corse femminili anche in Italia suscitano interesse, perlomeno dal vivo. A vincere, quest’anno, una immensa Annemiek van Vleuten - nella foto - che oltre alla maglia rosa si è aggiudicata la maglia ciclamino della classifica a punti e la maglia verde dei GPM. Elisa Longo Borghini si è aggiudicata la maglia blu di migliore atleta italiana.


© Bettini photo

È una vita difficile Peter Sagan ha una vita difficile. Ha fatto del motto Voi ridete di me perché sono diverso, io rido di voi perché siete tutti uguali il suo cavallo di battaglia. Al Tour lo abbiamo visto impegnarsi a fondo per la maglia verde, firmare autografi in salita, fare il gesto di Hulk appena oltre la linea del traguardo e impennare, perfino con la bici da crono. Le impennate alla gente piacciono tantissimo, perfino altri corridori adesso hanno iniziato a farle. C’è da aspettarsi che a breve Sagan si inventi qualcos’altro. Speriamo, perchè hanno un po’ stancato.


© Twila Federica Muzzi

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editoriale

Un anno Alvento. Tutti gli anni, a fine luglio, mi sento orfano. Dopo l’ultima tappa del Tour ho la sensazione che l’estate sia finita. È una sensazione stupida, magari banale, ma a me i pomeriggi d’estate senza telecronaca della tappa mettono tristezza. Anche se poi, in effetti, la telecronaca in diretta al pomeriggio non ho quasi mai il tempo di vederla. Mi basta sapere che Tour e Giro esistono, che da qualche parte in Italia o in Francia, sulle Alpi, sugli Appennini oppure sui Pirenei si sta gareggiando e che dopo cena, la sera, potrò rivivere le fasi salienti della gara. Al sabato pomeriggio in occasione dei tapponi - dopo il mio giro in bici del mattino, dopo la doccia, dopo pranzo e dopo una birra fresca - sprofondo nel divano e guardo la telecronaca in TV. Devo ammettere che certe volte mi addormento, ma fa parte delle possibilità. È un rito. Quello in cui vivo è un universo semplice, provo sensazioni elementari. Aspetto l’inverno per andare a sciare e aspetto la bella stagione per andare a pedalare. Con l’arrivo del primo caldo c’è il Giro, con l’arrivo del gran caldo, il Tour. Quando esco in bici e devo ricominciare a portarmi dietro i manicotti significa che la bella stagione è quasi finita e quello è il momento del Giro di Lombardia. Coltivo ogni anno la speranza di andare a vedere una tappa dal vivo su qualche grande salita alpina e spesso riesco a farlo. Credo sia esattamente lì, in equilibrio precario sulle mie tacchette e sui miei scarpini, dove attendo per ore il passaggio dei corridori, al freddo,

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di Emilio Previtali

vestito solo con una giacchina antivento troppo leggera, che la mia passione per il ciclismo è diventata quello che è. I corridori passano e c’è quella mezz’ora di gioia assoluta, di felicità, di qui e ora e di connessione con altri esseri umani animati dalla mia stessa passione che mi serve per nutrire l’entusiasmo con cui poi riesco ad andare avanti per tutto il resto dell’anno. Da quando ho cominciato ad occuparmi di questa rivista le mie relazioni e i contatti con addetti ai lavori, esperti di ciclismo o presunti tali sono aumentati vertiginosamente. Molte delle persone con cui ho a che fare mi parlano di un tipo di ciclismo che è molto vicino al mio, che è autentico, basato sul desiderio di avventura, sulla curiosità, sul contatto con le persone, sulla genuina voglia di esplorare e di conoscere, dentro e fuori di me. È bello parlare o avere a che fare con questi uomini o con queste donne, è facile capirsi e fare amicizia quando si sognano le stesse cose. Questo è il sesto numero della rivista, tagliamo il traguardo del primo anno in edicola del nostro progetto. Siamo contenti, molto. In questi dodici mesi qualcuno di voi ha scommesso su di noi: lettori, abbonati, aziende. Altri sono ancora alla finestra a guardare, ad aspettare, a tutti va il nostro grazie: ai primi per averci sostenuto sin da subito con entusiasmo e agli altri per averci spinti a fare di più e meglio, sempre. Avanti a testa bassa. Alvento, come sempre.


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#6

Sommario 18

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Lavoro di squadra

Cosa ci fa un produttore di caschi da ciclismo alla Milano Design Week?

SLR BOOST

KIT CARBONIO SUPERFLOW

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---------THE LIGHTEST SHORT SADDLE

B come BAM!

Se sei un ciclista, uno sportivo o uno che ci tiene alla linea, mangiare salame pare sia una specie di peccato mortale. di Andrea Benesso

52 La fabbrica delle storie

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Hai ventitré anni, sei curioso e hai scelto di fare il cronista sportivo. Di ciclismo. di Stefano Zago

Giro Rosa, un giro più umano

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Il ciclismo femminile è una questione tra olandesi. Però è in crescita, di interesse e spettatori. E noi siamo andati a seguire alcune delle tappe chiave dell’edizione 2019. di Alessandro Autieri

La ricognizione Un corridore va da solo, con due ammiraglie, a provare le salite decisive del Tour de France. Noi andiamo dietro a quel corridore, per vedere cosa fa. di Federico Ravassard

Coppa Asteria, una in ogni paese!

I protagonisti di questo articolo sono: una squadra di ciclismo, una martire del IV secolo e un serial killer di inizio ’900. Ovviamente vi starete chiedendo cosa hanno a che fare queste tre figure così diverse tra loro. di La Popolare Ciclistica Foto Olaf Pignataro / Gianluca Suardi / Giuseppe Bonetti

«L’idea è quella di ripetere i chilometri pusteresi già percorsi dal Giro d’Italia, che si sono divisi in due tappe. So già che alterneremo andature più decise a tratti percorsi a ritmi non esasperati, o almeno così spero».

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Val Pusteria


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Guido Messina

Andiamo a fare quattro passi

Sei una fotografa professionista nel mondo outdoor, fai tanti metri di dislivello in montagna, sei convinta di essere allenata per fare il giro dei Quattro Passi. di Alice Russolo

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Velomobili

Occhi, solo occhi, che pedalano e filano via sull'asfalto a 60 km/h di media. Tutto il resto è nascosto, alla vista, ma soprattutto al vento. di Umberto Isman

El Menadòr Tra tutte quelle strade, solo una rimase un tabù, mi faceva unapaura tremenda. Già il nome austroungarico, Kaiserjägerstrasse, era tutto un programma, me lo immaginavo urlato da un soldato tedesco pronto ad impallinarmi. Non che il nomignolo locale sia più dolce: Menadòr.

Il Re dell’inseguimento, negli anni d’oro del ciclismo. «Quei cinquemila metri li feci alla morte. Raggiunsi una trentina di secondi di vantaggio. Poi resistetti. Anello in cemento, folla in piedi, boato da brividi. Vinsi» di Marco Pastonesi

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126 Prenderla sul personalizzato

La storia del nostro completo da ciclismo, quello che indossa la redazione di Alvento quando è in bici. Realizzato da Sportful, ma soprattutto da una serie di persone. di Federico Damiani

In bici tra le foreste abbattute dalla tempesta Vaia, per tenere a mente che questo potrà succedere ancora. di Federico Gardin

Un trucco, una granfondo e un professionista.

154 Non si capisce più di Emilio Previtali

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Francesco Pavignano

A LT R I G I R I Andate con lo zaino per il mondo, voi barbuti dalle spalle larghe, non ascoltate chi brontola. Riposate sull’erba, nelle malghe, nelle coltri di spuma delle spiagge, nei prati, nelle campagne, su sacchi a pelo e sconquassate brande. Mandateli al diavolo i vecchi, fate strage degli untori, dei maestri di lagne, dei barbagianni, dei seminatori di grandine. [Angelo Maria Ripellino, Poesie - Torino, Einaudi 1990]


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corse

Giro Rosa Un giro piĂš umano Testo Alessandro Autieri

Foto Tornanti cc.

La piazza centrale di Maniago è bianca come una tela ancora vergine. Le Dolomiti friulane che la circondano fanno da cornice all'arrivo dell'ottava tappa del Giro Rosa Iccrea. Il Monte Raut - rododendro in friulano - e il Passo Rest osservano e giudicano, con profilo impietoso, il finale di una corsa che ha visto, e che vedrà anche nei giorni successivi, il dominio assoluto del ciclismo olandese.

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Un vero Giro. Dici tappe, ventiquattro squadre di tredici nazioni, grande pubblico per strada e gare combattute.

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Annemiek van Vleuten, in maglia rosa, oggi lascia fare; sul traguardo rimbalzano le voci secondo le quali avrebbe provato ad andare in fuga a inizio tappa. Qualcuno all'arrivo la definisce cannibale, altri tirano un respiro di sollievo quando scoprono che sì, c'ha provato, ma dopo un po' si è rialzata facendosi riprendere. Voleva qualche secondo d'abbuono, lo ha preso sul traguardo volante dopo essere partita sul primo gran premio della montagna di giornata: un esercizio di stile per la numero uno del ciclismo mondiale. Non che ne avesse bisogno, il vantaggio è così ampio sulla seconda che potrebbe chiudere le ultime tre tappe senza bisogno di mettere il naso fuori dalla ruota della connazionale van der Breggen; sua avversaria non solo a questo Giro, ma ogni volta che si attaccano il numero sulla maglia, nazionale compresa. In avanscoperta va un plotoncino di dieci coraggiose che si seleziona mentre le vie di Maniago si riempiono di persone che entrano ed escono dai numerosi locali del piccolo centro in provincia di Pordenone. Si incuriosiscono, fanno domande, qui il ciclismo in pochi anni sta catalizzando l'attenzione, meravigliando i cittadini: «Prima la partenza del Giro, poi il Mondiale di ciclismo paralimpico e ora il Giro Rosa. Un po' alla volta migliora anche la viabilità per le due ruote: sono passi da gigante rispetto al passato. Su queste strade un cicloamatore spesso ha paura a correre. E poi il mondo inizia a conoscere Maniago. Noi friulani abbiamo la tendenza a coltivare il nostro orticello e non far sapere nulla di quello che facciamo, siamo chiusi persino tra di noi, tra famiglia e famiglia, tra botteghe.

Guardi quanta gente c'è: e pensare che in Comune dicevano di non tenere aperti i negozi oggi», mi racconta un barista, con un accento che da queste parti ricorda più il veneto che il friulano, mentre si affanna nel servire uno dei tanti clienti che affollano il suo bar. Tra questi c'è un gruppo di tifosi con tanto di maglietta celebrativa per Katrine Aalerud, unica norvegese al via della corsa: è la prima volta per loro al Giro Rosa, mi dicono, e seguiranno la ragazza nelle tre tappe friulane, prima di allungare la loro vacanza in altre città del nord Italia. Maniago è detta la città dei coltelli, un'antica tradizione che parte dal 1400. C'è la Festa del Coltello, c'è un museo che racconta un'usanza che nei secoli è diventata una delle principali attività di questo centro. Fuori da un'antica coltelleria, una signora racconta a un bambino a cosa servono le katane disposte in bella evidenza nella vetrina del negozio. Entro, e la proprietaria mi spiega come i Dogi di Venezia, ai tempi della Repubblica di Serenissima, commissionassero gli abili coltellinai maniaghesi per produrre lame, spade e coltelli: Maniago visse così il momento di massima espansione. Tutto grazie ai torrenti Cellina e Còlvera che permettevano, grazie alla loro forza, l'utilizzo del maglio per battere il ferro e forgiare lame. Col tempo le aziende di qui si sono specializzate in coltelli da cucina e forbici diventando, oggi, punto di riferimento mondiale in fatto di utensileria e produzione artigiana di lame di ogni genere.


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Sogno. «Vincere il Giro è sempre stato un sogno per me. Anzi, prima non lo era. All’inizio della mia carriera non avrei mai pensato di esserne capace». Annemiek van Vleuten.


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Annemiek van Vleuten, per conquistare il suo secondo Giro Rosa consecutivo, non ha bisogno di lame o di coltelli. Le sue gambe sono già affilate, i suoi attacchi stiletti che colpiscono sin dall'arrivo in salita sul Lago di Cancano: primo show andato in onda in questa edizione 2019 e con protagonista la bionda ciclista che viene da - ironia della sorte - Vleuten, piccolo quartiere nella periferia di Utrecht. Voleva essere fantina, poi voleva giocare a calcio, invece taglia in due, impietosa, il ciclismo femminile. Dopo aver vinto in salita, il giorno dopo straccia la concorrenza a Teglio, Valtellina, come se lei facesse un altro sport. Lungo i dodici chilometri della cronometro in salita, lascia van der Breggen a 52'', Longo Borghini, terza, è a 1'48''. Dall'azzurra fino alla sedicesima posizione, le ragazze sono racchiuse in un minuto. Questo fa capire la superiorità dell'olandese e l'equilibrio tra le altre. A Maniago intanto, il sole, dopo aver arroventato la piazza per tutto il giorno, si nasconde dietro nuvole nere che si formano, voraci, dal Passo che sovrasta la cittadina. Un violento acquazzone colpisce il traguardo in ciottolato proprio mentre le ragazze stanno per giungere all'arrivo. Vestito come un turista al mare e dopo essermi gustato un piatto di risotto allo zafferano con carne di cervo, trovo riparo sotto l'ombrello della mamma di Soraya Paladin, atleta in fuga e terza all'arrivo e tra le migliori italiane a questo Giro. Era così in ansia per l'arrivo della figlia che probabilmente nemmeno si è accorta di quel gesto fondamentale: mi permette di arrivare al giorno dopo senza una broncopolmonite.

La tappa la conquista Lizzy Banks; su dieci frazioni questa è solo una delle tre non andate ad appannaggio delle fuoriclasse orange: quattro conquistate da Vos, due da van Vleuten, una dalla campionessa olimpica e mondiale in carica van der Breggen. Mancano il bersaglio nella cronosquadre di apertura - vinta dalla Canyon SRAM di Niewadoma - e nelle due tappe in cui arriva la fuga, una vinta appunto da Banks, l'altra da Letizia Borghesi, unica conquista di un corridore italiano. Lizzy Banks, britannica di Malvern classe '90, è al suo primo successo in carriera. Come van Vleuten ha iniziato tardi a pedalare, prima studiava medicina e ha abbandonato la facoltà dopo sette anni, a nove mesi dalla laurea, per la bicicletta. Dice di essersi innamorata del ciclismo per caso, e che, dopo aver pedalato in vacanza con il marito, da Dubrovnik a Venezia, ha deciso di alzare l'asticella provando a diventare un corridore. La seconda al traguardo è la compagna di squadra Leah Thomas; appena arriva, pochi secondi dietro di lei e regolando il gruppetto in fuga, si scioglie in un incontenibile tripudio di gioia: L'ho fatto per te! L'ho fatto per te! Riferendosi al buco creato intorno ai dieci chilometri dall'arrivo, quando Banks è scattata. Il giorno dopo la corsa vive la tappa regina di questa edizione: l'arrivo a Malga Montasio. Alla partenza di Gemona, provincia di Udine, c'è tanto pubblico; le ragazze affrontano


Il ciclismo femminile corre in fretta per recuperare terreno sull'universo professionistico, ma mantiene intatte suggestioni e sensazioni di un mondo ancora a misura d'uomo. Niente mega-bus. Il pre e il dopo-gara al Giro Rosa è più ruspante. Niente grandi hospitality, spettatori e atleti si mescolano tra loro.

con leggerezza i minuti che passano tra la firma e il via. Si mescolano al pubblico: alcune si fermano a chiacchierare, altre a farsi fotografare e salutare. Il ciclismo femminile corre in fretta per recuperare terreno sull'universo professionistico, ma mantiene intatte suggestioni e sensazioni di un mondo ancora a misura d'uomo. Sopra la piazza incombe il Monte San Simeone, dove quarantatre anni fa si propagò il terremoto che devastò il Friuli. Un terremoto che ancora oggi viene ricordato come l'Orcolat, l'orco cattivo. Per arrivare nella piazza del Duomo faccio qualche miracolo e diverse peripezie fuori programma; le strade sono chiuse ovunque e i vigili mi fermano perché sono entrato contromano in una via, ma mi perdonano. La mia attenzione in quel momento, però, è catturata dal motorhome della Trek: un mezzo spaziale che mi passa davanti e che sembra a disposizione di una rock band durante un tour mondiale. Noto, soprattutto, come è l'unica squadra tra quelle al via ad avere un vera e propria hospitality simile a quella

dei ciclisti professionisti. Ho visto team a questo Giro Rosa usare furgoncini d'ordinanza, altri con normali camper, altri con un mezzo noleggiato. Quello dell'organizzazione, con sopra scritto ANTIDOPING, è invece un camper fatiscente degli anni Ottanta. La tappa arriva in un magnifico scenario, quello di Montasio, tra casere e prati di un colore antico, li avrebbe definiti Gianni Brera: un verde giallo come stemprato dai secoli. La strada, dopo Chiusaforte, si impenna subito e mozza il fiato. I corridori si arrampicano con fatica; vedo per la prima volta van Vleuten avere attimi di difficoltà: parliamo di una ragazza che ha stabilito, nel 2018, uno dei migliori tempi di percorrenza sullo Zoncolan, davanti persino a diversi uomini che avevano affrontato la salita al Giro d'Italia poche settimane prima. Magari, più che difficoltà, ha bluffato o ha avuto pietà di un gruppo che fatica a respirare nei tratti più duri e che si gira supplicando acqua al tanto pubblico assiepato a bordo strada.


corse

Salite. Decisive le tappe con arrivo in salita ai Laghi di Cancano e la cronoscalata Chiuro-Teglio.

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La tappa la vince van der Breggen, primo e unico sigillo a questo Giro, precedendo proprio la maglia rosa. Nelle dieci Magnaldi e Longo Borghini, oltre a Demi Vollering, altra ragazza di lingua neerlandèse, che poche ore prima si faceva fotografare, rilassata alla partenza, vicino a un cucciolo di setter inglese.

L'ultimo giorno è sempre festa olandese. Ci si allontana, ma nemmeno troppo, dalle montagne che ora, invece di essere una mano che accarezza le teste con la forza di un padrone soddisfatto, diventano un ricordo sbiadito nelle gambe dei corridori. Un tiepido sole, dietro una leggera brezza - tipica giornata di estate friulana, mi dice un tifoso - attende le ultime pedalate della carovana. Dopo la partenza da San Vito al Tagliamento si attraversa il Friuli collinare, per giungere, infine, a Udine. Lo sfondo, dalla pianura, si inserisce all'interno delle colline moreniche come in un dipinto di vita rurale. Si attraversa San Marco, per un breve circuito disegnato per omaggiare la tre volte campionessa italiana Elena Cecchini, assente per un infortunio e si passa l'ultimo GPM di questa edizione, nel comune di Moruzzo: qui gli abitanti hanno riempito di rosa la strada che porta alla terrazza più bella del Friuli, da dove, nelle giornate limpide, riesci a vedere fino al mare. Il finale è effervescente: il Castello di Udine, che è anche il titolo di una raccolta di racconti di Carlo Emilio Gadda, è una degna chiusura. Lo strappo che porta in cima si snoda lungo circa centocinquanta metri su un perfetto porfido rossiccio che parte da Piazza Libertà, di fronte alla Loggia del Lionello, passando sotto l'Arco Bollani che si dice sia stato progettato dal Palladio. La salita, con tratti ripidi da addentare i polpacci, è costeggiata dal Porticato Lippomano, altra costruzione in stile gotico veneziano e dove, col passare delle ore, i tifosi si accalcano tra lo stupore generale dell'organizzazione e di diversi addetti: Non ci aspettavamo tutto questo pubblico. Pochi metri prima di tagliare il traguardo, si passa sotto un altro arco; a vincere, nelle prime ore del pomeriggio, sarà quell'artista che porta il nome di Marianne Vos: ancora Olanda. La più volte citata festa olandese si concretizza ora sul palco innalzato sulla collina che sovrasta Udine e che leggenda vuole sia stata fatta costruire da Attila, in fuga dopo aver saccheggiato Aquileia. Le premiazioni avvengono di fronte al Museo al cui interno la pinacoteca ospita opere del Tiepolo e di Giovanni da Udine, allievo di Raffaello.


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Classifica finale 1

Annemiek van Vleuten (Ola, Mitchelton - Scott) 25:01:41

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Anna van der Breggen (Ola, Boels Dolmans) a 3’45”

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Amanda Spratt (Aus, Mitchelton - Scott) a 6’55”

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Elisa Longo Borghini a 8’20”

E mentre nell'aria riconosco l'odore tipico del frico, Annemiek van Vleuten viene premiata per il suo secondo Giro Rosa consecutivo.

La sua grande opera prosegue con la vestizione della maglia verde dei Gran Premi della Montagna e di quella ciclamino della classifica a punti e si concluderà il giorno dopo sullo Zoncolan dove viene inserita la sua gigantografia a fianco di quelle di altri campioni che negli anni hanno reso ciclisticamente mitica la montagna sopra Ovaro. Van Vleuten, sul podio, ha ancora la forza di improvvisare, dopo una corsa massacrante, una danza di vittoria insieme alla sue compagne della Mitchelton-Scott. Per l'Olanda è il settimo successo nelle ultime nove edizioni: due van Vleuten, due van der Breggen, tre Vos. Un dominio che arriva da lontano e che al momento viene difficile pensare possa essere intaccato. Per l'Italia è un dipinto ancora da terminare: restano le buone prove di Longo Borghini, la crescita di Soraya Paladin e la conferma di Magnaldi, mentre l'unico successo in classifica nel nuovo millennio rimane quello di Fabiana Luperini nel 2008.


