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BIMESTR ALE in edicola dal 15 giugno 2019

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giugno 2 019

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SPEED REQUIRES D E D I C AT I O N —

CIRCA 90 ORE PER COMPLETARE IL GIRO, MA SONO SEMPRE I SECONDI A FARE LA DIFFERENZA.

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A Pinerolo! Un’idea di quello che ci aspettava ce l’avevamo, eccome. O ci improvvisavamo ciclisti, o eravamo fottuti.

Filini: «Tra il nostro Martano e lo spagnolo Trueba, fu un bel duello nell'agosto del '34!» Fantozzi: «Guardi che era giugno!» Filini: «Ahhh giugno '34, pardon ho sbagliato». Calboni: «giugno, giugno, Trueba, Trueba! Soprannominato la pulce dei Pirenei!» Fonelli: «Dove andiamo stasera a fare la solita sgambata?» Filini: «Ecco, dove andiamo?» Impiegato: «Facciamo il giro dei laghi!» Fantozzi: «Il giro dei laghi, il giro dei laghi!» Impiegato: «No no, facciamoci il giro delle 7 colline!» Fantozzi: «Le 7 colline, le 7 colline!»

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Calboni: «No macchè, io direi, andiamo a cenare da una mia zia a Pinerolo! E poi torniamo in nottata!» Fantozzi (sussurrando): «Ma scusa Calboni, ma sono 1.200 chilometri!» Calboni (indicando verso l'alto): «E che cosa sono 1.200 chilometri!». Tutti insieme: «ahahahaha!»

Filini: «E che sono 1.200 chilometri. Allora signori, tutti a Pinerolo!»

Filini (sussurrando di schiena a Fantozzi): «Ragioniere… dove ha messo la sua macchina?» Fantozzi: «Qui dietro l'angolo, vicino alla sua». Filini: «Eh eh, allora andiamo a fare questa gita». Fantozzi: «A Pinerolo!» Filini: «A Pinerolo…» Fantozzi: «A Pinerolo!»

Fantozzi contro tutti, 1980


Vincere il Fiandre


Š Tornanti.cc

Marta Bastianelli, indossando la maglia di Campionessa d’Europa 2018, ha vinto il Giro delle Fiandre femminile. Ăˆ la seconda donna italiana ad esserci riuscita dopo Elisa Longo Borghini, nel 2015. In Italia non consideriamo ancora abbastanza il ciclismo femminile. Bisogna cominciare.


Pioggia


© Chiara Redaschi

Se una giornata è memorabile, in quel ricordo di solito piove. Sono le condizioni peggiori ad esaltare le nostre capacità. Pioggia, freddo, vento. Quando tutto viene complicato dal meteo ogni azione diventa epica. Avventura pura. Il Giro di quest’anno si è corso spesso sotto la pioggia. I corridori si ricorderanno di questo Mortirolo. E anche noi. Nella foto Fausto Masnada come sempre, a tutta.


Niente quote rosa


© Tornanti.cc

Su Alvento non vi capiterà mai di trovare in edicola un numero speciale dedicato al ciclismo femminile. Niente quote rosa. Quello di cui vogliamo parlare è di ciclismo, di avventura, di fatica, di tornanti, di gare, di fatica, di fango e insomma di tutto quanto avete letto sulle nostre pagine finora. Uomini e donne, siamo tutti ciclisti. Giù dal bus, verso la partenza della Amstel Gold Race Ladies Edition.


Š Chiara Redaschi

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editoriale

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Bocca aperta e pedalare

di Emilio Previtali

Giulio Ciccone è l’azzurro. Sale rimanendo in piedi sui pedali e guardando spesso indietro, intorno, a fianco, la sua bicicletta è rossa, la sposta continuamente di lato, a destra e a sinistra come se fosse niente. Primoz Roglič è il giallo. Vincenzo Nibali è il rosso. Miguel Angel López è il bianco, Mikel Landa è l’azzurro-tenue e Richard Carapaz, è il rosa. Mollema è bianco-rosso-e-nero e si riconosce dall’andatura, più che per il colore della maglia, per quel movimento ciondolante delle spalle e per la sua posizione un po’ arretrata sulla sella. Davide Formolo è nero-verde ed ha un volto che anche quando soffre, sorride. Ilnur Zakarin è quello spilungone con la maglia che sventola e che fa uscire un po’ la gamba di lato mentre pedala in salita. Fausto Masnada è il rosso-e-bianco ed è quasi sempre in fuga là davanti, non puoi non riconoscerlo. Il Giro d’Italia ha una grammatica semplice: se sai distinguere i colori, puoi seguire la tappa. Puoi non capire niente di ciclismo, di tattica, di giochi di squadra, puoi non capire la dinamica e la logica della corsa ma quando i corridori pedalano in salita, non c’è niente di complicato da comprendere: basta tenere d’occhio i colori. Non so che idea abbiate voi del fare un giornale come questo. Fare una rivista come la nostra è un lavoro artigianale fatto di passione, di ore spese a leggere e a informarsi, intervistare, confrontarsi e a ragionare. Scrivere. Rileggere. E poi riscrivere, tentando di trovare il modo in cui le storie sembra chiedano di essere raccontate. È un lavoro entusiasmante e a volte non facile. Quando ci siamo messi a ragionare sulla copertina di questo numero c’erano molte

possibilità, ogni immagine che provavamo sembrava volesse dire una cosa diversa. Le copertine devono raccontare qualcosa, non basta scegliere una bella foto. Abbiamo pensato a varie possibilità, una era questa qui a sinistra. Abbiamo discusso. Abbiamo tifato. Poi alla fine abbiamo scelto il blu: Giulio.

Giulio è Giulio. Giulio siete voi. Giulio siamo noi. Noi ci sentiamo esattamente così, come appare Giulio nella foto: determinati, motivati, anche un po’ sgraziati magari. Scomposti a volte, nel momento di massimo sforzo. Andiamo avanti a bocca aperta, mettendocela tutta. Stare al vento è esattamente questo ed è una sensazione fantastica. Le ragioni per cui facciamo questa rivista in fondo sono le stesse ragioni per cui a noi e a voi piace andare in bicicletta: per provare ad andare oltre. Per migliorare. Per vedere le cose da un punto di vista differente. C’è un momento in cui senti che tutto lo sforzo che hai prodotto, l’impegno che hai messo in campo, la fatica che hai fatto, produce qualcosa. Giulio Ciccone ha corso un Giro splendido e ha vinto una tappa epica sul Mortirolo, sotto la pioggia, al freddo, in condizioni difficili, in una giornata in cui quasi tutti quelli che erano lì a guardare alla tv si aspettavano che fossero altri corridori ad arrivare per primi sul traguardo. Invece, è arrivato Giulio. Ci ha fatti sentire bene e un po’ anche commuovere.


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Sommario 18

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Il Fiandre è una centrifuga Il finale è una centrifuga. È ordine del disordine. Le gambe di Bettiol sono energia cinetica in un moto rettilineo uniforme. L’ultimo chilometro è cinema, è un film di Jean Luc Godard: Bettiol le fou. di Alessandro Autieri

Roglič era un ciclista come tutti noi

«Se si dovesse azzardare un paragone con una classica rinomata del ciclismo italiano, il Binda sarebbe inevitabilmente la Sanremo del calendario femminile».

Come ha fatto ad imparare a guidare la bici? Come ha fatto a capire come funzionassero le tattiche di squadra, cosa fosse una doppia fila, un ventaglio, come stare a ruota? Qual è stata la sua prima scuola ciclistica?

di Filippo J Cauz

di Carlo Beretta

Il Binda.

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30 «ER IS MATHIEU!» l’atterraggio

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C’è Mathieu! esclama lo spettatore alto, in terza fila. Ed è come se premesse con forza su un detonatore, perché da lì in avanti il rettilineo finale dell'Amstel diventa un nuovo mondo.

La Storia del Primo Giro d’Italia

di Filippo J Cauz

[IL TROFEO] SENZA FINE

Il Giro d’Italia 2019 in immagini e parole.

Ideazione, vicende, personaggi e disavventure di una corsa che è arrivata a 102 edizioni. di Gabriele Gargantini


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Chiedilo al vento

La gabba è oggi universalmente conosciuta come quel capo di abbigliamento da utilizzare in condizioni di pioggia, di freddo e di vento che per certi versi ha rivoluzionato il nostro modo di vestirci andando in bicicletta.

Da tempo stavo studiando la possibilità di un viaggio sulle remote Fær Øer, un sinuoso arcipelago di 18 isolotti formalmente appartenenti alla corona Danese compresi tra la Norvegia e l’Islanda, di poco a nord ovest delle scozzesi isole Shetland.

di Emilio Previtali

di Fulvio Silvestri

C'è solo una Gabba

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Pedalare in Borgogna

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Veneto Gravel 690 chilometri e oltre 4.500 metri D+ per l’evento gravel più lungo d’Europa. di Eric Scaggiante

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La maggior parte della gente si reca a Digione e dintorni per assaggiare i vini. Noi siamo andati lì per visitare una fabbrica di biciclette.

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Le bici hanno la precedenza

Cose che succedono solo in Norvegia, dopo quattromilaquattrocento chilometri in bici. di Dario Reda

BikingMan Oman

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Per chi è interessato alle cifre, vi dirò solo che le tappe di BikingMan non son mai inferiori ai 700 km. Per quanto riguarda il dislivello, la tappa più accessibile è l’Oman, con i suoi 7.200 metri.

Bamboo bike (Atto I)

di Silvia Parisi

di Daino Bonelli

In Ghana per vedere come fanno a costruire le biciclette in bambù.

Ik ben god niet

Dopo la sua fantastica vittoria a Liegi, sembrava che nessuno potesse più fermare VDB. Invece, sia la sua vicenda sportiva che quella umana, sia la corsa indiavolata di VDB che la vita del suo alter-ego Frank Vandenbroucke, finirono entrambe tristemente e troppo presto. di Stefano Dragonetti



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It never gets easier, you just go faster. Greg LeMond


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G A M B E D U R E

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IL BINDA Il Trofeo Alfredo Binda-Comune di Cittiglio è un caso unico nel panorama del ciclismo italiano e internazionale.


corse

Testo Filippo J Cauz

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Foto Tornanti.cc

All'ingresso di parecchi comuni della Lombardia ci sono due cartelli: uno riporta il nome del paese in lingua italiana, l'altro in dialetto. Si tratta di un'usanza abbastanza recente. Fino a pochi anni fa la toponomastica non transigeva: il cartello era uno solo, nero su sfondo bianco, con il nome del paese e che fossero poi le abitudini di ciascuno e la lingua parlata a plasmare nomi e luoghi. Da sempre però, gli amanti del dialetto si preoccupano di mettere in chiaro le proprie appartenenze linguistiche. Su quasi tutti i cartelli, o almeno su quelli i cui nomi si potevano riassumere in poche sillabe, c'era sempre una scritta a spray o a pennarello nero a completare l'informazione. Dalla pratica si è passati alla normativa, ma l'abitudine di modificare a mano i cartelli deve essere rimasta. All'ingresso di Gemonio, sotto all'insegna con il nome della città oggi ce n’è un’altra più piccola con il nome dialettale: Gimon. Più che un nome è un invito, qualcuno deve aver conservato la vernice spray e ha pensato bene di completare la scritta aggiungendoci una sillaba: GimonDI. Basterebbe questo piccolo segnale per far capire come la bicicletta e il ciclismo siano parte integrante del patrimonio genetico della popolazione locale. La scritta su un cartello bianco è il pretesto per fare il tifo per un

Cittiglio è il paese del Binda, la piazza davanti alla stazione ferroviaria, è dedicata a lui.

corridore ritiratosi ormai quarant'anni fa. Cittiglio è il comune immediatamente vicino a Gemonio, la cartellonistica ci informa questa volta che il nome in dialetto varesotto è Stì. Una sillaba soltanto, un nome secco a cui nessuno ha trovato altro da aggiungere. Quasi un imperativo, un invito a restare, a scoprire questa cittadina di neanche 4000 abitanti che può vantare tra i suoi ex-cittadini uno dei più grandi miti dello sport italiano. Cittiglio è il paese del Binda, tanto che la piazza a lui dedicata è quella davanti alla stazione ferroviaria, la prima che si incontra arrivando in paese. Era detto il Trombettiere di Cittiglio, Alfredo Binda, che nel piccolo borgo della Valcuvia nacque nel 1902 e da lì praticamente non se ne andò mai, benché la carriera di fenomeno del ciclismo lo impegnasse spesso altrove. Prima in Francia, dove cominciò a correre sul serio e si conquistò un nuovo soprannome, La Gioconda, per via delle origini italiane ma soprattutto per la sua eleganza sui pedali.

Poi di nuovo in Italia, dove divenne il primo Campionissimo o più semplicemente L'imbattibile, tante erano le sue vittorie: tre mondiali, due Sanremo, quattro Lombardia, cinque Giri vinti e un sesto guadagnato, quando gli organizzatori preferirono pagargli il premio purché non partecipasse, altrimenti non ci sarebbe stata corsa e dubbi su chi sarebbe stato il vincitore. Binda si trasferì a Milano ma ogni estate tornava a casa, in quella Cittiglio, che definiva tutto il mio mondo. A Cittiglio Binda rientrò dopo esser stato CT della nazionale: riprese la sua vecchia cornetta di ottone, sempre pulita e luccicante come oro, per tornare trombettiere. Diventò presidente onorario della banda del paese e per oltre vent'anni fu consigliere comunale. Non avrei potuto fare altro che il corridore: al massimo sarei potuto diventare un direttore d'orchestra, diceva Alfredo Binda, che a Cittiglio è morto ed è sepolto. Oltre alla piazza gli è stato dedicato un museo (che vanta anche un sito internet in esperanto) e dal 1974 anche una corsa ciclistica.


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Festa di paese. il Trofeo Binda non è soltanto una corsa di bici.

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Maria Canins, Valeria Cappellotto e Fabiana Luperini sono le regine dell'albo d’oro del Trofeo Binda tra gli anni '80 e '90.

La storia del Trofeo Alfredo BindaComune di Cittiglio è un caso quasi unico nel ciclismo italiano. Nessuna altra corsa in linea femminile ha saputo infatti affermarsi così stabilmente nel panorama internazionale. All'inizio era soltanto una prova regionale, la prima vincitrice fu la lecchese Giuseppina Micheloni, ma ci è voluto meno di un decennio perché cominciasse ad attirare le migliori cicliste italiane: Maria Canins, Valeria Cappellotto, Fabiana Luperini sono le

regine dell'albo d'ora tra gli anni '80 e '90. Poi una breve pausa di due stagioni, un riassestamento nell'organizzazione e con l'inizio del nuovo secolo, l'esplosione. Il Binda diventa una gara internazionale, entra nel programma della Coppa del Mondo e costituisce da subito un appuntamento cardine del Women's World Tour. Nove decenni dopo le imprese di Binda e la Valcuvia sono ancora al centro del ciclismo, benché qualcuno sembra non essersene accorto


cover avventura story

del tutto. Se si dovesse azzardare un paragone con una classica rinomata del ciclismo italiano, il Binda sarebbe inevitabilmente la Sanremo del calendario femminile. Non il Giro di Lombardia, come il territorio porterebbe a pensare, bensì la Classicissima, che si corre esattamente il giorno prima del Binda. Con la Sanremo il Trofeo Binda condivide l'irrompere della primavera, la stagione che deve ancora delinearsi eppure già assegna i primi verdetti, la tensione del finale aperto a più soluzioni. Ma la Sanremo, come il Lombardia, è una gara per soli uomini. In controtendenza con tutte le grandi classiche nel mondo, in Italia le prove femminili continuano a restare confinate in una sorta di periferia del ciclismo.

Cittiglio è da sempre il traguardo finale del Binda, ma la partenza segue regole meno precise, varia di anno in anno spostandosi tra diversi comuni della zona. Quest'anno si parte da Taino, Taìn in dialetto locale. La cartellonistica più interessante però guarda a lingue differenti: a pochi metri dal via un cartello marrone indica l'imbocco del Tainenberg, 180 metri in ciottolato con pendenza media dell'11% e punte del 16. Non è un errore, ma una rimanenza della Varese van Vlaanderen, prova amatoriale organizzata da una squadra locale che in tre edizioni ha già superato i mille partecipanti, con tanto di toponomastica riconosciuta e cartellonistica. Le ragazze possono comunque sorridere tranquille al via:

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il Tainenberg non è sul loro percorso di gara. E la giornata si annuncia più serena grazie anche ad una primavera esagerata, che scalda e illumina il raduno di partenza al parco di Taino. Le squadre salgono a firmare sul monumento ai punti cardinali di Giò Pomodoro: un monumento che celebra il solstizio, a tre giorni dall'equinozio. We are gonna have fun in the sun! dice Cecilie Uttrup Ludwig. Sul prato davanti a lei ci sono bambini che si rincorrono, i drappi rossoblù degli Sbandieratori di Ferno che volano, i danzatori del gruppo folk dei Tencitt che accennano timidamente i balli contadini di Cunardo. Ma è dal lato opposto del parco che le ragazze si dispongono in strada per prendere il via.



131 chilometri di gara: una ventina in linea e due anelli in un circuito saliscendi. È il percorso del tutto può accadere.


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Il Trofeo Binda condivide con la Sanremo il primo caldo di primavera, la stagione che è ancora all’inizio e il finale aperto a qualsiasì soluzione.

131 chilometri di gara: una ventina di avvicinamento in linea e poi due anelli lungo un circuito di saliscendi. È il percorso del tutto può accadere. «Chiunque può vincere questa corsa» dice la vincitrice uscente Katarzyna Niewiadoma. «La bellezza del Binda è che è aperto ad ogni soluzione», le fa eco Hannah Barnes. Stefano Rizzato, telecronista di questa edizione che per la prima volta è trasmessa in diretta televisiva la definisce «la corsa femminile più imprevedibile e appassionante dell'anno». Tutto può accadere al Binda, anche la normalità. Ovvero abitanti del posto che si affacciano in ciabatte dai campi e dai giardini incuriositi, ma anche automobilisti innervositi, incapaci di accettare quei 5-6 minuti di strada chiusa per il passaggio della corsa. Affronto intollerabile per chi deve precipitarsi al pranzo domenicale e senza degnare la gara di uno sguardo resta a borbottare dentro all’abitacolo di un SUV: A badilate bisognerebbe prenderli, a badilate! Al Binda tutto può accadere, ma ancora non l'impossibile. Il traguardo di Cittiglio è a metà di un lungo rettilineo in salita. Ai meno 200 uno slargo accoglie un parcheggio per la banca, il centro estetico e un locale di biliardo: lo Spaccone Club. Sulla

strada oggi si sono disposte ordinatamente sei bancarelle, con o senza gazebo. Un progetto sociale vende collanine contro violenza e bullismo, un signore della provincia di Bergamo propone funghi macedoni e acciughe di Sciacca. Di fianco a lui tre tavoli strabordano di vecchi giocattoli, Lego, macchinine, puffi, e in mezzo qualche libro, tra questi svetta una copia sbiadita de I miei mondiali di Gianni Brera, uno che avrebbe sicuramente amato il mondo popolare di queste domeniche. Completano l'offerta i lavori artigianali di un falegname, le gardenie contro il cancro e una ricca selezione di gioielli in filato di cotone dipinto a mano: sono leggerissimi, ogni passaggio dell'elicottero li mette in crisi. Poco più avanti, nascosta dietro a un muro grigio, una vecchia villa accoglie la locale associazione dei giocatori di bridge. C'è attesa, ma è lenta. La corsa invece va velocissima, si divora le salite ombreggiate di Cunardo, Casale e Orino e si prepara all'ultimo giro del circuito. Davanti a tutte c'è l'olandese Demi Vollering, che ha colto il momento perfetto per scagliare la sua maglia color salmone verso l'orizzonte. Se non fosse il percorso del tutto può accadere si potrebbe pensare che la gara si stia decidendo

qui, all'imbocco dell'ultimo giro. Un'olandese coraggiosa davanti, un gruppo di star che si studiano dietro e pochissimo spazio per inseguire. Ma siamo al Binda, le strade della Valcuvia sono tutte un saliscendi, e sul rettilineo finale si sta preparando una festa. Quando si è sulla strada, l'avvicinarsi di una corsa s’intuisce dall'aumento del traffico. Lungo il percorso c’è il traffico di moto, auto e altoparlanti che si intensifica, al traguardo sono i vip in mezzo alla strada a segnalare l’arrivo imminente dei corridori. All'arrivo del Binda si svolge una sfilata di politici di diverso rango: c'è una campagna elettorale che non si ferma mai e ci sarà una nuova scadenza al voto nel giro di qualche settimana, tanto basta per attirare tribuni e deputati, a sgomitare per trovare un posto sul palco, un ritaglio in fotografia. Gli obiettivi però sono puntati su cugini e parenti, non in politica ma nella banda del paese, che sfila dopo il nuovo ballo folkloristico dei giovani Tencitt. La banda, che un tempo ebbe Alfredo Binda come presidente, passa in giacca marrone e cravatta rossa, pantaloni e berretto color kaki. Qualcuno ha scordato gli indumenti di ordinanza e


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Alle gare femminili la tensione della competizione si stempera in un clima meno esasperato e in una dimensione della competizione più genuina.

ha risolto alla bisogna. I trombettieri (proprio loro) hanno uno un giubbotto scuro che sembra quello di Fonzie e l'altro una giacca e una capigliatura da prof di scienze, mentre l'omone abbronzato alla grancassa è in felpa. Ma la banda passa e va, come sempre. La corsa invece si avvicina. C'è un megaschermo di fianco al traguardo, sopra l'unico bar aperto, che trasmette la diretta tv e diventa inevitabilmente il punto di incontro e di ritrovo. Disposti in linea lungo i limiti delle zone d'ombra si raccolgono spettatori e cicliste. Il passaggio sotto il traguardo prima dell'ultimo giro è stato il traguardo finale per alcune, le cui speranze di vittoria sono evaporate via col caldo, il megaschermo diventa il salotto dove seguire le fasi finali. Ci sono Anna Trevisi, Yevgeniya Visotska, Lizbeth Salazar Vazquez e Amiliya Iskakova, qualcuna da sola, qualcuna con un massaggiatore, qualcuna persino con i genitori. Tutte a fare il tifo.

Gruppo compatto. Prima del finale concitato la gara rimane controllata dalle squadre.

L'ultima a veder evaporare le proprie speranze è Demi Vollering: il suo attacco sembrava perfetto, ma dietro si sono svegliate le migliori e negli ultimi dieci chilometri la corsa si riapre. La prima a provarci è Cecilie Uttrup Ludwig, fedele al suo motto fun in the sun. La prima a rispondere è Marianne Vos. A contrattaccare è Amanda Spratt. Alla fine si ritrovano in otto, con la rotonda in vista e quell'ultimo rettilineo che guarda in su, anche se gli sguardi di tutte sono perlopiù rivolti all’indietro. Il gruppo è vicinissimo, le volate saranno due: chi sprinta dal gruppo di testa spera di averne a sufficienza per tenersi dietro chi si lancia in volata dal gruppo. Il risultato è un ordine d'arrivo confuso, che mischia attaccanti e velociste, ma chiarissimo riguardo alla vincitrice. A display of pure power commenta lo speaker inglese riguardo alla volata di Marianne Vos, che si aggiudica il Binda per la quarta volta. Mai nessuna, come lei. D'altronde, di cicliste come Marianne Vos non ce ne sono state proprio nella storia. Non stupisce che i suoi record aumentino gara dopo gara. Le quattro vittorie a Cittiglio sono quasi un dettaglio marginale in un curriculum che vede tre titoli mondiali su strada,

due su pista e sette nel ciclocross, oltre a due ori olimpici e una collezione di trofei in ogni categoria. Il tutto raccolto in una carriera spaccata in due. Arrivata al professionismo come un tornado, campionessa del mondo a 19 anni, Marianne Vos ha disputato un decennio di carriera da cannibale pura, fino a che il suo corpo non ha detto basta. Basta allenamenti massacranti, basta dedicare ogni istante della vita al ciclismo, all'inseguimento della vittoria. Più che un infortunio, un affaticamento, l'impossibilità a tenere un ritmo di vita, di allenamenti e di gare simile. «Mi sono resa conto che i miei problemi erano causati dalla stessa cosa che mi aveva permesso di vincere così tanto», disse dopo quella stagione che le ha cambiato la vita. Il sorriso che tinteggia il volto di Marianne Vos sul traguardo di Cittiglio è quello di un'atleta che ha riscoperto la vita. Da un paio di stagioni, da quando ha ricominciato a correre dopo una pausa di oltre sei mesi, Marianne è una persona nuova. E non per questo meno vincente. È la campionessa che non si nega mai a nessuno a bordo strada, dal fan più sfegatato allo spettatore curioso, è la ciclista che ha cominciato a sfruttare il proprio ruolo di fenomeno per


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corse

21° TROFEO BINDA Uci Women’s World Tour

Taino – Cittiglio, 131,8 km

parlare di diritti e di uguaglianza in uno sport eccessivamente sbilanciato dal lato maschile; è la ragazza di Babyloniënbroek, il paese di 400 anime nel Brabante del Nord dove ha cominciato a pedalare e continua a vivere. Marianne festeggia sul podio, poi si presenta in conferenza stampa accompagnata dal padre e dal fratello. Quella dei Vos è una famiglia di strada. Marianne in gara, il fratello inviato come fotografo per un'agenzia che si occupa di ciclismo, i genitori alla guida del camper. Nelle corse più vicino a casa capita che sia presente anche Sjekkie, il gatto. La sala stampa del Trofeo Binda è allestita nell'aula del consiglio comunale di Cittiglio. Sulle pareti, per l'occasione, sono state appese delle gigantografie delle vincitrici dal 2008 al 2015, per qualche motivo gli ultimi anni mancano. In due occasioni l'arrivo è stato bagnato dalla pioggia, in altre tre è illuminato dall'esultanza di Vos. Per il futuro sarebbe auspicabile un aggiornamento, si completerebbe il panorama con un altro giorno di pioggia (il 2018) e con una quarta vittoria di Vos (nel 2019). Passato il trambusto della corsa, delle premiazioni,

Ordine di arrivo: 1 Marianne VOS (Ola – CCC-Liv) in 3h27’07” 2

Amanda Spratt (Aus – Mitchleton-Scott) s.t.

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Cecilie Uttrup Ludwig (Ger – Bigla) s.t.