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piccole storie

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La lenticolare swoooff *

Testo Matteo Berni

Foto Tornanti cc

La strada è chiusa al traffico ed il silenzio è surreale. Siamo abituati al rumore di auto e moto che corrono veloci sul nastro d’asfalto e questa vista alternativa ci piace un sacco. Aspetti, e aspetti. Guardi l’orizzonte in attesa che sbuchi qualcuno, inganni l’attesa leggendo un giornale, guardi l’ordine di partenza dei corridori sul telefono, chiacchieri coi vicini di strada poi qualcuno di più attento di te grida: Ecco che arriva! Noti subito l’auto dell’assistenza tutta colorata con la bici sul tetto e le ruote di scorta, poi il ciclista disteso sulle prolunghe che avanza con pedalata regolare, la bocca aperta e lo sguardo basso. Alé Alé Alé. Senti il suono cupo della ruota lenticolare e vedi la bici bellissima passare veloce e prendere strada, lo segui con lo sguardo finché riesci.
Poi scompare e torna di nuovo silenzio. Avanti il prossimo.

swoooff *

è il rumore sordo della lenticolare in carbonio


Alla ruota di Daniel Martin sui passi alpini del Tour de France.

Testo e foto Federico Ravassard

RICOGNIZIONE

corridori

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Team-work. Portare un atleta in ricognizione su una grande salita è un lavoro di team.

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Ci incontriamo lungo la prima parte del Lautaret. Incontriamo è un modo di dire, perché in realtà quando vediamo le auto bianche e rosse dell’UAE noi stiamo scendendo a valle, mentre loro - cioè, lui, Daniel - sta pedalando in salita. Inversione a U, marce che grattano e ci mettiamo all’inseguimento. Daniel in questi giorni non ha molto tempo e l’unico modo per scattargli qualche fotografia e intervistarlo è quello di seguirlo mentre, dopo il Delfinato, va a provare quelle che saranno le probabili salite chiave del Tour de France, la diciottesima e la diciannovesima. Un giorno è dedicato al Col du Galibier, un altro al Col dell’Iseran. Poco prima lungo la stessa strada abbiamo visto passare un drappello di Movistar, anche loro di sicuro non sono qui per godersi il panorama degli Écrins. Daniel invece è solo, scortato da due membri dello staff su altrettanti mezzi. Prima di venire qui qualcuno ci aveva già avvertiti che probabilmente non avremmo avuto a che fare con un campione di simpatia e sorrisi e quindi, memori di quelle parole, siamo quasi intimoriti dal dargli fastidio mentre, stando seduti a rovescio nel bagaglio dell’automobile con il portellone aperto, lo precediamo lungo la statale che porta al Lautaret. Ad un certo punto mentre

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Fare le ricognizioni è differente dall’allenarsi. Devi farti un’idea chiara del percorso ma allo stesso tempo ti godi il viaggio, scopri dei nuovi luoghi.

pedala ci si avvicina, un paio di metri, i nostri sguardi incrociano il suo, forse sì o forse no, ha le lenti a specchio. Ci sorride e ci fa un cenno di saluto. Fiuuu, forse gli stiamo simpatici e questa sera non ci mangerà vivi. È un po’ strano, vedere un ciclista da solo con due ammiraglie al seguito. Passato il Lautaret, prima del Galibier, due auto sportive ci sorpassano inesorabilmente e senza la necessaria cautela, fregandosene del fatto che quell’uomo alto e ossuto che pedala in mezzo alla carreggiata è uno dei migliori scalatori in circolazione. «Essere qui da solo mi permette di concentrarmi il più possibile sulla strada. Anche a casa, ad Andorra, mi alleno da solo, è un modo per capire come stanno le gambe e quando inizi a soffrire. Qui sulle Alpi però ti senti così piccolo e umile anche se non sei solo e ci sono altre persone sulla strada insieme a te». Continuiamo a salire, prendendo quota alle nostre spalle spuntano la Barre des Écrins e la Meije, le cime simbolo di questa zona. I ghiacciai sono a poche decine di chilometri di distanza in linea d’aria e si possono vedere le tracce degli alpinisti serpeggiare in mezzo ai seracchi, le linee di salita disegnano tornanti che scompariranno alla prima nevicata.


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Col du Galibier, 2642 metri 23 km al 5.1% – Salita HC- Hors Categorie

Col de l’Iseran, 2770 metri - Souvenir Henri Desgrange 12.9 km al 7.5% – Salita HC – Hors Categorie

«Ritrovarsi da soli in gara invece, è un’altra cosa, specialmente al Tour de France dove gareggi per tre settimane sempre contro le stesse persone, sono sempre gli stessi volti. Fa anche un po’ paura. Sei talmente concentrato su ciò che stai facendo che filtri qualsiasi elemento esterno di distrazione. Desideri solo arrivare al traguardo il più in fretta possibile, e allo stesso tempo devi sperare che tutta quella gente che ti incita urlando e correndoti a fianco non provochi un incidente buttandoti a terra. Pensi unicamente a rendere efficiente ogni colpo di pedale e ogni respiro per far andare avanti più veloce la bicicletta». In cima al Col du Galibier ci arriviamo mentre le nuvole iniziano ad ammassarsi sopra di noi. Cumuli grassi e pigri che tradiscono l’afa del fondovalle, lo stesso da cui i corridori arriveranno nel corso della diciottesima tappa dopo aver scavalcato il Col du Vars e l’Izoard. Parcheggiamo le ammiraglie a pochi metri dalla stele che indica i 2.646 metri del colle mentre Daniel fa ancora un giro nel piazzale, girando in tondo come uno dei tanti amatori che ogni giorno, in estate, percorrono la stessa salita. Per quanto Daniel possa essere discreto nei modi di fare, la sua entrata in scena non passa inosservata. Spuntano fuori un paio di smartphone, qualcuno gli chiede di farsi un selfie insieme a lui. «State attenti, mi hanno detto che mangia le persone» - vorrei avvisarli. E invece no, spunta un sorriso gentile anche per loro, nonostante il freddo che fa quassù. Tra tutte le motivazioni che si possono scegliere per intraprendere la strada del ciclismo professionistico, non credo che Daniel abbia puntato sulla gratificazione data dal pubblico che ti acclama. La sua non è antipatia, piuttosto è un modo di essere introverso e concentrato allo stesso tempo. Alcuni ciclisti potrebbero essere dei frontman perfetti, di quelli che si buttano nella folla e fanno esplodere gli stadi, esaltando gli spettatori. Altri invece, preferiscono suonare il basso, tanto controllato quanto essenziale alla riuscita del pezzo. Tuttalpiù si lasciano scappare un assolo ogni tanto.

Memorizzare. Fare ricognizione significa memorizzare il tipo di sforzo e le sensazioni, non solo la strada.

«Fare le ricognizioni è differente dall’allenarsi. Devi farti un’idea chiara del percorso ma allo stesso tempo ti godi il viaggio, scopri dei nuovi luoghi. Mi pesa un po’ il dover stare lontano da mia moglie e da mia figlia ma allo stesso tempo mi piace tantissimo salire e scendere dalle montagne in bicicletta. È per questo che mi sono trasferito ad Andorra, tra le montagne, ed è anche uno dei motivi principali per cui pedalo».


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Sul Colle del Lautaret due auto sportive ci sorpassano senza la necessaria cautela, fregandosene del fatto che quell’uomo alto e ossuto che pedala in mezzo alla carreggiata, è uno dei migliori scalatori in circolazione.

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Prima di cominciare la discesa Daniel afferra una banana e se la infila in tasca per dopo. Poi si gira verso la valle della Guisane, da dove è partito e scatta qualche foto, come farebbe in fondo chiunque di noi dopo aver scalato il Galibier. Il mio sguardo cade sulle sue ginocchia, è la prima volta che mi capita di vedere delle vene in evidenza accanto alle rotule. I polsini della sua antivento sono decorati con un tricolore irlandese. Non è mai successo nella storia del Tour che un irlandese scollinasse qui per primo e per chi dovesse essere dotato di fegato abbastanza per provarci e per riuscirci, farlo alla diciottesima tappa potrebbe cambiare le carte in tavola. Dalla cima all’arrivo di Valloire ci sono venti chilometri di curve in discesa, Daniel questa volta ci chiede di restargli dietro e lasciargli spazio perché vuole provare a spingere un po’. Inizia a scendere mentre noi ci attardiamo qualche minuto con Zhao, l’addetto stampa del team UAE. Zhao arriva da Tianjin, una piccola cittadina di 15 milioni di abitanti, ed è una specie di ibrido fra Mr. Wolf e Alfred, il maggiordomo di Batman. Non sai da che parte andare? Zhao ha già controllato la strada. I giornalisti ti martellano con richieste assurde? No problem, Zhao ha già risposto a tutte le mail e nel frattempo prenotato gli alberghi per le prossime settimane. Alla guida dell’altra auto c’è Yoseba, il massaggiatore spagnolo.

«Quando rimango da solo in gara, intendo da solo con l’ammiraglia, preferisco che il Direttore Sportivo mi dia informazioni pratiche, piuttosto che incoraggiarmi. Voglio sapere cosa mi aspetta, dove sono gli altri, quali tattiche usare. Ci si sente davvero parte di una squadra, non ci sono molti altri sport in cui lo staff tecnico è così a stretto contatto con gli atleti. Poi sì, ci sono certe giornate, quelle in cui si pedala in gruppo, in cui l’ammiraglia non vorresti proprio vederla, perché se la vedi, significa che hai un problema». Quello che si presenta a noi in albergo dopo la doccia a Saint Michel de Maurienne, è un Daniel Martin diverso. Più disponibile, più chiacchierone. Quando è in sella cambia modalità, si chiude in un mondo nel quale non bisogna disturbarlo. Non fa cinema, non impenna, non si fa storie per Instagram nei tratti in pianura. Lui è lì per pedalare. Nel mondo normale di sicuro non si trasforma in un uomo da cabaret ma si rivela ben più aperto e rilassato di come te lo aspetteresti. Credo che da qualche parte abbia una levetta da spingere, tipo la modalità sport di alcune auto. A cena si concede anche del vino rosso, ci racconta che gli piace mangiare bene ed è fortunato per questo a vivere ed allenarsi ad Andorra.

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Il giorno successivo il menù prevede i 13 chilometri del Col dell’Iseran, arrivando nel punto più alto del Tour, a 2.770 metri. In questo periodo c’è ancora parecchia neve e la strada viene chiusa a partire dall’una del pomeriggio per il rischio valanghe. Mentre carichiamo i bagagli fuori dall’albergo arriva un mezzo giallo della Mavic dal quale scendono due uomini vestiti di nero con delle valigette in mano, sembrano un po’ degli agenti segreti. Sono venuti per rifinire le scarpe che Daniel userà al Tour de France e devono prendergli il calco dei piedi. Il tutto avviene in un angolo un po’ defilato del dehor, mi chiedono di non scattare foto perché il progetto deve rimanere segreto fino a luglio. Yoseba pulisce la bici di Daniel mentre io scambio quattro chiacchiere con Zhao. Parliamo del ciclismo in Cina, del perché non esistano quasi ciclisti cinesi nel World Tour. «Quelli forti rimangono nel paese a correre per il governo - mi dice - Per andare all’estero serve l’autorizzazione e se osi disubbidire è probabile che ti venga fatta terra bruciata intorno». I primi chilometri li percorriamo tutti in auto, incluso Daniel, per non perdere tempo ed energie. La valle che sale verso Bonneval-sur-Arc è bellissima, costeggiata da montagne bianchissime. I seracchi della Pointe de Charbonnel e dell’Albaron di Savoia fanno da quinta mentre Daniel inizia a pedalare. Si potrebbe ancora sciare – penso – lasciando divagare la mia testa da sciatore mentre poco alla volta la strada si impenna. Rispetto al Galibier, l’Iseran è molto meno trafficato. Per quanto famoso, il Tour è passato di qui soltanto sette volte. La penultima nel 1996 quando Chiappucci, in maglia a pois, scattò all’inizio della salita e mancavano ancora 192 chilometri all’arrivo. Chissà se la vista di queste montagne così grandi l’avesse in qualche modo esaltato a compiere un’impresa suicida, 192 chilometri di fuga di cui 125 da solo, che in Francia sono lunghi pure da leggersi. Cent-quatre-vingt-douze.

«Quando ero piccolo guardavo sempre il Tour de France alla televisione. Pedalare su queste strade significa, per me, pensare alle scene a cui assistevo da casa e a chi è passato di qua, da queste montagne prima di me, a quei momenti straordinari che ho vissuto. In fondo sono un appassionato di ciclismo come tanti altri». Precediamo di qualche centinaio di metri Daniel, che sale sciolto scortato dai suoi fedeli Zhao e Yoseba. Al Tour, su quelle auto, ci sarà probabilmente Neil Stephens, ex DS del team Orica e passato l’anno scorso all’UAE. «Mi ci è voluta qualche gara per entrare in sintonia con lui ma ora è davvero un piacere lavorare insieme. Conosce perfettamente quello che voglio sentirmi dire alla radio

Fretta. In cima alle salite i corridori hanno in testa solo due cose: coprirsi e scendere.

per sapere come sto andando, per mantenere la concentrazione e per elaborare una tattica efficiente. Si vince e si perde insieme». Alzandoci di quota la neve inizia a comparire a bordo strada mentre l’asfalto si srotola come un tappeto in mezzo ai prati. L’Iseran non è uno di quei passi che dall’elicottero appaiono come una sequenza infinita di tornati. Il fianco della montagna è irregolare, ci sono rettilinei, curve larghe, costoni e cambi di pendenza dietro i quali ci si perde di vista. Senza radio su questa salita la situazione sarebbe parecchio differente, se ci si volta indietro a guardare oppure in avanti si riescono a vedere solo poche centinaia di metri. Arrivati in cima si ripete la scena dei selfie con chi lo riconosce, compresi un gruppetto di anziani saliti in pullman, tanto Daniel quanto loro non sembrano troppo a loro agio con lo smartphone. Probabilmente alcuni di loro non lo conoscono nemmeno, ma è proprio il tipo di


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Peso. Daniel Martin è alto 176 cm e pesa 61 kg. I vestiti che indossa sembrano appesi a una gruccia.

foto che una nonna sfoggia orgogliosa con i suoi nipoti, quella del ciclista professionista in cima all’Iseran in posa con lei. Probabilmente senza ciclisti questi colli non sarebbero la stessa cosa, le biciclette sono integrate nella fauna locale al pari di marmotte e camosci. Dopo la discesa la diciannovesima tappa sembra riservare ancora un po’ di sofferenza, con gli ultimi sette chilometri in salita per arrivare al lago di Tignes. I grandi paesaggi alpini qui lasciano spazio al cemento della diga e dei grandi palazzi che in inverno ospitano legioni di sciatori da settimana bianca. Al Tour i ciclisti faranno memoria dell’inverno a chi li guarda in TV, prima di ritrovarsi catapultati alla periferia di Parigi, pochi giorni dopo, pronti a farsi belli per il gran finale sui Champs Élysées.

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«Vincere al Tour è una cosa differente da tutto il resto, è una sensazione pazzesca. L’ho capito nel 2013, quando dopo la Liegi-Bastogne-Liegi vinsi una tappa sui Pirenei. Il pubblico sulle strade, la quantità di giornalisti in sala stampa, è tutto così smisurato rispetto alle altre gare. Il Tour è il Tour. È l’evento che definisce il nostro sport». Trascorso un mese da quell’incontro, Daniel è partito con tutti i suoi colleghi da Bruxelles per il Tour de France 2019. Alla chiusura di questo articolo il gruppo si godeva il giorno di riposo dopo i Pirenei, con una classifica che cominciava poco alla volta a delinearsi. L’andamento della gara combaciava, al momento, con le parole sussurrate a bassa voce nei giorni di ricognizione: senza Froome, i giochi sarebbero stati di sicuro più aperti per molti che, negli anni precedenti, erano stati eclissati dalla superiorità dell’ex team Sky. Per molti, ma purtroppo non per Daniel, che arriverà sulle Alpi con un ritardo probabilmente incolmabile per bissare il piazzamento nei primi dieci della generale dell’anno scorso. Spero ancora che sul Galibier e sull’Iseran possa inventarsi qualcosa, sarebbe una bella storia da raccontare, quella di aver visto in anticipo di un mese come si prepara una fuga vincente in montagna, provando Galibier e Iseran nella solitudine dei propri pensieri. Avrei voluto vedere quell’irlandese serio e silenzioso sorridere un po’ di più, ma questo è il Tour: decine o centinaia di storie personali che per tre settimane si intrecciano, l’una con l’altra, dando luogo a risultati spesso imprevedibili. Il mondo dell’agonismo se ne frega di quello che hai vissuto prima, guarda solo a ciò che diventi quando parte il cronometro. Magari anche dietro al gruppo Movistar incrociato il primo giorno sul Lautaret c’era qualcuno venuto a sbirciarli attraverso il finestrino di un’ammiraglia, e magari anche quel qualcuno non vedeva l’ora di scrivere come ci si preparare per mettere le mani su una vittoria nella corsa più seguita al mondo. La rivista andrà in stampa proprio nei giorni in cui Daniel - e tutti gli altri - affronteranno le Alpi francesi. Chissà, forse ci sarà modo di bloccare le rotative per aggiungere un paragrafo contenente il lieto fine, quello in cui un irlandese che vive ad Andorra ribalta la situazione scattando con i ghiacciai degli Écrins a fargli da scenografia. In ogni caso, amuses toi bien, Daniel. Divertiti.

Mi piace tantissimo salire e scendere dalle montagne in bicicletta. È per questo che mi sono trasferito ad Andorra, tra le montagne, la salita è uno dei motivi principali per cui pedalo.


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L AVORO DI SQUADR A

Cosa ci fa un produttore di caschi da bici alla Milano Design Week? Foto Chiara Redaschi

Il luogo dell’incontro è la galleria di Velasco Vitali alla periferia di Milano, in via Carlo Imbonati. Il periodo è quello della Milano Design Week, in tutta la città si susseguono eventi ed esposizioni a cura di aziende direttamente o indirettamente collegate al mondo del design e dell’innovazione. Dentro alla galleria, che era probabilmente in origine un’autorimessa o un laboratorio artigianale c’è un cortile e ci sono alcune sculture in bronzo posate a terra. Mongolfiere in metallo, alcune opere in bronzo che rappresentano dei cani sdraiati, strutture astratte in metallo, lampade in acciaio che giocano con la luce artificiale e con le ombre. All’interno della galleria, poco più avanti, si scorgono degli invitati e tra questi anche due corridori giovani di UAE Emirates, ok sono nel posto giusto. Si capisce lontano mille miglia che si tratta di corridori, per via della loro magrezza,

Per un produttore di caschi miglioramento significa tre cose insieme: sicurezza, performance e comfort.

per via del segno dell'abbronzatura del volto interrotta soltanto dal segno del lacciolo del casco sulle mandibole e poi più semplicemente per la divisa ufficiale che indossano. Non sembrano tanto a loro agio in abiti eleganti. Il luogo è molto bello, accogliente ed elegante. Moderno. Tutte le persone dentro alla galleria tengono in mano un bicchiere di vino bianco. Tutti tranne i due corridori, quella che hanno nei bicchieri è senz’altro acqua. L’evento è organizzato da MET, all’interno riconosco persone della azienda, alcuni colleghi giornalisti e Marco Belloli, un amico di vecchia data che è anche il responsabile della Galleria del Vento del Politecnico di Milano. Lui sarà uno dei relatori, di lì a breve si terrà la sua presentazione. Come accade in queste occasioni, si comincia parlando con le persone che si conoscono già e così io comincio a parlare con Marco. La sua relazione con MET è di tipo professionale – mi spiega – so che ha lavorato in galleria del vento per perfezionare dal punto di vista aerodinamico una serie di caschi da ciclismo. Mi spiega che si è trattato di un lavoro interessante ed elaborato, serio, uno di quei progetti dove innovazione, team di ricerca e designer lavorano fianco a fianco. È proprio di questo che si parlerà nella presentazione, che inizia di lì a poco.

«Molto spesso la ricerca aerodinamica si piega al design – spiega Marco Belloli – invece questo è uno di quei casi in cui il metodo di lavoro è stato esemplare. Insieme a Filippo Perini e al suo team (head designer di MET) abbiamo lavorato a stretto contatto, incrociando e coordinando i nostri feedback e le nostre esperienze». Perini ha una lunga esperienza nell’industrial design, ha lavorato a lungo in campo automobilistico e il suo background non può prescindere dalla collaborazione con altri team di lavoro, dei più svariati settori. Davanti ai presenti, in modo molto informale, con un foglio di carta e una matita tratteggia un casco indicando le linee guida che ispirano i suoi progetti e il suo lavoro.