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Anastasia Chursina (Rus – Btc)

5:

Elena Cecchini (Ita – Canyon-Sram) a 1″

delle interviste alle quali Marianne si presenta ancora insieme al padre, le gigantografie vengono staccate dal muro e rimesse via. Resta invece al centro di una parete il grande quadro che decora abitualmente il consiglio comunale. Un quadro in legno, realizzato nel 2004 da Gianfranco Caporali, mastro falegname di Cittiglio da oltre 60 anni. Ritrae Alfredo Binda all'attacco durante la Sanremo del 1929, vinta con otto minuti e mezzo sul secondo e oltre 21 minuti sul terzo. È un quadro dalle tinte di un'altra epoca, un mosaico ligneo in cui le venature trasversali e le diverse mescole di materiali contribuiscono a creare un'atmosfera plumbea: un solo spettatore col cappotto a bordo strada, la maglia Legnano di Binda, un'ammiraglia targata VA29 alle sue spalle, firma e titolo incisi nel legno. A Cittiglio, Stì in dialetto locale, Alfredo Binda continua a vegliare su discussioni e decisioni, su balli e bande, su fughe, volate e premiazioni. E su campionesse, che nulla hanno da invidiare a un passato di altrettanto grandi campioni.

Traguardo. A Cittiglio l’arrivo di Marianne Vos e in basso l’opera lignea di Gianfranco Caporali esposta nella sala comunale.


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«ER IS MATHIEU!» L’atterraggio

Testo Filippo J Cauz

Foto articolo tornanti.cc

A 175 metri dalla linea bianca del traguardo dell'Amstel Gold Race c'è un megaschermo. La corsa viene trasmessa con le immagini della diretta televisiva, pure il commento è lo stesso. Fa un gran caldo, sembra un giorno d'estate anziché una domenica di Pasqua alla terza settimana di aprile, eppure non sembra più esserci molto da festeggiare.


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Š Bettini Photo

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In Limburgo si aspettava di incoronare finalmente un nuovo re, erano state preparate celebrazioni, si erano indossati costumi patriottici con una settimana d'anticipo rispetto al Konigsdag, erano state appese gigantografie per accogliere il sovrano. Invece Mathieu van der Poel era partito all'attacco con anticipo che era parso eccessivo, si era perso l'azione buona, forse nemmeno si era accorto delle due effigi che lo attendevano in cima al Cauberg. La gara sembrava andata, finita, almeno per lui.

Niente di più sbagliato.

A 700 metri dall'arrivo dell'Amstel Gold Race i due fuggitivi, Fuglsang e Alaphilippe si stanno guardando mentre procedono ad andatura turistica. Michał Kwiatkowski arriva come un motorino alle loro spalle, va a velocità doppia e sembra pronto a siglare la beffa più classica del ciclismo: il contrattaccante che riprende i primi e li lascia sul posto. Anche le telecamere e la regia si aspettano questo copione, accompagnano il polacco con una giravolta della inquadratura e lo seguono fino a raccordare le immagini con una ripresa fatta alle spalle di Julian Alaphilippe e di Jakob

Fuglsang. Il pubblico televisivo, anche quello sotto il sole del rettilineo d'arrivo, segue l’azione con moderata eccitazione. Davanti al megaschermo dei -300 metri il primo ad accorgersi di quanto sta per succedere è un signore alto in terza fila dietro le transenne: mentre tutti si pregustano l'azione di Kwiatkowski, lui ha lo sguardo puntato chissà dove a penetrare lo schermo. Se si guardasse la strada, per quanto manchi poco al passaggio, i corridori sarebbero ancora puntini colorati indistinguibili. La strada è leggermente in curva, il sole accecante. A guardare lo schermo la situazione non migliora,


con le distanze schiacciate e i colori confusi. Eppure, quel signore alto in terza fila ha notato qualcosa. È il primo a distinguere da qualche parte sullo schermo le tre bande colorate del dì di festa, l’azzurro-bianco-rosso della bandiera olandese. «Er is Mathieu!». C'è Mathieu, esclama. Ed è come se premesse con forza su un detonatore, perché da lì in avanti il rettilineo finale dell'Amstel diventa un nuovo mondo. L'area d'arrivo dell'Amstel Gold Race è un luogo inspiegabile. Un chilometro d'asfalto che attraversa l'abitato di

Berg en Terblijt, divide i due antichi villaggi di Berg, che significa montagna, e Terblijt, che significa Terblijt. Da un lato c'è la propaggine del paese: villette ordinate, tracce di opulenza e di noia; dall'altro ci sono dei campi, qualche azienda agricola, un meleto. Sembra uno di quei luoghi dove il tempo non è in grado di scorrere: tutto è cristallizzato in un eterno pic-nic domenicale, anche nel giorno della corsa, fino a che non si sente un urlo. È quel signore alto in terza fila: «Er is Mathieu!». Nel momento in cui quell'urlo si leva al cielo in realtà Mathieu van der Poel quasi nemmeno

Superwattaggio. La sparata allo sprint per staccare tutti è mostruosa: 1400W, si dice.



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Da non credere. Perfino van der Poel è sbalordito. Che numero.

Il trittico delle Ardenne comincia sulle strade olandesi dell’Amstel Gold Race (21 aprile) con lo storico Cauberg che precede il traguardo di Valkenburg, prosegue sulle durissime pendenze del Mur de Huy che consegna la Freccia Vallone (24 aprile) e si chiude alla LiegiBastogne-Liegi (28 aprile) con le celebri côtes e i superbi finisseur della Doyenne. si vede. Dietro ai due fuggitivi divenuti tre c'è un gruppetto stirato con Schachmann e Madouas da una parte, Mollema e Bardet dall'altra, solo dietro una moto si intravedono Trentin, Clarke, De Marchi, e finalmente – c’è davvero - van der Poel. È in quell'istante preciso, quando a 700 metri dall'arrivo il gruppo torna ad avere i primi a portata di sguardo, che la realtà si riassesta con il destino. Mathieu van der Poel doveva vincere l'Amstel Gold Race perché le feste vanno onorate e non rovinate. Nei giorni successivi sui giornali si sono lette analisi e critiche, si sono sezionati distacchi reali e comunicati, si sono calcolati i watt e processati gli errori. Tutto sforzo vano, come se si potesse elaborare una formula matematica per descrivere le traiettorie del destino. Quando van der Poel transita davanti al signore alto in terza fila a 175 metri dall'arrivo dell'Amstel Gold

Race la sua volata è già lanciata. Ha zig-zagato per un centinaio di metri, poi ha visto scattare Alaphilippe ed è partito verso l'incoronazione. Mentre tutto ciò si svolgeva, durante il ricongiungimento, la volata, le interviste, l'attesa, la premiazione, è come se quell'urlo iniziale non si fosse mai spento. La coda sonora di «Er is Mathieu!» galleggia nell’aria per un'ora abbondante. Volano birre, cappellini, bandiere. Gli applausi sono quasi soffocati dalle urla, non vi è angolo dell'altresì immutabile Berg en Terblijt che sfugga a questo ciclone di frenesia. La folla s'affolla, sale in piedi sui tavoli, lancia cori ormai classici o inventati sul momento. Tutti gli occhi luccicano di gioia, perché ciò che doveva compiersi si è compiuto. E sembra che sia stato merito di tutti, che quella volata non l'abbia disputata Mathieu van der Poel ma l'abbia pedalata un popolo intero.

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Bagno di folla. A fine gara, davanti ai giornalisti, non è sempre facile essere van der Poel.

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Van der Poel voleva vincere l'Amstel Gold Race in maglia di campione nazionale. Voleva farlo per se stesso, per la squadra, per i Paesi Bassi. Non che sia una novità, Mathieu vuole vincere qualsiasi gara, pure perdere alla playstation lo scoccia, ma questo era un appuntamento diverso, quasi storico. Eppure, la sua euforia sul podio non traspare. Celebra questa come fosse una vittoria qualsiasi: non è certo la prima, in una stagione che lo ha visto pressoché imbattuto per sei mesi, mentre tutti intorno a lui dipingono la sua Amstel Gold Race come l'atterraggio di un alieno, un tiranno destinato

a dominare in lungo e in largo il ciclismo dei prossimi anni. A 175 metri dal traguardo dell'Amstel nessuno però pensava a ciò che accadrà nei prossimi anni: lo sguardo lungo serviva soltanto a distinguere gli inseguitori nel megaschermo, ad assicurarsi che ci fosse Mathieu, e lui c'era. La domenica di Pasqua era quella dell'incoronazione e poco importa di dove andrà fondarsi il suo regno, seguendo strade che lo stesso Mathieu ancora ignora. Van der Poel non è atterrato per dominare, è atterrato per atterrare. Er is Mathieu.


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IL UNA

FIANDRE È CENTRIFUGA

Sensazioni che si mescolano e capovolgimento di fronte ad ogni metro. Il ciclismo qui è un incessante ribaltamento di fronti.

Testo Alessandro Autieri

Lungo la strada è un continuo mescolio di tifosi, facce, cappellini, mucche e trattori, musi lunghi che aspettano con trepidante attesa il passaggio del gruppo e che all’improvviso mutano forma e inghiottono i corridori urlando nomi, chiedendo in cambio borracce, sventolando bandiere di ogni nazione o club. È festa fiamminga e orgoglio del ciclismo. C’è mescolanza di corridori: ci sono quelli che vengono dal ciclocross e fanno paura a tutti, ci sono velocisti fondisti, velocisti resistenti, uomini dal palmarès invidiabile, leggeri e pesanti, maglie tricolori e iridate, corridori con la pancia piena o che in carriera non hanno mai vinto nulla e sognano di beffare i potenti sul traguardo di Oudenaarde. Gente come Alberto Bettiol, che non ha ancora mai vinto una corsa da pro.

Foto tornanti.cc

De Muur è spaccagambe.

Dall'abitato di Geraardsbergen, si inerpica con la costanza di una lama che affetta una bistecca, per circa cinquecento metri che affaticano i muscoli, tagliano i tendini e mozzano il fiato. La lunghezza ufficiale è di 1075 metri, centimetro più, centimetro meno, perché tiene conto del tratto iniziale quello dove si accalca così tanta gente da far sembrare il piccolo villaggio, sorto in riva alla Dendre, una curva da stadio sudamericano. Nella prima parte si sale su un percorso sinuoso ma delicato, si trattiene quel respiro che qualche centinaio di metri più avanti servirà come carburante per muscoli che rischiano di rimanere atrofizzati dalla durezza della strada. Il punto più alto è registrato a 110 metri di quota; siamo


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ai margini dei Paesi Bassi, al confine dell'Europa Occidentale che diventa Nord e qui cento metri diventano una montagna. Si percorre il centro cittadino dove a sinistra incombono edifici di un bianco accecante e di fronte case e bistrot che alternano mattoni rossi a muri in grigio slavato. Prima di svoltare a destra sulla Oudenbergstraat, la strada che porta all'omonima collina dove in cima è posta la Cappella di Nostra Signora, un cartello annuncia che quando inizia la vera strada verso il Muur, si può proseguire solo in bicicletta, mentre le macchine vanno parcheggiate da un'altra parte. Dopo aver svoltato, passano un centinaio di metri e il terreno muta come un tramonto

troppo brusco. Il dolce porfido delle vie centrali di Geraardsbergen ora si trasforma in ciottoli irregolari che sembrano scalini. La strada si inasprisce sempre di più e prosegue in una serie di curve e semi curve. Se la squadra fino a quel momento ti aiuta a stare davanti facendo un ritmo regolare, ora ognuno deve fare per sé, in perfetta sintonia con quello che è il ciclismo. Lo scenario cambia all'improvviso: la luce che accompagnava i corridori ora si nasconde dietro fronde minacciose come spiriti maligni, le case fiamminghe così disordinatamente ordinate e che avrebbero potuto ispirare George Simenon fanno spazio a muretti in pietra che delimitano il confine tra la strada e la fine di tutto.

All-Out. Alberto Bettiol scatta e non si volta più indietro. La folla è in delirio.


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xx. xx

Ja, dan komt de Muur en hij bijt meteen (sì, ora arriva il Muro e lui morde immediatamente), recita una canzone fiamminga a firma di Alex Roeka, molto popolare da queste parti. C'è talmente tanta gente su questa salita la domenica del Giro delle Fiandre, che per trovare un posto decente devi venire qui giorni prima. In cima, la Cappella è un sacro monumento posto su un luogo sacro di una corsa Monumento. A stare in bicicletta sembra di ballare con il diavolo, ma almeno la musica dura poco e quando

scollini, la chiesetta in stile neobarocco, con i suoi mattoni rossi, sembra fatta apposta per purificare spirito e muscoli, inaciditi dalla fatica. Fu dimora di eremiti, ora diventa celebre per una corsa in bicicletta e inquadrata da televisioni di tutto il mondo. La tradizione ha dato diversi appellativi: i francesi lo chiamano le Mur de Grammont; quando arrivi alla fine capisci perché è De Kapelmuur; per i fiamminghi è più facilmente De Muur, il Muro, considerato lo strappo più duro delle Fiandre. Inserito nella storia della corsa nel 1950,


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Su queste pietre viscide come fossero rese scivolose dal sudore e dall’olio fritto, dura tutto così poco che la fatica è un’esplosione di petardi che si mescola alle urla dei tifosi.

quell'anno Magni scollinò solo in testa e si involò verso il suo secondo dei tre trionfi, resistendo al ritorno di uno scatenato Schotte. Al traguardo arrivarono solo in ventidue. Negli anni '80 diventa appuntamento fisso di questa corsa e ci resterà fino al 2011. Su queste pietre viscide come se fossero rese scivolose dal sudore e dall'olio fritto, dura tutto così poco che la fatica è un'esplosione di petardi che si mescola alle urla dei tifosi. Dai di spalle, imprechi, sputi, cerchi la potenza perché l'agilità può farti ribaltare per terra. Quando Tafi vinse il Giro delle Fiandre nel 2002, soffrì sull'Oude Kwaremont, resistette sul Muro e nel finale si appellò a Santa Liberata. Roger Hammond di questo posto ricorda solo che "Quando stai per iniziare il Muro, l'unica cosa che ti porti dietro è il timore di Dio." Ciclisti: popolo di devoti. Con gli italiani c'è affinità elettiva. Nel Fiandre del 1994, Ballerini fece l'andatura e portò via un quartetto che Gianni Bugno mise in fila sul traguardo di Merbeeke. Michele Bartoli nel 1996 dipinse il suo attacco con uno stile rimasto ineguagliabile, come il più grande dei pittori. Ballan, labbra carnose e occhi a palla, staccò Boonen e poi sul traguardo infilzò uno degli eterni piazzati di cui è pieno il ciclismo: Leif Hoste. Sempre

qui, infine, si è consumata una delle poche sfide dirette tra i grandi dominatori delle pietre degli anni duemila: Cancellara e Boonen. Nel 2010 lo svizzero, in maglia di campione svizzero, annichilì il belga in maglia di campione belga, involandosi verso la sua prima vittoria al Fiandre. Fu l'edizione delle polemiche, del boccone amaro a fatica mandato giù dai tifosi di casa che in quegli anni vedevano in Tom Boonen l'unico Signore di queste terre. Qualcuno, credendosi furbo, raccontò persino con dei video su YouTube come Cancellara avrebbe azionato un motorino per staccare in quegli ultimi metri il suo avversario, dando il via a tutta una serie di sospetti che durano ancora oggi. Il Muro, dalla sua introduzione, è sempre stato decisivo per la sua durezza spaccagambe, ma soprattutto per la posizione vicino al traguardo; quando scollini dopo la Cappella, al traguardo mancano circa 16/17 chilometri, esiste tempo per recuperare, ma con il Bosberg che si frappone tra la cima e Merbeeke all'orizzonte, c'è anche modo per saltare in aria come su una mina. Dal 2012 Merbeeke non è più sede d'arrivo, ci si sposta a Oudenaarde. Gli organizzatori sacrificano il finale Muur-Bosberg, trasformandolo in un circuito con l'accoppiata altrettanto celebre e massacrante formata da Oude Kwaremont e


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Paterberg: dal 2012 al 2016 il Muro non esisterà più nel Giro delle Fiandre. Viene fatta una petizione, e 500 manifestanti organizzano un finto funerale che parte da Geraardsbergen e arriva fino alla Cappella e dove alcune persone con la maschera di Wouter Vandenheute, il presidente del comitato organizzativo, trasportano una bara. Nel 2017 ritorna e viene posto, tra mille polemiche, a quasi 100 chilometri dal traguardo; nonostante lo scetticismo della vigilia, viene reso intangibile il detto banale: Sono i corridori a fare la corsa e non il percorso. In omaggio al Muro, la corsa esplode su quella lingua cosparsa di sassi che man mano che sale si fa più stretta, spaccagambe e velenosa. Sagan e Van Avermaet prendono il Muro in mezzo al gruppo e restano tagliati fuori. Quel giorno trionfò Philippe Gilbert in maglia tricolore belga e scaltro vallone.

Un anarchico alla corte dei fiamminghi

È il 7 aprile 2019, Alberto Bettiol si arrampica sul Kruisberg senza aprire bocca come se il Giro delle Fiandre fosse appena iniziato, parte sull’Oude Kwaremont a diciotto dall’arrivo sotto gli occhi di Re Tom Boonen che si mescola tra il pubblico, e diventa prescelto di una corsa senza padroni. Il finale è una centrifuga. È ordine del disordine. Le gambe di Bettiol sono energia cinetica in un moto rettilineo uniforme. L’ultimo chilometro è cinema, è un film di Jean Luc Godard: Bettiol le fou. I metri finali sono una fotografia, mentre il sole si mischia alla foschia, lui gode in mezzo a due ali di gente, transenne, bandiere, facce, telefonini, urla e cappellini. In quella follia che è questa corsa, lui è un anarchico che vince alla corte dei fiamminghi.

Trionfo. Prima di Alberto Bettiol l’ultimo italiano a vincere il Giro delle Fiandre era stato Alessandro Ballan nel 2007.


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(IL TROFEO)

SENZA FINE


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passione. Senza fine è la passione della gente sulle strade. Tutti vogliono essere vicini al Giro e ai corridori. Tutti vogliono essere dentro la corsa. Percorrere certe strade è uno spettacolo, il pubblico le trasforma in stadio, come qui sul San Boldo. È una gioia correre così. Peccato che c’è sempre qualche idiota che non si accontenta di applaudire e corre accanto ai ciclisti, quest’anno a farne le spese è stato Miguel Angel López. Scusaci tanto, Michelangelo.


© Tornanti.cc


cuore. Senza fine è il cuore di Fausto Masnada, Cesare Benedetti, Dario Cataldo, Giulio Ciccone e Vincenzo Nibali. Quello del 2019 oltre che per la pioggia e il cattivo tempo sarà il Giro che ricorderemo per le vittorie che non ti aspetti: quelle di corridori che hanno vinto poco e che corrono al servizio degli altri, oppure di giovani che hanno voglia di emergere e di crescere. Nibali è un fuoriclasse. Questo Giro, forse, è quello del cambio di generazione.


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coraggio. Senza fine è il coraggio di Richard Carapaz. È stato lo scalatore più forte del Giro 2019, in grado di gestire la gara in ogni frangente e di farsi trovare pronto al momento opportuno. Generoso e leale, nella tappa che finiva al Monte Avena ha spostato il compagno Michael Landa con la mano per metterlo dietro e cercare di portarlo alla vittoria di tappa. La moglie di Carapaz, intervistata a fine Giro, ha dichiarato: «Es algo que no me esperaba», non me l’aspettavo. Forse, nemmeno suo marito.


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ROGLIC ERA UN CICL IS TA COME TUTTI NOI Testo Carlo Beretta

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La storia di Primoz Roglič ormai la conoscete tutti: un campione del mondo junior di salto con gli sci che si dà al ciclismo, arrivando in pochi anni a vincere una tappa del Tour de France. Senza dubbio una delle storie più intriganti dello sport moderno. Molti si chiedono come sia possibile, molti sono scettici, molti ciclisti mentalmente fermi agli anni ’90 ridono quando pensano al suo passato da saltatore. Ma la realtà è una sola: Rogla è diventato il ciclista che è ora grazie a doti sviluppate durante la sua carriera da saltatore, grazie alla flessibilità, alla ricerca dell’aerodinamica in ogni istante, all’esplosività e soprattutto grazie alla padronanza del suo corpo, dalla punta dei piedi fino ai capelli. Ma sapete cosa c’è di ancor più affascinante in questa sua ascesa verso l’olimpo del ciclismo? Lui era un ciclista come tutti noi. Sì, Primoz Roglič era un amatore. Abbiamo navigato nel web, cercato foto, articoli, pagine Facebook. Non ci ha mai lasciati a bocca aperta questo suo repentino cambiamento da uno sport invernale al ciclismo, anzi, abbiamo sempre creduto che questa potesse essere la sua grande forza. Quello che ci ha impressionati più di tutto il resto sono state proprio le sue prime gare, il suo ingresso nel ciclismo. Come ha fatto ad imparare a guidare la bici? Come ha fatto a capire come funzionassero le tattiche di squadra, cosa fosse una doppia fila, un ventaglio, come stare a ruota? Qual è stata la sua prima scuola ciclistica? C’è una squadra italiana di mezzo. Non una World Tour, non una Continental, nemmeno una Professional. Un’ASD amatoriale. Anzi, una corazzata amatoriale di quell’epoca: l’ASD Barbariga Franco Gomme. Una squadra guidata dal team manager Marino Zago che ha scovato proprio Roglič ed un altro attuale Pro, Luka Mezgec. 
Dunque, i suoi primi numeri sulla schiena li ha messi con la squadra friulana, capitanata ai tempi da un altro ciclista sloveno: è un professionista che ha deciso di correre per la Barbariga Franco Gomme dopo alcuni anni in squadre Elite e Continental. Il suo nome è Borja Jelic, uno che per un colpo di sfortuna non ha potuto realizzare uno dei grandi sogni della sua vita: diventare astronauta e salire sulla Luna. Riassumiamo: Primoz Roglič ha iniziato a correre in un’Asd italiana, insieme ad un aspirante astronauta. Abbiamo scritto a Borja su Facebook, volevamo sentire qualche parola direttamente da un ex compagno di squadra di Rogla. «Ho iniziato con la mountain bike nel 1990, poi ho corso come Elite e per alcuni anni in squadre Continental e gareggiavo per lo più in questa parte dell’Europa. Ho perso un po’ di motivazione e dunque ho deciso di smettere con il ciclismo professionistico. Poi alcuni mesi dopo mi è arrivata la


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Come ha fatto Roglič a capire come funzionassero le tattiche di squadra, cosa fosse una doppia fila, un ventaglio, come stare a ruota? Qual è stata la sua prima scuola ciclistica?

chiamata dal DS del team amatoriale Barbariga Franco Gomme. Ho accettato, così per rimanere in forma e gareggiare ancora in bicicletta. Ed è stato grandioso, è stato molto bello scoprire la scena ciclistica amatoriale italiana insieme ad una grande squadra». E poi è arrivato Primoz Roglič, un giovane ventiduenne che di ciclismo sapeva veramente poco. 
 «Ricordo che è entrato a far parte della squadra a metà stagione nel 2012. Ha iniziato partecipando alle gare in salita della zona e le ha vinte tutte. Il nostro direttore sportivo Marino lo aveva notato e lo portò subito nell’ASD Barbariga Franco Gomme». Primoz inizia dunque nel 2012, vincendo le gare in salita amatoriali in Slovenia. La prima che riusciamo a scovare risale al 6 maggio 2012, una vittoria. Tutto questo ci porta a navigare nel web come non mai per trovare classifiche, foto vintage, estratti di articoli in sloveno. C’è un pdf intitolato Cronometer Kamniška Bistrica, datato il 19 maggio 2012, con Primoz Roglič in quarta posizione. La squadra non era ancora la Barbariga Franco Gomme però, ma si trattava del team Radenska, una squadra U23 slovena della zona di Ljubljana. In quella squadra nello stesso anno militavano Jan Polanc e Luka Pibernik, anche se il loro calendario era ben differente da quello di Primoz. L’8 giugno va in scena il prologo della Maraton Franja BTC City, una corsa vicino a Ljubljana dove sono presenti sia amatori che U23. Primoz risulta quinto nella crono degli Amatori B, mentre Polanc vince fra gli U23. Due giorni dopo si corre la corsa in linea, ma Primoz risulta nei DNF. Il primo luglio 2012 vince la Maraton Alpe Scott, forse il suo primo successo in una gara in linea amatoriale. Ci sono alcuni video dove si vede il traguardo di Primoz, mentre si applaude da solo quasi sorpreso. Cattivo. A Primoz Roglič in questo Giro è stata fatta recitare la parte del cattivo. Sui giornali si è parlato di cose ridicole, di bici che spariscono, di tattica scortese e di conferenze stampa disattese. A noi, invece, Roglič sta simpatco.

Dopo un primo periodo sloveno passa quindi alla Barbariga Franco Gomme e arriva la sua prima partecipazione ad una granfondo italiana. Sì, una granfondo, la Charly Gaul: finisce undicesimo, mentre Borja è ventesimo. Davanti a lui Roberto Cunico e in sedicesima posizione uno dei più forti amatori italiani del momento, Paolo Castelnovo. Il weekend successivo si presenta alla Granfondo Pordenone, l’attuale Granfondo dei Templari, e vince. Sissignori, Primoz Roglič ha vinto una Granfondo in Italia. Ma il meglio deve ancora venire. «Dopo alcune granfondo e qualche gara Udace (le attuali gare in circuito Acsi) lo abbiamo messo in squadra per il Giro del Friuli amatori, la sua prima corsa a tappe. Era molto forte


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Lunga. Alla cronometro del Chianti nel 2016, Roglič non partiva da favorito. Cinque minuti prima dalla partenza quella volta, gli avevano detto che sua bici non rispettava gli standard UCI perché era troppo lunga. Lunga? Lunga. Quel giorno corse con una bici non sua, più bassa di due centimetri rispetto alla sua misura. Vincendo. Lì avevamo capito che è uno forte. Qui, in gara a Bologna in sella alla sua Bianchi Aquila CV.


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in salita ma con poca esperienza per pedalare in gruppo». Borja Jelic leader nella corsa friulana, un appuntamento troppo importante per la squadra, e al suo fianco come gregario uno sbarbato molto riservato, Primoz Roglič. «Quell’anno vinsi la classifica generale, ma Primoz vinse la tappa di montagna più dura. Non ricordo quale fosse la salita, ma era davvero ripida. Il nostro direttore sportivo stava controllando i nostri rapporti e quando vide la bici di Primoz gli disse: Primoz, ma come fai a pedalare su di lì con questi rapporti? Lui sorrise e gli disse che poteva adattarsi facilmente alla situazione. In ogni caso il DS Marino riuscì a trovare da qualche parte un pacco pignoni della Miche con il 30 e dunque Primoz non dovette adattarsi più di tanto». Siamo andati a vederla quella terza frazione, la Pinzano al Tagliamento-Sella Carnizza, vinta davanti a Paolo Castelnovo con 16 secondi di distacco. Quel giorno si presentò sul podio ancora con il casco indossato e un paio di Crocs bianche ai piedi. Ah, guardando le classifiche di qualche tappa abbiamo trovato anche un certo Claudio Chiappucci, classe 1963. Sì, El Diablo. Era presente anche Ivan Ravaioli.