«Oltre all’aerodinamica e al design, un casco deve rispettare dei precisi standard di sicurezza. L’innovazione e il design hanno a che fare non soltanto con il miglioramento delle performance sportive ma anche con la progressione che deve essere continua del livello di sicurezza, in questo senso le aspettative sono sempre più alte». A Mauro Giannetti, Team Manager e CEO del Team UAE spetta il compito di confermare l’interazione con l’azienda, con i tecnici e con i prodotti: «I nostri atleti passano centinaia di ore su strada ogni anno, i loro feedback hanno lo scopo di migliorare i prodotti. L’innovazione, dal nostro punto di vista, è vedere concretizzare le nostre aspettative o richieste rispetto ai


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aziende

Disegno. A mano libera, mentre racconta, Filippo Perini fa prendere senso e vita al progetto di un casco.

prodotti. Alcuni dei caschi che utilizziamo in gara nascono direttamente da richieste e necessità dei nostri corridori». Su dei pannelli appesi nella galleria, accanto alle opere e ai prodotti in esposizione, si leggono riassunti in poche righe quelli che possono essere definiti la sintesi della mission di MET. «Guardiamo sempre avanti. Creiamo prodotti d’avanguardia con una innata propensione all’innovazione e al design. Costruiamo relazioni solide e profonde con i nostri partner. Crediamo che la nostra reputazione sia il risultato del nostro senso di comunità e di lavoro collettivo». MET produce caschi in Italia dal 1987, è evidente alla fine della presentazione che non si tratta soltanto di know-how industriale. Siamo stati invitati qui non per parlare di prodotti ma per condividere una passione e una visione rispetto alla ricerca, al design e soprattutto rispetto al piacere di lavorare in team. Il ciclismo è uno sport di squadra. A quanto pare, anche costruire i caschi tra i più innovativi del mercato lo è.


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Stefano Zago ha ventitré anni e fa il giornalista. Ha un modo di fare gentile, sempre, e quando lo incontri di persona per la prima volta scopri che è alto come non te lo aspetteresti, più di due metri. Ha seguito e segue un sacco di gare, tra le altre quest’anno Giro d’Italia e Giro Rosa. In queste righe ne scrive e spiega come scova, coltiva e si prende cura delle storie che racconta. A fare gli inviati in corsa non ci sono soltanto grandi e celebri firme, ci sono anche giornalisti giovani e in gamba e Stefano è uno di quelli. Testo Stefano Zago

Foto tornanti.cc

La fabbrica delle storie

Quantità: 27.177. Qualità: passi. Al ritorno nell’albergo di Bologna il primo giorno, dopo le conferenze stampa che precedono l’inizio del Giro d'Italia, ho notato questo numero sul contapassi del telefono: 27.177 passi, ovvero 18,5 chilometri. Al mio secondo Giro d'Italia quel numero ha iniziato ad assumere importanza. Quel numero ha direttamente a che vedere con le storie che voglio raccontare. Quei passi certificano quelle storie. Sono la fatica che hai fatto per andarle a prendere. Marco Pastonesi me lo disse una volta al telefono: La mia idea è quella di un giornalismo da marciapiede. Ci ho pensato tanto ed ha ragione. Le storie non le trovi nelle pur attrezzatissime sale stampa del Giro d'Italia e nemmeno in mixed zone. Lì si dice quello che si deve dire. Le cose importanti, più vere, spesso non vengno dette: le vedi nei gesti. Le storie le trovi sui viali, nelle vie, negli anfratti e persino nei parcheggi che maledici perché pieni zeppi. Non te ne deve fregare nulla del cielo indiavolato e delle secchiate d'acqua. Le storie più belle le trovi dove nessuno andrebbe a cercarle. Così a Bologna me ne sono infischiato di una comodissima sala stampa a Fico Eataly World ed ho salito il San Luca a piedi: ho guardato le scritte per terra, la gente sulla strada e sotto i portici. Mi sono mischiato a loro: ho guardato chi mi precedeva e chi mi seguiva. Ho sentito. Ecco spiegato il motivo degli oltre ventisettemila passi.

Sono arrivato in cima stanco. Sono entrato in un bar, ho ordinato tre bottigliette di acqua e le ho finite in mezz'ora. Mi sono seduto e ho osservato i movimenti delle persone: la calma, la frenesia, in certi istanti anche il nervosismo. Poi ho provato a non guardare, limitandomi ad ascoltare. Ad immaginarmi come avrei raccontato quella scena se non avessi potuto vederla ma soltanto sentirla. In fondo raccontare è un gioco di sensi. Quando sono arrivato dietro la linea del traguardo ero paonazzo, con i capelli talmente arruffati dal vento da sembrare una selva: non ero uno spettacolo, insomma. La sala stampa in cima al San Luca è un vecchio locale quasi privo di arredamento: qualche vecchio mobile e niente wi-fi. Nulla a che vedere con quella del quartiere tappa. Il collegamento audiovisivo mi ha consentito di vedere i colleghi in quella sala stampa: perfetti, eleganti, nemmeno un capello fuori posto. Pezzo consegnato subito, nessuna fatica a ritornare in albergo e magari una buona cena. Se il pezzo deve arrivare subito, devi startene seduto comodo al Fico Eataly World; se il pezzo può arrivare dopo, allora puoi spendere tempo per andare in mezzo alla gente. Le parole arriverebbero comunque, la storia no. Le storie richiedono un approccio multisensoriale.


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Mi piace vedere l'ingresso del vincitore in sala conferenze, il modo in cui si guarda attorno, il modo in cui scruta un luogo nuovo. Che storia puoi raccontare se ti limiti a stare seduto su una sedia in sala stampa? Se stai davanti a un banco e guardi la televisione? Io voglio raccontare storie che hanno toccato la mia pelle. La sincerità con i lettori e la trasmissione di emozioni sono il mio modo di ricambiare il privilegio di seguire una corsa dall'interno. L'aria di casa manca quando sei al Giro. Non sempre. Soprattutto la sera. Quando gli addetti iniziano a svuotare la sala stampa, quando le aule tornano aule e le strade appaiono per quello che sono, ovvero comuni stradoni di centro e periferia, le luci si spengono e cala il silenzio.

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Ecco, in momenti del genere mi succede di pensare a casa. Non sopporto la fine, di nulla. Di una tappa. Del Giro d’Italia. Ma anche semplicemente di un'intervista. Vivrei di soli inizi e di progetti. Il tempo di trascinare la valigia fuori dalla sala, arrivare al parcheggio, salire in macchina e dirigersi al nuovo hotel e il vuoto si riempie di progetti e di cose da fare per la tappa successiva. Magari chiami a casa per capire se quella voce diversa, triste o preoccupata che avevi sentito nella prima telefonata era soltanto una tua impressione o realtà. Come alle gare, anche nella quotidianità ho l’esigenza di sentire e di vedere. Se non vedo o se sento qualcosa, vado in tilt. Penso a chi intervisterò, a chi incontrerò, alla musica della partenza, alle espressioni e ai volti dell'arrivo, penso che in fondo alla fine della stagione manca ancora tanta strada, per fortuna. E quando alla fine della stagione mancherà poco, mancherà comunque tanto, ancora troppo da raccontare. Se racconti in un certo senso impedisci alle cose di finire, le mantieni in svolgimento. È per questo che scrivo.


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STRANI —

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FORTE — «Coppa Asteria, una in ogni paese!»

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Testo e foto La Popolare Ciclistica

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I protagonisti di questo articolo sono: una squadra di ciclismo, una martire del IV secolo e un serial killer di inizio '900. Ovviamente vi starete chiedendo cosa hanno a che fare queste tre figure così diverse tra loro.

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Il filo che le lega è una storia che parte da molto lontano, forse non da lontanissimo, ma di certo di mezzo c’è stato molto dislivello. «Ma andiamo per ordine: la santa ed il serial killer mettiamoli un attimo da parte… Paura, eh?!», direbbe Carlo Lucarelli. La squadra di ciclismo di cui stiamo parlando è la Popolare Ciclistica, un’associazione che nasce a Bergamo nell’ottobre 2014, quando sette amici la fondarono. Ne venne quindi redatto il Manifesto: dieci semplici regole che gli associati avrebbero dovuto rispettare; ognuna di esse porta il titolo di una

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canzone punk rock. Il Manifesto parla molto chiaro, o forse no, ma di certo il progetto parve fin da subito piuttosto ambizioso, almeno a giudicare dal punto 10: «Sogniamo ergo siamo, la Popolare Ciclistica non si pone limiti in termini di ambizioni, farne parte significa condividere obiettivi e progetti non ben definiti, ma insindacabili, i cui modi, tempi e contenuti sono tanto vaghi quanto superflui: la costruzione del primo velodromo in pavé, l’antifascismo cosmico, il Tour du Rwanda, la Rivoluzione». Di belle storie sulla Popolare Ciclistica ce ne sarebbero molte, ma non possiamo ora elencarvele tutte.


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La vicenda di Pianetti ebbe risonanza nazionale e vennero inviati in Val Brembana gendarmi da tutta Italia, al contempo iniziò anche crescere il mito del vendicatore capace di ribellarsi ai poteri forti.

Salite dure. Come ogni Coppa Asteria che si rispetti le salite sono sempre durissime.

Però ce n’è una che non possiamo non raccontarvi: è la storia di Asteria, o meglio, di Coppa Asteria. È un’idea nata da questi ragazzi bergamaschi assetati di birra, sadici di salite e di tacchette consumate. Lo scorso primo giugno è giunta alla sua quarta edizione. Coppa Asteria fa parte del Trittico, insieme a Martesana Van Vlaanderen (Inzago) e Muretti

Madness (Firenze). Si tratta di tre non gare di ciclismo, gratuite e senza classifica, che con i loro percorsi seguono strade inedite e nascoste tra i centri storici, fatte di un’infinita successione di salite brevi ma con pendenze micidiali. Giusto per rendervi l’idea: se le salite che tipicamente voi pedalate la domenica mattina sono come un bicchiere di vino bevuto al tavolino del

bar insieme alla fidanzata, le salite del Trittico sono più simili ad un whisky doppio bevuto tutto d’un sorso e seguito da un pugno sul muso da parte del suo ex. Coppa Asteria prende il nome proprio da Santa Asteria. Una figura importante per la terra di Bergamo e legata a quella di Santa Grata e del patrono della città, Sant’Alessandro. Ma, mentre a questi ultimi due la storia ha dato ampio risalto, di Asteria si trovano solo poche notizie e qualche leggenda. Asteria insomma è qualcosa di legato alla terra di Bergamo e ai suoi lati meno noti, proprio come l’omonima Coppa.

La squadra di ciclismo, la santa del IV secolo ed ecco che il cerchio comincia a chiudersi, perché quest’anno il percorso di Coppa Asteria, contorcendosi per 120 chilometri e 3000 metri di dislivello, ha seguito le tracce del Simone Pianetti, passato alla storia come il vendicatore della Val Brembana. Tra concerti, presentazione di libri e spettacoli di burattini, numerosi erano gli eventi a contorno della non gara, volti a far conoscere la controversa figura del personaggio a cui quest’anno era dedicata. Simone Pianetti nacque in una piccola contrada di Camerata Cornello

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nel 1858 e fin da giovane si era contraddistinto per un carattere un tantino sanguigno: per intenderci, già in giovane età provò a sparare al padre. Fu uno dei tanti emigranti della Val Brembana e si trasferì a New York in cerca di fortuna. Alcune fonti riportano che si ribellò ad una richiesta di pizzo da parte della Mano Nera (la mafia locale) e, per paura di ritorsioni, fu costretto a rientrare nel paese natale. Di mentalità aperta e progressista, aprì quindi una locanda a Camerata Cornello. La locanda attirò presto le perplessità dei poteri conservatori del paese: ballare allora era considerato peccaminoso e il parroco,


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Ballare un tempo era considerato peccaminoso, pedalare una perdita di tempo. Il parroco, dal pulpito della chiesa, ne sconsigliava la pratica.

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Il Pianetti fuggì sui vicini ed impervi monti Cancervo e Venturosa, che ben conosceva grazie alle sue battute di caccia.

dal pulpito della chiesa, giunse persino a sconsigliarne la frequentazione agli avventori. Il Pianetti, insieme alla moglie e ai sette figli, fu quindi costretto a chiudere la locanda e si trasferì più a valle, a San Giovanni Bianco, dove, sempre seguendo la sua indole intraprendente aprì uno dei primi mulini elettrici. Ben presto però si diffusero maldicenze che sostenevano che la farina prodotta dal

suo mulino elettrico fosse velenosa. Il Pianetti cadde definitivamente in malora e fu nuovamente costretto a chiudere l’attività; fu così che il 13 luglio 1914, deciso a vendicare le ingiustizie subite, imbracciò il suo fucile da caccia ed uscì di casa. Si mise alla ricerca di coloro che riteneva responsabili delle sue sfortune, ne trovò sette e li freddò uno ad uno, tra cui il segretario del Sindaco, il prete ed il messo

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Niente stress. La Coppa Asteria è fatica, sorrisi, baci e polenta.

comunale di Camerata Cornello. Pare che, nelle intenzioni del carnefice, la lista fosse ben più lunga. Il Pianetti fuggì quindi sui vicini ed impervi monti Cancervo e Venturosa, che ben conosceva grazie alle sue battute di caccia. La vicenda ebbe risonanza nazionale e vennero inviati in Val Brembana gendarmi da tutta Italia, ma nel contempo iniziò anche


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La Popolare Ciclistica è un gruppo ciclistico indipendente di Bergamo ma essere pop significa andare oltre ogni tipo di confine, naturale e geografico. Quello nella pagina di destra non è uno statuto, è il manifesto di un modo di pensare al ciclismo.

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Sulla cattura del Pianetti persiste la taglia di 5000 lire emessa allora dal Ministero dell’Interno e mai incassata.

Gendarmi ovunque. Nove salite, 130 km e 2800 m D+, la Coppa Asteria è una fuga continua.

Portiera

crescere il mito del Pianetti come vendicatore capace di ribellarsi ai poteri forti. Alcuni carbonai e pastori lo protessero durante la latitanza, mentre in valle comparvero scritte come Pianetti libero! o Pianetti, uno in ogni paese! Ól Pianèt sparì per sempre e di lui, salvo qualche sporadico avvistamento, non si ebbe più notizia e ancor oggi per la legge italiana è considerato latitante.

Pianca

Alino 900 m 700 m 500 m

I.

S. Alessandro / II. Monte di Mozzo / III.

Muro d’Ubiale / IV. Alino / V. Portiera /

VI. Pianca / VII. Muro del Diavolo / VIII. Stabello / IX. Ramera

km 12 0

km 60

km 40

0

km

300 m

Sono passati 115 anni da quei cruenti fatti, ma il manipolo dei trecento ciclisti iscritti a Coppa Asteria si è comunque messo sulle tracce (GPX) del vendicatore. A motivarli forse è stata la taglia di 5000 lire emessa allora dal Ministero dell’Interno e mai incassata. Il tracciato di Coppa Asteria del 2019

raccontava una storia e transitava dai luoghi in cui si sono consumati alcuni degli omicidi, da quel che fu il mulino del Pianetti e dalla sua locanda. Quest’ultima è passata alla storia come la Locanda del Diavolo ed è ancora in attività. Nascosto sotto allo zerbino d’ingresso, si possono ancora scorgere le iniziali PS che stanno per Pianetti Simone, è curioso notare come un tempo uno pensasse a sé stesso prima con il cognome, che con il nome. Anche il monte Cancervo era sorvegliato a distanza, grazie al ristoro opportunamente appostato presso le vicine miniere di Dossena, dove non sono mancati formaggi invecchiati in grotta, polenta, carne alla griglia, ma soprattutto birra ed amari.

Tuttavia la sensazione è che se il Pianetti quel giorno fosse stato avvistato, gli sarebbe stata concessa la fuga (offrendogli in aggiunta cambi regolari). In fondo quelli della Popolare, quando fanno la Coppa Asteria, si sentono proprio come lui: accumulano stress e frustrazioni per settimane, chi in famiglia, chi in ufficio, chi in fabbrica. Poi un bel giorno decidono di saltare in sella alle loro bici, che sono un po’ come se fossero i loro fucili, preparano una lista di salite da far fuori, escono per affrontarle una dopo l’altra e nessuno più saprebbe dove sono andati a finire. Se solo non avessero acceso Strava.


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Se sei un ciclista, uno sportivo o uno che ci tiene alla linea, mangiare salame pare sia una specie di peccato mortale.

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come BAM!

come Bresaola

Testo Andrea Benesso

Foto Giovanni Danieli

Il salame è un po’ fuori moda, come il TG4. Gli appassionati di panino al salame, quelli che al supermercato ordinano due etti di ungherese o che addirittura comprano una soppressa, sono sempre meno, sostituiti dagli iper-proteici mangiatori di bresaola. Dopo l’uscita del libro sulla dieta Dukan, pare che i produttori di bresaola della Valtellina si siano comprati alcune isole alle Maldive, aerei privati e perfino parte delle azioni di Facebook. Era bresaola a colazione, pranzo e cena, insalata alla bresaola e pizza alla valtellinese. Era anche una rottura di cazzo – diciamolo – tutta ‘sta bresaola, ma in quell’epoca di sogni nessuno aveva il coraggio di dirlo. Dukan diceva infatti che la bresaola non solo ti avrebbe reso magro e muscoloso ma anche che

ti avrebbe regalato il sogno del successo. Visto che siamo su Alvento, questo significava velocità, vittorie, ammirazione e polpacci pronti per il prossimo tatuaggio. La bresaola sta alle Granfondo come il salame sta al BAM!, il raduno europeo dei viaggiatori in bicicletta. Già, mi hanno chiesto di raccontare del BAM! 2019 e io parlo di salame. A me il percorso logico pare evidente. Il BAM! è alla sua quinta edizione e si è tenuto a maggio a Mantova, proprio durante quel weekend il cui meteo è stato descritto dall’aeronautica militare con l’utilizzo del termine patagonico. Poco male però, la Patagonia, per chi arrampica e per chi viaggia in bicicletta, è un po’ come Marilyn Monroe per i Kennedy. Questo per dire che ha piovuto, ha soffiato il vento e qualche


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Salotto. Come sempre al BAM! il centro del centro di tutto è il divano.

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Se la bicicletta, di per sé, non fosse già perfetta per questo tipo di collezionisti e pescatori, il BAM! potrebbe essere un raduno di aviatori o cavalieri. Non cambierebbe niente.

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Resistere. Se c'è vento, se piove e se fa freddo, bisogna resistere.

gazebo è pure volato via. Eppure, siccome la pioggia, sui mangiatori di salame non ha lo stesso effetto del vento sui consumatori di bresaola ostacolati nella loro conquista del prossimo KOM, tutto è andato come doveva andare, cioè bene. I viaggiatori in bicicletta pedalano sotto la pioggia, piantano la tenda con il vento, bevono forte e si abbracciano con sincerità, come fossero fratelli separati da un destino dickensiano. Per questo il BAM!, come succede da 5 anni ormai, è andato bene nonostante pioggia e vento. Per tre giorni ci siamo incontrati, abbiamo bevuto, ci siamo raccontati dove siamo stati a pedalare e soprattutto dove andremo. Abbiamo ascoltato Valentina Brunet, che è arrivata al BAM! dopo aver pedalato dal Vietnam fino a Mantova; abbiamo conosciuto Fabio Guglierminotti che, con un sorriso largo così, pedala verso l’orizzonte anche per lottare contro la sclerosi multipla. Abbiamo pedalato con Rick, che è passato dal

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BAM! durante il suo viaggio attorno al mondo, dopo aver pedalato in fila, una dopo l’altra, Alaska e Patagonia, in due anni. E poi c’erano tutti quelli con cui abbiamo bevuto un caffè al mattino e una birra la sera, con cui abbiamo ballato fino a notte fonda e che l’anno prossimo saranno ancora con noi, con la tenda sotto le stelle e con il sorriso sul volto. Il viaggiatore in bicicletta del BAM! ha queste caratteristiche, per chi non ci fosse mai venuto: si porta legata alla bici una rete a strascico immaginaria che raccoglie tramonti, tempeste, orizzonti, montagne, strade lisce e strade rotte, passi montani, sorrisi, gentilezze inaspettate e un sacco di vento, preso di faccia o sulla schiena. È questa paranza geografica e filosofica che fa del BAM! non un evento di bici ma un raduno di viaggiatori, che hanno trovato nelle due ruote un meccanismo perfetto per collezionare momenti, luoghi ed esperienze.


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Pedalare in

Val Pusteria Sembra quasi impossibile, dopo una primavera mai sbocciata, uscire per pedalare alle sette del mattino in maglietta, senza manicotti e senza giacca antivento.

Testo Gabriele Pezzaglia

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Foto Alice Russolo

Metà giugno, Vandoies, inizio della Val Pusteria: finalmente estate. L’aria del mattino non punge e non c’è traccia di una nuvola, nemmeno intorno alla cornice dei monti di Fundres che circondano il territorio di Vandoies. Giuseppe mi aspetta proprio all’inizio della salita della cosiddetta Strada del Sole che porta a Terento. Magro, magrissimo, tirato come un corridore vero. Che poi Giuseppe, che ha un passato da dilettante e oggi nelle granfondo primeggia nella sua categoria, corridore lo è per davvero. A vederlo così composto e a suo agio da fermo sulla bici, anche quando un altro sembrerebbe goffamente accasciato, mi fa subito capire che il ritmo della nostra gita sarà quantomeno allegro. E così penso a come diavolo potrò tenere il suo passo sulle diverse salite che affronteremo. L’idea è quella di ripetere i chilometri pusteresi già percorsi dal Giro d’Italia, che si sono divisi in due tappe. La prima la Commezzadura - Anteserselva/ Antholz, la seconda la Valdaora/Olang - Santa Maria di Sala. So già che alterneremo andature più decise a tratti percorsi a ritmi non esasperati, o almeno così spero.