Inizialmente Roglič pensava che le corse dei pro, fossero così: «Com’è che ci si iscrive?» Borja continua a parlarci del Roglič amatore di quei giorni: «Non posso dire che fosse così determinato a passare Pro in quel momento. Ma senza dubbio era conscio del suo potenziale e da atleta professionista e sportivo esperto sapeva che doveva provarci fino in fondo per vedere quanto lontano poteva andare. Anche al suo primo anno in bici era veramente forte, ma gli mancava esperienza anche se imparava molto velocemente. Eravamo tutti impressionati dalla sua potenza in salita e ognuno di noi condivideva con lui consigli ed esperienza». Dopo il Giro del Friuli torna a gareggiare ancora in Slovenia, aprendo sempre di più il gas. Ad ottobre si corre l’ultimo grande appuntamento amatoriale, l’Istria Granfondo ad Umago, in Croazia. Primoz Roglič in seconda posizione, dietro ad un certo Robert Kiserlovski, quella stagione in forza all’Astana. Nel 2013 passò all’Adria Mobil e poi sapete tutti com’è andata. Una storia incredibile, una storia di un uomo che ha capito la forza del suo corpo, della sua flessibilità, della sua calma olimpica, del suo agonismo interiore. È grazie a personaggi come Primoz Roglič se continuiamo a fare sport allo sfinimento, se continuiamo a guardare le gare alla TV, a leggere articoli, guardare classifiche, trovare corridori con storie assurde. Qualche mese dopo in Slovenia, dalle sue parti, lo chiamavano già leggenda. La sua prima bici da corsa, la Wilier-Triestina GranTurismo con cui ha iniziato a vincere è finita in vendita su Facebook, sulla pagina del padre. Questa la descrizione: “Bici all'asta, 2.000 €, prezzo eccellente”. Rogla, non finirai mai di stupirci.


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L A G R A N S T O R I A cover D Estory L

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Primo Giro d'Italia Ideazione, vicende, personaggi e disavventure di una corsa che è arrivata alla sua 102esima edizione.

di Gabriele Gargantini

Nel 1909 Gino Bartali e Fausto Coppi non erano ancora nati. Nel marzo di quell’anno le elezioni le vinsero i liberali di Giovanni Giolitti, che comunque era già al governo. Gli italiani erano circa 33 milioni ma aveva votato meno di un decimo di loro. Filippo Tommaso Marinetti pubblicò il Manifesto del futurismo e Guglielmo Marconi vinse il Nobel per la Fisica. Morì il capo Apache Geronimo e nacque Rita Levi-Montalcini. A Belfast stavano iniziando a costruire il Titanic. Un anno prima Dorando Petri era arrivato primo nella maratona olimpica di Londra, ma era stato poi squalificato. Il massimo campionato italiano di calcio lo vinse la Pro Vercelli. Ma in Italia il calcio era ancora poca roba. La gente seguiva la scherma, il pugilato, la lotta, il canottaggio e il ciclismo. Le gare nei velodromi – o nei galoppatoi adattati a velodromi – erano molto seguite. Ma le gare su strada stavano diventando la nuova grande cosa. Le biciclette, nel 1909 in Italia, erano circa seicentomila: pesavano

che

dall’alto premeva direttamente sulla ruota anteriore. Una discreta bicicletta costava almeno 100 lire. Un operaio prendeva in media due lire al giorno, più o meno il prezzo un chilo di pane. Il Tour de France si correva dal 1903, organizzato da L’Auto, il quotidiano che sarebbe poi diventato L’Equipe. Dal 1896 esisteva La Gazzetta dello Sport, nata dalla fusione dei periodici Il Ciclista e La Tripletta, che prendeva il nome da quello

Nel 1909 una discreta bicicletta costava almeno 100 lire. Un operaio guadagnava in media due lire al giorno, più o meno il prezzo un chilo di pane. una quindicina di chili, ma alcune anche più, ed erano fatte quasi tutte di ferro. Avevano il rapporto fisso e in genere un solo freno, a tampone,

di una bicicletta a tre posti. Nel suo piccolo la Gazzetta aveva emulato L’Auto e aveva messo in piedi il Giro di Lombardia e la Milano-Sanremo, che avevano lo scopo

di far vendere un po’ più di biciclette a chi le produceva e dare al giornale qualcosa di nuovo da raccontare. Nel 1909, quando usciva tre volte a settimana e costava 50 centesimi, la Gazzetta organizzò il primo Giro d’Italia: 2.448 chilometri da corrersi in otto tappe. Due tra le principali aziende che producevano biciclette erano la Bianchi e l’Atala, che era stata fondata nel 1908 da Angelo Gatti, che aveva lavorato alla Bianchi ma se n’era andato sbattendo la porta dopo che la Bianchi aveva dato il suo incarico – che oggi definiremmo da direttore commerciale – a Gian Fernando Tommaselli, che si era fat-

to un nome correndo su pista. Già un anno prima la Gazzetta aveva pensato di organizzare un Giro ciclistico d’Italia ma se la stava prendendo con calma, che non era una cosa semplice. Nell’agosto di quell’anno Gatti era però venuto a sapere che il Corriere della Sera, la Bianchi e il Touring Club


Italiano idea estory seconda metà avrebbero preso cinquanta 62 stavano covando la stessa cover se la stavano prendendo con meno calma. punti. Vinceva chi faceva meno punti. Corriere e Gazzetta non erano ancora dello stesso editore e Gatti, saputa la cosa, lo Fatti percorso e regolamento, mancavadisse a Tullo Morgagni, caporedattore del- no i corridori: ci furono inviti e iscrizioni la Gazzetta. Il 5 agosto Morgagni scrisse normali, aperte a chiunque fosse matto quindi un telegramma a Eugenio Camillo abbastanza da pensarci. Si iscrissero sei Costamagna e Armando Cougnet, rispetti- squadre, tutte con il nome dello sponsor vamente direttore e direttore amministra- e anche di chi forniva le gomme: Atalativo della Gazzetta, entrambi fuori città: Dunlop, Bianchi-Dunlop, Stucchi-Persen, Improrogabili necessità obbligano Gazzetta Dei-Michelin, Rudge Whitworth-Pirelli, lanciare subito Giro d’Italia. Ritorna Milano. Labor-Chauvin. Il concetto di squadra era Tornarono entrambi e il 24 agosto la però molto vago e nemmeno c’erano le divise, ma era comunque meglio che stare soli. Perché sì, c’erano anche i cosiddetti isolati: i corridori senza squadra, che dovevano fare tutto da soli. La maggior parte degli iscritti gareggiò da isolato, ma quasi Gazzetta annunciò con un titolone in tutti i più forti correvano per una delle sei prima pagina che nel 1909 avrebbe orga- squadre ed erano stati invitati, in alcuni nizzato insieme all’Atala di Gatti il primo casi anche con una certa insistenza. Tra Giro d’Italia. L’articolo era pieno di entu- loro c’erano anche cinque stranieri, sosiasmo ma era tutto molto vago: non era prattutto francesi. chiaro, soprattutto, chi avrebbe messo i soldi necessari. E infatti il 7 settembre la Il più anziano tra i 127 che la sera del Gazzetta scrisse molto più in piccolo: Per 12 marzo si presentarono alla punzonaora interrompiamo di trattare del Giro d’I- tura delle macchine a pedale era Enrico talia. Poi i soldi li trovò – anche grazie al Nanni, 44 anni. I più avevano tra i venti Corriere che non tenne il muso e offrì le e i trent’anni e molti erano anche se non tremila lire per il premio finale del vinci- proprio poveri, comunque non ricchi. tore – e quindi riprese a pensare a come Alcuni erano lì per il gusto dell’impresa, diavolo organizzare un Giro d’Italia in tanti altri per i soldi. Il montepremi combicicletta. plessivo, diviso tra premi di tappa e premi finali, era di venticinquemila lire, come Il vero organizzatore del primo Giro fu dire qualche centinaio di migliaia di euro Cougnet, che aveva già fatto esperienza di oggi. Per chiunque fosse riuscito a finire pianificando la Milano-Sanremo. Fu lui il Giro e tornare a Milano ci sarebbe stato a disegnare il percorso e definire i detta- un premio di 300 lire. Cougnet, che quel gli: partenza e arrivo a Milano il 13 e il 30 Giro lo organizzò, prendeva circa 150 lire maggio, e in mezzo passaggi a Bologna, al mese di stipendio. Roma, Napoli, Firenze, Genova e Torino. Il primo Giro si sarebbe corso tre giorni a settimana, perché la Gazzetta usciva tre giorni a settimana.

24 AGOSTO 1908: il primo annuncio

Fatto il percorso, restava il regolamento: si decise per una classifica punti e non a tempo, perché così faceva il Tour e perché così era più facile. Il primo di ogni tappa avrebbe preso un punto, il secondo due, il terzo tre; e così via fino alla metà dei corridori al traguardo. Tutti quelli nella

Al via c’era il meglio del ciclismo di quel tempo:

Lucien Petit-Breton Lucien Petit-Breton era francese, aveva 26 anni ed era piuttosto basso. Il suo cognome era in realtà un soprannome, datogli anni prima quando viveva e correva su pista in Argentina, perché era piccolo e veniva dalla Bretagna. Tornato in Europa, qualcuno prese invece a chiamarlo l’argentino. Ma Petit-Breton era più azzeccato. Nel 1907 e nel 1908 aveva vinto il Tour e la Gazzetta scrisse che era «il campione di maggior rinomanza». Altri francesi avrebbero dovuto partecipare con la squadra Alcyon, ma sembra che quelli del Tour fecero pressioni per non farli andare al Giro.

Romolo Buni Romolo Buni aveva 38 anni ed era stato fortissimo e famoso come ciclista su pista.

Tra i 127 corridori che la sera del 12 marzo 1909 si presentarono alla punzonatura delle macchine a pedali la maggior parte avevano tra i venti e i trent’anni. Alcuni erano lì per il gusto dell’impresa, molti altri per guadagnare qualche soldo.


A fine Ottocento aveva persino gareggiato al Trotter di Milano contro uno che diceva di essere Buffalo Bill, ma probabilmente non lo era. Uno pedalava in bicicletta, l’altro cavalcava (e poteva cambiare cavallo quando quello su cui era si stancava). Vinsero i cavalli, ma di poco. Fatto sta che da circa cinque anni Buni era praticamente un ex ciclista e le gare di resistenza su strada non erano il suo forte. Ma era ancora famoso e Cougnet lo convinse a partire perché al Giro faceva comodo la sua presenza.

forza». Era arrivato quinto al Tour del 1908 cover e prima di quel Giro aveva vinto la MilanoSanremo. Preferiva arrivare in solitaria, perché non aveva una grande volata e riteneva che «una corsa che si decide allo sprint non è una vera corsa».

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«Me brusa tanto el cú»

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LUIGI GANNA

Carlo Galetti

Giovanni Rossignoli Giovanni Rossignoli aveva 27 anni ed era efficace, anche se non particolarmente leggiadro. Cougnet scrisse di lui: «Ha negli occhi vigorosi e penetranti un focolare di energie indistinguibili» e definì la sua pedalata «senza grazia né ritmo». Henri Desgrange, organizzatore del Tour de France, disse: «Io raramente ho visto un corridore pedalare così male come Rossignoli e stare in bici peggio di lui».

Di Carlo Galetti, che aveva 28 anni, si diceva gradisse soprattutto stare a ruota e non gli piacesse granché andare in fuga. Non era insomma uno che scaldava i cuori delle folle. Non era il più forte, ma era tra i più furbi. Qualche anno dopo avrebbe detto: «Impressionava di più il fegato di Gerbi, i guizzi finali di Cuniolo e l’azione di Ganna. Ma io ero un corridore accorto e riflessivo, non buttavo mai le energie allo sbaraglio, studiavo il valore dei miei avversari» e «spesso riuscivo a volgere a mio profitto le questioni di rivalità tra gli avversari. Avrebbero fatto bene a definirmi il corridore più tenace dell’epoca».

Giovanni Cuniolo Giovanni Cuniolo aveva 26 anni, era stato un podista ma era passato al ciclismo, che fruttava di più e annoiava di meno. Portava i baffi all’insù, alla francese, e se fosse nato un secolo dopo sarebbe stato un velocista. Era soprannominato “manina” perché si diceva che qualche volata l’avesse vinta spingendo o trattenendo i rivali.

Giovanni Gerbi

Luigi Ganna Luigi Ganna aveva 25 anni ed era il nono figlio di due contadini. Abitava a Induno, in provincia di Varese, e prima di mettersi a correre in bicicletta partiva da Induno, pedalava fino a Milano, lavorava come muratore e poi tornava a Induno in bicicletta. Cougnet lo definì «quadrato e dolce negli occhi, in una superba sicurezza di sé». La Gazzetta scrisse di lui, qualche anno prima del Giro: «Manca di tattica, ma non di

Eberardo Pavesi Eberardo Pavesi aveva 27 anni ed era soprannominato “l’avvocato”. Non lo era davvero, ma sapeva parlare bene ed era una specie di sindacalista dei corridori: se la prese, per esempio, con quei «bravi disegnatori che a tavolino segnano le fatiche di noi ciclisti». Nel 1905 aveva vinto la Roma-Napoli-Roma, della quale si disse che alla partenza da Roma, le indicazioni sul percorso erano state qualcosa di simile a “andate a Napoli e poi tornate indietro”.

Giovanni Gerbi aveva 25 anni ed era soprannominato diavolo rosso: perché correva sempre con una maglia rossa e perché non era uno con il quale avreste voluto trovarvi a competere. Pare non si facesse scrupoli per vincere: una volta si dice che usò amici travestiti da carabinieri per indicare la strada sbagliata agli avversari, per esempio. Era comunque – o forse proprio per questo – molto forte e amato dal pubblico. Nel 1903 aveva vinto la Milano-Torino mettendoci così poco che al suo arrivo non avevano ancora montato lo striscione al traguardo. Era astuto e cocciuto.


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Luigi Ganna vince il primo Giro d'Italia I favoriti al via si conoscevano tutti. Ganna, Galetti e Pavesi, tutte e tre lombardi, avevano corso insieme un paio di Tour, che allora in Italia si chiamavano Giro di Francia. Si parlava di loro come dei tre moschettieri e Gianni Brera scrisse in seguito che erano rispettivamente la forza, l’astuzia e il sapere. Erano stati compagni di squadra, ma Ganna e Galetti non andavano molto d’accordo e quel Giro Galetti l’avrebbe quindi corso con un’altra squadra. Gerbi e Cuniolo, entrambi piemontesi, non si sopportavano. Gerbi dava a Cuniolo del sacrestano; Cuniolo dava a Gerbi del delinquente. In volta vinceva Cuniolo, ma spesso Gerbi riusciva a staccare Cuniolo prima. Petit-Breton avrebbe corso quel Giro per la Stucchi, insieme ad altri francesi. Ganna e Pavesi stavano nell’Atala e Gerbi e Rossignoli nella Bianchi. Galetti e Cuniolo erano gli uomini di punta della Rudge Whitworth. Il primo Giro d’Italia partì nella notte tra il 12 e il 13 marzo da rondò Loreto di Milano, che ancora non si chiamava piazzale. Si partì di notte per due motivi: per dare il tempo ai corridori di finire la corsa prima del tramonto del giorno successivo, e perché una partenza fatta di giorno, magari in un’area più centrale di Milano, avrebbe creato problemi per via dei troppi tifosi. A tutti i partenti fu consegnato un volantino: Corridori!!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni e cortesi. […] Il vostro bel gesto di aver saputo osare segna l’inizio di una vittoria. In ognuno di voi c’è l’anima di un trionfatore.

La Gazzetta parlò così della partenza:

Sono le 2.53. I piedi premono, i garretti scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante, che tutto avvolge e illumina come di pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, enorme; la folla stacca nel buio che la circonda in tutta la sua urlante compattezza variopinta. La luce scompare, lasciando abbacinati: il cinematografo ha colto l’appetitosa visione: il Primo Giro ciclistico d’Italia è in moto!

MILANO-BOLOGNA 400 chilometri

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Ci si aspettava una tappa «piana e senza ingombri», ma pronti-via, e già dopo poche centinaia di metri, su viale Monza, ci fu la prima caduta. Forse perché erano in troppi a voler stare in testa, forse perché era buio e le strade erano quel che erano. A rimetterci più di tutti fu Gerbi, la cui bicicletta si ruppe. Perse quindi qualche ora per tornare alla Bianchi e trovare qualcuno che gliela riparasse. In quella tappa andò in fuga Petit-Breton, ma verso Peschiera del Garda cadde anche lui, si lussò una spalla e riprese a pedalare notevolmente acciaccato. Spiegò in seguito che la ruota della sua bici «incontrò uno strano solco che sembrò afferrarla coi denti». Cadde anche Pavesi, che dovette passare da un ospedale per farsi medicare, ma poi riprese la gara.

L’arrivo fu in serata, all’ippodromo Zappoli di Bologna. Molti si aspettavano una vittoria di Cuniolo in volata, ma vinse uno molto meno noto: Dario Beni, uno spigliato ventenne romano. Era di certo in forma, perché per partecipare al Giro era andato da Roma a Milano in bici. Secondo arrivò un altro ventenne: Mario Pesce. Galetti terzo e Ganna quarto. Una quindicina di corridori si ritirarono durante la tappa. Qualcuno telegrafò a Milano i risultati, così che la Gazzetta potesse pubblicarli l’indomani. La notizia del giorno riguardava però Gerbi, che era riuscito ad arrivare a Bologna, seppur molto attardato. Parlando del diavolo rosso – «celebre, esperto, smaliziato, rotto a tutti i pericoli» – la Gazzetta scrisse: «La maglia rossa, usa ai trionfi, sembra sanguinare di strazio».

BOLOGNA-CHIETI 373 chilometri

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Partirono in 112 e tra loro non c’era PetitBreton, che non recuperò dalla caduta della prima tappa e si ritirò. Ma disse: «Io non posso lasciare in Italia l’impressione di essere arrivato ventisettesimo in una corsa. La prima gara su strada che si correrà nel vostro Paese, mi vedrà in linea per la riabilitazione». Durante la tappa si ritirarono anche Pavesi e Buni, l’idolo delle folle chiamato per aggiungere prestigio alla corsa. Gerbi invece restò con i primi, ma sull’ultima salita della tappa cadde ancora e alla fine arrivò nono. La tappa la vinse Cuniolo, con una media di 28 chilometri all’ora, davanti a Ganna e Louis Trousselier, il più temibile dei francesi, dato che non c’era più Petit-Breton. Cougnet, che seguiva la corsa in auto, congedò così Buni: E staccandosi da lui, noi abbiamo negli occhi, nella rossa foga della rincorsa, una lieve ombra di tristezza, e come uno struggimento al cuore, pensando a questo eroe della bicicletta, che ha indossato ancora una volta la


sua maglia temuta, la sua corazza dei giorni della Gloria, per insegnare ai giovani la virtù della velocità, per far risuonare il Canto del Cigno della sua nobilissima anima sportiva.

CHIETI-NAPOLI 242 chilometri

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Tappa breve, ma con strada brutta e diverse salite, un paio oltre i mille metri di altezza. Partirono in 98 e arrivarono in 73. Qualcuno provò pure a tagliare un pezzo di tappa prendendo un treno ma fu scoperto. Pare che i giudici che stavano andando a Napoli in treno videro alcuni corridori in un vagone, e prima di ogni tappa i giudici facevano le foto ai partenti per confrontare le facce con quelle di quelli all’arrivo, così che nessuno barasse. I giudici si accorsero che quelli erano ciclisti iscritti al Giro d’Italia e li squalificarono. Cougnet scrisse, di altri corridori: Gaioni ci chiama disperatamente ma non possiamo essergli pietosi. Ceccarelli si sente male e vuole prendere la ferrovia, ma il poveraccio non ha soldi; gli do venti lire. Alla sommità della salita troviamo l’amico Banfi: domanda sorridendo con che treno si parte per Napoli, poi dice di voler ritornare a Chieti, perché la tappa è troppo dura. Ganna forò quattro volte e in fuga in quella difficile tappa andò Galetti, smentendo la fama da succhiaruote. Pare però che i troppi e troppo esagitati tifosi finirono per rallentarlo, e fu raggiunto e superato da Rossignoli, che vinse la tappa. Gerbi arrivò quinto. A Napoli il primo in classifica generale era Galetti, con 13 punti; a 14 c’era Trousselier, vincitore del Tour del 1905, e terzo era Ganna, con 16 punti.

NAPOLI-ROMA 328 chilometri

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Gerbi attaccò quasi subito e con lui rimasero meno di dieci corridori, tra cui Ganna e Rossignoli. Trousselier forò, cadde, e si staccò. Gerbi si staccò nel finale e di lui Costamagna scrisse: Tutti lo aspettano al traguardo, tutti lo vorrebbero primo ma non gli riesce di ritrovare le

sue forze d’altri tempi. In quell’uomo energiROMA-FIRENZE cover story 65 5 co si combatte una battaglia terribile: i suoi 346 chilometri trionfi del passato, e la magnifica forma pre- Fu forse la più tranquille, segnata però sente dei concorrenti vecchi e nuovi. dal «doloroso declino di forma di Gerbi», di cui la Gazzetta scrisse: «Chi conosce il Vinse Ganna. Secondo l’isolato Carlo suo orgoglio può appena immaginare le Oriani, un bersagliere di Sesto San terribili sofferenze morali». Ganna forò Giovanni. Terzo Rossignoli. La classifica a dieci chilometri dall’arrivo mentre era vedeva Ganna in testa con 17 punti, segui- nel drappello di testa, ma riuscì comunto da Galetti con 18 e Trousselier con 22. que a recuperare tutti e vincere arrivando Prima della partenza c’era stata un’altra davanti a Galetti e a Ezio Coralita, fattosqualifica per quella storia del treno e nel rino telegrafico di Bologna, «alto, secco e resoconto della sera, la Gazzetta scrisse: tutto nervi». Ganni consolidò così il primo posto in classifica ma Galetti era sempre Brambilla venne stamattina giustamente vicino e Rossignoli, che continuava a fare squalificato, perché fu trovato che prese il ottimi piazzamenti, non lontano. treno nella tappa Bologna-Chieti. Brambilla però si è presentato protestando e facendo una FIRENZE-GENOVA 6 scenata. Egli ha minacciato i delatori e voleva 294 chilometri partire a ogni costo. Poi si piantò su un lato Gerbi si ritirò, dopo essere arrivato tra gli della strada esclamando: “quando passerà ultimi: «Ultima appare la maglia rossa tanquello che m’ha denunciato gli spaccherò uno to celebrata; essa è in uno stato pietoso: la bottiglia sulla testa”. pedalata è pesante, sembra il trotterello di un cavallo malandato; gli occhi dell’astigiano sono pieni di pianto: non potrà continuare, eppure passa come un soldato della vecchia guardia». Lasciò il Giro anche Trousselier, del quale Costamagna scrisse: «Quest’uomo ha provato nelle ultime due tappe tutte le disgrazie che un corridore d’animo cattivo possa augurare a un avversario odiato. Eppure, non si sente vinto». La tappa la vinse Rossignoli, davanti a Galetti e Ganna. Nuova classifica generale: Ganna 21, Galetti 22, Rossignoli 29.

GENOVA-TORINO 357 chilometri

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Si corse sotto il temporale e per un po’ anche sotto la grandine. E finì un po’ prima del previsto perché nelle tappe precedenti il pubblico aveva creato problemi all’arrivo e in quel caso nei pressi del traguardo c’erano circa cinquantamila spettatori, che si temeva avrebbero reso impossibile il passaggio dei corridori. Il pubblico pensava che l’arrivo fosse in un certo punto, ma i ciclisti sapevano che era qualche chilometro prima. Arrivarono in poco più di cinquanta e vinse Ganna davanti a Rossignoli e Galetti. A giocarsi il Giro nell’ultima tappa sarebbero stati loro tre.


TORINO-MILANO 66 206 chilometri

Si scrisse che all’arrivo al Parco Trotter di cover story

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La prima parte di tappa Ganna, Galetti e Rossignoli la passarono a studiarsi. Ganna forò, recuperò e forò di nuovo. Rischiava di perdere ma Galetti e Rossignoli si dovettero fermare tra Busto Arsizio e Rho perché c’era giù un passaggio a livello e gli vietarono di passare. Ganna riuscì così a rientrare. Prima dell’arrivo uno degli oltre 200 cavalli su cui stavano altrettanti lancieri s’imbizzarrì e fece cadere Rossignoli, che arrivò settimo.

«Tutto il ciclismo antico è un gran bruciore là sotto». —

GIANNI MURA

Milano c’erano almeno sessantamila persone. Vinse Beni, come nella prima tappa. Galetti arrivò secondo e Ganna terzo, riuscendo così a vincere il Giro con 25 punti, contro i 27 di Galetti. Al quarantasettesimo e ultimo posto in classifica generale si piazzò Giuseppe Perna, con 297 punti. Gli iscritti prima della partenza della prima tappa erano stati 166, i partenti 127. Il migliore degli isolati fu Carlo Oriani, quinto in classifica. Quello che avrebbe vinto il Giro se la classifica fosse stata a tempo era Rossignoli, che per fare il primo Giro d’Italia ci mise 89 ore e 19 minuti; 25 minuti meno di Galetti e 50 meno di Ganna. All’arrivo ci fu un gran trambusto, un po’ per il pubblico un po’ per le proteste di alcuni sconfitti. Un giornalista chiese a Ganna il classico commento a caldo dopo la vittoria. Lui rispose: «Me brusa tanto el cu». In effetti, come scrisse Gianni Brera, «tutto il ciclismo antico è un gran bruciore sotto». Poi si corsero altri cinque Giri d’Italia prima che iniziasse la Guerra mondiale.

Nel 1910 e nel 1911 vinse Galetti; il primo anno davanti a Pavesi e Ganna; il secondo davanti a Rossignoli e Gerbi. Nel 1912 il Giro si corse a squadre e vinse l’Atala. Nei due anni successivi vinsero Oriani e Alfonso Calzolari, il primo vincitore di Giro d’Italia a non aver corso il primo Giro d’Italia. Nel 1913 debuttò Costante Girardengo, il grande campione, e nel 1914 la classifica divenne a tempo. Quel giro finì il 7 giugno; il 28 il duca Francesco Ferdinando d’Asburgo fu assassinato a Sarajevo. Qualcuno, tra i corridori del primo Giro d’Italia, morì in guerra: tra loro Oriani, dalle parti di Caporetto, e Petit-Breton. Altri, come Ganna e Rossignoli, sopravvissero, corsero e si misero poi a produrre biciclette. Gerbi si ritirò negli anni Venti ma nel 1932 corse, senza però finirlo, il suo ultimo Giro d’Italia. Pavesi divenne direttore sportivo della Legnano, per la quale corsero Girardengo e Binda, che nel 1909 erano un adolescente e un bambino. Nella Legnano corsero anche altri due, nati cinque e dieci anni dopo il primo Giro d’Italia: Bartali e Coppi.