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D’altronde l’essenza del ciclismo è proprio questo oscillare fra il concetto di prestazione, di risultato, di sfida personale e il piacere del viaggio, della scoperta, dell’avventura, di introspezione e di armonia con la natura circostante.

L’ambiente in cui pedaliamo ci offre questa duplice opportunità, ci consente di alzare il cuore ma anche di aprirlo. Pedalare, è sempre una questione di cuore. Sulle strade che pochi giorni prima i campioni hanno spianato, adesso ci siamo noi, combattuti tra un vago senso di emulazione e uno più realistico di timore reverenziale. Pronti-via, ecco la salita di Terento: 6600 metri di lunghezza, 499 metri di dislivello per una pendenza media del 7,6%. I primi tornanti sono comodamente pedalabili - per fortuna, penso io - dal momento che siamo partiti praticamente a freddo. Pedaliamo affiancati, parliamo, ci confrontiamo su quello che ci aspetta, sull’itinerario e su tutto quello che andremo a scoprire, scovare, visitare. Dopo quattro chilometri il fiato è rotto e la salita si fa più dura, in corrispondenza di un tornante posto poco meno di cinque chilometri e mezzo dall’inizio Giuseppe si alza sui pedali e allunga, aumentando il ritmo. Perdo la sua ruota alla curva successiva, in un punto in cui a bordo strada vedo una cesta piena di petali rosa, uno dei tanti addobbi preparati in occasione del Giro. Proprio su queste curve dove è partito Giuseppe si è animata nella tappa quella lotta degli uomini in fuga per transitare davanti al gran premio della montagna posto ai poco più di 1.200 metri di Terento. Come abbiamo visto fare a Bakelants e Masnada, Neilands e De Gendt, ora è il nostro turno, in giro non c’è nessuno e si pedala nella

quiete e nel silenzio. Bakelants attacca sul tornante più duro e sembra avere la meglio, Fausto da Laxolo invece risponde e transita per primo sul GPM mettendo il sigillo su un’altra piccola impresa di una stagione tutta all’attacco e sempre in fuga, fuori dagli schemi ed estranea a soporiferi tatticismi. Abbandoniamo per un attimo il percorso della tappa del Giro e svoltiamo verso le frazioni più in quota. La strada si impenna, davanti a noi un centinaio di metri severi, una rampa dritta prima del bivio. Non conosciamo questa zona e non abbiamo idea della salita, così la fatica è doppia: oltre a gestire i fuorisoglia per l’aspra pendenza, ci spingiamo in questa esplorazione senza una meta precisa con la strada che a quanto pare non accenna a spianare. Dopo un chilometro nel bosco arriviamo a Marga, poi l’altro versante della salita ci porta a Pino, un balcone sulla Val Pusteria. Bellissimo. Quando butti l’occhio sulla destra della strada capisci che sei in un luogo che non potrebbe essere altro che l’Alto Adige. Prati rasati e lavorati come con il goniometro, qualche casa sparsa dove anche il più rudimentale attrezzo agrario viene parcheggiato come fosse una Ferrari, spazi apertissimi, silenzio. Poco più avanti le piramidi di terra, situate in un bacino di erosione e formate durante un’esondazione del torrente Terner.

Rientriamo sul percorso del Giro in picchiata verso Falzes. Sulla destra allunghiamo in direzione Issengo, dove c’è Bergila, centro di produzione e vendita di oli, erbe, tisane, cosmetici naturali, quindi il Lago che prende proprio il nome della frazione. In fondo alla discesa ecco Brunico, cuore della Val Pusteria. Attraversiamo la via pedonale, dove a negozi tipici si alternano boutique di tendenza ed eleganti caffè. Percorriamo la Val Pusteria sulla ciclabile e a Perca ci infiliamo nella strada che sale ad Anterselva dove era situato l’arrivo della tappa. La strada torna a salire anche se in maniera impercettibile, poi ad Anterselva di Mezzo, 1257

metri, inizia la salita, quella vera, quella che al Giro è stata decisiva. Sono 5 chilometri e mezzo al 7% medio per 378 metri di dislivello. È una lingua di asfalto che taglia il parco naturale di Ries-Aurina fra boschi fitti e fonti d’acqua. Di fronte le vette sono ancora imbiancate, l’inverno qui è finito da poco, le lingue delle rocce moreniche parzialmente innevate. Siamo nella valle del biathlon, nella patria di questa disciplina invernale che ogni anno porta in questo angolo di Val Pusteria 20.000 appassionati da tutta Europa. Nel 2020 i Mondiali, nel 2026 le Olimpiadi, tanto per rendere l’idea di cosa voglia dire biathlon da queste parti.


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La salita di Anterselva la puoi capire solo se la pedali. Percorrendola in auto sembrava innocua, non ci eravamo resi conto di come una salita del genere, continua e regolare, potesse fare selezione. Ci sbagliavamo, e di grosso. Cinque chilometri e mezzo che tradiscono, illudono e alla fine ti strapazzano se li affronti senza la necessaria cautela e risparmiandoti un po’, almeno all’inizio. La strada è dritta. Giuseppe è sciolto, io gli rimango a fianco o dietro, cerco di non mollarlo. Dopo un paio di chilometri cerco la sua scia, mi impegno a mantenere la sua andatura che piano piano si fa sempre più sostenuta e insostenibile. È qualche metro davanti a me, cerco di stringere i denti e mi attorciglio sul manubrio per scrutare il suo

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rapporto. Lo imito. Andiamo via con un bel rapportone, anche se la sua pedalata è più rotonda: ma chissenefrega, l’importante è riuscire a non farsi staccare. Perdo un paio di metri. Rientro. Ora sono incollato, Giuseppe procede rannicchiato sulla bici alzandosi sui pedali e tenendo le mani sulla parte bassa del manubrio. Ansimiamo, saliamo, aspettando il tratto più duro. Dopo tre chilometri a San Giuseppe cediamo alla corona più piccola davanti: si viaggia ora su pendenze tra il 10 e il 12%. La salita ci presenta il conto. Una striscia di asfalto dritta, grigia, liscia, che punta verso l’alto. Un pugnale. Non c’è un tornante per aggrapparsi, per rifiatare, per nascondere fatica e paure, c’è solo quel serpente che si inerpica in

Sport e benessere. In Val Pusteria allenamento e benessere viaggiano insieme.

«In fondo alla discesa ecco Brunico, cuore della Val Pusteria. Attraversiamo la via pedonale, dove a negozi tipici si alternano negozi ed eleganti caffè».


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Strade perfette. Asfalto liscio e poco traffico, pedalare in Val Pusteria è sempre un piacere.

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«La salita di Anterselva anche tra i professionisti (non soltanto nelle mie gambe) ha lasciato il segno e ha mostrato il favorito per la vittoria finale del Giro (Carapaz) oltre che il più dotato in salita (Landa)».

cima alla Valle di Antserselva senza farti vedere la fine, se non nell’ultimo chilometro. Nella parte più dura si è decisa la tappa del Giro. Il gruppetto dei fuggitivi si è rimescolato prima e disintegrato infine, è stata una tappa strana, senza pendenze mostruose ma che ha fatto selezione proprio a causa della sua continuità e indecifrabilità. Quando a Rasun di Sopra mancavano sedici chilometri al traguardo, prima insomma della salita vera e propria, ad attaccare era stato il francese Nans Peters. Conti, Chaves e quel Neilands che era davanti anche a Terento, pedalavano un

minuto dietro. Per il giovane transalpino della AG2R una cavalcata trionfale fino allo stadio del biathlon, una passerella nel tempio del biathlon invasa dai tifosi e da una luce accecante. Decisa la tappa, per la classifica generale più indietro è bagarre. Una salita che sembrava non decisiva si è rivelata teatro di colpi di scena, di attacchi e di cotte, di stilettate e grandi distacchi. I big salivano con il 53x17 o il 53x21. Noi invece cambiamo la corona davanti in favore della più piccola. Intensità diverse nell’affrontare l'ascesa, motori differenti, valori ineguagliabili. Però stesse smorfie sul viso,


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Dolomiti. Oltre al verde, ai boschi e alle strade perfette le Dolomiti rendono unico lo scenario della Val Pusteria.

stesse rughe nell’espressione, stesso fiume di sudore, stessi quadricipiti in fiamme, stesse bocche spalancate. Il ciclismo è questo: noi ciclisti siamo tutti diversi ma tutti uguali, ognuno con i propri obiettivi, le proprie speranze, la propria sfida da affrontare. Ad essere differenti sono i wattaggi, la frequenza cardiaca, la velocità di salita. Tra gli uomini di classifica Mikael Landa allunga proprio nel tratto più ripido. Il basco è un’aquila rapace che prende il volo, nessuno ha gambe e testa per seguirlo. Proprio in corrispondenza dei suoi tifosi sloveni venuti in massa a sostenerlo, nel punto esatto in cui sull’asfalto c’è una immensa scritta Go Rogla, Roglic, insieme a Nibali, rimane alvento e perde terreno. Quando i due saranno nello stadio, sul traguardo, i secondi di distacco saranno una ventina. Richard Carapaz e Miguel Ángel Lopez cercano di limitare i danni e perdono da Landa soltanto una decina di secondi. Proseguiamo verso il Lago di Anterselva, il terzo lago dell’Alto Adige per ordine di grandezza. Le sue acque, verdi smeraldo d’estate, in inverno sono ghiacciate e ricoperte di neve, attraversate con gli sci di fondo da un gran numero di appassionati. Torniamo nel cuore della Val Pusteria, ecco Valdaora. Da qui è partita la 18º tappa del Giro. Proprio vicino a dove era posto il villaggio della partenza, ci fermiamo al Lerchnhof per azzannare qualche fetta di speck e assaggiare i prodotti fatti in casa a base di frutti al nocciolo e frutti di bosco con lo zucchero di betulla. Una pausa necessaria e ripartiamo. La tappa per una porzione limitata ha attraversato l’Alto Adige prima di sconfinare in Veneto. Monguelfo,

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Villabassa e quindi Dobbiaco i paesi che ci aspettano. Gambe dure dopo la sosta, ma anche perché cerchiamo di fare subito velocità nonostante la strada sia in leggera salita e la pancia piena. Pedaliamo fra i boschi del parco naturale di Fanes-Sennes-Braies e quando alziamo gli occhi scorgiamo il gruppo delle Vedrette di Ries e delle Dolomiti di Sesto. A Dobbiaco allunghiamo verso il lago, situato nella Val di Landro e che collega Cortina d’Ampezzo. Da Valdaora a Dobbiaco pedaliamo per una ventina di chilometri. Se noi, dopo una prima parte in leggera salita procediamo regolari e in fila con una velocità di crociera intorno ai 35 chilometri orari, nella tappa i corridori tenevano una andatura schizofrenica e folle. Attacchi e ripartenze. È una tappa adatta gli sprinter, l’ultima di questo Giro, che premierà tuttavia Damiano Cima che riesce ad evitare il ritorno delle squadre dei velocisti, vincendo con pochi metri di vantaggio dopo una fuga rocambolesca. Da Valdaora si cerca la fuga di giornata. Proprio qua termina il nostro viaggio. E forse è il posto giusto, su una strada sterrata ma pedalabile e con la vista delle Tre Cime di Lavaredo. Fa caldo e siamo stanchi. Giuseppe sorseggia quello che rimane nella sua boraccia. Io frugo nelle tasche per cercare l’ultimo pezzo di barretta. Lo trovo e lo butto giù a secco. Siamo stanchi.

È stata una giornata di rampe, picchiate, frullate su strade perfette. Mezza giornata fra laghi, vette e finalmente immersi nell’estate che è esplosa. Colori e temperatura perfetta per pedalare. Un altro giorno di puro ciclismo.


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Anterselva Tappa decimosettima Testo Luca Belotti rosti.it

Mercoledì 29 Maggio. Comezzadura Val di Sole - Anterselva, 181 km

Al Passo della Mendola parte la fuga. Dopo 100 chilometri un gruppo di diciotto con sei minuti di vantaggio, tra questi ci sono Masnada, Vendrame e il giovane Peters in maglia blue/ciel e brun/terre AG2R, la più bella maglia del gruppo o perlomeno la più coraggiosa e memorabile. Dei fuggitivi l’unico uomo da classifica è Formolo, dodicesimo a dodici minuti. C’è anche Jungels, in cerca di riscatto. Telecronista: «Non ricordo un Giro come questo, dove la fuga va spesso in porto». Garzelli: «Forse dovrebbero preoccuparsi di Formolo». Quando mancano 70 chilometri a Bressanone, i fuggitivi hanno sette minuti di vantaggio, Bakelants ci prova in solitaria e guadagna un minuto. Bakelants due anni fa al Giro di Lombardia è uscito da una curva in discesa, è volato nel precipizio e si è rotto sette costole e due vertebre lombari. Ha subito cinque interventi chirurgici, si è fatto sette mesi a letto e oggi è di nuovo alla ribalta. A meno 50 chilometri il gruppo cambia ritmo. Garzelli: «Troppo tardi». I diciotto si sgranano, riprendono Bakelants e si riaggregano compatti. Ai meno 15 chilometri in un tratto di salita in rettilineo Nans Peters scatta secco come una fucilata.

Garzelli: «Ha guardato in faccia i compagni di fuga, ha visto grande stanchezza e ha scelto il suo momento. Ha grande potenza e pedala rotondo, se non molla può farcela». Nei 10 chilometri finali in salita gli inseguitori bisticciano tra loro, Peters tira dritto e non si volta mai indietro. Ai meno 3 Conti non ce la fa, Masnada in progressione recupera, Chaves accelera, ormai sono tutti sgranati, anche Formolo rinviene ma è troppo tardi, Nans Peters è sempre più vicino all’arrivo. Ultimo chilometro: nell’anello dello stadio del biathlon Peters si presenta con la lingua fuori, la gioia pura negli occhi e le braccia al cielo, è la sua prima vittoria da professionista. Ai microfoni, appena dopo il traguardo, dice di essersi guardato intorno e di aver preso la decisione di andare, senza pensarci troppo: «Mi sono detto: un po’ più di sforzo di così, e posso farcela». In questa frase apparentemente banale di Peters sono riassunte tre settimane di corsa, nella prima settimana del Giro, il mantra è stato: In amore vince chi sa fare i calcoli. Nella seconda settimana: In amore vince chi morde e fugge. La terza settimana è quella del verdetto finale e della resa dei conti, Peters lo ha capito: Vince chi vola più alto, chi è più affamato e più rapace.

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© Bettini photo

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Andiamo a fare quattro passi «Pensavo che nel garage di casa mia avrei avuto sempre e soltanto sci da freeride, sci da alpinismo e la vecchia Graziella impolverata in un angolo». Testo e foto Alice Russolo

Un tempo c’era anche un vecchio rampichino con le corna sul manubrio, ma mi era stato rubato una quindicina di anni fa e un altro non era stato mai più ricomprato. Bici da corsa? Nah, troppo male alle chiappe, non fa per me. Poi mi trovo a lavorare con Daniel Oss al progetto Just Ride, di mestiere faccio la fotografa. Just Ride è un viaggio in bici, fatto però da un professionista che decide di vedere la bicicletta da corsa sotto un altro aspetto, non solo quello della competizione: ritrovare il piacere di allenarsi in modo diverso, viaggiando e approfittando della bicicletta come mezzo per vedere posti nuovi. Conosco meglio Daniel, vedo passione, dedizione, impegno, e sì, anche tanta fatica ma allo stesso tempo tanta soddisfazione. E soprattutto, vedo che Daniel in bici si diverte. La bici da corsa inizia ad intrigarmi. Poco tempo dopo mi chiamano per fotografare la cronometro (o era una cronoscalata? Boh?) della tappa del Giro d’Italia che parte da Trento. Mi ritrovo su un’ammiraglia del team Shimano a seguire un atleta che non mi ricordo come cavolo si chiama... Jérémy, forse? e a documentare i dietro le quinte della gara. Tutto preciso, ordinato e pulito alla perfezione. Frenesia e organizzazione. Serenità e serietà. Nulla viene lasciato al caso. Questo mezzo a due ruote mi sembra sempre più affascinante. Mi capita una bicicletta da corsa di occasione, decido di comprarla. È fatta. Adesso devo pedalare. Gasata e convinta del fatto che aver scalato tanti

metri di dislivello con gli sci e le pelli durante l’inverno non potrà che aiutarmi, alla mia seconda uscita stagionale decido di portare Marco a fare un giro tra i passi dolomitici. Il giro completo classico della Maratona delle Dolomiti ritengo che per il mio allenamento ciclistico pari a zero sia un pelo troppo, quindi con un’attenzione assolutamente non eguagliabile a quella dei professionisti inizio a studiare il percorso e gli propongo un giro dei passi abbreviato, non so esattamente dove passare ma sono convinta in un modo o nell’altro di poterlo fare. Tanto per lui è easy, chilometri nelle gambe ne ha già messi un bel po’. Partiamo. Lasciamo la macchina a Campitello di Fassa, quattro chilometri in piano per scaldare le gambe prima di attaccare il Passo Sella. Una borraccia a testa, quattro barrette e un k-way per la discesa è tutto quello che ci portiamo. Il Passo Sella è stato facile, il mio preferito. Forse perché ancora fresca, forse perché adoro quelle montagne che gli fanno da cornice. Iniziamo a scendere, io che mi sento local spiego a Marco che arriveremo a Corvara, che la strada sarà bellissima. Eccetera, eccetera. In realtà la mia conoscenza geografica e la mia pianificazione del percorso non mi avevano fatto prestare attenzione alla presenza intermedia del Passo Gardena. Ok. Il giro dei passi lo faremo per intero. Effettivamente una volta partiti, a meno di tornare indietro, non poteva che essere così, un giro ad anello.

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Ciclista. Per una volta Alice è nelle vesti di ciclista e non in quelle di fotografa.

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Le sensazioni sono buone, la gamba non gira neanche male, le chiappe non sono (così tanto) doloranti e il panorama è super. È lunedì mattina e ci sono quasi più bici che automobili in strada. Quando non mi sorpassano moto sento solo il rumore delle mie pedalate. Dico delle mie perché Marco mi ha già staccata da un pezzo. Dico a me stessa che vivere così la bici da corsa è divertente. Quasi a metà del giro iniziamo ad accorgerci che vediamo gente che avevamo già incrociato al mattino, che sta facendo il giro in senso opposto. È bello risalutarsi con il sorriso. Al Passo Costalunga arrivo dopo aver pedalato qualche minuto affiancata ad un signore olandese. Mi dice è qui con dei suoi amici, ogni anno scelgono una meta diversa per il loro bike trip. Non vedeva l’ora di venire a pedalare sui questi passi. Fa fatica, visto che in Olanda è tutto piatto, ma comunque dopo un po’ mi stacca e se ne va. Incrociamo tedeschi, giapponesi e americani. Tra un tornante e l’altro penso a quanta strada o quante ore di volo si fanno queste persone per venire a pedalare fin qui in Dolomiti, e quanto la bicicletta possa essere motivo di felice aggregazione. Mi sento ingenua a

non averla presa in considerazione prima. Marco mi aspetta in cima al Passo di Costalunga. Scendiamo ad Arabba. Ultimo sforzo sul Pordoi. Ci salutiamo, ci vedremo in cima. Per tanti questo sarà probabilmentè un giro facile e molto pedalabile ma per me è stato un po’ di più. Se penso che ero partita non pensando di fare il giro dei quattro passi per intero, ma per una passeggiata di qualche ora, arrivata in cima al Pordoi la mia soddisfazione è enorme, paragonabile a quella che provo in fondo ad una discesa di mille metri di dislivello in neve polverosa con solo la mia traccia alle spalle. Oppure, nel mio lavoro, quando porto a casa lo scatto fotografico che avevo in mente da tanto tempo. Selfie di vetta al quarto passo della giornata (nonché il quinto pedalato della mia vita) e via a contare quante palline di gelato ci meritiamo. Così per iniziare. In realtà però la mia mente sta anche già pensando a quale sarà la prossima salita che potrò vedere in sella alla mia bici. Alla fine, pedalare con la bici da corsa mi piace tanto. Ma davvero tanto!


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VELOMOBILI

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Testo e foto Umberto Ismam

Con 170w di potenza in pianura si possono tenere medie di 50 km/h. Se siete un buon amatore e se disponete di una buona velomobile, su una gara di un'ora a Monza Bradley Wiggins non potrà tenervi la ruota.