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C'è solo una Gabba I soprannomi accorciano le distanze. Distillando un’intera biografia in un’unica parola, in un istante fanno sembrare conosciute persone mai incontrate prima. Tutti nasciamo con un cognome. All’anagrafe si viene registrati con il nome scelto da genitori e dalla famiglia ma in società, tra gli amici, si nasce davvero soltanto quando un soprannome ti battezza. È un’usanza antica in paesi e quartieri dove spesso i nipoti vanno a prendere il nome dei nonni, oppure negli ambienti sportivi o in quelli di lavoro, quelli in cui si spende moltissimo tempo insieme a degli estranei che in un certo senso, per condivisione della sorte e dello spazio, per destino, del tutto estranei non sono. Quando ci si conosce poco ma bene, i nomi si possono confondere o dimenticare ma i soprannomi, no. I soprannomi sono più facili da tenere a mente. Il nome ti battezza, il soprannome ti rende unico.

Testo Emilio Previtali

Foto Edoardo Civiero / Archivio Castelli


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Le origini. A sinistra un giovanissimo Steve Smith. A destra Gabriel Rasch ai tempi del Team Garmin con indosso una gabba.

Senza soprannome, in gruppo, non esisti. Si accettano i soprannomi più ridicoli, feroci e offensivi. Un soprannome è in qualche modo un destino. Dai grandi capitani ai piccoli gregari, tutti hanno soprannomi o meglio: tutti hanno un contro-nome. Può nascere nel modo più casuale, alcuni sono una storpiatura del nome, altri definiscono un atteggiamento o un’attitudine, altri arrivano per abitudini singolari. Bernard Hinault in gruppo era il Tasso, per via di quella posizione in sella piuttosto bassa e allungata e per la sua tendenza a sembrare pacioso e distratto, prima di diventare spietato e feroce al momento di catturare sua la preda. Laurent Fignon era il Professore. Alfredo Binda era il trombettiere, per via della passione per la musica e per il fatto di suonare nella banda del suo paese, Civiglio. Paolo Bettini era il Grillo per il suo modo di correre e più probabilmente per il suo modo di essere vitale e allegro, scattante, sempre. Fabian Cancellara era Spartacus e Claudio Chiappucci El Diablo. Potremmo andare avanti per ore. Gabriel Rasch è stato un corridore in attività come professionista tra il 2002 e il 2014 ed ha corso tra le altre squadre nella Crèdit Agricole, nel team Garmin Cervelo e nella Sky. Il suo soprannome in gruppo – anche oggi, che è Sport Director del Team Ineos – è Gabba. Gabba è lui: Gabriel Rasch. Ma se oggi dite Gabba a qualsiasi ciclista professionista (e ormai anche a un amatore) non gli verrà in mente soltanto una persona ma anche una cosa. Un prodotto. La gabba è oggi universalmente conosciuta come quel capo di abbigliamento da utilizzare in condizioni di pioggia, di freddo e di vento che per certi versi ha rivoluzionato il nostro modo di vestirci andando in bicicletta, oltre che cambiare il nostro punto di vista rispetto alle giornate prima considerate inadatte per pedalare e divertirsi.

L’idea

Gabriel Rasch è nato in Norvegia. Diventare ciclista professionista se sei norvegese significa almeno due cose: che devi avere una determinazione e una dedizione all’allenamento certamente superiore rispetto a un tuo collega che nasce in un paese caldo; e che devi continuamente escogitare delle strategie e delle soluzioni per resistere alle condizioni meteorologiche avverse. La Norvegia è un luogo freddo e piovoso, senz’altro più adatto allo sci nordico che non al ciclismo. «Nell’agosto del 2009 Castelli aveva avviato una sponsorizzazione con il Team Cervélo ed io come succede sempre ero andato a parlare con gli atleti per vedere se si poteva studiare qualcosa, qualche prodotto o qualche idea per migliorare i nostri capi e di conseguenza le loro performance in gara». A parlare è Steve Smith, storico Brand Manager di Castelli. «Ci eravamo riuniti a parlare con un gruppo di corridori, tra cui c’era Gabriel Rasch». Non sempre è facile avere a che fare con i corridori e ottenere la loro attenzione e i loro feedback per sviluppare e mettere a punto dei prodotti nuovi, ma Gabriel mostrava una sensibilità particolare. «Dopo una breve chiacchierata insieme a tutti gli altri è salito in camera a prendere un capo che diceva di essersi costruito da solo: si trattava di una vecchia rain jacket impermeabile a cui aveva accorciato le maniche e che era assolutamente non traspirante e non aerodinamica. A me francamente pareva uno straccio di plastica, secondo lui invece funzionava benissimo». La rivoluzione nello sviluppo dei prodotti nel campo dell’abbigliamento per il ciclismo dipende sostanzialmente da due fattori, secondo Steve Smith: miglioramento aerodinamico e miglioramento del comfort del corridore. I due elementi


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Passione. Il confine tra passione e professione, per Steve Smith, è inesistente.

si integrano e si combinano tra loro: l’aerodinamica consente di ridurre la spesa energetica e quindi di watt necessari per l’avanzamento dell’insieme uomo-bicicletta. Ogni watt risparmiato produce un miglioramento diretto della performance dell’atleta. L’altra strada per procedere nel miglioramento della performance è mettere un corridore in condizioni di stare più comodo e più a suo agio in sella e quindi, indirettamente, massimizzare e ottimizzare nel tempo la sua prestazione sportiva. «L’idea di Gabriel era in un certo senso rivoluzionaria: secondo la sua esperienza di atleta abituato a pedalare in condizioni difficili, sotto la pioggia e al freddo, era impossibile pensare di rimanere completamente asciutti pedalando sotto l’acqua. Era possibile però mantenere una temperatura corporea accettabile evitando che l’umidità a contatto con la pelle, proveniente dalla traspirazione, si mescolasse con quella esterna proveniente dagli indumenti bagnati dalla pioggia e raffreddati dall’aria». La chiave era secondo Gabriel, la separazione dell’umidità interna da quella esterna e il controllo del flusso d’aria sulla pelle. «Tornai a casa con questo feedback e con il suo prototipo artigianale e ci lavorammo su. Potevamo senz’altro rendere la giacca di Gabriel migliore dal punto di vista aerodinamico, tanto per cominciare. Ci indirizzammo subito su un tipo di tessuto Windstopper prodotto da Gore che era al tempo stesso impermeabile, leggero, elastico e traspirante. All’inizio ci concentrammo sul taglio e sulla forma, l’idea fu quella di partire dalla nostra Aero Race Jersey adattando la vestibilità al tessuto leggermente più spesso e alla necessità di indossare quello strato supplementare sopra al classico race kit. A dire il vero, dissi a chi doveva sviluppare il modello di non perderci troppo tempo, immaginavo che stessimo lavorando per un prodotto specifico per gli

atleti da usare soltanto in situazioni particolari, in gara, per pochi giorni all’anno. Non pensavo che il prodotto che stavamo per creare avrebbe cambiato totalmente l’idea che abbiamo del ciclismo e del pedalare nelle giornate di brutto tempo».

La rivoluzione

Steve Smith è nato e cresciuto a Portland, in Oregon, non un luogo particolarmente rinomato per il suo clima mite e per avere condizioni favorevoli al ciclismo. Lavora come Brand Manager per Castelli dal 2005. La sua storia con il ciclismo comincia da bambino, a tredici anni: «Mi sono innamorato dello sport sbagliato, in un certo senso. Un po’ come uno che in Italia si innamora del baseball, a quell’epoca negli Stati Uniti il ciclismo era uno sport che non seguiva quasi nessuno. Ho ricevuto in regalo dai miei genitori una bicicletta da corsa e pedalare ha significato sin da subito per me viaggio e avventura. Il week-end successivo a quello in cui avevo ricevuto la bici in regalo, con un mio coetaneo vicino di casa, armati di carte geografiche e di entusiasmo, ce ne eravamo andati a fare una gita di 160 chilometri. Leggendo le mappe avevamo sbagliato un po’ di calcoli. Siamo rimasti per dodici ore lontani da casa, allora i telefonini non esistevano. I miei genitori non pensavano di rivedermi più vivo». Oggi Steve ama soprattutto pedalare con la sua gravel su strade poco battute e silenziose, il più a lungo possibile. Il gusto per l’avventura in bici è sempre lo stesso. Sicuramente è la passione per il ciclismo allo stato puro e cristallino a metterlo in condizione di capire esattamente i bisogni dei ciclisti professionisti e anche quelli di un semplice appassionato: «Un professionista trascorre qualche migliaio di ore ogni anno in sella a una bici, in tutte le condizioni. Non c’è nessuno al mondo che meglio di


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L’evoluzione nel campo dell’abbigliamento per il ciclismo dipende sostanzialmente da due fattori: miglioramento aerodinamico e miglioramento del comfort del corridore. un professionista può dirti cosa funziona e cosa no, in un capo di abbigliamento o in un tessuto ideato per il ciclismo. Alcuni atleti oltre che fornirti dei feedback sanno anche fare molto di più e riescono ad arrivare da te direttamente con delle possibili soluzioni, si tratta di ascoltarli e assecondarli nelle loro richieste».

La Sanremo del 2013

«Il nostro prodotto era stato sviluppato e messo a punto nei minimi dettagli e aveva a quel punto anche un nome: gabba, in onore di Gabriel Rasch. Era sostanzialmente una maglia da ciclismo idrorepellente e traspirante da indossare sopra il classico race kit. Secondo i nostri atleti e direttori sportivi (nel frattempo il Team Cervélo era diventato il Team Garmin–Cervélo) la gabba era una vera e propria arma segreta in grado di mettere gli atleti in vantaggio rispetto agli avversari in condizioni di freddo e umido, come spesso succede nelle gare del Nord, in Belgio e nelle Ardenne». Inizialmente, nei primi prototipi erano stati applicati degli inserti in tessuto sotto le braccia per migliorare vestibilità e traspirabilità, poi la collaborazione con Gore ha consentito di realizzare la maglia in un tessuto omogeneo. «Il team Garmin–Cervélo ci chiedeva di non fornire ad altre squadre quel prodotto, almeno fino a quando qualcuno inevitabilmente sarebbe arrivato con una copia o con qualcosa del genere». A quel punto non si parlava più di un capo di abbigliamento, ma di una vera e propria attrezzatura sportiva, della creazione di una cosa che prima non esisteva. In realtà il vantaggio iniziale durò

parecchio e tuttora persiste, la gabba originale è una soltanto. Nel 2013 la voce in gruppo iniziò a correre e più o meno indirettamente gli atleti cercarono di entrare in possesso di una gabba da usare, se non in gara, almeno nei giorni di allenamento sotto la pioggia. Non sempre, in teoria, i contratti di sponsorizzazione consentivano agli atleti di utilizzare la gabba. In pratica però, trattandosi di un capo di abbigliamento unico che nessun’altra azienda produceva, ed essendo nelle sue prime versioni di colore nero integrale, agli atleti era sufficiente cancellare il logo Castelli stampato sul petto con un pennarello nero e rendere il marchio irriconoscibile. La giacca di colore nero aveva qualcosa di misterioso e unico. Steve Smith va particolarmente orgoglioso di questa cosa: «Alla Sanremo del 2013 nevicava e gli atleti in gara soffrivano veramente tanto. Faceva un freddo pazzesco. In quell’occasione gli atleti attrezzati con la gabba stavano molto meglio degli altri, il prodotto a quel punto esplose, anche nelle vendite, dato che lo mettemmo in collezione ed era richiestissimo. Nel pre-gara e in corsa, dall’ammiraglia, passai agli atleti che me lo chiedevano tutte le gabba che avevo. Nei giorni successivi alla gara eravamo subissati di richieste anche da parte di team e di corridori forniti da altre aziende. Realizzammo una confezione regalo speciale che oltre alla gabba conteneva anche un pennarello nero, la donammo a molti corridori professionisti amici. Ironicamente li invitavamo a cancellare il nostro marchio per evitare problemi con i loro sponsor. Regalare la gabba era anche un modo per farci apprezzare e


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volere bene dai corridori». Circola voce che Fabian Cancellara nella primavera di quell’anno mandò un amico in un negozio che vendeva abbigliamento Castelli a Lugano comprare due gabba, una da usare in gara e un’altra per l’utilizzo in allenamento. Chiediamo a Steve se è vero o se si tratta di una leggenda metropolitana. «Fabian è un vero signore e un amico e non chiede mai nulla».

Il futuro

La gabba è il capostipite di una categoria di prodotti. Oggi nella collezione Castelli esiste una serie di capi di abbigliamento che rendono il ciclismo nei giorni di umidità, di freddo e di pioggia un’esperienza comunque entusiasmante, in questo senso tutti i ciclisti del mondo devono molto a Gabriel Rasch e a Steve Smith. I prodotti evolvono continuamente, il processo di rielaborazione dei feedback è praticamente infinito e la partnership con Gore ha consentito l’invenzione di una cosa che non esisteva. La gabba è giunta intanto alla sua terza generazione e viene realizzata in un materiale che si chiama Gore® Windstopper® X-Lite Plus. Per il prossimo anno è stata messo a punto una nuova versione con il tessuto Infinium. La membrana presente nel tessuto Windstopper è elastica e flessibile, ricoperta da milioni di pori 900 volte più grandi delle molecole di vapore acqueo. In questo modo il vento non penetra all’interno del tessuto e il vapore prodotto dalla traspirazione è in grado di fuoriuscire all’esterno. Anche dal punto di vista dei materiali, rispetto all’idea originaria di Gabriel Rasch di utilizzare una membrana impermeabile totalmente non traspirante, sono stati fatti passi da gigante. I miglioramenti hanno sempre a che fare, oltre che con la protezione e con l’isolamento termico, anche con la vestibilità e con soluzioni apparentemente

Deve essere una soddisfazione enorme andarsene in giro a pedalare sotto la pioggia e vedere, in tutto il mondo, dei ciclisti che indossano una gabba: qualcosa che prima non esisteva e che adesso esiste e che hai ideato tu. secondarie. Nelle tasche posteriori della gabba sono posizionati tre fori per drenare l’acqua, praticare un foro con un laser non è di per sé, oggi, una grande difficoltà tecnologica. La vera rivoluzione è stata l’idea di accettare che l’umidità e la traspirazione potessero stare anche all’interno del capo di abbigliamento. La cosa difficile è scegliere i tessuti e le membrane e soprattutto stabilire dove posizionare esattamente i fori e le cuciture per garantire oltre che l’impermeabilità anche la possibilità di traspirare e asciugare più rapidamente. Steve Smith è una persona molto modesta ma è chiaro che va orgoglioso dei suoi prodotti perché hanno contribuito a rendere migliore la vita di tutti i ciclisti del mondo, non soltanto professionisti. «Qui a Feltre in primavera o in autunno piove spesso. Per via del mio lavoro non ho molto tempo per uscire in bici durante la settimana, ho solo la pausa pranzo in alcuni giorni fissi. Quando non esistevano la gabba e i prodotti che ci siamo inventati dopo ero costretto a saltare l’allenamento oppure ad andare a correre. Adesso si tratta solo di avere due kit di abbigliamento diversi a disposizione, uno dei due adatto alle giornate più umide e magari piovose. Non perdo più nemmeno un giorno di allenamento per colpa del cattivo tempo». Deve essere una soddisfazione enorme andarsene in giro a pedalare sotto la pioggia e vedere, in tutto il mondo, dei ciclisti che indossano una cosa che prima non esisteva e che adesso esiste e che hai ideato e messo a punto tu. A Gabriel Rasch e a Steve Smith, succede.


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RAISE YOUR COMPETITION

Enervit Sport Competition Bar

CARBO-MIX

Competition Bar è la barretta più tecnica all’interno della linea Enervit Sport. La sua formulazione a base di carboidrati e a basso contenuto di grassi, è studiata per contribuire al *metabolismo energetico durante lo sport, diventando così, un vero supporto per la performance. Provala nei gusti Arancia, Albicocca e nei nuovi gusti Banana-Vanilla e Red Fruits.

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*La Vitamina B1 contribuisce al normale metabolismo energetico. Si raccomanda di seguire una dieta variata ed equilibrata e uno stile di vita sano e di attenersi al modo d’uso e alle avvertenze riportate in etichetta.

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Pedalare (e bere vino) in Borgogna Foto Federico Ravassard

La strada per arrivare in auto in Borgogna, partendo dall’Italia, è abbastanza lunga. Io e Federico ci incontriamo a Torino nel primo pomeriggio e proseguiamo per Digione, che è conosciuta nel mondo per i suoi vini, per la presenza di differenti stili architettonici, dal gotico all'art déco e a quanto pare anche per la senape, la cui qualità è particolarmente forte per via del suolo calcareo della regione. Io e il mio compagno di viaggio non ci intendiamo di vini e tantomeno di senape ma ci piace vedere di bei posti, incontrare persone interessanti e ci piacciono le biciclette.


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Sì, le biciclette, è per questo che siamo venuti fino a qui. Al tramonto quando arriviamo, con una luce contrastata e calda, del tutto inaspettata, raggiungiamo il luogo del nostro appuntamento con Pascal Care di Lapierre, che ci attende per cena. Il posto dove ci incontriamo, dopo molte ore di automobile, sembra davvero fuori dal mondo. Di fronte all’hotel dove siamo alloggiati ci sono ovunque, in un paesaggio dolce e collinare, vigneti coltivati ad alberello. Le costruzioni sono quasi tutte in pietra antica e le strade sono poco trafficate e ben tenute, ordinate. I muretti in pietra a delimitare i vigneti danno decisamente l’impressione di contenere al loro interno qualcosa di importante e prezioso. Siamo arrivati in un luogo dove si vive bene e la gente viene in visita o in vacanza per mangiare o degustare vini, è un posto a prima vista anomalo per insediare una fabbrica di biciclette.

Gli uffici di Lapierre a Digione sono un luogo tranquillo e ordinato, ci lavora gente giovane appassionata di ciclismo. Ogni pausa pranzo o fine giornata è l’occasione per farsi un giro in bicicletta. Non sembra soltanto un posto dove si va a lavorare, sembra piuttosto un ciclo-club. Pascal Care è un ragazzo alto e magro, si capisce che ha un passato da corridore e da triathleta. È la persona che si prenderà cura di noi in questa visita di qualche giorno in Borgogna e alla Lapierre, per cui lavora come addetto alla comunicazione e alle relazioni con la stampa. Lapierre è un’azienda nata nel 1946 da Gaston Lapierre e guidata in seguito dai suoi figli e nipoti. Tutto in Borgogna, dall’architettura al paesaggio fino ad arrivare alle persone e ai luoghi o all’arredamento delle stanze offre la sensazione di essere lì da tanto tempo. Nel ristorante dove andiamo a cena e abbiamo opportunità di conoscerci e di parlare

con Pascal, sembra in effetti di essere in un luogo dove si celebra un rito o una liturgia, più che consumare un pasto. Assaggiamo una grande varietà di piatti e di vini eccellenti, anche due inesperti scappati di casa come me e Federico riescono se guidati da un esperto, quale è lo chef del ristorante, ad apprezzare differenze e caratteristiche organolettiche di ogni vino. Salute. Dopo cena andiamo a letto presto nel nostro albergo che ha più l’aspetto di una fortezza secolare che di un hotel. Il mattino presto, sempre con il cielo azzurrissimo e con la luce chiara e cristallina (veniamo da settimane di pioggia continua) arriviamo allo stabilimento e agli uffici di Lapierre. È un luogo ordinato e accogliente dove regnano armonia e tranquillità. Negli uffici, che visitiamo in un veloce tour, lavorano ragazzi giovani che si capisce che sono pedalatori appassionati. Accanto alle loro scrivanie, a terra, ci sono borsoni che contengono evidentemente abbigliamento da ciclismo, quasi tutti quelli che incontriamo e a cui stringiamo la mano per salutare ci danno appuntamento al tardo pomeriggio per la Lapierre Social Ride a cui siamo stati invitati a partecipare. Dopo la visita agli uffici e allo show room (restiamo incagliati con lo sguardo come era prevedibile nella Aerostorm, la bici da cronometro della Groupama FDJ e del nostro amico Jeremy Roy, di cui abbiamo parlato sul primo numero di Alvento, oltre che nelle numerose e bellissime bici da enduro) passiamo all’area di produzione. Il trasferimento da una zona all’altra dell’azienda, dai nuovi locali alla parte originaria della sede, avviene attraverso una serie di passaggi e corridoi. Entrati dentro all’area di produzione vediamo finalmente centinaia di telai che stanno per essere assemblati. Siamo particolarmente fortunati, oggi in lavorazione ci sono le Aircode e le Xelius SL Disc, le bici da strada più performanti di Lapierre, che saranno anche le biciclette su cui pedaleremo nel pomeriggio e questa sera per la Social Ride. Nello stabilimento, che è in fase di ampliamento e riorganizzazione vengono montate ogni anno 17.000 biciclette di alta gamma, suddivise tra strada, mtb ed e-bike, mentre in un altro stabilimento fuori Digione vengono costruite e assemblate le bici commuter e touring. A colpirci particolarmente è il reparto di pre-assemblaggio,


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«Le biciclette diventano sempre più complesse ed evolute, il lavoro di fabbricazione e di montaggio si è in un certo senso semplificato e in un altro standardizzato. A fare la differenza però, è sempre l’uomo».

sproporzionatamente grande rispetto all’atelier di montaggio vero e proprio. Pascal ci spiega che con l’avvento del cambio elettronico, con il passaggio interno di quasi tutti i cavi e con l’arrivo delle e-bike la fase di preparazione e pre-allestimento dei telai porta via circa il 25% del tempo del montaggio di una bicicletta. La bici ormai è a tutti gli effetti un oggetto tecnologico che integra meccanica ed elettronica. Anche per questo, per via della complessità, è necessario gestire con cura ogni fase della lavorazione e controllare accuratamente la produzione. Parliamo con il responsabile del controllo della qualità e con il direttore di produzione ma a attirare la nostra attenzione è sin da subito un signore che è al lavoro alla sua postazione con un grembiule e una fascia a tracolla che sembra quella di un sindaco. Chiediamo a Pascal di chi si tratta. Scopriamo che è un operaio al suo ultimo giorno di lavoro, domani andrà in pensione. È il nostro uomo, andiamo subito a parlare con lui. È un tipo molto affabile e alla mano. Si chiama Pascal Roler e ha lavorato per Lapierre per 42 anni filati. Del suo primo giorno di lavoro, il 22 giugno del 1977, ricorda il caldo e il cielo brillante e azzurro, lo stesso di oggi. «L’azienda allora era una cosa differente». Ci spiega che ha iniziato a lavorare come saldatore, allora le biciclette erano tutte in acciaio

e lui proveniva da una precedente esperienza come meccanico. Aveva più passione per la saldatura e per i metalli che per la bicicletta, ci confessa Pascal mentre lavora. Sta montando una Aircode con una manualità e una fluidità dei gesti, con una velocità delle operazioni, con una maestria che è affascinante da stare a vedere. Mentre tira i cavi dei freni nelle loro guaine spiega come sono cambiati il lavoro e l’azienda in questi suoi 42 anni di carriera, il cambiamento delle sue mansioni corrisponde in realtà anche al cambiamento dell’industria della bici: «All’inizio il mio lavoro era esclusivamente quello di saldare. Poi è arrivato il carbonio e io sono passato al reparto di verniciatura. Infine negli ultimi anni sono arrivato al montaggio. Le biciclette sono sempre più complesse ed evolute, il lavoro si è in un certo senso semplificato e in un altro standardizzato. Le bici arrivano a me pre-assemblate, io ho il compito di montarle e verificare che tutto il lavoro sia stato fatto a regola d’arte». Al termine di ogni assemblaggio in Lapierre ogni montatore applica sulla bicicletta un codice a barre che rappresenta in un certo senso la firma sul proprio lavoro. «È un modo per controllare e garantire i nostri prodotti, oltre che per gratificare gli operai al lavoro e riconoscergli il valore del lavoro che svolgono» - ci spiega l’altro Pascal. Auguriamo al signor Roler di godersi la pensione e la sua nuova vita, gli chiediamo se è un ciclista appassionato. «Non proprio – ci


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risponde – ma ora probabilmente lo diventerò. Non posso mica passare tutto il mio tempo al bar!». Dopo la visita agli stabilimenti abbiamo due giorni interi per pedalare sulle colline e nei vigneti che circondano la città di Digione. La zona, come era facile intuire, è bellissima. Non ci sono salite lunghe e continue ma piuttosto dei ripidi strappi e dei mangia-e-bevi che si succedono senza tregua. È necessario gestirsi e moderare l’entusiasmo, soprattutto nelle prime fasi, se non ci si vuole trovare con le gambe segate in due dalla fatica. Le stradine costeggiano o attraversano i vigneti, capita spesso di percorrere dei tratti sterrati o di gravel. Per alcuni di questi sono più che sufficienti le ruote da 28mm con cui sono attrezzate le nostre Xelius SL. Le colline della Borgogna corrono a sud-est di Digione, gli itinerari migliori costeggiano

i vigneti e li scavalcano in una serie di côte successive che consentono di accedere a una zona di altipiano soprastante. Inoltre una serie di bellissimi itinerari percorrono il Canal de Bourgogne che è fiancheggiato e incrociato da piste ciclabili e strade bellissime e poco battute. Il Canal de Bourgogne è una via d’acqua che passa proprio a Digione e che rappresenta verso nord-ovest la direzione principale di moltissimi itinerari cicloturistici che vale la pena di andare a conoscere. Alle sette del pomeriggio ci troviamo con tutti i ragazzi che lavorano in Lapierre e con alcuni clienti per la tradizionale social ride che a quanto capiamo è il momento di aggregazione ufficiale del mercoledì. In effetti tutte le sere dopo il lavoro e in tutte le pause pranzo i dipendenti di Lapierre, a piccoli gruppetti, escono in bici. «Prima uscivamo quasi


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tutti con la mtb – ci dice Pascal Care – ora invece con le bici da strada o con la gravel». I segmenti in cui Lapierre sta crescendo molto sono la strada e le e-bike. L’appuntamento del mercoledì avviene al Lapierre Experience Center che è anche un negozio e uno show-room, oltre che un punto di aggregazione e un centro di formazione per tutti i rivenditori Lapierre (soltanto in Francia ci sono 470 punti vendita). A partire dalle 18.30 i partecipanti cominciano ad arrivare alla spicciolata e alle 19 in punto il negozio chiude, i ragazzi che ci lavorano si mettono gli indumenti da bici e la gita parte. Il ritmo è da subito schizzofrenico, forse per l’ansia di anticipare il buio si comincia a pedalare a velocità folli. A tratti pedalati a 50 km/h a nord di Digione si alternano sezioni a 5 km/h per aspettare che il gruppo si ricompatti. Ogni côte è una buona occasione per un fuori soglia e per

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spaccarsi quadricipiti e polmoni. Una volta capita l’antifona e messi a fuoco i soggetti a cui non tenere la ruota perché sprinteranno immancabilmente ad ogni cartello stradale di ingresso in paese, il gioco diventa divertente. Percorriamo una cinquantina di chilometri a ritmo altalenante e sincopato, alternando tratti da bava alla bocca a sezioni in cui si viaggia pianissimo, si chiacchiera, si ride e si scherza. Dirigenti, impiegati e operai di Lapierre pedalano insieme. I clienti del negozio e gli affezionati del marchio si mescolano al gruppo, ci sono uomini, donne, atleti, ex atleti, atleti fuori forma, atleti che paiono fuori forma ma che invece sono in formissima e hanno una gamba da paura. Pensavamo che questa gita a conoscere Lapierre e le sue


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Le colline della Borgogna si trovano a ovest di Digione, gli itinerari migliori costeggiano i vigneti e li scavalcano in una serie di côte che consentono di accedere a una zona di altipiano. Altri itinerari invece si trovano lungo il Canal de Bourgogne che è fiancheggiato da piste ciclabili ben tenute e poco battute.