Una velomobile è in estrema sintesi un’auto a pedali e sono andato a scoprirne i segreti all'autodromo di Monza in occasione del Gran Premio Propulsione Umana, una gara internazionale aperta a varie categorie di mezzi a pedali: magari sembrano un po’ strane, ma sono biciclette. Il format di gara è semplice: si gira in pista (esatto, quella delle auto di Formula 1) e vince chi percorre più strada in un'ora. In un'ora di strada in velomobile se ne percorre tanta, perché questi sono i mezzi che permettono a un essere umano di raggiungere in assoluto la massima velocità possibile con la sola forza dei suoi muscoli. Monza è considerato universalmente il tempio della velocità, i box sono gli stessi della Formula 1, anche se oggi una ventina di mezzi sono stipati nello spazio normalmente destinato a una sola monoposto. Al contrario della Formula Uno si respira aria di eclettismo e artigianalità. I mezzi sono spesso fantasiosi, a volte auto-costruiti. Si va dalla categoria delle velomobili completamente carenate, ai trike, biciclette reclinate a tre ruote su cui si pedala quasi sdraiati, fino alle reclinate

a due ruote, con o senza parti carenate. La caratteristica comune è il pedalare quasi in posizione supina, in posizione recumbent, principalmente per questioni aerodinamiche ma se il mezzo viene declinato in versione turistica o commuter bike, anche per maggiore comodità. «La posizione sdraiata nasce soprattutto per questioni di comfort – mi dice Alberto Rossetti, di lavoro tecnico aerospaziale – anche se dal punto di vista biodinamico non è la posizione ideale, perché spesso si arriva a saturare prima la capacità muscolare rispetto a quella cardio-vascolare e respiratoria». Insomma, le gambe spingono in generale di più che su una bicicletta tradizionale, ma a costo di maggiori sollecitazioni dell'apparato scheletrico e quindi dell'insorgere di indolenzimenti vari. Soprattutto a scapito dell'aerodinamica, che è comprovato essere molto migliore se si pedala reclinati. Lo

dimostra qualsiasi confronto, da quelli più amatoriali tra cicloturisti, a quello televisivo improvvisato tra una velomobile sulla ciclabile e il gruppo lanciato all'ultimo Tour de France, fino ai record assoluti dove non c'è storia. Basti dire che nel 2016 a Battle Mountain (un nome che è un programma), nel deserto del Nevada, Todd Reichert ha raggiunto la spaventosa velocità di 144,17 km/h e Nici Walde nel 2018 in Germania ha stabilito il nuovo record femminile (ma quasi assoluto) di distanza nelle 24 ore: 1088,67 km, alla sbalorditiva media oraria di 45,36 km/h. Il tutto ottenuto da due ciclisti non professionisti. Stiamo ovviamente parlando di mezzi specialissimi, soprattutto quello di Reichert, tecnicamente una streamliner, una via di mezzo tra un siluro e un uovo in carbonio a due ruote, in cui il pilota pedala ovviamente sdraiato. Unica deroga elettronica concessa dal regolamento a favore


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Carbonio. Le velomobili hanno una forma buffa e bizzarra ma sono bici super tecnologiche. Fatevi un'idea su eretic.it di Giovanni Eupani.

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dell'aerodinamica, per questo genere di record, è la visione remota della pista con un piccolo monitor all'interno dell'abitacolo. Per il resto si pedala e basta. I mezzi nel paddock di Monza sono in generale meno estremi di quelli da record, anzi, tutti si possono anche usare quotidianamente nel traffico cittadino o per spostamenti più a lungo raggio. Mancano proprio le streamliner, perché per un uso normale la difficoltà a rimanere in equilibrio da fermi fa da deterrente. «Il velomobile l'ho comprato da poco e la prima volta che l'ho provato e ho guardato il tachimetro ho pensato che fosse guasto. Ho dovuto metterlo a confronto con il GPS per rendermi conto che la velocità, con poco sforzo, era così incredibilmente alta» - racconta Massimiliano Galante, il vincitore a Monza della classifica degli italiani.

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«Lo uso quotidianamente per gli spostamenti casa-lavoro, 11 km all'andata e 11 al ritorno, abito vicino a Varese. La prima volta che mi hanno fermato i vigili stavo viaggiando a circa 50 km/h e volevano multarmi perché con la pedalata assistita, per legge, il motore elettrico non può spingere oltre i 25 km/h. Ci ho messo un po' a convincerli che non avevo nessun motore. Sta di fatto che la velomobile è un mezzo strano. Dal punto di vista della sicurezza è un vantaggio rispetto alla bici, perché vedendolo gli automobilisti stanno più attenti, si svegliano dal torpore della routine quotidiana. E poi la verità è che in città viaggio più veloce delle automobili e a volte con la gente mi sento come Mosè quando gli si aprirono davanti le acque del mar Rosso». La preparazione dei mezzi fuori e dentro il box prosegue. L’interno delle

Occhi, solo occhi, che pedalano e filano via sull'asfalto a 60 km/h di media. Tutto il resto è nascosto, alla vista, ma soprattutto al vento.

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Chi pedala in velomobile spesso è anche artigiano del carbonio e costruttore dei propri mezzi. Bisogna avere cervello fino e coraggio e nessuna paura di apparire ridicoli per viaggiare a pedali piÚ veloci del vento.

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Deus ex machina. Giovanni Eupani – nella foto – è un guru. È lui il più grande esperto di velomobili in Italia.

velomobili è un concentrato di tecnologia e inventiva individuale. Ognuno adotta le soluzioni che gli sembrano migliori per essere più veloce e nello stesso tempo rendere più confortevole la pedalata. La scocca e la carenatura sono in carbonio, entrambe le parti hanno funzione strutturale. Vale anche per il sedile, il braccio della sospensione posteriore, il montante e il tubo che reggono i pedali sono tutti realizzati in carbonio. La componentistica invece è più o meno di serie: cambio, corone e pignoni derivati direttamente dal mondo bici da strada, pedivelle più corte (155 mm), freni a tamburo sulle due ruote anteriori, che sono da 20” come una BMX o quelle di una Graziella per intenderci, più piccole rispetto a una bicicletta tradizionale per abbassare il baricentro e soprattutto per resistere alle forti sollecitazioni laterali. Queste cose me le spiega Giovanni Eupani, una sorta di deus ex machina del mondo delle reclinate in Italia. A

Dueville, in Veneto, Giovanni ha una bottega-laboratorio dove assembla, modifica, costruisce, vende diavolerie varie, tutte con l'imperativo categorico del miglior binomio velocità–comfort, a seconda delle diverse situazioni. È anche uno degli entusiasti organizzatori della gara di Monza, è promotore di continue iniziative e – soprattutto – è lui stesso pedalatore appassionato. «Facevo il designer al centro stile della Piaggio, poi mi sono stancato, cercavo qualcosa di diverso. Pedalavo un po' e un giorno ho deciso di andare in bici al battesimo di mio nipote a Monfumo. È stato lì che ho deciso che la bicicletta tradizionale era uno strumento di tortura. Ho cominciato a sentir parlare delle reclinate e sono andato in Olanda a prenderne un paio. Le ho provate proprio nel tragitto casa-Monfumo e mi sono accorto che con meno sforzo per muovermi impiegavo meno tempo. Da lì è cominciato tutto». Quando inizia a raccontare, Giovanni è un fiume in piena, il suo entusiasmo è contagioso: «Sono appena tornato da un viaggetto in velomobile dal Veneto alla Val Veny, sotto al Monte Bianco. In 5 giorni tra andata e ritorno ho percorso circa 1000 chilometri, in tutta tranquillità. In bici non ce l'avrei mai fatta. E poi sul velomobile sei protetto dalle intemperie e hai circa 80 litri di spazio per i bagagli. Sono partito all’avventura, mi ero

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Giovanni è una delle persone più entusiaste del pianeta. Conosce ogni soluzione, ogni storia, ogni evoluzione legata al mondo dei velomobili. È un vero genio folle.

portato la tenda, il sacco a pelo, fornello, pentole, viveri, anche se poi alla fine non mi sono serviti». In effetti, dal punto di vista dello sforzo, il peso sulla velomobile lo senti solo in salita e nelle accelerazioni. Per il resto è ininfluente, se non nella manovrabilità e nella tenuta in curva, dove un mezzo leggero tende a sollevare la ruota interna e uno pesante è più stabile, ma anche soggetto a sollecitazioni maggiori. Giovanni lo sa bene, con i suoi 115 chili di stazza; anche se quando fila via veloce sulla pista di Monza, impermeabile alla vista, mostrando tutta la sua abilità in curva e inscatolato lì dentro, ti immagineresti un superatleta di corporatura diversa. Viene quasi il sospetto che il peso sia effettivamente un vantaggio per la stabilità, ma è lui stesso a stroncare la congettura: «La panza non fa altro che alzare il baricentro e peggiorare la situazione». Ci domandiamo allora se un ciclista di quelli forti, allenatissimo, un professionista abbia mai provato una velomobile.


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Velocità. Nella gara di Monza il vincitore e costruttore Daniel Fenn ha pedalato per un'ora a oltre 64 km/h di media.

Con qualche agevolazione, con delle leggi intelligenti, con l’ausilio di un normale motore elettrico in dotazione a qualsiasi e-bike le velomobili potrebbero drasticamente cambiare la nostra prospettiva sui problemi legati alla mobilità urbana. È sempre Giovanni a rispondere sarcastico: «Più di una volta ne ho incontrati e si sono dimostrati interessati. Poi al dunque non si sono più fatti vedere. Forse hanno paura di dover dire a sé stessi: Ma finora, son stà un coion?». A Monza ci sono anche Nici Walde, che nella gara si cappotterà in curva, senza conseguenze se non sulla classifica e Daniel Fenn, tedesco, inventore e costruttore delle velomobili attualmente più vendute e prestazionali. È qui con un prototipo che pesa intorno ai 20 chili, anche se è riuscito a costruirne uno che ne pesa soltanto 15. Gli abbondanti interventi col nastro adesivo dimostrano la perfettibilità del progetto, ma sta di fatto che sarà lui a vincere la gara, percorrendo in un'ora ben 62,9 chilometri. È ancora lo scienziato Alberto Rossetti a raccontarci le ultime cose. «Con tre ruote, o quattro come gli ultimi modelli che si stanno sperimentando, hai un vantaggio fondamentale: non ci sono problemi di equilibrio, non esiste la

velocità minima di stallo. Ad esempio, con una trike a tre ruote puoi fare qualunque salita a qualunque velocità, anche a 1 km/h. Dipende solo dalla rapportatura e dal livello di sforzo, anche minimo, che vuoi mantenere». Alberto è un grande fautore della mobilità sostenibile, con qualsiasi mezzo a pedali. «La velomobile è per me un amplificatore di sforzo. Pensa che uno scarso come me con 140 W di potenza può tenere i 48/49 km/h di media, mentre con una bici tradizionale con 240 W fai al massimo 44/45 km/h. Secondo me un professionista su un velomobile con 240 W potrebbe arrivare a una media di 70 km/h» c’è da dire però che produrre 240 W, pedalando semisdraiati, è un po’ più difficile. «Poi è una questione di approccio e di calcolo matematico. Prendi il caso di un tragitto casa-lavoro in automobile: per spostare i 75 chili di un individuo si spreca la maggior parte dell'energia per spostare i 1000/2000 chili della scatola di ferro che lo contiene; 5% di energia

utile e 95% di spreco. Purtroppo in Italia la bici in genere viene considerata come il milanese imbruttito considera l'autobus: uno spostapoveri. Non ci si rende conto che ogni bicicletta in più rappresenta anche un vantaggio per gli automobilisti, perché in definitiva è un'auto in meno nel traffico. E a chi mi dice che in auto sei protetto dalle intemperie rispondo di provare una velomobile, che ti tiene anche al caldo d'inverno e - al contrario di quanto si creda - non diventa una scatola rovente d'estate, ma anzi ti protegge dalle radiazioni solari. Purtroppo da noi si tratta ancora mezzi semi-sconosciuti. Quando mi fermo al bar e scendo dalla velomobile la cosa che mi dicono più spesso è: ah, ma non sei disabile! Questo per dire quale mentalità abbiamo nel nostro paese».

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Forme di (in)dipendenza Testo Emilio Previtali

Le velomobili danno dipendenza. Ieri dopo due anni e mezzo che non ne pedalavo una ci sono risalito sopra di nuovo - anzi, dentro - sulle biciclette si sale, nelle velomobili si entra.

Era sempre lei, la mia giallona, il siluro giallo fluorescente che pedalavo qualche anno fa e che nel frattempo ha cambiato proprietario. Grazie a Giovanni Eupani di Eretic e al suo nuovo proprietario Flavio Ferrarese ho potuto guidarla di nuovo per un giorno. L'occasione era quella della gara sul circuito di Monza, la classica di inizio giugno. Durata di un'ora, chi fa più strada vince, non esattamente una passeggiata per i muscoli di uno che ha perso la dimestichezza con il pedalare in posizione reclinata da due anni e che al mattino ha avuto la brillante idea di partecipare ad una gara di triathlon. Insieme a me, in pista, c'erano atleti bravissimi provenienti dall'Italia e da tutta Europa con dei mezzi che in questi due anni e mezzo hanno fatto un gigantesco balzo in avanti dal punto di vista tecnologico. Sono diminuiti i pesi, è migliorata enormemente l'aerodinamica e soprattutto su queste biciclette si sa sempre meglio dove andare a lavorare per migliorare l'efficienza. Sono mezzi fantastici. Per certi versi le velomobili (anche quelle in commercio o quelle leggermente più datate, non parlo solo di prototipi) sono delle specie di laboratori viaggianti, la velocità e il rendimento sono così elevati che ogni piccola

miglioria aerodinamica o evoluzione tecnica si traduce in enormi vantaggi in termini di velocità e quindi di rendimento. Con un velomobile di ultima generazione servono circa 150 watt per raggiungere i 50 km/h, immaginate cosa può succedere riuscendo a spingerne 250 o 300w. Certo, dal punto di vista muscolare quando l’intensità è massima, sostenere uno sforzo del genere è più difficile, mentre gestendosi un po’ il rendimento è pazzesco, a parità di percezione dello sforzo si va molto più veloce rispetto a una bicicletta normale. Guidare una velomobile è divertente, è una sensazione incredibile: sono rigide come auto sportive e sfrecciano nell'aria facendo un rumore bellissimo. Swoooooshhhhhh. In una velomobile si combinano il piacere della pura performance fisica – proprio come nel ciclismo su strada – e della velocità; la libidine della guida di un mezzo rigido, sportivo ben assettato e aerodinamico come nelle auto da corsa; e l'entusiasmo per la componente scientifica e tecnologica, come accade d’altronde per tutte le attività di ricerca. Chi ci pedala dentro si trasforma necessariamente in scienziato e artigiano – o meglio – bizzarramente, a modo

proprio, in tutte e due le cose. Chi guida la velomobile è sempre un tipo un po' folle. Ho la sensazione di esserci ricascato, non so cosa darei per potermi allenare di nuovo e pedalare su un mezzo moderno con le nuove migliorie aerodinamiche e le ultime evoluzioni. Sarebbe un sogno. Gli amici di Propulsione Umana portano avanti con passione genuina l'idea di un ciclismo alternativo al servizio della mobilità, è a loro che devo dire grazie per aver potuto pedalare una volta ancora su una velo mobile. Devo dirlo: con delle norme di circolazione leggermente differenti, più intelligenti ed eventualmente con l'uso dei motori elettrici (perché applicare il limite dei 25 km/h su un mezzo che a tutti gli effetti potrebbe strapazzare in città qualsiasi automobile per efficienza e comodità?) le velomobili potrebbero rappresentare un'alternativa seria ed efficace per la percorrenza su distanze brevi e medie. Se un giorno vi capita di vedere una velomobile in giro, chiedete se vi fanno fare un giro di prova. La vostra prospettiva sul ciclismo e sulla mobilità cambierà radicalmente e per sempre.

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14 milioni di alberi che non ci sono più Testo Federico Gardin

Foto Tornanti cc

Il 27 ottobre scorso la natura si è manifestata in tutta la sua devastante forza. Un mix letale di eventi atmosferici ha provocato la caduta di 14 milioni di alberi nelle foreste del Veneto, Trentino, Friuli e della Lombardia. Un numero che assume un significato ancora più chiaro se si pensa che il quantitativo abbattuto (8,5 milioni di metri cubi di legname) è circa sette volte quello che le segherie italiane riescono a lavorare in un intero anno. Parliamo del più grande fenomeno di danneggiamento del patrimonio forestale mai registrato in Italia.


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Mercato saturo. Otto milioni di metri cubi di legname hanno saturato il mercato italiano ed europeo del legname. Il danno calcolato è di 630 milioni di euro.


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«L'abbattimento di così tanti alberi, principalmente abeti rossi mette a repentaglio molti centri abitati visto e consideato il rischio di valanga cui questi centri saranno esposti nel caso di abbondanti nevicate». Anselmo Cagnati - servizio meteorologico di Arpav

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Preceduta da giorni di piogge intense, la tempesta Vaia - così è stato battezzato l’evento - ha portato un vento caldo di scirocco che si stima abbia raggiunto i 200 km/h. Le prime file di alberi che stavano alvento non hanno potuto resistere e cadendo hanno travolto anche gli altri alberi, scatenando un effetto domino inarrestabile. Tutto ciò ha sconvolto molti degli scorci che sono impressi nella mente di ogni ciclista, di ogni appassionato di montagna e di boschi della zona. È un qualcosa che suona come definitivo, per sempre. Nessuno di noi sarà qui fra cento anni per tornare a vedere il bosco come era prima, sempre che per quell’epoca avrà ripreso e ricostruito il suo spazio.

Sconcerto. A inizio estate i ciclisti hanno compreso le proporzioni del disastro.

C’è molto su cui riflettere perché questo evento non è casuale: gli esperti lo attribuiscono ai cambiamenti climatici e un tale fenomeno, mai registrato prima, si prevede possa ripetersi ancora in futuro. Vaia non è scollegata dalle nostre scelte di consumo e comportamento. Tra le zone più colpite c’è quella dell’Altopiano dei Sette Comuni, a nord della provincia di Vicenza. Una zona che per tutti gli appassionati del vicentino e non solo rappresenta un territorio fantastico dove praticare il ciclismo. Infiniti chilometri di strade sterrate costruite durante la Grande Guerra sono ora a disposizione e anche

le strade asfaltate che sono cresciute poco a poco nei decenni, non deludono mai, permettendo di raggiungere zone incontaminate e fresche, soprattutto quando la calda pianura diventa il luogo da cui fuggire. I boschi sono luogo di rifugio. Se è vero che non c’è rimedio alle cause della tempesta Vaia, è anche vero che c’è molto da fare per recuperare quanto la natura ha donato con le sue ferite. Nonostante tutti questi milioni di metri cubi di legname abbiano stravolto i prezzi del mercato, mettendo in ginocchio anche l’economia di queste terre, non c’è tempo da perdere. Bisogna fare in modo che questa morte generi


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«Gli avvenimenti dello scorso anno ci fanno pensare ad un qualcosa di profondamente diverso che probabilmente mai si era verificato nel corso degli anni. Il che ci dovrebbe mettere in guardia dal rapportarci, per esempio per quanto riguarda la rimozione degli alberi abbattuti da Vaia solo con un approccio economicista».

Dieci minuti. Tra il 27 e il 29 ottobre 2018 la tempesta Vaia ha cancellato 41.491 ettari di boschi, soprattutto tra Veneto (dodicimila ettari) e Trentino (ventiduemila).

Paola Favero, scrittrice - C'era una volta il bosco

futura vita, sotto forma di oggetti e costruzioni in materiale naturale. Questo legno arriverà in ogni continente, in Medio Oriente e in Cina e chissà dove ancora. Svariate società se ne stanno occupando, i tir salgono incessantemente tutti i giorni nella piana di Marcesina recuperando fino a 30 container al giorno. Si dice che con la buona stagione e con l’avanzare dei lavori si arriverà a poter far partire 70 container al giorno, per salvare più materiale possibile. Il legno non è eterno e deve essere lavorato subito. In questi boschi gli amanti delle due ruote trovano oggi un ambiente stravolto, ferito e devastato dalla furia della natura, ma non per questo meno affascinante: uno squarcio nel cuore e nella memoria al quale è difficile dare un senso, ma che emoziona pedalata dopo pedalata. Noi siamo partiti da Bassano del Grappa e proseguendo lungo la pedemontana ci siamo incanalati nella Valdastico in direzione nord, passando tra le vie che conducono ad Asiago a destra e a Tonezza e Folgaria a sinistra. Una lunga salita conduce in quota, attraversando il caratteristico paese di Luserna (265 abitanti): chi si ferma qui a bere un caffè può ancora ascoltare qualche abitante parlare l’antica lingua

cimbra, idioma germanico ancora in uso nelle tradizioni dei locali. Da qui si raggiunge la prima zona pesantemente devastata, la zona del passo Vezzena (1.402 m s.l.m.) che attraverso la Val d’Assa conduce all’altopiano di Asiago. Questa gola naturale ha creato la situazione ambientale perfetta per l’abbattimento seriale degli alberi sotto una determinata quota: l’aria si è incanalata nella valle e la pressione del vento ha fatto il resto. Si pedala per chilometri fiancheggiando una chiara linea di demarcazione tra il verde degli alberi sopravvissuti in alto e il marrone secco di quelli abbattuti in basso. Il giro prosegue passando per i vari paesi dell’Altopiano dei 7 Comuni. Si attraversano Camporovere, Gallio e Foza fino ad arrivare nel comune di Enego. La salita che porta a Marcesina passando per la Valmaron è un cimitero di abeti abbattuti, che si aggiunge ai molti cimiteri della prima Guerra Mondiale. La strada conduce in casa di un corridore che quest’anno sarà ancora al Tour con la Wanty, Andrea Pasqualon. Classe ’88, è cresciuto tra queste montagne e nel verde dei loro boschi. I genitori gestiscono la Baita Monte Lisser e vivono di passione per il ciclismo e di tifo per il figlio che corre sulle strade francesi, inseguendo il sogno di una vittoria di tappa. Andrea ci ha scritto questo, direttamente dalla Grande Boucle.


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La zona di Marcesina è conosciuta da tutti soprattutto per i boschi incantevoli che hanno donato per anni e anni funghi porcini favolosi, si dice sia uno dei luoghi migliori per la robustezza, il sapore e il profumo che donano al palato. Io da buon esperto e appassionato conosco ogni singola zona della Piana, non solo perché durante l’estate e l’autunno la frequenti per la raccolta dei funghi ma anche perché ho un’altra passione che mi lega a quella zona, la caccia. Con mio papà Ennio abbiamo camminato in lungo e in largo e abbiamo un ricordo particolare di quella che era la vera Marcesina e vogliamo ricordarcela per quello che ha donato ai nostri occhi in passato. Io non ero in zona quella notte, mi trovavo in ferie in Egitto, ma al mio rientro la prima cosa che ho fatto è stata quella di andare a vedere i miei luoghi, i miei angoli preferiti, volevo rendermi conto di cosa davvero fosse successo. Si tratta dei boschi in cui ho mosso le mie prime pedalate, ricordo ancora il mio primo lungo giro in bicicletta partendo dal rifugio Valmaron in direzione Malga Fosetta per la consueta Festa degli Alpini che ogni anno si celebra nel mese di agosto. Un giro davvero lungo per me perché all’età di otto anni farsi una sessantina di chilometri in bicicletta non era proprio una passeggiata. Ho un ricordo nitido di quel lungo giro. Al ritorno, dopo la festa, quel falsopiano che porta da Marcesina a Valmaron l’ho dovuto fare quasi tutto a piedi spingendo la bici, ero troppo stanco.

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Boschi di abete rosso e bianco che in dieci minuti di tempesta d’acqua e vento sono stati rasi al suolo.

Mi era sembrata una vera e propria salita, invece ha una pendenza massima del 2 o 3 %, se ci penso ora che sono professionista mi viene davvero da sorridere. È un ricordo che conservo con piacere. Marcesina e l’altopiano dei Sette Comuni con le sue salite e i suoi falsipiani sono state per me la vera palestra di allenamento, sia d’estate con la bici, che d’inverno con lo sci alpino e lo sci da fondo. Se oggi sono professionista devo dire grazie a questi luoghi e a questi boschi perché mi hanno insegnato il rispetto e la determinazione necessaria per raggiungere un obiettivo. Io mi sento un po’ come loro, ho un fisico robusto e forte capace di sopportare sforzi e volte anche incassare le batoste. Anche il bosco si rifarà.

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Andrea Pasqualon, classe '88, è cresciuto tra queste montagne. I genitori gestiscono la Baita Monte Lisser e vivono di passione per il ciclismo e di tifo per il figlio «Io mi sento un po’ come questo bosco, ho un fisico robusto e so incassare le batoste. So che il bosco, si rifarà».


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“In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c'è nell'atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l'avvertono subito. Non c'è niente da insegnare in proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l'avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede”. Ricominciare. Pedalare su strada nei boschi abbattuti è un modo per capire e per ricominciare.

La via del ritorno passa per il centro di Enego scendendo fino alla Valsugana. La vecchia strada sul lato destro del fiume riconduce a Bassano del Grappa: a questo punto è quasi d’obbligo rinfrescarsi con il famoso mezzo e mezzo (mezò in dialetto locale) sul ponte degli Alpini. Mezzo bicchiere di Rosso e mezzo di Rabarbaro – liquori della locale Nardini - ed una parte di seltz, senza ghiaccio ma con una fettina di limone. Dal ponte, con il

bicchiere in mano, non resta che riposare ammirando le montagne appena pedalate, così ricche di storia e di bellezza e così tanto ferite. L’amaro che rimane in bocca dopo aver bevuto non è solo il gusto del mezzo e mezzo. Nel retrogusto c’è anche il dolce, che è la voglia di ripetere questo giro e di tornare qui, a testimoniare la bellezza della natura che risorge dalle sue ceneri, anno dopo anno, fino a quando il bosco non rinascerà.

Dino Buzzati, Il Segreto del bosco vecchio


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El Menadór Testo Alberto Speranza

Ho avuto un’infanzia felice. Al rientro dalle vacanze estive si raccontavano alla maestra le esperienze vissute. Jesolo, Camaiore, i più fortunati Sardegna: due o tre settimane di ombrelloni, salsedine, calippo fizz, castelli di sabbia. Non per me. La fine delle fatiche scolastiche voleva dire dimenticarmi di Brescia per tre mesi tondi-tondi, perché li avrei passati con i nonni in montagna mentre i miei genitori, metalmeccanici, rimanevano in città a lavorare e risparmiare per il mio futuro. La montagna dei miei nonni era un paese piccolo e un po’ sgarruppato in Trentino, ma non il Trentino di Campiglio o Canazei. Niente hotel di lusso, né panorami dolomitici da togliere il fiato; un paesotto in cima alla Valsugana che viveva soprattutto di mele e ricordi della Grande Guerra. Tre mesi da quelle parti sono lunghi, se sei adolescente. Parte delle mie pulsioni avventurose trovavano sfogo tra le pagine dei libri (fino ai Mondiali di Calcio di Italia ‘90 non avevamo la tivù), il resto lo cercavo pedalando soprattutto sulle strade di collegamento lasciate in eredità dalla guerra. Strade troppo strette o inutili per attirare il grande pubblico, figuriamoci il Giro d’Italia. Eppure, la poca

appetibilità turistica era la fortuna di quel luogo: traffico quasi inesistente, probabilmente erano tutti a Campiglio e a Canazei. Pedalavo, legnoso e scomposto, su una bici furba (così mio padre chiamava le bici da corsa con il manubrio da passeggio) su rampe assurde verso Folgaria e Lavarone, fino a che non esaurivo le energie. Poi mi giravo e giù a tutta fino in paese, o fino al lago per un tuffo, se mi andava.Tra tutte quelle strade, solo una rimase un tabù, mi faceva una paura tremenda. Già il nome austroungarico, Kaiserjägerstrasse, era tutto un programma, me lo immaginavo urlato da un soldato tedesco pronto ad impallinarmi. Non che il nomignolo locale sia più dolce: Menadór. Che sa di pugile ispanico dal destro implacabile. Dieci chilometri scarsi per passare dalla Valsugana all’altopiano dei Sette Comuni, punteggiato in egual misura da malghe e vestigia della linea del fronte. In uno slancio eroico mio nonno la percorse una volta

con la sua Fiat 128 per raggiungere agevolmente gli altipiani per la festa di fine estate, con la bisnonna come copilota e io e la nonna sui sedili posteriori. Le pareti strapiombanti, l’odore di frizione bruciata e le decine di signoreddio del copilota ad ogni manovra su quella strada troppo stretta per il transito simultaneo di due auto incisero quell’arrampicata nel mio animo tra le cose da non fare mai. E poi mai. E lì rimase, per diverso tempo.Sono passati gli anni e ora tre dei quattro passeggeri della Fiat 128 non ci sono più. Ho imparato a pedalare alla meno peggio, ho pedalato un bel po’, poi ho smesso. Il lavoro, la famiglia, le solite cose. Ma in vacanza si va sempre lassù. Scopro che nel mio paesino sgarruppato lavora uno che fabbrica telai di biciclette, uno piuttosto bravo, a quanto pare. È un tipo molto rockenroll, che salda con Pastorius in sottofondo, fuma come un turco ed ha un cuore grande almeno come le sue manone. Diventiamo

amici. Tre mesi dopo ho di nuovo una bici, che da inguaribile romantico amo incondizionatamente per due motivi: l’ha fabbricata un amico e – soprattutto – l’ha fabbricata nel mio paesino. Puoi smettere di pedalare, darti al tennis, diventare un ultrarunner, sviluppare persino una qualche forma di tifo calcistico. Ma se hai mai amato la bici, tornare in sella a otto tubi giuntati come Dio comanda avrà il sapore di una carbonara dopo tre mesi di Erasmus alle Fær Øer. Fine luglio. Sveglia presto, caffè, pane e marmellata. Ciao amore, ci vediamo tra un paio d’ore. Pedalo nell’avvicinamento all’attacco del Menadór con la stessa convinzione di un impreparato chiamato alla lavagna, un po’ per risparmiare la gamba, un po’ per timore reverenziale. Passo accanto al cimitero del paese, da dove i nonni mi guarderanno sbuffare e arrampicarmi col loro sorriso bonario. I primi tornanti incombono sulle ultime propaggini dell’abitato.


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In macchina sembrava dura; in bici, come da copione, è un supplizio. Cerco di tenere una cadenza accettabile, ma fin dai primissimi chilometri, in mezzo al bosco, il Menadór tiene fede al proprio nome. Per assonanza mi viene in mente Contador, quando frulla in salita stando in piedi sui pedali fresco e agilissimo, mentre io sembro una locomotiva a vapore che stenta a partire. Tornante secco a destra, la pendenza non cambia, ma il bosco si dirada, per lasciare spazio a rocce e strapiombi del monte Pegolara. Non ho portato il ciclo computer, non mi interessano tempi, velocità, frequenza cardiaca. Non sento niente, tutto è ovattato, non arriva mai nemmeno il rumore della ruota libera (e ci mancherebbe) ad interrompere la pace della valle al risveglio. Vengo inghiottito da due brevi gallerie, in realtà due tetri buchi scavati a picconate dal genio austroungarico, poi due tornanti, naturalmente ancora più arcigni dei traversi che li collegano. Anni fa un ciclista tedesco, in discesa, andò lungo oltre uno di quei

tornanti. L’elisoccorso ebbe il suo bel da fare per ripescarlo con il verricello su quei muri a picco. Sfruttando l’esposizione, una delle ultime curve ospita un belvedere da cui sembra di potersi tuffare nel lago. E un tuffo me lo farei volentieri adesso, l’aria è croccante ed io sono fradicio. La strada si fa più larga, la pendenza meno punitiva, c’è l’ombra tra i larici dell’altopiano permeata da un caldo sole: sono quasi in cima. La mia personale impresa ha come spettatori due signori anziani ed una donna, con bastoni e cestini, che tornano all’auto parcheggiata in prossimità dell’unico segno tangibile che il Menadór è stato scalato fino in punta: un cartello, piccolo e un po’ arrugginito recante il nome della località in cui ci troviamo: Monterovere. Un buongiorno, da me ricambiato spezzando il fiatone. Al posto degli applausi, campanacci di mucche vicini e lontani. Ce l’ho fatta.Raggiungo a poche decine di metri un albergo chiuso, relitto del boom delle villeggiature montane degli splendenti anni ‘60. Mi siedo per terra sul marciapiede prospiciente l’ingresso, incorniciato da due locandine metalliche sbiadite con gelati che non si mangiano più. Sorseggio dalla borraccia acqua ancora molto fredda e penso che gli alberghi abbandonati mettono malinconia, come i ricordi di estati lontane passate con i nonni. Ma penso anche che pedalare da queste parti, con l’odore di frizione e i motori a coprire i campanacci, non sarebbe la stessa cosa. Da bambino le cose ti sembravano enormi, poi crescendo capisci che eri soltanto tu ad essere molto piccolo. Così adesso ho capito che il Menadór in fondo non era poi così duro. Solo un po’ riservato, magari a tratti scorbutico, ma capace di riempirti gli occhi e anche il cuore. Torno a casa col mio trofeo immaginario, scendendo leggero dalla strada che fa il giro largo e mi sembra l’estate della maturità.


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People watching [due ore nel negozio Sportler di Trento]

Il negozio Sportler di Trento è un bel negozio. Appena ci entri dentro c’è quella botta di aria condizionata fresca che nel mese di luglio ti fa venire voglia di andarci a passare il week-end.

Foto Alice Russolo

Al piano terreno c’è l’abbigliamento e uno chiunque di noi, malato di ciclismo, si incaglia subito lì. Gira tra gli espositori e rischia di fare qualche danno con la carta di credito, io a scanso di equivoci non me la sono portata. Sono qui in incognito nella veste di giornalista, devo raccontare questo negozio com’è. Mi avevano detto di telefonare per avvisare quando sarei arrivato ma io non ho chiamato, penso sia meglio così. Mi aggiro nel negozio con curiosità, non ho bene idea di cosa potrò trovare o vedere, quindi vado un po’ a caso. Dopo un po’, scampata la possibilità di acquistare tre o quattro maglie da ciclismo di tre o quattro marche diverse e dopo una visita altrettanto pericolosa nel reparto running, scendo al piano inferiore dove ci sono le biciclette in esposizione. Il pericolo adesso si fa palpabile, ci sono un sacco di belle bici. È un reparto molto grande e bene organizzato, ti viene voglia di comprare tutto. Ci sono tantissime biciclette di ogni tipo e di varie marche e una buona percentuale di queste sono elettriche. Mi hanno detto che un grande numero di bici che si vendono in questo momento sono e-bike, non stento a crederlo, quando vado in giro ne vedo ovunque, come anche voi, credo. Mi hanno detto che le bici elettriche hanno un grande appeal soprattutto su tre categorie di clienti non-ancora-ciclisti: donne, anziani e ragazzi giovani.

A quanto pare la e-bike è un regalo di promozione molto ambito per gli adolescenti, è la prima volta che mi sembra una buona notizia: è sicuramente meglio mettere sotto le chiappe a un ragazzino una bici elettrica piuttosto che mettergli in mano l’ultimo modello di smartphone, perlomeno con la bici ci può andare in giro. Mentre sono lì che bighellono nel reparto e la mia attenzione e catturata da una serie di espositori che mettono in bella mostra accessori, borse da viaggio e ogni ben di dio ciclistico, uno dei commessi del reparto è alle prese con un andirivieni di persone che arrivano per i servizi dell’officina. Certi entrano con la bici da riparare, da regolare o da registrare, altri arrivano in officina con una ruota in mano oppure con un pezzo da sostituire o da upgradare. Uno dei due ragazzi che lavorano all’officina si chiama Michele, è molto giovane ed è appassionato di enduro, lo so perché mi avevano detto che quando sarei arrivato in negozio per una visita avrei dovuto chiedere di lui. Ma io non gli chiedo niente, vedo che è impegnatissimo. Michele è giovane e molto gentile con tutti i clienti con cui ha a che fare e anche con me, mentre mi vede lì che vago intorno alla zona officina, mentre risponde paziente alle domande dei clienti e mentre registra il deragliatore di una bici trova il tempo di venire a chiedermi se ho bisogno di qualcosa. «Per ora niente, grazie, nel caso ti chiamo».

Mi mostra il pollice per dirmi che è a mia disposizione, se avrò bisogno di informazioni. Nel frattempo l’altro commesso – che scoprirò poi chiamarsi Alessandro – è alle prese con un arzillo vecchietto che sta acquistando una e-bike. Penso che il mestiere di commesso certe volte abbia molto a che fare con la psicologia. Alessandro per capire che tipo di cliente ha di fronte deve stare a sorbirsi pazientemente tutta la cronistoria della vita ciclistica dell’anziano signore: «Ho 72 anni. Ho pedalato tutti i giorni per andare a lavorare e quasi tutti i sabati e le domenica per diletto fino ai 47 anni, facevo un sacco di chilometri. Poi

ho avuto un incidente – segue una descrizione minuziosa dell’incidente e di tutta la fase riabilitativa – e non sono mai più salito su una bici». Siamo di fronte a un caso di blocco ciclistico da incidente. Poi il cliente fa un excursus nella sua vita ciclistica di bambino, era finita da poco la guerra, fino ad arrivare ai giorni nostri: «Oggi ho deciso di comprare una bicicletta elettrica perché ho il sogno di tornare a pedalare sui grandi passi delle Dolomiti, come quando ero ragazzo». A questo punto il signore è seduto in sella alla bici che sta per acquistare e stringe saldamante il manubrio per capire che effetto che fa.


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Assortimento. Strada, MTB, E-bike, abbigliamento ma soprattutto passione. Nella foto l’officina di Trento.

«La nostra mobilità è in piena evoluzione, l’ambiente urbano ci va sempre più stretto, desideriamo muoverci in modo sano e sostenibile, l’obiettivo da perseguire è più in alto, più veloce, più avanti».

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A dirlo è Frank Schwarzwälder, reponsabile acquisti di Sportler in apertura del magalog bike 2019, che avete potuto trovare in allegato al numero 4 di Alvento. Sportler gestisce 23 negozi in Italia ed Austria per una superficie di vendita totale di 47.000 metri quadrati. Si tratta di negozi altamente specializzati con particolare focus su bike, alpinismo, fitness e running. L’assortimento comprende circa 100.000 prodotti di più di 500 marchi, tutti acquistabili anche sullo shop on-line. www.sportler.com

«Secondo lei ce la posso fare?» chiede al commesso. Io sono lì appena dietro, in disparte, che ascolto tutti quei discorsi e annuisco, confermando quello che dice questo pazientissimo venditore con dei basettoni alla Elvis Presley. Ce la fai, ce la fai dico con lo sguardo al signore, muovendo anche lievemente la testa su e giù. L’acquisto si perfeziona, alla bici si aggiungono scarpe specifiche, abbigliamento, trousse porta attrezzi, borraccia, porta borraccia, guanti. Noto che manca il casco e anche Alessandro, il commesso lo nota, lo fa presente al cliente. «Il casco dovrei averlo a casa, me lo faccio prestare da mio nipote». Sembra una bugia. È curioso secondo me che uno si avventuri nell’acquisto di una bicicletta elettrica del valore di qualche migliaio di euro e decida di non comprare il casco o di usare quello di suo nipote, credo che anche ad Alessandro i conti non tornino: «Il casco è importante» fa presente. Secondo me il signore non ha nessuna intenzione di usarlo ma non vuole dirlo. Mentre lo osservo, ed è in attesa della sua roba, si sistema il ciuffo di capelli bianchi sulla fronte e poi procede alla cassa. Io riprendo a guardarmi in giro nel negozio e concentro il mio interesse su una cassetta Shimano 11 velocità 11-30 che vorrei acquistare, sull’espositore non c’è che l’imbarazzo della scelta, è raro trovare negozi così ben forniti.

Forse è meglio l’11-32, però. Il signore con la sua nuova e-bike bellissima e tutto il suo equipaggiamento si avvia verso la cassa a pagare, saluta tutti i commessi come se stesse partendo per il militare e anche me, ormai faccio parte dell’arredo. Passano una decina di minuti e poi torna indietro, è di nuovo lì. Alessandro nel frattempo è impegnato con un nuovo cliente. Il signore mi si avvicina per farmi quella che sembra essere una confidenza: «Ho pensato che il casco è meglio cominciare ad usarlo, anche se non l’ho mai adoperato perché non mi piace. Visto che ho già avuto un incidente e ho tutta l’attrezzatura nuova, perché non usarlo?». Esatto, perché non usarlo? Alessandro arriva al momento giusto a riprendere in consegna il cliente per la scelta e l’acquisto del casco, gli passo la palla. Capisco che fare il commesso in un negozio di ciclismo non ha soltanto a che fare con il vendere dei prodotti ma soprattutto con l’introdurre un cliente nell’universo del ciclismo e dell’andare della bici. E mi pare che qui, da Sportler, sia esattamente quello che fanno. È gente appassionata ed entusiasta. Questo almeno è quello che è parso a me, restandoci per un’ora e mezza abbondante. Poi sono uscito, dopo avere comprato una camera d’aria di scorta per la mia bici. In strada faceva un caldo pazzesco.


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Un trucco, una granfondo e un professionista Abbiamo chiesto a Timothy Bonapace di pedalare con la nuova collezione The Trick di X-Bionic.