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biciclette sarebbe stata interessante ma immaginavamo in fondo una di quelle solite occasioni in cui tra stampa e azienda che presenta il suo universo tutto resta molto in superficie e distaccato. In Lapierre non è così, tutto è molto autentico e sincero. Ciò che guida e ispira i ragazzi che ci lavorano, sotto la guida di messieur Gilles Lapierre e all’interno di Accel Group, società olandese che detiene la proprietà del marchio, è la passione sincera. Autenticità è la parola chiave per descrivere questa azienda e chi ci lavora. Il viaggio mio e di Federico termina con un’ennesima pedalata con le bici

gravel sulle colline della Reserve Naturelle La Combe Lavaux-Jean Rolland e con un tour di degustazione nello Chateau de Marsannay. In vino veritas. Abbiamo bevuto tantissimo, almeno per le nostre abitudini. Il viaggio di ritorno a casa è stato eterno. In Borgogna, senz’altro, torneremo a pedalare e a trovare i nostri nuovi amici. Prosit. Ulteriori informazioni: www.lapierrebikes.it


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Testo e foto di Silvia Parisi

BIKINGMAN

Oman

“Se ti chiedono di andare a seguire una gara di ultra-cycling tra le montagne, le dune e la costa del mare d’Arabia, cosa fai? Non ci vai? Sono stata dietro, davanti e al fianco dei corridori di BikingMan, 1.039 km di avventura, in Oman”. START

Barka

FINISH DATA CHILOMETRI

Muscat 24 febbraio 2019 1050 km

DISLIVELLO

7200 m

DURATA

5 gg/120h

TERRENO

95% asfalto, 5% gravel

CHECKPOINT

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Quando ho ricevuto la chiamata di Axel Carion, fondatore di BikingMan, ero a Chamonix da qualche mese, e diciamo che col francese non ero ancora del tutto a mio agio: questo sconosciuto dalla voce squillante, entusiasta e un po’ iperattivo mi stava veramente invitando ad andare in Oman, una settimana, a seguire una gara di ciclismo di 1.000 e passa chilometri? Nel deserto? Aspetta un attimo… Oman, Oman… ok. Penisola Araba, ci sono. Che poi, dici “Penisola Araba” e uno pensa subito a Dubai, al lusso estremo ed ostentato, a grattacieli e alle piste da sci dentro enormi centri commerciali. Beh, scordatevelo: l’Oman, è tutt’altra cosa. Giusto una piccola parentesi geo-politica: questo paese che confina con gli Emirati Arabi e che ne condivide la ricchezza derivata dal petrolio ha saputo conservare una orgogliosissima identità, legata alla cultura e alla tradizione. L’Oman è un paese affascinante, elegante, dove antichità e modernità vanno a spasso insieme su strade perfettamente tenute, anche in mezzo al deserto. Sicuramente dietro a questo sviluppo ci sono i 48 anni di governo illuminato del sultano Qaboos Bin Said alSaid: le sue foto sono dappertutto e ovunque si vedono gli effetti delle sue scelte politiche, verso la parità di diritti delle donne, in un paese dove la religione islamica è legge, verso un turismo intelligente, senza dubbio verso lo sport. Già, perché a quanto pare paesi come il Qatar e l’Oman sono diventati il luogo ideale per

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maratone, triathlon, eventi sportivi in generale, ciclismo compreso. BikingMan è uno degli esempi più estremi di queste competizioni, perché si tratta di un circuito di gare senza assistenza, in zone del mondo piuttosto particolari come Laos, Perù, Corsica, Portogallo e appunto l’Oman. L’evento è organizzato da un gruppo di appassionati di ultra-ciclismo e di avventura. Per chi è interessato alle cifre, vi dirò solo che i chilometri delle tappe di BikingMan non son mai inferiori a 700. Per quanto riguarda il dislivello, la tappa più accessibile è l’Oman, con i suoi 7.200 metri. La cosa bella di tutto questo è che può partecipare chiunque, dall’atleta all’amatore: il denominatore comune è la voglia di vivere un’esperienza intensa, con sé stessi o con un compagno, esplorando un territorio sconosciuto, in completa autonomia. Ovvio, l’organizzazione monitora continuamente i corridori per tutta la durata della gara e sì, ci sono dei check-point da rispettare, con a disposizione del cibo (molto local) e dei materassi (per sonni molto rapidi). Per tutto il resto del viaggio, ci sei tu e sei da solo. Tu che parti, con il resto del plotone, alle 3 del mattino, per affrontare i primi 358 km e 3.600 D+ che da Muscat, capitale omanita, ti portano ad addentrarti verso le montagne del massiccio di Al Hajar, su strade grandi e dalla pendenza tranquilla, che attraversano spazi immensi. Prima vedi scorrere le colline grige che si illuminano di rosa mano a mano che sorge il sole. Poi arriva il vero mostro della gara: la temibile salita



La cosa bella delle gare di ultracycling è che può partecipare chiunque, dall’atleta all’amatore: il denominatore comune è la voglia di vivere un’esperienza intensa, da soli o in team con un compagno, esplorando un territorio sconosciuto, in completa autonomia.


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L’ultracycling non è uno sport ma piuttosto un’avventura. Vita quotidiana e ciclismo si mescolano, ed è proprio questo il bello: accogliere l’incognita.

di Jebel Sham, il primo check-point è proprio là in cima. Sono 21 chilometri di puro sudore, gli ultimi 5 sterrati a pendenze che arrivano fino al 18%, attraverso paesaggi lunari, canyon rocciosi, enormi pareti, sotto un sole più o meno cocente a seconda dell’orario. Se sei tra i primi in classifica ti capita di attaccarla tra mezzogiorno e le cinque del pomeriggio del primo giorno di gara. Ma chi se la prende con più calma la affronta la mattina del secondo giorno, dopo una dormita in uno dei piccoli hotel dei villaggi sulla strada o a casa di locals molto gentili che ti hanno invitato a dormire da loro, dopo averli incontrati al ristorante. Al check-point l’atmosfera è densa di emozioni: c’è chi fissa il vuoto senza parlare, chi chiacchiera senza sosta, chi mangia e basta. C’è chi dorme. C’è chi arriva e riparte subito, perché dopo la salita c’è la discesa, piuttosto tecnica e altrettanto inquietante, a gambe stanche e magari al buio. Prima tappa superata? Fantastico, la seconda è quella che arriva al magnifico mare d’Arabia, sì. Però prima devi mangiare un bel po’ di sabbia,

per quasi tutti i 400 chilometri nel deserto di Ash Sharquiah. Dune, città, dune e città. È incredibile come in un luogo del genere ci siano delle zone abitate: le casette basse e i minareti che spuntano qua e là, si diffondono orizzontali su questa landa desertica. Con venti euro facciamo il pieno di benzina alla macchina e continuiamo a seguire la gara, stando dietro, di fianco, davanti ai corridori, ormai sparpagliati lungo il percorso, che nonostante tutto ancora ci sorridono. Qualcuno delira. Steven Le Hyaric, 32 anni, francese, ex corridore élite convertitosi al ciclismo d’avventura, mi implora di smettere di fargli domande dalla macchina. Jacques Barges, 66 anni di grinta, mi ha confessato che in alcuni momenti si è visto affiancare da un ciclista immaginario. Capita anche questo. La coppia Christian Auriemma e Jeff Webb, arrivati a loro dire impreparati e davvero allo sbaraglio con un «Miriamo ad arrivare alla finish line» sono rimasti lucidi quasi tutto il tempo, fino a tagliare il traguardo come primo team classificato, dopo 58h59m. Tra allucinazioni e momenti di razionalità, tutti quanti strabuzzano gli occhi quando arrivano di fronte al mare. La tentazione di buttarcisi dentro con la bici è tanta. I più rilassati si permettono di pucciare i piedi. E poi ripartono. Il secondo check-point è quasi raggiunto. E poi c’è la terza e ultima tappa: 281km, 2.600 metri di dislivello. Una tappa meno lunga, forse un po’ più noiosa, specie se hai il vento contro. Peggio ancora, se ti ritrovi dentro una tempesta



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Sorrisi e deliri. Con venti euro facciamo il pieno di benzina alla nostra ammiraglia e continuiamo a seguire la gara, stando dietro, di fianco, davanti ai corridori, ormai sparpagliati lungo il percorso. La maggior parte ancora ci sorridono, altri delirano.


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di sabbia. Ma hai voluto l’avventura? Eccotela servita. E così che tutti quanti si ritrovano alla fine, di nuovo a Muscat, dopo 1.039 km, e dopo aver più o meno condiviso momenti assieme, sicuramente avendo qualcosa da raccontarsi. Performance, tecniche, momenti di gloria e momenti di vera galera, incontri con persone curiose e sorridenti, o perché no, anche con cammelli e capre. Quello che rende speciale BikingMan è che non avendo assistenza, il cibo bisogna procurarselo, l’acqua pure, il posto per dormire, idem. E questo ti costringe a studiare il percorso e a controllare le distanze tra un centro abitato e l’altro, per evitare di trovarsi senza acqua nei punti sbagliati. Calcolare le riserve, i pasti, il materiale di ricambio per eventuali problemi

Con una bici da strada dalle coperture maggiorate, da 30 o 32 mm, si può andare quasi dappertutto. Anche nel deserto. meccanici. Cosa porto? Cosa non porto? E se manca qualcosa, il bello del gioco è fermarsi in un villaggio sperduto dove la gente all’inizio si chiede che cosa diavolo stai facendo e poi ti aiuta a trovare quello di cui hai bisogno. E poi inizia a parlarti senza sosta, in uno scambio di gesti e parole incomprensibile, ma che resta comunque uno scambio che non dimenticherai mai. Una gara? Un viaggio? Un’avventura? BikingMan è un po’ di tutte queste cose insieme.


STUDIO BI QUATTRO

brand 100% italiano di abbigliamento e calzature, con produzione propria in Europa

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WWW.MONTURA.IT WWW.MONTURASTORE.COM Foto di Giampaolo Calza

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chiedilo al vento [bikepacking sulle isole FĂŚr Ă˜er]


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Mi presento. Sono quello che su Alvento, non te lo aspetti. Quello sul quale alle superiori non avresti mai scommesso. Quello che ai rulli preferisce allenarsi leggendo London, Chatwin, Bonatti. Uno di quelli cresciuti a pane-burroe-marmellata, ginocchia sbucciate e cartoni animati di robot che facevano cose increbili mentre il magico mondo degli anni ’70 esplodeva in tutti suoi colori e la Colnago rossa fiammante del nonno era un miraggio che si materializzava ogni sabato pomeriggio dopo la scuola per accompagnarci nella rituale scampagnata fuoriporta con gli amici.

Testo e foto Fulvio Silvestri

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«Ogni viaggio in un luogo in cui sono già stato è come tornare a trovare un amico. È un piacere che si rinnova e che mi fa stare davvero bene. Ogni volta conosco meglio il mio amico e posso offrirgli un altro pezzo di me».

Sono sempre stato un tipo tranquillo e inquieto allo stesso tempo, oggi come allora. Uno che ama alzarsi presto la mattina per avere tutto il tempo di gustarsi una buona tazza di caffè ascoltando un po’ di musica prima di consegnarsi a un nuovo sole. Mentre scorro le notizie del giorno lascio che l’intricata matassa di pensieri che mi affollano la testa dopo la notte si srotoli secondo il suo corso naturale e, in mezzo a tutte quelle voci, non posso ignorare il sottile richiamo della prossima avventura in bicicletta. Avventura che certe volte nasce in un sogno e certe altre nel racconto di qualche amico. Le avventure per me, all’inizio, non hanno né corpo né dettagli ma hanno un profumo, sin dalla prima idea. Ricordo che in una mattina come tante altre, mentre buttando giù una tazza di caffé bollente facevo pace con la notte appena trascorsa, il mio sguardo assonnato si era posato per un tempo più lungo del solito su una foto incorniciata appesa in casa, che avevo scattato anni prima in Islanda. Non era il mio primo viaggio lassù: per la terza volta in tre anni, infatti, avevo voluto pedalare in quella terra meravigliosa e brutale, compiendo quello che sarebbe stato il viaggio definitivo. Quello che avrebbe dovuto placare una volta per tutte la mia sete per la scoperta di ogni

più piccolo dettaglio del paese, di tutte le sue sfumature di colore e dei suoi curiosi abitanti. Gli amici mi hanno sempre preso in giro perché amo tornare più e più volte con la mia bicicletta negli stessi luoghi anno dopo anno; ma non posso farci nulla. È come tornare a trovare un amico, un piacere che si rinnova a ogni ritorno e che mi fa stare davvero bene. Ogni volta conosco meglio l’amico e posso offrirgli un pezzo diverso di me. Nei tre viaggi in Islanda che quella foto evocava in maniera così vivida avevo percorso più di 6.000 chilometri su ogni tipo di terreno attraverso ampie porzioni di paesaggio, incontrando molte persone diverse tra viaggiatori e locali, regalandomi anima e corpo tanto alle gioie quanto all’inclemenza meterologica che chi ha viaggiato a piedi o in bicicletta qui, conosce bene. Ma, soprattutto avevo scoperto la bellezza del viaggio lento dell’uomo qualunque che sono, senza eroismi né velleità sportive - nessuna tabella di marcia, nessuna traccia. Solo io, La Poderosa (la mia Surly Long Haul Trucker), il materiale da campeggio e tutta l’attrezzatura fotografica che chiunque sano di mente avrebbe lasciato a casa. Avevo già imparato qualche espressione in islandese e conosciuto finalmente da vicino


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l’incredibile ospitalità locale, arrivando dritto al cuore della famiglia dei miei amici Pétur e Dagmar. Ero sicuro che quell’avventura lunare avrebbe segnato la chiusura di un capitolo della mia vita, coronando un sogno nutrito da tempo. Eppure la luce che colpiva la fotografia appesa sul muro quella mattina, nel comfort del mio ambiente domestico in cui aleggiava un buon profumo di caffè, aveva acceso in me una nuova scintilla. Il mio spirito è irrequieto e alberga a pensione completa nel mio corpo. Per qualche sconosciuta ragione la mia parte più intima non

riusciva a mettersi alle spalle l’idea di un addio a quelle terre e segretamente immaginava un possibile ritorno. Qualcosa doveva cambiare, però. I miei più recenti viaggi in bicicletta erano stati tutti fatti in solitaria: la solita (idiota) sfida contro te stesso, le solite gioie e le solite problematiche – tra cui la necessità pesante di rielaborare un doppio lutto famigliare. Se ci fosse stato un nuovo viaggio, questa volta sarebbe stata una cosa diversa. Ed in effetti, così è stato.


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« Spazzate da un vento costante, una popolazione di 50.000 persone e 70.000 pecore, tre semafori in totale, le Fær Øer sono un luogo in cui sentivo di dover andare. In bicicletta, ovviamente».

Vi presento Valentina, la mia dolce metà. Non esattamente una ciclista e nemmeno qualcuno con la smania di partire sempre addosso. Sicuramente non un’avventuriera nata. Ma una persona disposta ad andare lontano e accettare ogni sfida per sperimentare sulla propria pelle le emozioni che avevo riportato a casa negli anni precedenti e tradotto in fotografia. Sì, perché al centro di ogni avventura c’era sempre stata la fotografia prima di tutto il resto. Non fraintendetemi: questo non è un imbarazzante racconto smielato di una coppia in cammino – tutt’altro. Nei nostri due cicloviaggi assieme, fino ad ora, abbiamo avuto giorni piuttosto difficili. Quelle tipiche giornate nere che solo i viaggi in autonomia su lunghe distanze, tra freddo, pioggia e vento e con comfort ridotti al minimo (tenda, sacco a pelo e fornello) possono portare. Specie quando i caratteri non sono esattamente accomodanti. Per quanto l’idea di tornare in Islanda ci solleticasse i pensieri, però, avevo altro per la testa che catalizzava la mia attenzione in quel periodo. Da tempo, infatti, stavo studiando la possibilità di

un viaggio sulle remote Fær Øer, un sinuoso arcipelago di 18 isolotti formalmente appartenenti alla corona Danese compresi tra la Norvegia e l’Islanda, di poco a nordovest delle scozzesi isole Shetland, che già mi avevano stregato anni prima e collegati tra loro via traghetti, ponti e inquietanti tunnel sottomarini. Spazzate da un vento costante, una popolazione di 50.000 persone e 70.000 pecore, tre semafori in totale (esatto, tre): dovevo assolutamente andarci. E in bicicletta, ovviamente. Fortunatamente il mio sogno a occhi aperti ha incontrato da subito quello di Valentina e, si sa, due sognatori trasformano più facilmente in realtà quello che prima era solo un pensiero vago. La logistica imponeva da subito una decisione. Andare in bici dall’Italia a Hirtshals, in punta alla Danimarca, all’imbarco per le isole Fær Øer, purtroppo era fuori questione per via del tempo a nostra disposizione, così abbiamo optato per smontare e inscatolare le bici e prendere un volo per Copenhagen. Sì, perché così avremmo potuto pedalare da Copenhagen a Reykjavík, 2.000 chilometri circa secondo un nostro vaghissimo piano, grazie ai


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traghetti di collegamento. Avremmo potuto percorrere il nostro cammino al giusto ritmo, senza lottare contro il tempo ma, al contrario, godercelo. Io e Valentina crediamo fermamente nel riprendere il contatto con noi stessi e con il pianeta sul quale viviamo attraverso il viaggio lento. Pedalare nell’insolita calura danese era qualcosa che non avevamo per nulla preventivato. La prima settimana è stata davvero surreale: oltre 100 chilometri al giorno a temperature che spesso raggiungevano i 30 gradi con le borse della bici impermeabili cariche di abbigliamento e attrezzatura invernale per le isole Fær Øer e per l’Islanda sembravano la cosa più assurda del mondo.

Non una goccia di pioggia, non un momento di tregua da un sole bestiale. Basti pensare che l’inusuale siccità dell’estate 2018 (la più calda in 70 anni) ha costretto la Danimarca a importare fieno dall’Islanda. Per noi significava non poter usare il fornello per cucinare all’aperto (come richiesto dalle autorità locali) e così abbiamo dovuto fare affidamento sull’ospitalità della rete Warmshowers e sulle cucine degli organizzatissimi campeggi danesi. Anche la disponibilità dei tanti shelters e piazzole per il campeggio libero si è dimostrata una scelta validissima quando non avevamo l’esigenza di cucinare il cibo.


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Alle Fær Øer non si pedala solo per pedalare. Si pedala per sperimentare gli opposti: il colore verde intenso dei prati e blu scuro del mare. I grandi spazi aperti e le scogliere verticali. Il silenzio della strada e il rumore del vento e delle onde. Dopo una manciata di giorni tra le dolci escursioni in terra danese (che, pur non superando mai i 170 metri sul livello del mare, non manca comunque di stupire quando hai una bici che pesa più di 40 chili) era ora di prepararci per la tanto agognata avventura sulle isole Fær Øer, un sogno che ci aspettava a sole 36 ore di traghetto da Hirsthals. Trentasei ore di traghetto possono sembrare un’eternità e in effetti, lo sono ma vuoi mettere il piacere di imbarcarti con la

bicicletta sfrecciando tra le file di auto, camper e autotreni in coda sul mega piazzale di carico? Mentre leghiamo le bici saladamente nella pancia della nave, vediamo altre biciclette e immaginiamo le avventure che attendono tutti i nostri compagni. Faremo amicizia sul traghetto in particolare con Simon che arriva dal Belgio e va in Islanda e con Thomas, tedesco, che ha parcheggiato la macchina a Hirtshals e va a scoprire le isole Fær Øer con uno zaino enorme sulle spalle.


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Pedalare alle Fær Øer significa pedalare spesso sotto la pioggia. Oltre che allenati bisogna essere anche ben attrezzati e preparati.

Il traghetto arriva nella capitale Tórshavn poco dopo le 22.30 di una bellissima e finalmente fresca notte d’estate. L’intero popolo faroese è radunato nel cuore della piccola capitale per il celebre Ólavsøka, festa nazionale che celebra la cultura faroese. Putroppo, tutti noi reduci dalla lunga traversata in traghetto nel mare del Nord siamo piuttosto provati per unirci al festival e non vediamo l’ora di montare le tende nell’affollatissimo campeggio comunale. Il giorno seguente e tutti i giorni a venire sulle isole diventano come quei sogni a occhi aperti carichi di magia e mistero che sanno quasi di irrealtà. Un po’ come la Colnago del nonno, sospesa tra ricordi di polvere e campi di grano dove oggi ci sono asfalto e villette a schiera. Indipendentemente dalla quantità di pioggia e di vento che abbiamo subìto, pedalare sulle principali isole faroesi (Streymoy, Vágar, Eysturoy e Kalsoy), attraversando alture e discese che rivelano scorci che tolgono il fiato costellati di pecore e casette dai tetti ricoperti d’erba, percorrendo due tunnel sottomarini (siamo scesi a 121 metri sotto il livello del mare in bicicletta!) e mettendo la tenda in luoghi da fiaba è stata pura magia. Fra l’altro una magia a portata di tutti: le isole sono raggiungibili anche via aereo da Copenhagen, per chi volesse, anche se il mio consiglio è quello di arrivarci in traghetto per un approccio più lento e rispettoso che tra l’altro

accresce la voglia di farsi sorprendere da questo gioiello di posto. Una sola accortezza per il ciclo-viaggiatore: l’estate rappresenta per molti di noi la sola finestra possiblie per un simile viaggio e quella ideale per temperature gradevoli intorno ai 15 gradi, ma significa anche maggior traffico di veicoli a motore dei vacanzieri. Le isole sono diventate una destinazione popolare per una serie di ragioni, sicuramente per via dei social media ma anche a causa del curioso progetto sheep view. Non abbiamo mai avuto ansie da sorpasso a filo borse della bici ma, nei tunnel soprattutto, il traffico a motore si è fatto sentire. Abbiamo volutamente scelto di pedalare facendo un percorso ad anello e rinunciando all’idea di allontanarci il più possibile in bici e poi rientrare in elicottero. Sì, perché l’elicottero qui alle Fær Øer è sussidiato a livello governativo, per cui i prezzi dei voli sono incredibilmente abbordabili. Comunque, per quanto allettante l’idea di vedere le isole dall’alto, abbiamo preferito evitare di utilizzare questo sistema. Trascorsi dieci giorni di pedalate e trekking in questo paradiso in terra, un secondo traghetto ci ha portati in 18 ore di navigazione in Islanda. Sbarcare a Seyðisfjörður sulla costa orientale in sella alla bici e non su un mezzo motorizzato è stato davvero eccitante ma là fuori c’era una sorpresa tutt’altro che gradevole per noi: una temperatura di 2°C, nevischio orizzontale con vento


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Valentina. Non è esattamente una ciclista o una persona con la smania di partire. Eppure una persona disposta ad andare lontano.

bello gelido che tagliava la faccia e salita da paura per scollinare verso Egilsstaðir. Il ritorno a una terra che conoscevo bene, purtroppo, non è stato tra i più entusiasmanti per via dell’impressionante numero di veicoli sulla Hringvegur ma fortunamente non sono mancate le soprese positive, tra nuovi amici e vecchie conoscenze. Il vento si è fatto sentire ma mai come nell’estate del 2015 in cui avevo avuto per diversi giorni raffiche frontali e laterali di 30mt/sec. Un mix micidiale di stanchezza, pioggia e freddo ci costringe a un accampamento di emergenza alla famosa laguna glaciale Jökulsárlón. Dopo aver attraversato tutta la costa meridionale da est a ovest abbiamo chiuso il nostro giro a Reykjavík, nella capitale, dove è stato un piacere riabbracciare gli amici Pétur e Dagmar e passare una splendida serata in un ristorante che ci è stato descritto come Iceland’s best kept secret! Su richiesta dei nostri amici non posso proprio dirvi dove si trovi.