C’erano una volta una collezione tecnica di abbigliamento, una granfondo e noi. Sì, noi di Alvento, che dovevamo provare una nuova linea da ciclismo, proprio sulle strade di quella granfondo. E poi c’era un professionista, che in origine non c’entrava nulla con questa storia, ma che quando l’abbiamo visto passare in allenamento lo abbiamo tirato in mezzo. Aveva da fare dei lavori, ma è stato gentilissimo, questo va detto. Poi Timothy si è attaccato alla sua ruota e le foto di Alice fanno il resto. Che poi va detto che è sempre facile essere accondiscendenti quando la fotografa è Alice, però questo è ancora un altro discorso. Torniamo all’inizio per raccontarvi come si è svolta la storia, partendo dai protagonisti. La granfondo è quella dello scorso 7 aprile, nel programma del Colnago Cycling Festival, con partenza e arrivo sul lungolago Cesare Battisti a Desenzano del Garda. L’azienda, invece, è X-Bionic, sponsor tecnico dell’evento per quanto riguarda l’abbigliamento, che lo scorso 7 aprile aveva anche dotato i partecipanti dell’edizione

Foto Alice Russolo

2019 (oltre 4.000) di un intimo super tecnico in microfibra Dryarn, apprezzatissimo da tutti perché in quella giornata ha piovuto, soffiato vento e fatto un freddo becco. La storia sembrerebbe un po’ contorta, ma non lo è. Dato che X-Bionic ci ha chiesto di provare la nuova collezione-gioiello che si chiama The Trick 4.0, noi cosa abbiamo fatto? Siamo tornati sulle strade attorno a Desenzano. E lì il cerchio si chiude. E il professionista? Passava di lì. Lui è Michael Bresciani, corridore della Bardiani CSF, classe 1994. Timothy gli si è attaccato alla ruota sulla salita verso San Michele di Gardone Riviera, anche perché con quel caldo era il modo migliore di testare The Trick. Sei chilometri di salita, dai 78 metri sul lago fino a scollinare a 380 metri. La pendenza media del 6%, il massimo invece 12,5%. Roba da fuorisoglia, con il caldo peggio ancora. Il primo chilometro della salita si fa subito duro, poi le pendenze sono decisamente più dolci, pedalabili. Ma i nostri invece di guardare il panorama, menavano sui pedali. Detto che è


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La GF Colnago si svolge ad aprile. Il percorso è spettacolare, con la vista che spazia su Sirmione, Manerba tutto il golfo del Garda. In estate i colori sono più accesi. spettacolare la visuale mentre sali e chiama continuamente l’occhio: lago di Garda sempre lì, con la punta di Sirmione, Manerba e l’intero golfo del basso Garda. A Bresciani piace questa salita in quanto riesce ad effettuare lavori specifici per i velocisti, che devono tenere su salite tendenzialmente corte. Praticamente non sale mai con il 53, ma cerca sempre lavori in agilità al medio (da 330 a 360 i watt) con punte a 400 watt quando è in soglia. Quando Michael si è voltato, Timothy era lì con lui. Il segreto? L’abbigliamento che indossava: la maglietta The Trick 4.0, arancione oltretutto, che in queste condizioni meteorologiche è una bomba. The trick vuol poi dire il trucco, perché la maglietta di Timothy ha una caratteristica, tra le altre: grazie a una fascia di tessuto più spesso posizionata lungo la spina dorsale, inganna i ricettori dorsali facendo percepire al cervello una temperatura corporea apparentemente più alta di quella reale, con il risultato di velocizzare l’inizio della sudorazione, azione che il nostro corpo attiva per termoregolarsi e che brucia molta energia nella fase iniziale dell’attività fisica. Una sudorazione anticipata, insomma, che consente all’atleta di investire da subito le energie sul movimento dei muscoli, invece che sulla termoregolazione, riducendo la dispersione di energia. Timothy, su in cima a San Michele, faceva segno con il pollice su. Le magliette X-Bionic a primo impatto ti ingannano: sembrano pesanti, più pesanti di quelle in lycra tradizionali. Poi quando inizi a fare fatica ti sembra di non averle più

addosso. E come non bastasse il tessuto è compressivo e sostiene la muscolatura attivamente durante lo sforzo, espelle velocemente la sudorazione e non fa passare l’aria. E non abbiamo parlato dei pantaloni: uno strumento di precisione per massime prestazioni, prodotti su macchine di precisione, e un fondello da prestazioni ma soprattutto da grande comfort. In discesa nessun bisogno di mantella, anche ad alta velocità, e questo vale anche a quote alpine, ben più provanti dei 380 metri della nostra salita test. Tenuta ottimale della temperatura, recupero muscolare dallo sforzo facilitato dall’effetto compressivo. Ah, comunque Timothy è andato su con Bresciani perché in questo periodo ha una gamba pazzesca, mica solo per la maglietta. Però alla fine della giornata di prova era contentissimo del completo The Trick 4.0, tanto che ha voluto tenerselo per completare il giro del lungo della Colnago Cycling Festival. Che, per la cronaca, ha già fissato in calendario la data della nuova edizione: 5 aprile 2020 con 145 chilometri per 2.130 metri di dislivello per il percorso lungo.

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Guido Messina Il Re dell'inseguimento, negli anni d'oro del ciclismo

Testo Marco Pastonesi

Foto Paolo Ciaberta

Scattò a cinquemila metri dall’arrivo: «Era la mia occasione, la mia distanza, la mia corsa. Cinquemila metri, da solo, contro tutti. E giocavo in casa: da San Mauro a Torino, poi corso Casale, infine Motovelodromo». Era il 14 maggio 1955, la prima tappa del Giro d’Italia, la Milano-Torino, 158 chilometri su strada – fino a quell’istante – più quei cinquemila metri su strada ma come se dovessero essere corsi in pista.

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«Il gruppo aveva appena ripreso il mio compagno Tino Coletto, in fuga sul Sambuy. Ci fu un attimo di tregua. Ne approfittai. Presi una spinta, come se fossimo stati in un’americana, proprio da Coletto. Scattai. Guadagnai un centinaio di metri. Mi erano sufficienti». Abbassò la testa, appiattì la schiena, mulinò i garretti:

«Quei cinquemila metri li feci alla morte. Accumulai – mi dissero – anche una trentina di secondi di vantaggio. Poi resistetti. Entrai in pista da solo. Anello in cemento, folla in piedi, boato da brividi. Vinsi». Cinque secondi su un olandese, Daan De Groot, nove su Franco Aureggi, il belga Henri Van Kerckhove e Tranquillo Scudellaro, 23 sul gruppo di Rik Van Looy, Fiorenzo Magni, Fausto Coppi, Gastone Nencini, Hugo Koblet, Nino Defilippis… Tappa e maglia. La maglia rosa. Ed è la più antica maglia rosa di un corridore vivente. La foto del giro d’onore lo ritrae in estasi: i capelli, tanti, folti, sempre, anche adesso; lo sguardo, radioso raggiante rapito, che abbraccia tutto il velodromo, anche quegli spettatori cui volge le spalle; un mazzo di fiori nella mano destra, appoggiata in mezzo al manubrio; la mano sinistra, con l’orologio al polso, che impugna il manubrio in alto; due borracce di alluminio, una davanti al manubrio, l’altra al telaio; la bicicletta Frejus; le gabbiette ai pedali; il numero 58 all’incrocio fra il tubo orizzontale e quello obliquo. Il resto lo si può immaginare: se la felicità esiste, dev’essere proprio quella, nel magico punto di incontro fra serenità e pace, dopo il raggiungimento di un traguardo, di una meta, di un obiettivo. Guido Messina abita a Caselette, una ventina di chilometri da Torino. Qui, in una villetta, custodisce i suoi ricordi, anche quella maglia rosa. E’, il suo, un piccolo museo di maglie, giornali, fotografie, coppe, trofei… Perché lui ha scritto la storia del ciclismo. Era il re dell’inseguimento su pista: un oro olimpico (a squadre, a Helsinki, nel 1952), due ori mondiali fra i dilettanti (nel 1948 ad Amsterdam e nel 1953 a Zurigo, più due bronzi, nel 1950 a Rocourt e nel 1951 a Milano), un oro mondiale fra i professionisti (nel 1954 a Colonia), ne avrebbe conquistati altri due (nel 1955 a Milano e nel 1956 a Copenaghen), più un bronzo (nel 1957 a Rocourt) e tre titoli italiani (dal 1954 al 1956). «Quel giorno, in quel Giro d’Italia, l’inseguimento lo feci su strada. Più da inseguito che da inseguitore. Come una lepre che fugge a una muta di cani. E io ero la lepre. Ma nel ciclismo la fuga non è un atto di codardia: è un’azione di coraggio. Bisogna lanciare la sfida, gestire le forze, gambe e polmoni, cuore e testa, non voltarsi mai, crederci fino in fondo». E a certi fuoriclasse – il pensiero vola fino a Fabian Cancellara – non puoi concedere neppure dieci metri: non te li restituiscono più. Messina giocava in casa, a Torino, ma era la sua seconda casa, o meglio, la sua seconda città. Lui è siciliano: «Di Monreale. Papà mugnaio, mamma a casa con quattro figli, Paolo, Cristoforo, Concetta e io, il più piccolo. Scuole, il minimo: elementari. Poi lavoro: con

Cimeli. Tra i ricordi più preziosi di Guido Messina, le maglie.

mio padre, tirando su e giù da un carretto sacchi di farina da 50 chili dal nonno Paolo che aveva un mulino, quindi garzone da un ciclista mancato, il mio compito era raccogliere i soldi di chi era in ritardo con i soldi dell’affitto. Loro scappavano, io li inseguivo. Cominciò tutto così». Emigrato: «Da Monreale a Torino, su un treno, in terza classe, quattro giorni di viaggio. Un altro lavoro: da Bruno, anche lui siciliano di Monreale, con un negozietto di bici in piazza Savoia. Da lui, con lui, casa e bottega, vitto e alloggio perché imparassi il mestiere. Quando seppe che avevo la passione per il ciclismo, e che al paese la domenica


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Ricordi. Guido racconta con lucidità e con dovizia di particolari.

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correvo, senza allenamento e senza bici, facendomi prestare la bici dagli amici, mi dette una possibilità». Corridore: «La prima corsa, a 15 anni, nel 1946, ancora in Sicilia. ‘Stacchiamolo’, si dicevano. Ma io tenevo duro. ‘Stacchiamolo’, si ripetevano. Ma io li riprendevo. ‘Stacchiamolo’, si ostinavano. Mi fecero morire, ma arrivai con loro, sesto su sei. E fu, a suo modo, a mio modo, una vittoria. Conquistai il loro rispetto. Poi arrivarono le vittorie, quelle vere, tante. La prima corsa al nord, a Genova, nel 1947, leggendo un annuncio sulla ‘Gazzetta dello Sport’. Quel giorno mi alzai alle quattro di mattina, che poi era ancora notte, presi il treno a Porta Nuova alle cinque, sul solito vagone di terza classe per pagare il meno possibile perché di soldi ne avevo pochissimi, a Genova alle sette e mezzo, colazione in un bar, cappuccino brioche e tanto zucchero, partenza alle otto, un centinaio di partenti, e c’era anche Mino De Rossi, che avrei ritrovato sulle strade e sulle piste, con la maglia azzurra e sul podio olimpico, poi su e giù, su e giù, su e giù, ogni salita perdevamo una decina di corridori finché rimanemmo in tre». Fu qui, probabilmente, che Messina timbrò quello che sarebbe poi diventato il suo marchio di fabbrica:

A quattro-cinquemila metri dal traguardo detti una botta, li staccai, vinsi da solo. Fu spedito un telegramma a casa, in Sicilia: Guido non viene più. Rimasi a Torino. E collezionai 15 vittorie consecutive. La bicicletta da strada: «Sulla ‘Gazzetta dello Sport’ fu pubblicato un trafilettino su quella prima vittoria a Genova. Così nel negozio di Bruno spuntò Pierino Bertolazzo, che era stato campione del mondo dei dilettanti su strada nel 1929, poi il commissario tecnico della nazionale italiana dilettanti, infine il direttore sportivo di una squadra di professionisti, la Frejus. Parlavano e mi guardavano. Parlavano e mi guardavano. Parlavano e mi guardavano. Finché Bertolazzo chiese se potesse vedere la mia bici. Bruno gliela mostrò. Bertolazzo si mise le mani nei capelli, spaventato: era un trabiccolo, un carrettino, un cancello. Mi promise: ‘Te ne do una più bella e più leggera’. Andai in una traversa di corso Moncalieri. Pieno di bici stupende. Ce n’era una, in particolare, bellissima e leggerissima. Una Benotto. Con le gomme sottili, mi sembravano fin troppo piccole, da professionista. ‘Prendila’, mi disse. Mi specializzai in quelle azioni: scattavo, scappavo, arrivavo, da solo. Facevo l’inseguimento, ma su strada. Un giorno cominciai a farlo anche su pista». La bicicletta da pista: «La prima prestata dal Comitato della federazione piemontese. Una baracca. Al Motovelodromo di corso Casale. Qualche giro di riscaldamento, poi una prova, non ufficiale. Feci un tempone. E il tempone fu segnalato a Giovanni Proietti, il commissario tecnico della nazionale italiana. La squadra per le Olimpiadi di Londra del 1948 era già stata selezionata, ma lui volle vedermi comunque in una riunione in pista. Fui opposto al ferrarese Adorato Bandiera e lo raggiunsi. Proietti sembrava disperato: ‘Me li hai rovinati’, disse. Mi convocò comunque per i collegiali a Castell’Arquato, li battevo tutti, Guido Bernardi, Anselmo Citterio, Rino Pucci addirittura si staccava, l’unico che non sconfissi fu Arnaldo Benfenati perché si rifiutava di misurarsi con me, comunque rimasi riserva, ero troppo giovane.


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A casa. Ogni dettaglio, ogni fotografia, ogni oggetto porta con sé una storia che è necessario raccontare.

Ai Giochi arrivarono secondi. Ero troppo giovane anche un mese dopo per i Mondiali di Amsterdam, ma Giulio Andreotti, appassionato di ciclismo e segretario in qualche federazione, truccò il mio tesserino di un anno, da 17 passai a 18 anni, e fui iscritto. Viaggiai in treno, da Roma ad Amsterdam, con un massaggiatore che non sapeva una parola straniera: eravamo senza biglietti, e quando ce li chiedevano, lui bestemmiava. Arrivammo per miracolo. In semifinale superai il francese Charles Coste, in finale le suonai di santa ragione all’altro francese Jacques Dupont. Ero entusiasta. Quando un giornalista, insospettito, mi domandò quanti anni avessi, senza pensarci gli risposi 17. Scoppiò un caso. I francesi fecero reclamo. Proietti quasi mi ammazzò. Sembrava ormai che tutti i commissari tecnici fossero d’accordo per la mia squalifica, quando intervenne il presidente della Unione ciclistica internazionale, Achille Joinard, francese. Disse: ‘Ma non ci vergogniamo?’. Ed è così che fui confermato campione del mondo». Messina ha vissuto gli anni d’oro del ciclismo, strada e pista. Che campioni: «Coppi: timido, riservato. Lo vidi la prima volta nel 1948, eravamo nello stesso albergo, ad Amsterdam per i Mondiali, lui fu secondo battuto dall’olandese Gerrit Schulte. Era una persona… normale, timido, riservato, ma cordiale, con lui si parlava volentieri. Le cose cambiarono con la Dama Bianca: la si vedeva alla partenza, i corridori non dicevano nulla, i tifosi la insultavano, lei reagiva e si difendeva. Coppi mi aiutò a trovare squadra fra i professionisti: due anni nell’Asborno, le convocazioni a Novi Ligure. Koblet: elegante, lo superai in finale ai Mondiali del 1954. Anquetil: raffinato, dopo la vittoria ai Mondiali del 1956 mi proposero di perdere la rivincita contro di lui a Parigi per fare la bella, accettai, poi a Parigi, con tutti quegli italiani che erano venuti per sostenere me e l’Italia, cambiai idea, battei Jacques e, per punizione, l’organizzatore mi escluse per un mese da tutte le riunioni in pista.

Ma il più forte di tutti era mio fratello Paolo: era un fenomeno, andava come il vento, in volata era imbattibile, me le suonava sempre, ma sposato e con due figli, non poteva correre. Che luoghi: «Il Vel d’Hiv a Parigi: così tanta gente, e tutti che fumavano, che da un rettilineo all’altro non si vedeva come se ci fosse stata la nebbia. Poi Bruxelles, Gand, Anversa, Zurigo, Copenaghen… Il Vigorelli a Milano: ventimila persone dentro e cinquemila fuori, riempito anche il prato per quella che era stata annunciata come ‘la sfida del secolo’, nel 1955, cinquemila metri di inseguimento tra Coppi e me. Avevo un ingaggio di mezzo milione di lire fisso più il 10 per cento dell’incasso. Partii da Torino in macchina con Bertolazzo, mi feci lasciare a Magenta e da Magenta a Milano mi scaldai in bici. Vinsi, e con quei soldi – un milione e 450 mila lire - mi comprai anche un alloggio». Che tempi: «Totò al Giro d’Italia: la maglia rosa / è quella cosa / che mai riposa». Che filosofia: «Il bello della bicicletta? La bicicletta. Il bello del ciclismo? Andare forte».

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La sera festeggiammo la maglia rosa nell’albergo «138 cover story ‘Dogana vecchia’, a Torino, con i fratelli Eraldo ed Enrico Ghel , titolari della Frejus. Si brindò con lo spumante. Andai a letto alle 10 di sera, ma ero così eccitato che dormii poco o niente».

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Iridato. In questa foto è in maglia di campione del mondo a fianco di Giuseppe Ogna e Fausto Coppi.

Smesso di correre, e di vincere, nel 1962, Messina ha continuato a pedalare: «Nella vita, con un’autorimessa a Mirafiori, una lavanderia a gettoni tipo americano, le biciclette etichetta Messina, la rappresentanza di bici, manubri, cambi e cerchi, il ruolo di commissario tecnico della nazionale e del comitato piemontese. E sulla bici, con gli amici». Amicizie, strette in bici, allargate e allungate nella vita: «Come quella con Nando Terruzzi, inesauribile prima in pista e poi nel lavoro, colleghi e anche vicini di casa, a Limone Piemonte. Nando aveva una sola debolezza: a tavola. Un giorno promisi a sua moglie Annette che lo avrei fatto dimagrire. Mi impegnai, ma mi dovetti arrendere: era impossibile. Si alzava di notte e mangiava di nascosto». Invece Guido sa come tenersi. E si tiene. Infatti: 88 anni (89 il prossimo 4 gennaio), portati alla grande. E quell’antica maglia rosa? «La sera festeggiammo nell’albergo ‘Dogana vecchia’, a Torino, con i fratelli Eraldo ed Enrico Ghelfi, titolari della Frejus. Si brindò con lo spumante. Andai a letto alle 10 di sera, ma ero così eccitato che dormii poco o niente. Il giorno dopo la


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Specialista. Scattare, scappare, andare in fuga, Messina era una vera superstar del ciclismo.

Milano-Torino era in programma la Torino-Cannes, 243 chilometri, con il Colle di Tenda e il Col de Braus. Un tappone da uomini di classifica. Infatti: primo Magni, secondo Coppi, terzo Wagtmans, quarto Nencini… Io caddi, venni staccato, arrivai dietro. Ma ci riprovai: a Genova e ad Ancona fui terzo, a Lido di Jesolo sesto, l’ultima tappa a Milano nono all’arrivo e quarantasettesimo in classifica a un’ora e un quarto da Magni. Ma io ero un uomo da cinquemila metri». Adesso quella maglia rosa sta in un cassetto. E se nel cassetto, di solito, c’è un sogno, quella maglia rosa è un sogno che ha avuto la fortuna di diventare realtà.


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Il cartone della pizza

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Testo e illustrazione Stefano Dragonetti

«Qualcosa che mi sarei portato dentro per sempre, di quella giornata di festa sullo sfondo dell’Arco di Trionfo, era la consapevolezza che non ha senso vincere se non si regalano emozioni». [ VINCENZO NIBALI ]

Ogni tanto quando si corre il Tour de France mi capita di essere al mare. Non che sia così importante, potrei anche essere su Marte, il Tour resta sempre e comunque il Tour. Però questa cosa cambia sicuramente un po’ l’atmosfera, la prospettiva delle cose, e a volte ha dato vita a qualche episodio particolare. Ero al mare, e in Francia tra l’altro, quel giorno pazzesco in cui Chris Froome dopo una caduta è rimasto senza bicicletta e si è messo a correre a piedi, in salita, in maglia gialla. Era il 14 luglio 2016, la festa nazionale francese, e la corsa arrivava sul Mont Ventoux. Secondo l’analisi che del mito del Tour ha fatto a suo tempo Roland Barthes «la tappa che subisce la personificazione più forte è quella del Mont Ventoux. I grandi passi, alpini o pirenaici, sono sentiti come oggetti da attraversare; il passo è cavo, arriva difficilmente alla persona; il Ventoux invece ha la pienezza di un monte, è un dio del Male al quale bisogna sacrificare. Vero Moloch, despota dei ciclisti, non perdona ai deboli, esige un ingiusto tributo di sofferenze». Sulla terrazza di un ristorante in riva al mare, le immagini e i suoni della corsa sul Ventoux scorrevano, come un placido sottofondo del pomeriggio, sullo schermo del televisore. Del resto il Tour è un sacro rito collettivo, figuriamoci poi in

Francia. Imprescindibile. Il televisore era fissato in alto, per essere ben visibile da tutta la sala, sul pilastro che sosteneva la tettoia di canne che riparava i tavoli dal sole di luglio. Tra i camerieri che andavano avanti e indietro, gli avventori di passaggio in costume da bagno e infradito, tra chi sorseggiava un caffé, chi gustava un gelato e chi indugiava davanti a un piatto di frutti di mare noncurante del pomeriggio inoltrato, a un certo punto è apparsa la sagoma rinsecchita e dinoccolata, fasciata di giallo, di Chris Froome che risaliva correndo come un tifoso, come se fosse Forrest Gump in trasferta al Tour, l’ultimo chilometro del Ventoux, tra due ali di folla incredula che lo incitava, in mezzo a una nuvola di motociclette, in uno dei finali di tappa più caotici e incredibili di sempre. E un capannello di persone, avventori, bagnanti e camerieri, si è radunato sotto al televisore, tra le risate e lo stupore, per assistere a quella scena surreale. La tappa l’ha vinta il belga De Gent, specialista nelle fughe da lontano, ma con tutto il bailamme che è successo, quasi non se n’è parlato. Il giorno dopo in tutte le edicole di Francia sulla copertina de L’Equipe c’è la foto che documenta il piccolo dramma di Chris Froome a piedi senza


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bicicletta sul Ventoux. Ma tutti gli altri quotidiani purtroppo in copertina devono mettere le foto di un dramma ben più terribile, quello del camion bianco che a Nizza, la sera dello stesso giorno, si è lanciato zigzagando in velocità sulla Promenade des Anglais gremita dalle persone che ammiravano i fuochi d’artificio, uccidendone ottantasei e ferendone trecentodue. Ero al mare anche quando Vincenzo Nibali ha vinto il Tour de France. O almeno c’ero sicuramente quando ha conquistato, per la prima volta in maglia gialla, la prima tappa alpina che arrivava a Chamrousse, il 18 luglio 2014.

Vincere in maglia gialla, oltretutto in montagna e per distacco, non è una cosa banale. Tra gli italiani ci sono riusciti solo Bottecchia, Bartali, Coppi e Gimondi. Pantani, ad esempio, non c’è mai riuscito. A voler scomodare le ricorrenze, quel giorno era anche il centenario della nascita di Gino Bartali e l’anniversario della morte, avvenuta al Tour, di Fabio Casartelli. Nibali, in una tappa caldissima e rimasto senza gregari, anziché correre sulla difensiva, sulla salita finale, lunga e difficile, va all’attacco quando mancano sette chilometri all’arrivo. L’obiettivo principale è soprattutto guadagnare terreno sul minaccioso Valverde, ma proseguendo nella sua azione Nibali perde per strada anche gli ultimi due compagni di avventura, Konig e Majka, e finisce con il vincere in solitaria. Anche se in quel Tour ha già vinto due tappe, le emozioni che ha regalato dando spettacolo in maglia gialla non possono che entusiasmare e affascinare gli appassionati. E finiscono con il conquistare definitivamente anche i miei figli, che interrompono quello che sembra un rilassante pomeriggio in piscina con la domanda a bruciapelo:

«Papà, ci disegni Vincenzo Nibali?». Ovviamente non sono preparato, non ho a portata di mano nessuno degli strumenti necessari per soddisfare la richiesta inattesa. Ripiego in ritirata verso il nostro appartamento, dove decido di improvvisare qualcosa. Dopotutto se lo meritano, sia loro che Vincenzo. Recupero alcuni pennarelli colorati ma mi manca il supporto, non trovo nulla di sufficientemente grande, finché in cucina mi casca l’occhio su un cartone della pizza mangiata la sera prima. Lo apro, e fortunatamente non ci sono le solite macchie d’unto o di pomodoro, ma la superficie è pulita, e quasi bianca. Non è sicuramente il supporto più prestigioso per disegnarci o dipingerci sopra ma è sufficientemente grande e robusto. Insomma, si può fare. E allora mi viene da disegnare Nibali in quell’istante appena prima di tagliare il traguardo, quando la fatica è finalmente finita e può rialzarsi, reclinare la testa all’indietro, lasciare cadere le braccia lungo il corpo, chiudere gli occhi, e lasciare partire un sospiro liberatorio, di sollievo, prima di alzare le braccia al cielo. È un immagine che mi ricorda quella, diventata iconica, di Marco Pantani in maglia rosa, sull’arrivo di Montecampione, lui a braccia aperte, ma anche lui con gli occhi chiusi, mentre emette lo stesso identico sospiro. È solo un istante, uno spazio di tempo di durata infinitesimale, una cesura che separa tutto quello che c’è stato prima, la fatica, lo sforzo, le urla dei tifosi, i rumori, il caos e la tensione della corsa, da quello che sta per arrivare subito dopo, la vittoria, gli scatti dei fotografi, il trionfo, gli abbracci dei compagni, la premiazione, le interviste, tutta la routine del dopo tappa. È un istante intimo, personale, di silenzio interiore, quasi di raccoglimento. Dentro quel disegno improvvisato forse tutto questo non ci sta, ma comunque quel disegno ce l’abbiamo ancora, a casa. Da quel giorno i miei figli sono diventati tifosissimi di Vincenzo Nibali. Il merito è ovviamente soprattutto di Vincenzo, del suo modo di correre, di vincere e di emozionare, e un po’, forse, anche di quel provvidenziale cartone della pizza.

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Prenderla sul personalizzato Testo e foto Federico Damiani

Per fare un completo da ciclismo personalizzato come quello di Alvento ci vuole prima di tutto un’idea. Senza quella non si va da nessuna parte. Serve anche un po’ di fiducia per affidarsi a qualcuno che renda la tua idea realizzabile su una maglia e un pantaloncino. Anche senza quella, a voler fare proprio tutto tutto come si ha in mente, senza accettare consigli, di solito, non si va molto lontano.

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Cinquanta secondi a 208 gradi con una pressione di 7bar. Fare una maglia da ciclismo, in un certo senso, è un po’ come mettere una torta nel forno.

Poi serve Alberto, che ha 24 anni e ha corso fino agli Under23. Il suo corridore preferito è Valverde e non ha mai comprato un numero di Alvento. Però ha studiato grafica allo Iuav di Venezia ed è in grado di rendere concreta l’idea di Emilio e Davide, svilupparla taglia per taglia e creare l’impianto stampa. A quel punto serve Mario, anni 26. Del ciclismo non gli interessa molto, ha sempre giocato a rugby. Andrà in vacanza in Croazia quest’estate, ma per il momento stampa il cartamodello, un foglio con le informazioni e le forme di tutti i pezzi di stoffa necessari, e il file creato da Alberto con la grafica del kit con un inchiostro trasferibile su una carta speciale. Poi serve Monica, che di anni ne ha 47. Lei sì che ci va in bici. Anche sua figlia, Gaia, 15 anni, corre come Allieva. È anche appassionata di ciclismo, Froome è il suo corridore preferito ma ultimamente le piace molto Roglic perchè - dice - è uno tosto, che corre sempre con la grinta, che è un corridore vero. Monica prende il cartamodello stampato da Mario e i rotoli di tessuto giusti, come da scheda tecnica. Punta le stoffe

sul cartamodello e taglia, pezzo per pezzo, tutti i componenti della maglia. Quando ha finito li prende tutti e li porta a Anna e Barbara, insieme alle carte stampate da Mario. Perchè per fare il completo di Alvento servono anche Anna e Barbara. Anna ha 48 anni e tre passioni: correre, cucinare e mangiare, in particolare gelato al pistacchio, ci tiene a specificare. Barbara invece ne ha 49 e vive a Fonzaso, ma ha un pezzo di cuore in Calabria. Ci va tutti gli anni a raccogliere le olive, tra le altre cose. Quando una non cucina con l’olio dell’altra, trasferiscono i colori della carta ai pezzi di tessuto tagliati da Monica. Li posizionano su un piatto, prima la carta poi la stoffa, e fanno coincidere tutto al millimetro. Quando sono soddisfatte, il piatto va nella pressa. 50 secondi a 208 gradi con una pressione di 7 bar. Un po’ come mettere una torta nel forno; sarà per questo che entrambe dicono che il loro lavoro è bellissimo. E lo fanno con tanta passione, anche nel caso dei capi di Alvento. Adesso che tutti i pezzi hanno la forma e il colore giusto servono le mani di Lidia. Ha 47 anni e per hobby dipinge, però è anche appassionata di

Dettagli. Produrre un kit personalizzato è un lavoro di squadra. Noi di Alvento abbiamo scelto il colore.

moda e oltre a cucire maglie e pantaloncini da bici per lavoro realizza i vestiti che usa per venirci, al lavoro. Lidia prende i pezzi e li trasforma in capi fatti e finiti. Servono tre macchine da cucire diverse, ognuna con un diverso numero di aghi, per realizzare cuciture più o meno piatte a seconda del posizionamento sul capo.

E poi, alla fine, serve qualcuno che prenda il completo e ci vada a spingere forte per la strada mettendosi addosso la propria idea.


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storia di una maglia

LIVE IT.

Persone. I volti dei protagonisti di questo racconto. E della nostra maglia.

Perché è proprio a quello che serve un completo personalizzato. E sì, per fare un pantaloncino come quello di Alvento serve mettere insieme venti pezzi di cinque tessuti diversi, e per la maglia quattordici di altri tre. Ma questo viene dopo le persone che trasformano un’idea in un prodotto, a maggior ragione quando si tratta di personalizzare. Di uscire fuori dallo standard. Di fare qualcosa di unico. Quando vedrete Emilio con la divisa numero

0 di Alvento saprete che non è solo la divisa di Emilio. Ma sono la maglia e i pantaloncini di Alberto, Mario, Monica, Barbara, Anna e Lidia. E chissà invece il vostro, di completo di Alvento, da quali mani esperte sarà stato confezionato. Sicuramente da persone, ognuna con una storia diversa. Se fate la somma e la mescolate ai trentaquattro pezzi di tessuto che servono fisicamente anche voi avrete un completo unico, personalizzato. Proprio come il primo della serie.

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storie

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...non si capisce più Eravamo a Torino ed era l'ultimo giorno del Giro d'Italia, qualche anno fa.

la domenica mattina non ha niente di meglio da fare che andare in centro a farsi due passi, a vedere il Giro d'Italia o quello che c'è da vedere in attesa dell’ora di pranzo, quella era la gente ce c'era.

L’ultimo giorno di Giro è un po’ come l’ultimo giorno di scuola, tra la gente della carovana c’è la stessa atmosfera. La tappa era Torino – Milano ed eravamo in Piazza Statuto. La gente era quella di una domenica mattina di maggio: papà, mamme, bambini, bambini dentro ai passeggini, bambini con cappellini rosa con sopra la scritta Giro d’Italia che corrono dappertutto, nonni, nonne con il golfino sull’avambraccio. Badanti boliviane. Badanti ucraine nel giorno libero a passeggio in coppia, anche loro con il golfino sul braccio. Musica ad alto volume che esce dagli altoparlanti. Ciclisti - di quelli che pedalano sul serio pochi, a dire il vero. Gente che

C'erano anche in un angolo della piazza quelli di uno stabilimento o non so di che azienda che manifestavano, molto discretamente e civilmente, altrettanto discretamente e civilmente la gente che li vedeva li scansava, si girava dall'altra parte con lo sguardo per evitarli e cercare la festa e i corridori del Giro, invece. Quel giorno la piazza era per il Giro d’Italia, nessuno - o quasi nessuno evidentemente - di quelli che c'erano lì aveva voglia di manifestare o di stare a sentire gente che manifesta. Forse non era il posto e il momento giusto per manifestare, però le piazze in un paese democratico è bello che si usino per fare quello che si vuole, in fondo la libertà e la civiltà sono anche questo: condivisione e tolleranza. Usare le piazze come

Testo e foto Emilio Previtali

si crede, nel rispetto dell’altro. Per il Giro o per protesta, come si vuole. A un certo punto la carovana pubblicitaria del Giro d'Italia con i suoi veicoli si è messa in moto e c'erano da una parte della piazza, tutti vicini, tutti raggruppati da un lato solo della strada, quelli che manifestavano e sventolavano le bandiere bianche e verdi della CISL. Non si capiva bene se stavano tifando i corridori e la carovana o manifestando e protestando contro qualcosa o contro qualcuno, non si capiva proprio. A parte sventolare le bandiere e applaudire - non si capiva se applaudivano la CISL o il Giro d'Italia – i manifestanti non strillavano niente. Era una protesta surreale. Una protesta – non protesta, diciamo. Non è che fossero incazzati con qualcuno o contro qualcosa, guardavano le macchine del convoglio pubblicitario passare e applaudivano, pure loro. E sventolavano le bandiere della CISL. Dall'altra parte della strada invece c'erano degli spettatori – chiamiamoli – normali,


Le auto del convoglio continuavano a passare e le bandiere della CISL continuavano a sventolare e i manifestanto continuavano ad applaudire.

anche quelli applaudivano, a dire la verità quelli applaudivano un po’ meno ma era facile immaginare che loro fossero lì per i ciclisti e per il Giro d’Italia e in quel momento in strada, in effetti, non sfilavano ciclisti. Sfilavano le auto del convoglio pubblicitario. Automobili con grandi scritte colorate o grandi oggetti di cartapesta, come lattine di bibite che mettono le ali, insegne pubblicitarie di negozi di scarpe, enormi flaconi di detersivo Bio Presto. Io ero un po’ in disparte, lontano, in piedi su un muretto a guardare la scena nel suo insieme. Vedendo che fotografavo con un lungo tele obbiettivo un anziano, un signore che passava di lì, mi si è messo in fianco. Un anziano come sono gli anziani pensionati la domenica mattina, voglio dire: uno con in testa una coppola e con un aria sfaccendata, con le mani in mano dietro alla schiena da cui pendeva una sportina della spesa con dentro un giornale, un sacchetto di pane fresco e qualche cos'altro da mangiare, forse un po’ di frutta e qualche affettato. Con una manovra molto macchinosa

l’anziano è salito a sua volta sul muretto e si è messo lì a fianco a me. Guardava la stessa scena che guardavo io, cercando di capire che cosa stesse succedendo, non si capiva, in effetti. Ci siamo incrociati con lo sguardo e ci siamo salutati reciprocamente, con un inchino appena percettibile del capo. Io fotografavo e lui guardava. Ogni tanto distoglievo l'occhio dal mirino della macchina fotografica e davo un occhio a lui, lì al mio fianco. Lui a sua volta guardava me e poi da dietro i suoi grandi occhiali da vista scrutava la scena di fronte a noi, ogni tanto si levava la coppola e si grattava la testa, e poi se la rimetteva. Poi guardava di nuovo me, con sguardo interrogativo. A un certo punto ho abbassato la macchina fotografica e ho dedicato con lo sguardo al signore qualche secondo in più, non ho detto niente, lasciavo penzolare la mia macchina fotografica al collo e lo guardavo in silenzio. Magari mi vuole dire qualcosa - ho pensato. E infatti dopo pochi secondi mi ha chiesto: «Ma è una manifestazione, questa qui? O il Giro d’Italia?» «Tutti e due» - ho risposto io.

Foto di ManuMolle

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Lui mi ha guardato di nuovo, per la centesima volta. Poi ha guardato di nuovo la scena, le bandiere della CISL che sventolavano e le auto del convoglio che transitavano. C'è stato un po' di silenzio tra noi, poi mi ha detto: «Io di questo mondo qui, non capisco più un cazzo». Con un gesto altrettanto macchinoso come quello con cui era salito, è sceso dal muretto, mi ha salutato sollevandosi la coppola, ed è andato via. Io sono rimasto lì ancora un po’ in piedi sul muretto a pensare che anche io, in effetti, di questo mondo, capisco poco.

STUDIO BI QUATTRO

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Laetitia Roux, campionessa dello skialp e atleta Montura

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Direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

Alvento #6. Foto di Twila Federica Muzzi. twilchaphotography.com

RIVISTA BIMESTRALE

Collaborare

Direttore responsabile Luca Giaccone Direttore editoriale Emilio Previtali emilio.previtali@alvento.cc

Le collaborazioni che cerchiamo funzionano secondo il sistema delle submissions.

Pr, informazioni e pubblicità info@alvento.cc Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi Amministrazione Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it Segretaria Elena Volpe elena.volpe@Mulatero.it

Mandateci una storia intera che vorreste vedere pubblicata su Alvento con testo, foto e disegni se ce ne sono, oppure mandate un intro o un pezzetto di testo che sia un assaggio della storia che volete raccontare, in quel caso bastano 1800 caratteri, non di più.

Illustrazioni Francesco Pavignano @pavimation

Se siete fotografi e volete collaborare vale lo stesso sistema: fate una selezione di immagini, mettetele in una cartella e condividetele con noi attraverso Dropbox o inviatecele con Wetransfer. Non mandate centinaia di fotografie, fate una selezione, il lavoro di fotografo è anche questo. Non mettete watermark sulle foto. L’indirizzo a cui dovete scrivere è quello del Direttore Editoriale, cercatelo nel colophon.

Hanno scritto su questo numero: Alessandro Autieri, Luca Bellotti – rosti.it, Andrea Benesso, Matteo Berni, Federico Damiani, Stefano Dragonetti, Marco Eydallin, Federico Gardin, Francesco “Paco” Gentilucci. Umberto Isman, La Popolare Ciclistica, Gabriele Pezzaglia, Federico Ravassard, Alice Russolo, Marco Pastonesi, Alberto Speranza.

Dove trovarci

Logistica e magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Progetto grafico e impaginazione tundra visit@tundrastudio.it

Hanno fotografato su questo numero: Twila Federica Muzzi, Chiara Redaschi, Federico Ravassard, Tornanti. cc, [Francesco Rachello e Eloise Mavian], Paolo Ciaberta, Alice Russolo, Bettiniphoto.net. Olaf Pignataro, Giovanni Danieli, Umberto Isman, Emilio Previtali, Federico Damiani.

Distribuzione in edicola MEPE - Milano - tel 02 89 5921 Stampa STARPRINT srl - Bergamo

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Non è facilissimo costruire il piano di distribuzione per una nuova rivista, fare in modo cioè che sia reperibile in tutte le edicole. Ci vuole un po’ di tempo, ma il nostro distributore ce la sta mettendo tutta. Per cui, se qualche edicola dove vi piacerebbe comprarla non fosse rifornita, segnalateci indirizzo, nominativo del gestore e codice rivendita con una mail a info@alvento.cc. Poi ci pensiamo noi. Se invece preferite ricevere la vostra copia direttamente a casa, basta andare sul sito della nostra casa editrice (mulatero.it) e scegliere una delle proposte di abbonamento.

A noi piacciono i cappellini da bici. Anche a voi, ci sembra da capire dalle foto che vediamo. Sotto il casco quando si va a manetta. Con la birra in mano quando il casco è sul tavolo. Ci piacciono talmente tanto che ci siamo fatti il nostro. Anzi, i nostri, perché sono in due modelli. Il colore è grigio, un bel grigio, come quello delle magliette di cui potete leggere la storia a pagina 148. Uno ha uno spicchio nero, l’altro una fascia gialla centrale con su scritto Fate i watt, non fate la guerra, che è poi anche il nostro motto. Il claim, come dicono quelli fighi. Abbiamo pensato di fare due cose. La prima è regalarvelo se fate l’abbonamento. Si va sul sito della casa editrice (mulatero.it) e sotto la sezione riviste si cerca Alvento. Poi si sceglie l’abbonamento, il tipo di cappellino e si paga. Noi ve lo spediamo a casa e

dentro la busta vi mettiamo anche una bella cartolina con il Manifesto di Alvento. Se siete già abbonati, non importa: i sei numeri del nuovo abbonamento vengono sommati alla scadenza del precedente, così voi vi legate per più tempo ad Alvento e noi siamo più contenti, ma siete più contenti anche voi perché ricevete a casa il cappellino. Se volete, lo potete anche comprare da solo, senza abbonamento, magari da regalare al moroso o all’amica. Sempre sul sito della casa editrice. Insomma, andate a comprarlo, che sono a serie limitata e poi finiscono. E quando ce l’avete fatevi una foto, taggateci su Instagram, che noi siamo contenti di vedervi pedalare con il nostro cappellino mentre siamo qui a lavorare in redazione. Info e ordini: www.mulatero.it


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ultimo chilometro

La tua vita Testo Francesco “Paco” Gentilucci

30 anni. Vivi in affitto da dodici. Tre lauree inutili, nessuna prospettiva di carriera e l’unica cosa che sai fare con passione e competenza è mettere un piede di fronte all’altro, quando sei già oltre la soglia immaginaria di sofferenza. Non ti definiresti una persona matura, non credi che nessuno ti definirebbe tale. Hai organizzato una gara illegale nei boschi due domeniche fa. Hai rischiato varie denunce, ma ti sei divertito. I tuoi alla tua età avevano comprato una casa e mantenevano un figlio. Tu sei appena sufficiente a te stesso. Per andare al lavoro guidi una macchina usata in cui dormi ogni weekend libero, lavandoti i denti e sputando il dentifricio nei parcheggi. Succede spesso anche durante i giorni infrasettimanali di dormire in macchina: di solito ti svegli col mal di schiena. Non hai una ragazza. Quelle più carine e interessanti le hanno già prese, ti dicono. Le possibilità che tu rimanga da solo aumentano con i peli della barba che si ingrigiscono. Sarebbe ora di avere un armadio con dei vestiti stirati dentro. Hai più che altro felpe nere dei gruppi punk e magliette da finisher di gare. Per qualche secondo pensi che dovresti comprarti un paio di scarpe serie. Ci pensi mentre ti stanno parlando. Smetti di pensarci dicendoti che dovresti ascoltare cosa ti stanno dicendo. Tuttavia mentre ti stanno parlando ticchetti nervosamente con la penna sul tavolo, riflettendo sul fatto che stampare 8 ore in una 50 miglia sarebbe veramente una figata. Il tuo sistema di valori non è corrisposto dai soldi, avere tempo libero rimane la priorità. Sei frutto dell’epoca liquida di Bauman. La tua vita è senza consistenza e proprio come un liquido, non ha alcuna certezza. Correre rimane una priorità. La tua vita per te è un insieme di eventi che succedono, perlopiù al di fuori del tuo controllo. Fra questi eventi ci sono le ore che passi correndo o pedalando. La tua vita è un barcamenarti fra questi eventi cercando di avvicinare il più possibile i momenti in cui corri. Quando corri o pedali c’è silenzio o ci sono i tuoi pensieri. Puoi vederli come buchi o come momenti di consapevolezza in cui hai il controllo. Sia quando urli che quando c’è il sole o quando piove e sei da solo. Quando ti alleni tutto sembra filare liscio. Capita spesso che lanci le scarpe in terra con stizza quando gli allenamenti non vanno come avresti voluto. Il tizio dell’assicurazione ti parla. Ti parla della pensione. Hai trent’anni, oramai. Non hai ancora ascoltato realmente una singola parola. Annuisci cercando di essere credibile, ma stai pensando che somiglia a un pinguino. Stai pensando che non devi assolutamente dimenticarti che la lotteria per Angel Crest è il 3 dicembre. Accigliato prendi l’agenda e con serietà fai un cerchio attorno a quel giorno sul calendario.



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