Tra le ultime cose che ricordiamo con discreta inquietudine, bisogna ammetterlo, del nostro giorno finale a Reykjavík c’è lo smontaggio delle biciclette al terminal dei bus BSI, quando, dopo tutto quello che avevano visto nei 30 giorni precedenti i pedali non volevano assolutamente saperne di essere svitati e rimossi. Fulvio pedala una Surly LHT e si porta dietro 6 chili di attrezzatura fotografica oltre al solito materiale da viaggio. Valentina pedala una Fuji Touring. Il prossimo cicloviaggio sarà in Mongolia. Ulteriori informazioni: www.visitdenmark.com www.visitfaroeislands.com www.inspiredbyiceland.com


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Capo Nord Le bici hanno la precedenza Ero sul bus che mi portava ad Alta, in Norvegia. Non molte ore prima era arrivato a Capo Nord. In bici, dall’Italia. Sì, quattromilaquattrocento chilometri. Ad Alta avrei dovuto passare una notte aspettando l’aereo all’indomani. E avrei pure dovuto cercare un modo per impacchettare la bici da rispedire a casa, in Italia. Il bus mi scarica alla stazione, poi scarica la bici. Nel giro di qualche secondo sono lì, in mezzo ad altre persone che mi passano vicino. Non sanno che sono andato fino a Capo Nord in bici. Vorrei urlarlo. Penso a cosa fare. Devo mangiare. Vado in un supermercato, il Rema1000, mi siedo su degli scalini, faccio controllare la bici all’addetto alla sicurezza mentre io compro qualsiasi cosa dagli scaffali. Tanto ho bruciato calorie, penso. Si fa buio, devo trovare un posto dove passare la notte. Restare fuori sarebbe rischioso, ci sono 5 °C. Primo tentativo: «Posso dormire qui? Mi chiudete dentro al supermercato, poi domattina all’apertura io esco» chiedo al direttore del Rema1000. Prima sorride, poi mi risponde di no, sempre col sorriso. Ok. È l’ultima notte, potrei anche spendere qualche soldo per una stanza. Booking.com mi dice che le uniche stanza rimaste disponibili costano 200 euro. Ad Alta? Scopro che è la settimana della Arctic Race of Norway, gara ciclistica di professionisti, tutti gli hotel sono praticamente pieni. Ci rinuncio. Controllo Couchsurfing e Warmshower, due app che mi hanno salvato più volte la vita nei giorni precedenti. Nulla. Vado nell’hotel di fronte

Testo e foto Dario Reda

al supermercato Rema1000, mentre escono dal lavoro saluto i dipendenti come fossero amici. No, non vado in quell’hotel per chiedere una stanza ma per supplicare la reception di farmi dormire nella hall. Faccio gli occhi dolci. Non funziona. Però il ragazzo al desk mi offre un caffè. Parliamo un po’ ma devo comunque muovermi per trovare una sistemazione. Ci penso. Ah si! Apro Tinder (app per rimorchiare) e inizio a mettere mi piace a tutte le ragazze della città. «Ciao Dario, sei carino, ho visto che vai in bici, sei ad Alta?» - dopo pochi minuti ricevo questo messaggio, è Ingeborg, una ragazza della città iscritta a Tinder. «Sì, sono ad Alta, sto cercando un materasso PER DORMIRE», rispondo io. Sottolineando il fatto che cercassi una sistemazione per riposarmi, non per altro. Giuro. Mi invia il suo indirizzo, è a 800 metri da dove mi trovo. Meraviglioso! Mi precipito a casa sua e dopo esserci presentati mi costringe a farmi una doccia. Puzzavo, evidentemente. La assecondo in tutto, non vorrei mi mandasse fuori di casa. La notte passa, va come doveva andare.

Apro Tinder e inizio a mettere mi piace a tutte le ragazze della città. Per stasera mi serve una stanza.



Dopotutto la dovevo assecondare, no? La mattina seguente mi sveglio e non c’è nessuno in casa. Trovo un bigliettino in cucina: «Mangia quello che vuoi, io sono al lavoro». Faccio colazione, esco a cercare un negozio di bici dove poter chiedere una vecchia scatola per impacchettare la mia di bici. Una volta pronta la lascio in negozio, sarei tornato a ritirarla andando a prendere il bus per l’aeroporto, nel pomeriggio. Girovago per il centro, senza una meta per quasi quattro ore. Mi chiama Ingeborg e mi

chiede se ceniamo assieme, con una sua amica, Ingrid, che arrivava dal sud, della Norvegia. «Sì, perfetto, ma dobbiamo fare in fretta perché poi devo scappare in aeroporto» le dico io. «Non preoccuparti, carichiamo la bici e ti ci porto io in auto». Ah. Cena alle 17 a base di bistecca di balena e poi si vola in negozio a riprendere la bici. Non ci entra in auto! Cavolo! Ok, prenderò il bus, niente panico. «Il prossimo bus è alle 19» - mi dice un controllore. Troppo tardi per fare il check-in in


tempo, perderei il volo. Ingeborg se ne esce con «Dario lascia qui la bici, ti porto io in aeroporto in auto, fai il check-in e dici all’aereo di aspettare un attimo. Intanto Ingrid prende il bus con la tua bici e te la porta». Ah! Questo suo piano non mi convinceva nemmeno un po’ ma non trovavo altra soluzione, quindi accetto. Salgo in macchina convinto di dover abbandonare la mia bicicletta ad Alta, o di dover rimanere ad Alta anch’io, con la bici.

Arrivo in aeroporto e trovo ad aspettarmi Ingrid con la bici e con un sorriso. «Ma?!» - esordisco io. «Eh, sai. Sono salita su un bus a caso con la bici e ho detto che ero di fretta e che avrei perso l’aereo. L’autista, d’accordo con gli altri passeggeri ha portato prima me in aeroporto e poi ha fatto le fermate classiche di quel bus» - mi dice Ingrid. Io non ci volevo credere, ma avevo la bici lì con me, non potevo non farlo. E Ingrid, sempre sorridendo: «Le bici hanno la precedenza!». Ah.


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Testo e foto Dino Bonelli

(ATTO PRIMO)

In Ghana alla ricerca della fabbrica delle biciclette in bambù

Benin, Africa occidentale. Il nostro programma iniziale era quello di andare in una missione laica di Ouidah, sulla costa del paese e, tra le altre cose, portare delle biciclettine ai bambini ospiti della struttura. Un’associazione nata per assistere le donne incinte, o già con prole, abbandonate dai loro uomini, che nel tempo ha anche adottato orfanelli di strada e ora dà loro un tetto, tre pasti al giorno e un’istruzione. La scuola, per basica che sia, in un paese indigente come il Benin è l’unica via per trovare una strada alternativa alla povertà più assoluta, per distinguersi un minimo e quindi trovare un lavoro che crei un reddito che consenta una sopravvivenza dignitosa. Con me c’è l’amico e compagno di mille avventure Danilo, di professione preparatore atletico e ciclista per passione. Il programma era semplice e già definito ma una foto di una bici con telaio in bambù, apparsa un po’ per caso su internet e il relativo interessamento di un altro amico che mi fornisce l’indirizzo e-mail di chi le produce, mi porta a cambiarlo leggermente. Non si vola più su Cotonou, la città di riferimento economico e finanziario del Benin, ma su Accra, la capitale del Ghana, con destinazione Kumasi, seconda città

del paese e sede dell’azienda che produce questi spettacolari telai naturali. Nelle settimane prima della nostra partenza verso il continente nero, ovviamente, c’è uno scambio di email con quello che sembra essere il responsabile marketing dell’azienda. In questa corrispondenza si fissa una data in cui io, presentatomi come fotografo giornalista sportivo, sarò nella cittadina dell’entroterra ghanese per una visita conoscitiva della loro azienda. Il mio interlocutore mi da anche il suo numero di telefono per contattarlo una volta in zona, in modo da avere gli ultimi specifici dettagli su come raggiungere la sede. Tutto perfettamente organizzato quindi - penso io - e con questo pensiero si parte per l’ex Costa d’Oro. Atterriamo ad Accra e subito la vita che ribolle a bordo strada, caratteristica condivisa in tutta l’Africa, ci dà il benvenuto con il suo infinito caos, con i suoi assordanti rumori, con le sue spezie e i suoi odori. Una vita lenta immersa in un traffico frettoloso, una marea di colori che adornano il grigio di una vita povera tendente al molto povero. Un vociferare continuo che dice tutto e in cui non si capisce niente. L’Africa è bella sporca, ha detto una volta qualcuno, e se lo sporco in


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I bambini della missione non piangono e non fanno capricci, hanno già capito che non serve, la vita gli ha dato una bici e loro se la tengono stretta, felici, senza frignare. questione fosse solo quello naturale, potrebbe anche andare bene, ma purtroppo questo sporco è anche figlio del progresso di cui le plastiche e i nylon sono gli ambasciatori più evidenti, una quantità enorme di rifiuti abbandonati a bordo strada, tutti in attesa di uno smaltimento che non arriverà mai. Da Accra ci spostiamo, rigorosamente con mezzi locali, a Cape Coast, un paesino di pescatori sulla costa, dove dimentichiamo le ore di volo con un bel bagno nelle calde acque di un oceano, quello Atlantico, qui decisamente incazzato. Ma Cape Coast è anche il sito dove migliaia e migliaia di africani, messi in catene, vennero

ammassati nelle segrete del castello, imbarcati come schiavi e deportati oltreoceano. In un paio di secoli si calcola che ne furono trattati oltre 10 milioni. Visitiamo la fortezza, oggi simbolo di quell’orrendo commercio, con un brivido di schifo nei confronti dell’essere umano del tempo, di quei bianchi inspiegabilmente senza un’anima, figli di chissà quale demonio. Dalla costa, questa volta con un autista privato preso a caso per strada, seguendo le tempistiche fissate dall’appuntamento acquisito via e-mail, in quattro ore di strada più o meno asfaltata andiamo a Kumasi e arrivati in città chiamiamo il numero che ci è stato dato. Dopo una prima introduzione in lingua locale da parte del nostro


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Contatti. La missione visitata da Dino si chiama Ensemble Pour Grandir, se desiderate sostenerli o andarli a trovare, ecco qui il loro sito: spsvda.org

autista, che ci ha anche messo a disposizione il telefono, parlo io a chi dall’altro capo del telefono, in un inglese un po’ slavato, mi dice di non aver fissato nessun appuntamento a nessuno e di essere fuori ufficio per tutto il giorno. Prima alle buone, inoltrandogli anche copia dell’e-mail, e poi sempre più alterato dal rispondere vago e negativo del mio interlocutore, chiedo almeno di avere un indirizzo dove andare, visto che il sito dell’azienda ne indica solo il quartiere, ma anche questo mi viene negato e addirittura la comunicazione viene definitivamente interrotta all’improvviso. Riprovo a chiamare, più e più volte, suona libero ma nessuno mi risponde. Con l’autista decidiamo di spostarci all’interno del quartiere segnato sul sito, che poi è anche il quartiere del mercato di Kumasi, che è anche il mercato più grande di tutta l’Africa occidentale. In un mare di odori e colori, voci e strombazzate di motorini

che viaggiano all’impazzata, tra animali da macello e spezie di ogni tipo, troviamo parcheggio nei pressi della stazione centrale della Polizia. Da qui, essendo che il telefono del cosiddetto responsabile marketing continua a suonare libero ma senza risposta e non avendo altre alternative, mi gioco il jolly. Chiacchierando qua e là, con il piantone dell’entrata della centrale prima e con altri poliziotti poi, vengo presentato ad un ispettore di polizia, lussuosamente in borghese, che ascoltata la mia storia prende il suo telefono e chiama il numero che a me oramai non risponde più. Al numero nuovo, ovviamente, risponde. Una breve ma indubbiamente concitata conversazione in africano, di cui non saprò mai il contenuto, ed ecco l’indirizzo tanto agognato. Ringrazio l’ispettore che ricambia con un sorriso e a piedi ci incamminiamo verso la destinazione finale che dista solo due isolati dalla sede della Polizia. Siamo immersi in una folla mista di mercanti e acquirenti, dei primi anche


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Le strade sono strabordanti di vita, perennemente trafficate e ingombre di tutto, il rumore di giorno è insopportabile e assordante. Poi quando scende la notte, nera come la pece, c’è silenzio e una gran pace.

molti venditori di bambù perché con questa canna qui si fa di tutto, dai tavoli alle sedie, dalle impalcature edili ai carretti da far trainare ai buoi, dai vasi portafiori alle biciclette, evidentemente. La sede non è la sede, ma solo un ufficio di rappresentanza dove un giovane, abbastanza rincoglionito, non sa rispondere alla maggior parte delle nostre domande e ci dice che il signor Amos, quello che mi ha risposto a varie e-mail e per una volta anche al telefono, non ci sarà per tutto il giorno. Il giovane ci mostra una bici montata, bella per la costruzione del telaio completamente in bambù ma scadente nella componentistica, e poi un telaio nudo e crudo. Io e Danilo ci prendiamo in mano il poco che c’è, come a dire che a questo punto è meglio che niente, diamo un’occhiata accurata ai vari punti di giunzione del telaio, facciamo le nostre considerazioni, qualche foto e restituiamo la merce al sonnolento impiegato. Nell’angolo dell’ufficio c’è anche una sedia a rotelle, in bambù pure quella e sul muro scrostato la foto di gruppo con il primo ministro che fu ospite dell’inaugurazione dell’azienda. Una realtà commerciale certamente innovativa, ma con un'organizzazione indubbiamente poco affidabile. Danilo mi dice che sul loro sito sono elencati, con tanto di foto, almeno otto differenti modelli

di bici, dalla più comune City Bike a quelle di alta gamma. Quest’ultime guarnite con gruppi Shimano Ultegra 11V o addirittura con Dura-ace e con ruote ad alto profilo in carbonio per ottenere una bicicletta assolutamente performante e leggera. Abbiamo sprecato quasi tutto il tempo a disposizione per ricercare una sede non sede, ora dobbiamo di nuovo rimetterci in viaggio. Le strade sono strabordanti di vita, perennemente trafficate e ingombre di tutto, il rumore è assordante come sempre, poi scenderà la notte nera come la pece che porterà con sé una gran pace. All’indomani una prima frontiera che dal misero Ghana ci porta nell’ancor più modesto Togo, con l’inglese che lascia il posto al francese e le strade che diventano ancor più sgarrupate. Qualche giorno di relax su una spiaggia di pescatori e incursioni nella storia del Vudù, poi un secondo confine dove dal Togo si passa in Benin, altro paese francofono, con strade migliori e asfalto finalmente liscio e senza buche. Nel caos del bordo strada si aggiungono le mille sfumature d’arancione di un’infinità d’improvvisati distributori di benzina al dettaglio. Bottiglie da un litro, ma anche da meno, per lo sciame delle onnipresenti motociclette e damigiane da venti per le auto e i pulmini del servizio pubblico, gestito da privati e quindi funzionante. Poi finalmente Ouidah, finalmente la missione, finalmente


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il sorriso di bambini che non hanno nulla e che non si lamentano mai. Non piangono e non fanno capricci, hanno già capito che non serve, la vita gli sta dando poco e loro quel poco se lo tengono stretto, senza frignare. Con Alberto e Fabrizio, altri amici appena giunti dall’Italia arrivano anche le biciclette da bambino. Le spacchettiamo e montiamo sotto gli occhioni increduli dei bimbi. Andiamo da un gommista per gonfiare le gomme e poi le consegniamo ai piccoli beneficiari che con un sorriso di vera gioia ringraziano composti e silenziosi. Qualcuno sa già pedalare, agli altri insegniamo noi. Inizialmente i più piccoli hanno

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quelle senza pedali, le femmine quelle con inserti rosa e i più grandi le altre, poi iniziano gli scambi, tutti usano tutto, indistintamente e senza bisticciare. Qualcuno più ardito prova una discesa spericolata da un mucchio di ghiaia, Junior si cimenta nel guado delle pozzanghere, ma è lo sguardo silente della piccola Valentine a gratificarci di più. I suoi occhioni bianchi che brillano appena sotto a una manciata di ciuffetti colorati sembrano ringraziarci di tutto e a nome di tutti. E questo a noi basta per giustificare l’intero viaggio, anche se una visita alla fabbrica di biciclette in bambù ci avrebbe davvero fatto piacere.


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IL MIO SECONDO


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VENETOGRAVEL Testo Eric Scaggiante

Foto Andrea Securo

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Veneto GRAVEL

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La macchina organizzativa di Venetogravel è composta da Roberto Polato e dalla sua compagna Velia Agostini, gravellisti da cinque anni. Vengono dal mondo delle Granfondo sia su strada che in MTB, ne hanno fatte a centinaia. «Senza Velia, il Venetogravel non potrebbe esistere» - ci dice di scrivere Roberto. L'evento è nato con intento di unire tutte le province del Veneto, con la terza edizione è stato inserito il passaggio sulla Laguna Veneziana e a Caorle. Il tracciato è vario, percorre fiumi, argini, attraversa campagne, colline e c’è qualche passaggio in borghi e centri storici che vale la pena andare a visitare. La partecipazione straniera è notevole, ci sono 10 nazioni al via. Il gruppo di stranieri più numeroso è quello degli atleti tedeschi. Quest'anno per la prima volta hanno partecipato a Venetogravel anche alcuni ragazzi che gareggiano su strada.

DATA DI NASCITA

21 aprile 2017

LUOGO DI NASCITA

Piazzola sul Brenta

LUNGHEZZA

690 km

DISLIVELLO

4500 d+

INFO

venetogravel.it

EDIZIONE 2019 TOTALE ISCRITTI

328

FINISHER

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RITIRATI

103

NON PARTITI

68

BREVETTATI ARI AUDAX (tempo max 80 ore)

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Mi ricordo quando veniva annunciata la prima edizione del Venetogravel, era sì e no da un paio di anni che avevo cominciato ad inforcare la bici e prendere parte a quei 600 chilometri sarebbe stata un’avventura immensa per un ragazzino di appena sedici anni quale ero. L’idea di scorrazzare in giro per il Veneto tra le provincie di Padova, Belluno, Treviso, Venezia, Rovigo e Verona insieme a tanti altri pedalatori era allettante. Quell’anno non andai, ma l’anno seguente non sarei certo mancato. Era il mio obiettivo. Così la sera del 13 aprile 2018, arrivato Piazzola sul Brenta – punto di partenza e arrivo – cominciò il mio primo Venetogravel. L’esperienza fu a dir poco fantastica, almeno fino a Verona quando dopo un pisolo di un’oretta mi svegliai con i tendini d’Achille tirati quanto le corde di uno Stradivari. Tenendo duro arrivai a Piazzola aggirando i misteriosi Berici taglia gambe, per via della feroce infiammazione che azzannava le mie caviglie ad ogni pedalata. Ero felice, dolorante e un po’ rammaricato per non essere riuscito a completare la traccia come avrei voluto. Passa un altro anno, succedono un sacco di pedalate, tanti chilometri e bei momenti. Ancora una volta è aprile, il compleanno del Venetogravel. Tutti e due siamo cresciuti; io diciottenne e un po’ più alto, lui tre anni e 90

«Preparare il bagaglio è come giocare a Tetris, le tessere sono gli oggetti, gli indumenti, gli attrezzi, le batterie, le borracce, le varie barrette ed i gel da far stare dentro quelle borse che per qualche giorno sono tutto quello che hai e diventano il tuo rifugio».

chilometri più lungo, mantenendo il titolo di gravel più lungo d’Europa. Il giorno prima vado a ritirare il pacco gara - anche se di gara non si tratta - sempre a Piazzola sul Brenta, saluto diversi amici e ritorno a casa, facendo prima un salto dai fratelli Scavezzon per ritirare una borsa speciale fatta da MissGrape. Da rito, lavo a fondo la mia bicicletta, spazzolando pignoni corone e pulegge come i denti alla mattina, mentre alla sera comincio a pensare a tutte le cose da portarmi dietro. Sembra di giocare a Tetris, le tesserine sono gli oggetti, le giacche gli attrezzi, le batterie, le borracce le varie barrette ed i gel da organizzare dentro quelle borse che per qualche giorno diventano il tuo rifugio; tutto deve essere incastrato con meticoloso criterio in modo da ottimizzare ogni spazio delle borse, ma anche da essere facilmente prelevabile mentre si pedala o quando ci si ferma. Oltre a una borsa da telaio di quelle pensate dal Nure decido di aggiungere un Camelback da 3 litri in verticale nella parte posteriore, camere d’aria e attrezzi nel vertice inferiore, giacche gambali

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e parte dei viveri in quella superiore. Carico la traccia sul Garmin, metto in carica le diavolerie elettroniche e vado a dormire. 5:30 la sveglia suona. La voglia di partire non ha reso il sonno uno dei migliori. Mi alzo, il caffè e in ritardo parto in bici verso Zianigo. Là mi aspetta Mattia de Marchi. Il Dema è una new entry nel gravel, ma non di certo neofita della bicicletta. Insieme pedaliamo alla volta di Piazzola una trentina di chilometri verso ovest. In due messi insieme non arriviamo nemmeno a mezzo secolo di età. Arriviamo, tempo di salutare i tanti amici e si parte. Sono le 8.00. La partenza del Venetogravel dall’anfiteatro Camerini, al cospetto di Villa Contarini, ritengo sia il momento che meglio descrive il panorama

gravel odierno. Si distinguono tutte le razze di pedalatori randagi; a ciascuna di esse fanno parte uomini e donne di tutte le età con diverso approccio ai chilometri che gli spettano. Ci sono i viandanti che meglio incarnano lo spirito alla base del gravel. Mi infondono serenità. Per loro il tempo non esiste, si godono ogni paesaggio in ogni sua parte, conoscono le migliori osterie e hanno sempre tante storie interessanti da raccontare. Poi ci sono le matricole, lo sono stato anche io e in parte mi sento ancora di esserlo. Per la prima volta si troveranno a passare una o più notti fuori a dormire chissà dove. Poi ci sono i veterani, i pionieri del gravel. Loro abbinano piega e ruote grasse da tempo immemore, conoscitori di ogni strada e sentiero del Veneto, e non solo.


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Infine, gli animaleschi a differenza dei primi hanno sempre un occhio rivolto al cronometro. Amano le sfide e si mettono continuamente alla prova. Partono forte e cercano subito di levarsi dalla calca - odiano stare a ruota - difficilmente scendono sotto i 30 orari, non si fermeranno a dormire e bevono birra. Molti hanno un passato in discipline agonistiche, in loro aleggia ancora lo spirito della competizione, sanno che non c’è nulla da vincere ma trovano ancora gratificazione nella sfida. Ciò nonostante restano bestie amabili che pedalano per le stesse ragioni di tutti gli altri: per sfogarsi, evadere, vedere, godere. Per quanto riguarda me, ritengo di essere un bastardo, un incrocio di razze diverse. Animalesco in quanto mi piace pedalare ai limiti delle mie forze, sempre in sfida con me stesso; matricola, perché il più giovane nel gravel da quattro anni a questa parte - ragion per cui mi chiamano bócia - e in fondo viandante. Non disdegno la pace e la serenità delle pedalate senza rincorrere il tempo. Ma torniamo ai fatti. Sono le 8:00 di venerdì il cielo è grigio, non dovrebbe piovere almeno fino a domenica. Tutti i trecento e passa partecipanti cominciamo a far girare le gambe, chi con più calma, chi più di fretta. Io sono uno di questi ultimi. Senza essere di intralcio a nessuno, mi faccio largo tra centinaia di bici per ora belle linde e in ordine, sino a raggiungere il gruppetto che sta davanti a tutti. Lì davanti si

potrebbe pensare di trovare meno calca e più calma, in realtà c’è solo più furia. Gli animaleschi hanno voglia di spingere forte, sempre. Siamo un bel gruppo che in poco tempo si stacca dalla grande mandria sgargiante iniziale. Affiancato da Mattia, Ale, Andrea e tanti altri, tra una chiacchierata e l’altra sfrecciamo tra gli argini e gli sterrati della ciclabile del Brenta. L’atmosfera è gradevole e come sempre goliardica, c’è l’occasione di fare amicizia con altri pedalatori, parlando ovviamente di bici e di progetti per il 2019. Uno di questi pedalatori è Max. Ha due gambe muscolose che esprimono solidità ed una pedalata potente ma leggiadra. Dallo scorso Venetogravel pedala solo su strada per prepararsi alla TransAm, ma ora ha rispolverato il ferro da sterrati, o per meglio dire il carbonio. Prendiamo uno stretto single track con i lati erbosi leggermente rialzati, io sono a ruota di Mattia, un paio di metri avanti a lui c’è un altro, non so chi sia, ma ad un tratto in un lieve cambio di direzione finisce con la ruota sul bordo verde, perde l’equilibrio e finisce giù a sinistra del terrapieno. La bici lo scavalca lui fa una capriola. La caduta fortunatamente non coinvolge altri, ma fa da monito a prestare più attenzione. In un battibaleno siamo a Bassano sul ponte degli Alpini. Scendiamo lungo il Brenta e ci addentriamo in Valsugana. Le scure ed impassibili Prealpi ci guardano passare colorati a passo

«I viandanti sono quelli tra i partecipanti che meglio incarnano lo spirito alla base del gravel. Per loro il tempo non esiste, si godono ogni scorcio di paesaggio, conoscono le migliori osterie e hanno sempre tante storie interessanti da raccontare».


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sostenuto, ancora lungo la ciclabile del Brenta. C’è un sereno silenzio, rotto solamente da qualche voce mescolata al rotolare delle ruote sulla ghiaia. La luce è grigia, l’aria umida e la temperatura è più bassa del previsto. Attraversiamo il ponte di legno e ferro che passa sopra il verde lago del Corlo, di qui a poco comincia la prima salita della traccia, Rocca. La scalata è breve, tre chilometri che si snodano sotto un costone di roccia gocciolante dalla pioggia e umidità dei giorni precedenti. La pendenza attorno al 10% è sufficiente per far disgregare il gruppo fino ad ora compatto. Arrivato in cima è il momento giusto per rifocillarmi con una barretta, cominciando così a riempire una delle sette tasche del mio jersey, che adibisco a cestino per le cartacce. Cercando di stare con Mattia e altri capisco che è il caso di calare il passo, ci sono ancora tanti chilometri da fare e loro spingono troppo per le mie gambe. Ad un bivio che introduce ad una stradella sterrata e fangosa sotto la strada statale, i ragazzi avanti a me, Max, Sam, Dema e Giacomo, sbagliano strada. Ricordo che l’anno precedente, di notte – si partiva alle 21:00 - anche io avevo commesso lo stesso errore. Continuo a pedalare e poco dopo vengo ripreso dai tre che hanno dovuto fare dietro-front. Resto da solo, mentre pedalo nel silenzio ritmato dal mio fiato e dai sassolini tintinnanti sul tubo obliquo del telaio. Arrivato a Feltre c’è un passaggio gradevole su per la dritta salita del centro storico che mi fa balzare in mente un altro ricordo di un fatto accaduto l’anno prima. Era sempre notte, saranno state sì e no le 3 del mattino, stavo salendo questo ciottolato

«Ci sono i veterani, i pionieri del gravel. Loro alternano strada e ruote grasse da tempo immemore, sono conoscitori di ogni strada e ogni sentiero, di ogni luogo».

con un marciapiede rialzato di pochi centimetri sulla destra rispetto al senso di marcia; avevo deciso di spostarmi sul marmo liscio della passeggiata ma nel mentre distratto da un brusio festoso proveniente da una piccola osteria alla mia sinistra, persi l’equilibrio sul bordino del marciapiede e caddi per terra, fortunatamente senza farmi nulla. Mi rialzai goffamente con la bici tra le gambe e ripartii, incitato dai brilli clienti appena fuori l’osteria. Questa volta però faccio attenzione a dove metto le ruote. Durante le ore successive ancora da solo passo per tanti sentieri e borghi. I ricordi mi accompagnano, pedalata dopo pedalata, e penso a come i luoghi appaiono diversi dopo che ci si è già passati tante volte. Affascinanti sali e scendi sterrati e asfaltati portano fino a Belluno, al primo degli otto checkpoint. Fisicamente vorrei sentirmi meglio, sarà stata la tirata iniziale o il clima più freddo e umido del previsto ma le gambe non girano come vorrei. Allora ne approfitto per vestirmi, bere un caffè con alcuni cantucci e riparto. Ora sono in compagnia dei miei amici Ruji, veri gravellisti, tutti con ottime gambe e gran bevitori di birra.


Insieme a noi c’è anche Andrea Scavezzon con la sua bellissima Warbird Rossa. Durante le ore successive mi riprendo senza forzare troppo il passo e tenendo una cadenza agile. Passiamo il bel Lago di Santa Croce, piatto e disabitato, con le tante barchette a remi dormienti ormeggiate nei pressi della riva; poi ci fiondiamo a tutta giù per il Fadalto. Andiamo su e giù per le colline del prosecco e arriviamo a Conegliano. Qua trovo il mio amico Cesare e gli domando cosa ci faccia lì, dovrebbe essere qualche chilometro più dietro. Mi dice che ha piegato la forcella. Fiducioso nelle sue capacità di inventarsi

qualcosa per risolvere ogni problema gli auguro un in bocca al lupo e proseguo (Cesare è riuscito a trovare un negozio, cambiare la forcella e proseguire. Semplicemente fantastico). Ora siamo io Andrea, Pippone, Ale e Davide, in centro a Conegliano fuori da un gradevole bar solito ai ciclisti della zona. Ordiniamo qualche toast e qualche birra che spariscono in un batter d’occhio. Rimontati in sella proseguiamo in direzione Caorle, passando Oderzo e i lunghi argini del Monticano. Nessuno di noi li aveva mai percorsi e restiamo sorpresi dalla loro bellezza. Arriviamo a Caorle, ecco il mare, e



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«Ci sono le matricole, io ho già partecipato ma in parte sento ancora di esserlo. Per la prima volta si troveranno a passare una o più notti fuori a pedalare e a dormire chissà dove. E questo è il bello».

anche il vento. Passiamo lungo la costa verso est, veniamo respinti da forti sventolate, la sabbia della spiaggia strofina sulle nostre gambe, il mare blu, su uno sfondo grigiastro, appare increspato. Pochi chilometri verso ovest arriviamo al secondo check, la Siesta. Una gelateria e tavola calda allestita con le tante bici del proprietario. Qui firmiamo il grande tabellone degli arrivi, ma soprattutto decidiamo di cenare in vista della nottata. Diamo una sistemata alle bici, accendiamo i fari e ripartiamo carichi e sorridenti per una volta nella vita con il vento in poppa. Siamo sei o sette in doppia fila, agghindati con luci bianche e rosse che brillano come stelle. Siamo cavalli selvatici che galoppano in silenzio di notte sulla laguna. Imbocchiamo la Restera, e arriviamo a Treviso. La traccia passa proprio per le brulicanti vie principali del centro storico, particolarmente vivaci al sabato sera. Passiamo in mezzo a calli affollate, sporchi e con le bici cariche. Tutti ci guardano perplessi ed incuriositi. Ci allontaniamo dal centro, le voci ed il brusio dei locali sfumano in lontananza e noi ci addentriamo nel buio di cui l’Ostiglia è avvolta. Come stimato alle 1:30 siamo a Mirano al check-point Scavezzon, nonché casa di Andrea. Il negozio è chiuso, fuori c’è un tavolo con il timbro, due cassette

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rispettivamente di mele e banane, e un flacone di olio per catena. Andrea è giunto al termine del suo mezzo Venetogravel, stanco ma felice. Passano dieci minuti e ci rimettiamo in marcia. Ora siamo io, Pippone, Ale e Davide. Pippone decide di non fermarsi a metà ma di finire. Lui è uno tosto, non l’ho mai visto mollare, anche quando sembra non averne più continua inesorabile. Pedaliamo ad andatura costante e fluida lungo gli argini di casa. Attraversiamo il centro dormiente di Padova e poi di Abano Terme dove collezioniamo il quinto timbro. Di lì a poco comincia un saliscendi verso Arqua Petrarca. Stacco i miei compagni e proseguo consapevole che ci rivedremo da Nure, a Rovigo. La notte ancora una volta mi regala piacevoli incontri con la natura. Sto scollinando una lieve salita quando vedo scendere dal versante del colle una creatura di medie dimensioni, bassa e lunga con due orecchie appuntite ed una folta coda. Si ferma un momento in mezzo alla strada, mi degna di un rapido sguardo e indifferente scompare in un prato. È una volpe. Penso che mi piace incontrare gli animali durante le pedalate, mi ricordano che oltre a me e alle tante persone, ci sono anche altre creature che vivono la loro vita e si stupiscono di questi sfuggenti incontri almeno quanto me. Da solo alla volta di Rovigo, con le prime luci dell’alba all’orizzonte, ad un tratto mi accorgo di quella sensazione che stavo tanto aspettando. Mi succede sempre durante le lunghe pedalate: è una specie di scossa, si tratta dell’istante in cui il mio corpo entra in perfetta simbiosi con l’azione del pedalare. Mi sento tutt’uno con il mio destriero di carbonio, incastrati come tessere di un puzzle giustapposte. Questo istante accade sempre attorno ai 300 o


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400 chilometri e rende tutto incredibilmente più facile. Ore 6:15, il Nure mi accoglie dentro il suo arioso studio presidiato da un fenicottero rosa – finto naturalmente – scambiamo due parole e lo ringrazio per la nuova incredibile borsa che mi ha dato, poi lo saluto e mentre sono fermo a fare colazione arrivano i miei compagni. Ripartiamo assieme. È il momento degli interminabili argini dell’Adige. L’anno precedente li avevo affrontati di notte in preda ad un sonno straziante, erano stati i 100 chilometri più lunghi di sempre. Questa volta invece è giorno, a tenerci svegli c’è una persistente pioggerellina che ci rinfresca il viso, il cielo è grigio e il sole non si degna di farsi vedere. Ad un tratto gli altri tre si fermano un po’, io continuo senza soste. Quando pedalo per tante ore ho bisogno di trovare il mio passo, con la giusta cadenza e mantenerlo senza andare più forte o più piano, fermandomi il meno possibile. È una sorta di processo creativo ormai ben collaudato. Tra un loop mentale e l’altro, all’altezza di Legnago trovo un uomo con un ombrello, era un tifoso del Venetogravel, sotto la pioggia per vederci passare ed incoraggiarci. Arrivo a Cerea al settimo check, fresco come una rosa, mi fermo il meno possibile, metto in borsa un’arancia e riparto. Attraverso strade di campagna di sabbia rossiccia che si snodano fino a Verona. Qui faccio una breve pausa pranzo su un largo marciapiede asfaltato, la bici è appoggiata ad una siepe, io sono seduto a terra a gambe aperte. Attorno a me ci sono poche persone, qualcuno mi guarda altri non mi si filano nemmeno, io mi sento a mio agio come fossi nel salotto di

casa mia. Sbuccio un’arancia e mangio un paio di barrette, bevo un sorso di acqua e mi rimetto in moto. Senza guardare il Garmin so benissimo che mancano pressappoco 100 chilometri e soprattutto i famigerati Colli Berici. Capisco immediatamente che sarà tutto fuorché cosa facile e tranquilla. Da Nord-Est soffia lo stesso vento che l’altra sera aveva spinto me e gli altri dopo cena, solamente ora è più forte e soffia in verso opposto alla marcia. Vai tranquillo Eric, non c’è fretta mi ripeto, mentre guadagno metri nel vento contrario a pesanti colpi di pedale. Pedalo, pedalo, pedalo e urlo. Continuo così, lanciando puntualmente tuonanti urla al vento che se le porta via nelle verdi campagne desolate da cui sono circondato. Ogni urlo mi libera dalla frustrazione di quel vento infame. Le ruote girano su strade ancora più sabbiose delle precedenti. La sabbia inumidita da quella pioggerellina fine e persistente si appiccica alle ruote e schizza da tutte le parti. La catena comincia ad avere una panatura nero marrone. I granelli schiacciati tra le maglie e i pignoni scricchiolano, rendendo la pedalata ancora più pastosa. Vedo una sagoma in lontananza, è Sam. Lo affianco e ce la raccontiamo. Mi dice che la mia presenza gli ha sollevato il morale e penso che la cosa sia reciproca. Proseguiamo fianco a fianco cercando di recuperare anche Max non molto distante da noi. Al cospetto dei Berici cominciamo ad assaporare il finale dell’avventura. Assieme saliamo i ripidi strappi, in piedi sui pedali, fino allo scollinamento, quindi ci lasciamo a brevi discese e poi altri strappi, danzando sinuosamente con le braccia sul manubrio e le gambe sulle pedivelle. Nessuno di noi due

Paesi. «Quando passo nei paesi attorno a me ci sono poche persone, qualcuno mi guarda un po’ strano, altri non mi si filano nemmeno. Io sto bene, mi sento a mio agio come fossi nel salotto di casa mia».


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«Durante le lunghissime pedalate come questa mi succede qualcosa di speciale: è una specie di scossa, si tratta dell’istante in cui il mio corpo entra in perfetta simbiosi con l’azione del pedalare. Mi sento tutt’uno con il mio destriero di carbonio». [ERIC SCAGGIANTE]



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Ore 17:25 di domenica, ho terminato il Venetogravel, sono felice della mia prestazione, il cronometro lo guardo eccome e lo fermo contento dopo 33 ore e 25 minuti. conosce questi monti, a noi piace il Grappa che sale dritto per tanti chilometri e scende altrettanto omogeneamente senza perdersi in frivoli scollinamenti. Guardandoci attorno è pieno di possenti sagome verde scuro ingrigite da una leggera foschia, di certo l’agognata discesa verso l’arrivo non è poi così prossima, ma il bel paesaggio mitiga le fatiche. Anche il sole timidamente si fa vedere. All’ultimo checkpoint un signore mi aveva detto che arrivato alla discesa di sassi sarebbe cominciata la vera discesa. Vedo discese sterrate ovunque ma la traccia mi manda altrove. Ad un tratto dopo una breve discesa tengo la sinistra ad un bivio e finisco su per una salita, mi accorgo subito dell’errore, faccio dietro-front e ritorno in traccia. Sam non mi ha visto e ha continuato. Sapendo che le sue sono un bel paio di gambe, non mi metto a spingere più di tanto per recuperarlo ma spero comunque di raggiungerlo per arrivare insieme. Finalmente la sinuosa e croccante breccia sterrata color panna mi annuncia la fine delle salite. Il fondo è un tantino mosso e duro, imposto bene i vari tornanti lascio i freni e mi godo un po’ di velocità. Ogni tanto stacco lo sguardo dal sentiero verso la suggestiva veduta della pianura nascosta dalle fronde di qualche albero. Ad un tornante vedo un uomo scattarmi alcune foto, è mio papà. Ci vediamo all’arrivo - gli dico. Dopo la discesa si torna a battere qualche ciclabile tra cui l’Ostiglia con le sue odiose barre rallentatrici di traffico. Mi danno sui nervi, tento sempre di aggirarle a destra o a sinistra per evitare di frenare, fare la lenta esse

e ripartire. Nella mia testa l’arrivo è Piazzola, ma al momento di svoltare a sinistra secondo quanto detto dalla segnaletica stradale vedo che la traccia mi porta altrove. Non avevo studiato il percorso e perplesso continuo a pedalare aspettando di vedere la fine di quella linea rossa che da tante ore era li ferma sul display del Garmin. Ore 17:25 di domenica, ho terminato il Venetogravel, sono felice della mia prestazione, senza vergogna il cronometro lo guardo eccome e lo fermo contento di quelle 33 ore e 25 minuti. Pochi minuti prima erano arrivati anche Sam e Max. Sam mi dice che pensando fossi avanti a lui ha cominciato a spingere per recuperarmi. Ad aprirci le porte di casa c’è Roberto Polato, l’artefice di tutta questa cosa fantastica che è il Venetogravel probabilmente uno dei migliori tracciatori ed organizzatori in cui ci si possa imbattere. Fa di tutto per regalare una bella esperienza agli iscritti dei suoi eventi, è disponibile e paziente con tutti e soprattutto pedala le sue tracce chilometro per chilometro. Il formidabile Mattia invece era già arrivato da circa tre ore, è stato il primo finisher. Ancora una volta il Venetogravel mi ha regalato gran bei momenti, mi ha fatto uscire dalla celeberrima zona comfort almeno per quanto riguarda il sonno. È stato un utile test per le tante ore in sella che mi han dato ben pochi gratta capi questa volta e cosa più importante mi ha fatto conoscere ancora nuovi amici che sicuramente rincontrerò in sella da qualche altra parte.


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Avventura al Serrù

Testo e foto Enrico Marta

Appena ho saputo che il Giro sarebbe arrivato al Serrù mi sono subito immaginato con macchina fotografica in mano, appeso ad una corda doppia a penzoloni su uno degli ultimi tornanti. Impossibile: nessuno mi avrebbe permesso un tale ardire, troppo rischioso. Ma non per me, piuttosto per quelli che transitavano sotto, corridori in primis. Nessuno avrebbe voluto stare ad ascoltare che quelle erano le mie montagne, che fin da ragazzino ho salito e scalato, aprendovi anche delle nuove vie quando avevo vent’anni. No, non gliene sarebbe fregato un bel niente a nessuno. Mi sono visto inseguito, braccato da uno stuolo di addetti alla sicurezza, dai guardaparco, dai poliziotti, ai quali si sarebbero aggiunti anche i pompieri e la protezione civile. Meglio studiare un’altra soluzione. Ma sì! La vecchia strada fra Noasca e Ceresole, la mitica, quella che ad un certo punto passa in una galleria scavata nella roccia, quella che veniva spazzata da enormi valanghe in inverno e soprattutto in primavera e che per questo è stata sostituita da una lunghissima galleria moderna che sbuca direttamente sulla piana di Ceresole:

lei poteva fare al caso mio. Per l’occasione è stata anche ripristinata e asfaltata completamente. Ok, decido di piazzarmi lì: una bella posizione per fotografare dall’alto il suggestivo passaggio fra le pareti che precipitano dal Sergent e dal Caporal. Una ricognizione a piedi nei giorni precedenti mi ha permesso di individuare la posizione perfetta: si tratta di arrampicare un grande masso, girargli dietro e posizionarsi a piombo sul tornante. Affare fatto! A Idalba, la mia compagna, assegno una posizione a bordo strada per fotografare il tornante più in basso per poi spostarsi velocemente a fare un bello scatto frontale dei corridori. A casa rimetto in funzione le macchine fotografiche serie, quelle che usavo per lavoro: a Idalba consegno la Eos Mark II, pesantissima, un martello. Io mi tengo la Nikon D1H, la prima professionale digitale della casa giapponese. Ci siamo. Venerdì 24 sveglia alle cinque - eh sì,


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piccole storie

ci hanno detto che chiudono la strada a Pont se si arriva tardi - e via per la Valle dell’Orco. A dispetto delle previsioni non incontriamo anima viva, né blocchi né colonne di auto, siamo veramente fra i primi. A Noasca c’è un po’ più di vita, a Ceresole sono già tutti schierati. Una nota di colore: Luca del negozio Mountain Sicks sta salendo con la mountain bike e gli sci da scialpinismo fissati allo zaino. «Per ingannare l’attesa vado a farmi la Nord dell’Aguille Rouge poi aspetto il giro al Serrù». Inizia anche per noi l’attesa: dobbiamo far passare otto ore prima del passaggio dei corridori. Meglio scendere a piedi e fare una ricognizione alla postazione prescelta. Sì, è proprio la posizione ottimale. Non ci resta che attendere. Ma qualcosa viene a turbare la nostra serenità: un’ordinanza vieta a chiunque di percorrere il tratto di strada in questione per il pericolo di caduta massi. Non si può passare in auto e nemmeno in bici, e soprattutto non si scende a piedi. Da una certa ora uno schieramento di vigili, guardaparco e protezione civile fa blocco all’inizio della discesa mentre un flusso ininterrotto di cicloamatori continua a sopraggiungere da sotto percorrendo quel tratto di salita. Inutile chiedere di passare per scendere: conosco già la risposta. E allora si fa così: Idalba si ferma qui e aspetta i corridori per fotografarli non appena entreranno sul piano e io parto per il sentiero del Sergent, poi lo abbandonerò non appena sarò un po’ in alto, lontano dalla vista degli addetti. Con me ho un imbrago, una fettuccia, un moschettone e uno spezzone di corda. Arrivare dall’alto sui tornanti scelti è un’avventura: devo arrampicare in discesa e aggirare dei massi di dimensioni ragguardevoli ma finalmente eccomi sopra il punto desiderato. Sorpresa, il bordo della strada è pieno di ciclisti appostati e altri spettatori. Incredibile, ma non era vietato? Non mi resta che scendere una rete para massi e sarà anch’io sulla strada. Poche

decine di metri più in là cinque o sei volontari del Soccorso Alpino chiacchierano a bordo strada e non mi hanno nemmeno visto scendere. A questo punto mi sento chiamare, Idalba è lì. «Sai, sono riuscita a sgattaiolare, dal momento che altri son passati sono passata anche io». Non mi resta che arrampicarmi sul masso, meglio aggirarlo sul retro. Ecco ora sono in alto ma non posso posizionarmi, rischio di essere visto dai ragazzi del Soccorso Alpino e costretto immediatamente a scendere. In effetti devo muovermi con grande attenzione: alcuni sassi potrebbero cadere sul tornante. Fortunatamente non vengo notato, un po’ coperto dalle fronde di un larice tengo d’occhio i movimenti del soccorso alpino: niente, qui dove sono non mi vedono. Sono in collegamento telefonico con l’amico Domenico Gay, ex maestro elementare di Ceresole, che mi chiama dalla Sardegna: sta seguendo la tappa alla televisione e così ne approfitto per farmi dire a che punto sono i primi. Gli spiego la mia situazione e mi raccomando di avvisarmi quando i corridori arrivano a Noasca, solo in quel momento abbandonerò il nascondiglio per andarmi a posizionare sul larice sul ciglio del salto di roccia. E così è: non appena la strada si riempie di auto del Giro e di moto della Polizia, mentre l’elicottero è quasi sopra di noi, mi muovo con cautela. Quattro o cinque passi, il larice, la longe, il moschettone ed eccomi qua bell’e che pronto. Provo un paio di scatti ma un ramo secco mi porta via la messa a fuoco: devo romperlo. Tak! Eccolo qui… e lo butto dietro al para massi, ma una scheggia, peraltro leggerissima, cade di sotto. Improvvisamente ho tutti gli occhi puntati addosso, qualcuno che era lì sotto si sposta guardando in alto, l’addetto del Soccorso Alpino mi mette finalmente a fuoco e io gli faccio ciao ciao con la manina. Tutto ok, tranquilli! So benissimo che non ci sarebbe più il tempo materiale per farmi scendere e lo sanno anche loro. Il resto è cronaca della tappa e qualche centinaio di foto per celebrare questo bellissimo luogo.


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Ik ben God niet Non l’ho fatto per fare spettacolo. Era il mio modo per mettermi addosso pressione e rendere la corsa eccitante. Ho detto che sarei scattato davanti al numero civico 256. Essere in grado di farlo in modo efficace, era qualcosa di speciale. [FRANK VANDENBROUCKE]

Testo e illustrazione Stefano Dragonetti

«L’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter ego. Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che rende Superman unico nel suo genere. Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent». Con queste parole David Carradine si rivolge a Uma Thurman, prima di affrontarla nella resa dei conti con cui si conclude Kill Bill Vol. 2 di Quentin Tarantino. VDB era un supereroe. Che quando era in giornata, in bicicletta volava, proprio come Superman.

Pedalava come sospeso sull’asfalto, come su una nuvola. Lui lo sapeva, da sempre. Da quando per tutti era ancora solo Frank Vandenbroucke, il suo alter ego. Da quando, ancora ragazzino, durante gli allenamenti sulle strade di casa si metteva a ruota dei più grandi, dei più forti. Che provavano in tutti i modi a staccarlo, ma senza riuscirci. E anche gli altri l’avevano capito piuttosto in fretta, che quel biondino magro aveva un talento fuori dal comune. Uno così non poteva che bruciare le tappe. A diciassette anni, solo tre dopo aver iniziato a correre in bicicletta, si era laureato campione nazionale belga tra gli Allievi e l’anno successivo si era riconfermato anche tra gli Juniores. Dopo qualche mese, al Campionato Mondiale di Atene, era arrivato terzo dietro gli italiani

Palumbo e Santoro. Frank mordeva il freno, era impaziente di cimentarsi con i grandi. Dopo aver conseguito otto vittorie tra i dilettanti, saltando la trafila tradizionale che l’avrebbe voluto ancora per qualche anno a farsi le ossa in quella categoria, a soli diciotto anni passò tra i professionisti come stagista alla Lotto, praticamente la squadra di famiglia, dove lo zio Jean-Luc faceva il direttore sportivo e il padre Jean-Jacques il meccanico. Aveva iniziato con l’atletica, con le corse campestri, con ottimi risultati. Ma a casa si mangiava pane e ciclismo. Suo padre aveva corso da ragazzo sino a disputare uno scorcio di stagione con i professionisti, mentre lo zio Jean-Luc era stato un vero fenomeno nelle categorie giovanili, con più di duecento vittorie, poi professionista



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per quattordici anni, raccogliendo un’altra settantina di successi, e infine direttore sportivo. Per il piccolo Frank, salire in ammiraglia con il papà o lo zio era normale amministrazione. Jean-Jacques faceva il meccanico anche per la Federazione Ciclistica Belga, e un giorno Frank si ritrovò a ruota nientemeno che del gruppetto dei professionisti belgi, che si allenava sul percorso di gara, qualche giorno prima del Campionato Mondiale di Chambery, in Francia. Sulla salita della Côte de Montagnole Claude Criquielion e Dirk De Wolf presero a sfidarsi e il ritmo si alzò, al punto che in cima nessuno aveva più fiato per chiacchierare. E Frank? Era ancora lì, a ruota, anche se aveva solo quattordici anni, ed era solo il primo anno che correva in bicicletta. Approdato tra i professionisti, dopo solo qualche mese di apprendistato, riuscì a cogliere una vittoria nella tappa conclusiva del Tour Méditerranéen del 1994. Il Tour Méditerranéen era nato nel 1974 dalla fantasia di Lucien Aimar, francese di Hyères, in Costa Azzurra, capace nella sua carriera di vincere il Tour de France del 1966 così come di gettare alle ortiche il Tour de l’Avenir del 1964, dopo averlo già vinto, per

una scazzottata con un altro corridore. Dopo aver smesso di correre si era inventato questa corsa a tappe di una settimana, che si disputava verso la metà di febbraio. Offriva ai corridori l’occasione per scaldare i motori in vista dei primi appuntamenti importanti della stagione, con brevi tappe che si snodavano lungo la costa del Mediterraneo, tra Provenza e Costa Azzurra. Nella sua ricetta Aimar inseriva sempre almeno una cronometro e soprattutto la scalata al Mont Faron, la montagna che sovrasta Tolone, ingrediente assolutamente indispensabile, come lo scorfano rosso o il pesce San Pietro nella bouillabaisse marsigliese. Aimar è diventato Monsieur Faron, quella montagna è la sua vita. Sugli stretti tornanti dall’asfalto rugoso è riuscito a vincere da junior, da dilettante e poi anche da professionista. Nell’edizione del 1994 la corsa compiva vent’anni, come Frank, che era alla sua prima vera stagione tra i professionisti. Il Mont Faron lo si era scalato nella penultima frazione, una cronometro di trentadue chilometri vinta da Davide Cassani, che in quell’avvio di stagione volava, e indossava anche la maglia gialla di leader della classifica generale. In cima al Mont Faron, nella tappa regina, l’imberbe Frank

si era messo in mostra piazzandosi quarto, a ventitré secondi dal vincitore, nonostante una foratura capitatagli a cinquecento metri dall’arrivo. Dopo, aveva tranquillizzato i delusi con quella che sembrava una spacconata: «Nessun problema, domani vincerò a Marsiglia». Il giorno successivo l’ultima tappa ripartiva da Tolone e lo striscione d’arrivo era posto, dopo solo settantasette chilometri, in cima alla collina di Notre Dame de La Garde, il punto più alto di Marsiglia. Per raggiungerla, c’è da affrontare un chilometro buono di ripida strada in salita. Pendenza media del 10%, massima del 15%. Quasi un rettilineo, da fare allo scoperto, di forza, senza curve per rifiatare o nascondersi. In cima si erge la Basilica, con il grande campanile su cui svetta la statua dorata della Vergine con il Bambino, la Bonne Mère, che sovrasta la città, e si vede dal mare per chilometri. Il 13 febbraio del 1994, quando il gruppo attaccò lo strappo finale, esplose come un fuoco d’artificio colorato in mille scatti. Si avvantaggiò il polacco Zbigniew Spruch, che distanziò gli avversari per lanciarsi in una arrampicata solitaria. Sembrava fatta. Ma dietro arrivò Frank, salendo


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Frank Vandenbroucke in bicicletta aveva una grazia e un’eleganza insuperabile. Sembrava un angelo biondo caduto dal cielo e atterrato sul sellino. Aveva un fisico longilineo ed esile, con gambe da fenicottero, dai muscoli di seta, lunghi e affusolati. da seduto, ondeggiando un po’ con le spalle, la catena su un rapporto durissimo, e in testa un berretto invernale rosso, che più belga non si può. Quando raggiunse Spruch si alzò di nuovo sui pedali e con un ultimo slancio lo passò a poco più di cento metri dall’arrivo. Qualche metro prima della riga bianca si risedette e la tagliò alzando solo il braccio destro al cielo. Una felicità contenuta, quasi timida, ma forse furono solo la stanchezza e la pendenza a non concedergli gesti più eclatanti. Dopo solo qualche metro mise il piede a terra, esausto. Qualche secondo dopo, leggermente distanziati, arrivarono anche Spruch e Cassani. Non sappiamo se dopo l’arrivo Frank sia riuscito ad affacciarsi dalla collina, ad abbracciare con lo sguardo la città di Marsiglia, a lasciarsi inebriare dalla sua luce. Non sappiamo se sia riuscito a perdersi, anche solo per un attimo, nella distesa blu del mare. «Di fronte al mare la felicità è un’idea semplice», scrisse una volta Jean-Claude Izzo, che mentre Frank vinceva quella corsa stava lavorando al suo primo romanzo Total Khéops, ambientato proprio a Marsiglia, che sarebbe uscito l’anno successivo. Forse a Izzo, innamorato del Mediterraneo, sarebbe piaciuta quell’idea romantica a cui

Aimar aveva dato la forma singolare di una corsa in bicicletta. E forse gli sarebbe piaciuta anche quella prima vittoria, limpida, ingenua e sincera fino all’irriverenza, di un ragazzo che era scattato con naturalezza davanti a tutti e aveva semplicemente tirato dritto senza voltarsi sino all’arrivo. Quella prima vittoria aveva il sapore di un pastis ghiacciato da sorseggiare guardando il mare, come amavano fare i personaggi dei romanzi di Izzo. Quella prima vittoria di Frank aveva tutta l’aria di essere l’aperitivo di una grande carriera da corridore. Quando aveva quattro anni e scorrazzava sulla sua biciclettina sulla piazza di Ploegsteert, dove i suoi genitori gestivano una Hostellerie, un’auto uscì di strada durante la ricognizione di una gara di rally, lo falciò e gli distrusse un ginocchio. Per ricostruire l’articolazione dovette rimanere tre mesi all’ospedale e subire quattro operazioni chirurgiche. Una gamba gli restò sensibilmente più corta dell’altra e quel ginocchio continuò a farsi sentire e a causargli dolori, fastidi e infiammazioni ricorrenti per un pezzo. Nonostante tutto questo VDB in bicicletta aveva una grazia e un’eleganza naturali e insuperabili. Sembrava

un angelo biondo caduto dal cielo e atterrato sul sellino. Aveva un fisico longilineo ed esile, con gambe da fenicottero, dai muscoli di seta, lunghi e affusolati. Uno chassis da passista-scalatore, con un peso forma intorno ai sessantacinque chili, distribuiti su un metro e ottanta di altezza. Non aveva certo la struttura rocciosa di un Museeuw, che emanava forza al solo guardarlo, ma lo stile impeccabile e sublime del purosangue da corsa. Con la sua pedalata facile, armoniosa e fluida, era in grado di sprigionare, senza sforzo apparente, una grande potenza e velocità. Le sue progressioni erano affascinanti, intessute di quella stessa bellezza cinetica, soprannaturale, che sembra sfidare le leggi della fisica, che David Foster Wallace ha usato una volta per descrivere il tennis di Roger Federer. VDB negli anni aveva poi attentamente costruito la sua immagine e sviluppato anche qualche vezzo un po’ dandy, da star, come i capelli colorati oppure ossigenati, o come l’ossessione per i copriscarpe. Quella specie di ghette che si usano per proteggere i piedi dal freddo, dalla pioggia, dagli schizzi e dallo sporco che sale dall’asfalto oppure nelle cronometro con una funzione non tanto protettiva quanto in bilico tra aerodinamica ed


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estetica. Ecco, VDB i copriscarpe li indossava sempre. Estate o inverno, salita o discesa, corsa a cronometro o in linea, gara o allenamento. Non faceva differenza. Poteva a volte non indossare niente in testa, né casco né cappellino, ma state certi che i copriscarpe li aveva. Facevano parte del suo costume da supereroe, erano un accessorio imprescindibile, un tratto distintivo, come la maschera per Batman. Di volta in volta bianchi, rossi, blu, a fare immancabilmente pendant con i colori della divisa. Cercate una sua foto in bicicletta senza i copriscarpe, difficilmente la troverete. Nel 1995 arrivò il primo successo di un certo peso, la Parigi-Bruxelles, conquistata in una volata a due condotta con la freddezza di un veterano ai danni di Sørensen. Nel frattempo, però, Frank, ormai sempre più VDB, aveva già cambiato, un po’ rocambolescamente, casacca. Perché era un tipo ambizioso, irrequieto, insofferente. Un po’ enfant prodige, ma anche, e parecchio, enfant terrible. Per sé voleva il meglio, e possibilmente anche in fretta. E la parte del ragazzino che prende ordini dallo zio gli andava stretta. Era uno da tutto e subito. Voleva la sua indipendenza, voleva correre al fianco del suo idolo, Johan Museeuw. Il padre lo assecondò, di nascosto dallo zio, e ordì in segreto le trattative per il suo

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trasferimento. E VDB, nel bel mezzo della stagione 1995, lasciò la livrea rossonera della Lotto per indossare il costume con i cubetti colorati della Mapei-GB, diretta da Patrick Lefevere, la corazzata italo-belga del ciclismo dell’epoca dove, oltre a Museeuw, militavano tra gli altri anche Ballerini, Peeters, Rominger e Tafi. Era il 1° Aprile, ma non era uno scherzo, e la questione della rottura del contratto con la Lotto finì in tribunale. VDB e lo zio Jean-Luc non si parlarono per due anni. Per tutti i tre anni successivi, VDB rimase alla Mapei, vincendo una trentina di corse, tra cui Scheldeprijs, Grand Prix de Ouest-France, Trofeo Laigueglia, Trofeo Matteotti, ÖsterreichRundfahrt e il Tour Méditerranéen. Nel 1997 sfiorò anche la vittoria in due tappe del Tour de France.

del momento. E a quel punto arrivò l’offerta del team francese Cofidis, tanto sostanziosa da indurlo a far saltare di nuovo il banco e rimangiarsi la stretta di mano con cui aveva suggellato la promessa di fedeltà fatta a suo tempo a Giorgio Squinzi, il patron della Mapei. Soldi a parte, VDB voleva essere sempre al centro dell’attenzione, e alla Mapei c’erano troppe stelle con cui dover condividere ad ogni corsa il ruolo di capitano. Alla Cofidis invece avrebbe avuto la squadra completamente al suo servizio. Con lui arrivarono alcuni corridori belgi fidati, con il preciso scopo di aiutarlo nelle classiche. Uno era proprio Nico Mattan, il suo migliore amico, il complice di Wevelgem, anche lui transfuga dalla Mapei, e poi Peter Farazijn e Steve De Wolf, entrambi ex-Lotto-Mobistar.

Nell’inverno tra il 1997 e il 1998, una volta accertato che l’articolazione del ginocchio era intatta, fece un lavoro di potenziamento muscolare mirato per riuscire ad essere più efficace in bicicletta. E nella sola stagione 1998 riuscì a vincere la Parigi-Nizza, la GandWevelgem, il Tour de Wallonie e la Vuelta a Galicia e si piazzò secondo alla Flèche Wallonne, dietro Bo Hamburger, e alla Züri Metzgete, il Campionato di Zurigo, dietro Michele Bartoli. VDB non era ormai più una promessa, si era ritagliato il suo posto tra i grandi

L’inizio della stagione 1999 per VDB fu formidabile e si presentò alle prime classiche con un bottino invidiabile. Tra febbraio e marzo aveva infatti vinto il Grand Prix d'Ouverture La Marseillaise, una tappa della Vuelta a Andalucia, l’Omloop Het Volk, una tappa della Parigi-Nizza e una tappa, a cronometro, della Tre giorni di La Panne. Il 6 aprile prese il via al Giro delle Fiandre, dove la Cofidis provò a scompigliare i piani della Mapei piazzando un attacco a sorpresa a centocinquanta chilometri dall’arrivo.


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Côte de La Redoute. A Frank Vandenbroucke piaceva dichiarare in che punto esatto del percorso avrebbe attaccato.

VDB attaccò insieme ai compagni De Wolf, Farazijn e Gaumont e a una trentina di altri corridori. Ma le cose non andarono per il verso giusto. A VDB scivolò la ruota anteriore e cadde sulle pietre del Molenberg, anche se senza conseguenze. Gaumont invece si schiantò in modo simile sul tratto in pavé Paddestraat, finendo fuori corsa. VDB, che era alla sua ruota riuscì ad evitarlo, ma alla fine la fuga venne ripresa. Dopo vari attacchi, si formò in testa un gruppetto di dodici corridori, tra cui VDB, Van Petegem, Museeuw, Sørensen, Tchmil, e altri, con il rivale Bartoli che rimase invece leggermente attardato in un gruppo successivo. All’attacco del Muur, su una curva a destra, in una zona di transizione tra asfalto e pavé, VDB

infilò la ruota nel posto sbagliato e franò nuovamente a terra, frenando tutto il gruppetto dei fuggitivi, tranne Van Petegem e Museeuw, che erano davanti a lui. I due ne approfittarono: Van Petegem fece il Muur a tutta, tanto che Museeuw faticava a tenere il suo ritmo e, terminata la salita, i due continuarono insieme, inseguiti da un gruppetto di sette uomini che si era formato dopo il Muur e tra cui c’era ora anche Bartoli, rientrato grazie al rallentamento. A una ventina di chilometri dall’arrivo, con una veemente progressione che lasciò paralizzati i compagni di inseguimento, VDB si lanciò in una caccia solitaria al duo di testa, che stava per affrontare il Bosberg. Con un’azione che trasudava panache risalì il Bosberg con violenza,

rimbalzando sulla sella a ogni pedalata, e qualche chilometro dopo la fine della salita piombò come un falco sui due battistrada, riguadagnando il posto che gli spettava, in testa alla corsa. Dopo qualche tentativo di allungo, sempre rintuzzato dai rivali, all’ultimo chilometro i tre rallentarono e Van Petegem ripartì deciso, guadagnando una ventina di metri. Museeuw rimase impassibile e toccò a VDB chiudere. Ai trecento metri i tre si ritrovarono affiancati e si guardarono un’ultima volta. Due fiamminghi e un vallone, anche se dal cognome fiammingo, si giocavano in volata il Giro delle Fiandre, mandando in visibilio il pubblico che si accalcava sulle transenne e che non avrebbe desiderato di meglio. Vinse Van Petegem, con VDB


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secondo e Museeuw terzo. Bartoli arrivò quarto dopo una decina di secondi, regolando il gruppo inseguitore. Dopo questa sconfitta, VDB ne incassò un’altra alla sua prima partecipazione alla Parigi- Roubaix, dove arrivò settimo, senza riuscire a scalfire il dominio della Mapei, che ancora una volta piazzò tre suoi corridori sul podio, come era già successo nel 1996 e nel 1998. Bartoli invece vinse, la Flèche Wallonne. Il 18 aprile VDB e Bartoli si ritrovarono alla Liegi-Bastogne-Liegi, la Doyenne, la più antica delle classiche che, nei due anni precedenti, era stata vinta proprio da Bartoli, sempre davanti Jalabert. Bartoli era il principale favorito e puntava apertamente al terzo successo consecutivo. Il luogo mitico, la salita simbolo della Liegi è la Côte de la Redoute, a circa trentasei chilometri dall’arrivo, due chilometri con una pendenza che nel punto più duro sfiora il 20%. Sulla Redoute, l’anno precedente, alla sua prima partecipazione, VDB la Liegi l’aveva persa. Aveva provato a inseguire Bartoli nel suo primo attacco, sino ad affiancarlo, ma poi quando Bartoli era ripartito, nel punto più duro, aveva dovuto cedere, arrendersi. Dopo, il gruppetto dei migliori si era ricompattato ma Bartoli a quindici chilometri dall’arrivo era scattato di nuovo facendo il vuoto e andando a vincere in solitaria con un minuto e mezzo sugli avversari, tra cui VDB, sesto. Sulla Redoute, Bartoli aveva esibito la sua superiorità e gli aveva inflitto una lezione che bruciava ancora. Da allora, VDB aveva un conto

in sospeso con Bartoli, che poi lo aveva battuto di nuovo, al Campionato di Zurigo, quando i due si erano ritrovati a sprintare sul cemento del velodromo di Oerlikon in una volata da fotofinish. VDB era convinto di averla spuntata e aveva alzato il braccio al cielo, dopo la linea, ma la giuria lo smentì e la vittoria, millimetrica, venne assegnata al toscano, lasciando VDB di nuovo scornato. La Redoute era il luogo ideale per celebrare finalmente la sua vendetta. La Liegi del 1999 sarebbe stata una questione privata tra lui e Bartoli. Nelle interviste precedenti la corsa, con la consueta spavalderia, aveva dichiarato:

«Attaccherò Bartoli sulla Côte de la Redoute, e nessuno riuscirà a starmi dietro». La sfida era lanciata, lo scontro annunciato. La Mapei diresse sapientemente le operazioni in corsa, tenendo protetto fino alla salita Bartoli che pilotato dai suoi, uscì allo scoperto con un’azione analoga a quella dell’anno precedente. La sua prima frustata gettò lo scompiglio nel gruppo di testa e aprì subito un distacco di una ventina di metri. Alcuni riuscirono dapprima a recuperare un po’ di terreno, guidati dal campione olandese Boogerd, che sembrava il più brillante. Bartoli se ne accorse e affondò di nuovo lo scatto, mentre ci si avvicinava al punto più duro della salita.

Finché dietro di lui apparve, dal nulla, la sagoma di VDB, come Clint Eastwood che appare in lontananza dal fumo della dinamite che si dirada, nella scena che precede il duello finale di Per un pugno di dollari. Ma nemmeno Sergio Leone avrebbe saputo inscenare meglio il duello in cui si stavano per affrontare VDB e Bartoli. Nel punto più duro della salita i due si ritrovarono di nuovo affiancati, in piedi sui pedali come l’anno precedente, e si lanciarono in una volata folle, gomito a gomito, entrambi con le mani in presa bassa, verso la conquista dell’inutile sommità della Redoute, in mezzo a due file di spettatori sbalorditi. Stavano correndo come se la corsa finisse là in cima. Bartoli, indispettito dall’avversario che irrompeva all’improvviso a rubargli la scena, si voltò a guardarlo per un istante negli occhi e provò ad accelerare di nuovo. Questa volta però fu VDB a ripartire con una delle sue furiose progressioni, filando via sulla destra, e lasciando Bartoli a raccattare i cocci del suo orgoglio davanti a un tifoso che agitava uno striscione bianco con la scritta Frank = Gèant. Quando VDB prese il largo, Bartoli si sedette, cambiò rapporto, poi tornò in piedi sui pedali. Ma la pedalata si era appesantita. Era stato sconfitto, aveva accusato il colpo. VDB scollinò da solo, percorse qualche chilometro in solitaria lasciando poi rientrare gli avversari in cima alla Côte de Sprimont, a trenta chilometri dall’arrivo. Da lì proseguì con quello che la cronaca della corsa chiamava


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ancora gruppo Bartoli. Sulla Côte di San Nicolas, a sei chilometri dall’arrivo, quando allungò dapprima uno stanco Bettini e poi, con più decisione, Boogerd, VDB lo raggiunse facilmente. Nei giorni precedenti la corsa aveva compiuto una minuziosa ricognizione del finale di corsa, per decidere dove attaccare, e aveva dichiarato con una delle sue boutade persino il numero civico del portone davanti al quale sarebbe scattato. Aspettò la curva più dura, verso la fine della Côte, per liberarsi di Boogerd. Coprì i chilometri mancanti senza più voltarsi sino a trecento metri dall’arrivo, quando capì che era fatta e poteva iniziare ad esultare. In pochi chilometri aveva accumulato trenta secondi di vantaggio su Boogerd. Bartoli, chiuse in quarta posizione. VDB aveva eseguito il suo piano alla perfezione e aveva confezionato il suo capolavoro. A ventiquattro anni, in una domenica di aprile, aveva vinto la LiegiBastogne-Liegi, e lo aveva fatto nel suo stile flamboyant, sfrontato, esagerato. Era la sua trentanovesima vittoria da professionista, la prima in Coppa del Mondo, la più importante. David Carradine continua: «Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono. Sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il

suo costume. È il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana». Dopo quella fantastica vittoria a Liegi, sembrava che nessuno potesse più fermare VDB. Invece, sia la sua vicenda sportiva che quella umana, sia la corsa indiavolata di VDB che la vita del suo alter-ego Frank Vandenbroucke, finirono entrambe tristemente e troppo presto. Se VDB sembrava essere invincibile, al sicuro da ogni attacco, non lo era certo Frank, che finì sopraffatto dalle conseguenze del suo coinvolgimento nelle pratiche dopanti generalizzate del ciclismo di quegli anni. Oggi VDB continua ad avere moltissimi tifosi, quasi come se non avesse mai smesso di correre, anche se da quella domenica di Liegi sono passati vent’anni. Le scritte con la vernice bianca sull’asfalto sono cambiate solo leggermente. Dove ieri le strade erano tappezzate di VDB VDB VDB, oggi si legge VDBforever. Non c’è verso di dimenticarlo. Frank invece non c’è più da quasi dieci anni. Ma forse, in realtà, Frank non c’è più da molto prima. Nessuno se n’è mai accorto ma lui era rimasto a Marsiglia, il giorno della sua prima

vittoria da Davide contro Golia, da piccolo tra i grandi. Era rimasto là, a godersi per sempre la felicità semplice di quella vittoria acerba. E a Frank quella vittoria piaceva davvero più di tutte le altre, più grandi, più importanti, arrivate dopo. Quel giorno in Belgio, dove aspettano come il Messia il nuovo Eddy Merckx dal momento in cui quello vecchio ha smesso di correre, i paragoni si sprecarono. Ammiccando, Frank aveva replicato:

«Lasciatemi vincere un paio di Tour, tre o quattro classiche e conquistare la maglia iridata prima di fare paragoni». Nella fase decadente della sua carriera, il giorno di uno dei suoi tanti tentativi di ritorno alle corse, alla Liegi del 2003, in cui si sarebbe piazzato undicesimo, qualcuno sull’asfalto aveva scritto in fiammingo God is terug, Dio è tornato. E c’erano tifosi che sventolavano enormi bandiere con il suo volto stampato sopra. Ecco, quando Frank scrisse la sua autobiografia, che uscì nella primavera del 2008, la intitolò Ik ben God niet, io non sono Dio. Perché, in fondo, aveva ragione Mario Fossati quando scrisse che «anche un campione è un uomo, non un manifesto da appiccicare ogni giorno sul muro».


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giochi da tavolo

Ciclismo da tavolo

Testo Stefano "Drago" Dragonetti

SE AMATE IL CICLISMO, TROVERETE FLAMME ROUGE UN GIOCO BELLISSIMO. SE INVECE IL CICLISMO NON LO AMATE E MAGARI NON LO CONOSCETE NEMMENO TROPPO BENE, MA AMATE INVECE I GIOCHI DA TAVOLO, NON MANCHERÀ LO STESSO DI APPASSIONARVI. La Flamme Rouge, per chi non lo sapesse, è la bandierina triangolare rossa che segnala l’ultimo chilometro di una gara ciclistica, la fase conclusiva e più emozionante della corsa. Si gioca da due a quattro giocatori e l’obiettivo, come in ogni corsa ciclistica, è quello di tagliare per primi il traguardo. Ma non pensate a una banale variante a tema ciclistico del gioco dell’oca, semplicemente con i segnaposto costituiti da ciclisti in miniatura. Per avanzare sul percorso qui non ci sono dadi da lanciare ma si utilizzano invece delle carte apposite. Ciascun giocatore ha a disposizione una squadra con due corridori: un rouleur (passista) e uno sprinteur (velocista). Ad ogni mano di gioco, per fare avanzare ciascun corridore, bisogna scegliere la carta con il valore ritenuto più adatto che, una volta utilizzata, andrà definitivamente persa. Se Hennie Kuiper, campione olimpico e mondiale su strada e grande cacciatore di classiche negli anni ’70/’80, disse una volta che «per correre in bicicletta bisogna imparare a svuotare il piatto degli avversari prima di cominciare a svuotare il proprio», anche in Flamme Rouge se un pizzico di fortuna non guasta (e a quella, ci pensano le carte) la tattica di gara diventa fondamentale, così come la gestione della fatica. Innanzitutto bisogna visionare e studiare il percorso di gara e pianificare di conseguenza la gestione delle proprie risorse. Se si sta troppo al vento nei primi chilometri, ci si ritroverà senza energie nel finale; se invece si adotta una condotta di gara troppo

conservativa, si rischia di venire inesorabilmente staccati e di non riuscire più a riguadagnare in tempo le prime posizioni per il finale. Bisogna sfruttare la scia degli avversari, approfittare delle discese, non sprecare energie con attacchi scriteriati in salita, cogliere l’attimo giusto per attaccare e arrivare all’ultimo chilometro con gambe sufficienti per infilare gli avversari con una sparata da finisseur o per giocarsi la vittoria in volata. Tutto come in una corsa vera, insomma. La grafica evoca l’atmosfera dell’epoca eroica del ciclismo e vi trasporta direttamente alla Grand Boucle degli anni ’30/’40, con maglie di lana, tubolari a tracolla e borracce di alluminio. Il regolamento è stampato sull’edizione datata 6 luglio 1932 di un immaginario quotidiano dell’epoca. Si possono utilizzare i percorsi di gara suggeriti, ispirati alle tappe del Tour o alle Classiche, oppure combinare a piacimento le tessere realizzando un percorso di gara personalizzato. La meccanica del gioco e le regole sono semplici e immediate, e si può giocare tranquillamente in famiglia (età consigliata 8+) divertendosi senza assolutamente essere dei nerd dei giochi da tavolo o di carte. La durata di una partita è in genere intorno ai 30-40 minuti. Questo consente sessioni non troppo lunghe o impegnative e anche di organizzare corse a tappe con sessioni successive. Anche se il regolamento incluso nella confezione non lo prevede, si trovano facilmente in rete diverse risorse e istruzioni al riguardo e anche l’applicazione


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Flamme Rouge Companion, che consente di pianificare le tappe e tenere traccia dei risultati dei corridori e delle squadre sul vostro smartphone. Il gioco è stato creato dall’autore danese Asger Harding Grenneroud, e illustrato da Ossi Hiekkalaed. È edito dalla finlandese Lautapelit e distribuito in Italia da Playagame edizioni. Ha ottenuto un buon successo di pubblico e di critica, tanto da vincere diversi premi in giro per l’Europa tra cui il finlandese Family Game of the Year 2017 e in Italia il premio Gioco dell’Anno 2018. Sono già disponibili anche due espansioni, vendute separatamente: Peloton, che aggiunge due nuove squadre (rendendo quindi possibile ampliare il gioco a sei giocatori) e nuove tessere percorso con Pavé e strettoie, che ampliano le possibilità di personalizzazione dei percorsi e introducono ulteriori varianti; e Meteo, che introduce le ulteriori variabili legate al meteo, come il vento trasversale, contrario o a favore, o la pioggia, che possono favorire oppure ostacolare i corridori e innescare cadute. Il successo travolgente del gioco ha indotto l’autore a svilupparne una ulteriore espansione, che è stata presentata in anteprima mondiale a Play, il Festival del Gioco che si è tenuto a Modena dal 5 al 7 aprile 2019, con il nome in codice di Grand Tour, la cui uscita è prevista per la fine del 2019.

.1 Flamme Rouge WTipo: Corse di biciclette Editore: Lautapeli (Finlandia) Giocatori: 2-4 giocatori Età: 8+ Durata: 35-45 minuti


direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it

Alvento #5. Foto di Chiara Redaschi.

via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

«Dopo che sono passati lui e Hirt mi veniva da piangere. Quando ho scattato mi tremavano le mani». Un immenso Giulio Ciccone sta per scollinare sul Mortirolo.

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in edicola dal 15 giugno 2019

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RIVISTA BIMESTRALE

Collaborare

Direttore Responsabile Luca Giaccone Direttore Editoriale Emilio Previtali emilio.previtali@alvento.cc

Le collaborazioni che cerchiamo funzionano secondo il sistema delle submissions.

Pr, Informazioni e Pubblicità info@alvento.cc Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi Amministrazione Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it Segretaria di Amministrazione Elena Volpe elena.volpe@Mulatero.it Logistica E Magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Progetto grafico e Impaginazione tundra visit@tundrastudio.it

Hanno scritto su questo numero: Alessandro Autieri, Carlo Beretta, Dino Bonelli, Filippo J Cauz, Stefano Dragonetti, Gabriele Gargantini, Enrico Marta, Silvia Parisi, Dario Reda, Eric Scaggiante, Fulvio Silvestri. Hanno fotografato su questo numero: Chiara Redaschi, Federico Ravassard, Tornanti.cc, [Francesco Rachello e Eloise Mavian], Archivio Castelli, Bettiniphoto.net, Dino Bonelli, Edoardo Civiero, Enrico Marta, Silvia Parisi, Dario Reda, Andrea Securo, Fulvio Silvestri.

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ultimo chilometro

Gillette venus La forma è tondeggiante e morbida, il colore dell'impugnatura è di un azzurrino tenue tendente al verde, non si direbbe che è un rasoio. I rasoi che ho usato in vita mia fino ad ora sono quella roba cazzuta a cinque lame per uomini che non devono chiedere mai, hanno nomi testosteronici tipo Viking, Mach, Fusion, X-Treme, ProGlide, eccetera eccetera. Questo invece è un rasoio specifico per la depilazione femminile, l'ho fregato di nascosto a mia figlia. Il venerdì per un ciclista è il giorno della rasatura dei peli delle gambe, sotto alla doccia mentre lo shampoo ti cola dai capelli è un attimo togliersi i peli con il rasoio. Non fate quella faccia schifata, con i pantaloncini in lycra le gambe pelose non sono mica poi tutta sta bellezza da vedere. E poi io la pelle senza peli la preferisco, non parlo necessariamente di gambe da uomo e da ciclista, parlo in generale. I gusti sono gusti. Inizio il mio lavoro di depilazione con il rasoio, per me è una cosa così normale, nel frattempo di solito mi lavo anche i denti. A me pare che rasarsi i peli delle gambe sia un po' come passare l'aspirapolvere sul pavimento del salotto e serve un po' di metodo, bisogna andare per strisce parallele e per zone, con ordine. Di solito faccio prima le cosce, poi i polpacci e infine le ginocchia, quelle sono più noiose da fare, lì il rasoio tende a incagliarsi e lavora meno bene. Poi quando ho finito anche con le ginocchia di solito faccio un'altro giro veloce andando un po' a caso, per eliminare quei peli anarchici e dissidenti che eventualmente fossero rimasti, sfuggiti dalle lame.

Questo rasoio di cui vi parlo ne ha tre di lame, però non mi sembra che tagli benissimo. Essendo un rasoio specifico per la depilazione del corpo mi aspettavo che tagliasse molto meglio. Boh. Tutta l'operazione in genere dura per me meno di tre minuti, di solito faccio velocissimo, se uno non aspetta di avere dei peli lunghi un dito si fa molto-molto alla svelta. Mentre cerco di accertarmi della qualità della rasatura facendomi il contropelo con il dito mi accorgo che le tre lame sono coperte da un pezzo di plastica trasparente, una specie di cappuccio per la testina che mi cade a terra sul piano della doccia. In pratica sono tre minuti abbondanti che nudo nella doccia con lo spazzolino da denti in bocca tento di radermi i peli delle gambe con un pezzo di plastica. A questo punto è evidente: me sto a rincojoní. Tutta questa storia non ditela a nessuno, comunque, soprattutto a mia figlia che al momento è in giro per casa che cerca i suoi rasoi Gillette Venus Pro e se scopre che glieli ha fregati suo padre per radersi i peli delle gambe, beh, sono traumi non facili da superare. Non sono cose belle da sapere queste sul conto di tuo papà.


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UN VIAGGIO LUNGO UNA VITA. UNA VITTORIA DAL SAPORE UNICO. 10 anni nel gruppo. 7 Grandi Giri e 15 Classiche a lavorare per il team. Centinaia di corse e migliaia di chilometri. Una vittoria. Uno spirito di squadra. Complimenti Cesare.

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