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BIMESTR ALE in edicola dal 31 ottobre 2019

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ottobre 2 019

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Un racconto inedito su due ruote di Enrico Brizzi

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scollinare /scol·li·nà·re/ intransitivo

1. NON COM. Passare da un versante all'altro di una collina. 2. Nel ciclismo, superare un passo o un valico. I fuggitivi stanno scollinando.

CI SONO ANCORA LE MEZZE S TA G I O N I — ANCHE QUESTA VOLTA NON CI SIAMO FERMATI AI LUOGHI COMUNI.

ERAVAMO STANCHI DI FISSARE UN ARMADIO E DECIDERE TRA MANICHE CORTE E MANICHE LUNGHE.

COSÌ È NATA PERFETTO ROS CONVERTIBLE JACKET. IDROREPELLENTE, ANTI VENTO, CONVERTIBILE. PERFETTA PER LE MEZZE STAGIONI. E ANCHE PER L’INVERNO. CASTELLI-CYCLING.COM

« Arriva sempre, nella vita delle persone, un momento nel quale si scollina: le rampe della salita che si riteneva senza fine lasciano il posto a un breve falsopiano, e ci si ritrova a pedalare lassù, increduli di poter vedere una nuova porzione di mondo. Non c'è neppure il tempo di rifiatare e abituarsi alla prospettiva aerea, però, che già la strada inclina verso il basso. Da qui in avanti, per arrivare al traguardo, diventano inutili le doti del grimpeur: per governare la discesa servono animo saldo e concentrazione, ché bisogna pennellare le traiettorie d'istinto ed essere pronti a correggerle in un batter di ciglia, senza farsi prendere dal panico neppure se la ruota salta su qualche ostacolo imprevisto, e mantenere l'equilibrio diventa la più difficile delle imprese». Enrico Brizzi – In piedi sui pedali.

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ENGINEERED WITH


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Difendersi

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Come ogni anno il Muro di Sormano al Giro di Lombardia ci ha ricordato due cose: la prima, a noi spettatori, che il ciclismo è un rito e certe salite sono un tempio. È esattamente lì che si celebra la liturgia della fatica; la seconda, ai corridori, che certe salite non vanno prese attaccando ma difendendosi, e il Muro di Sormano è uno di quelle. Chissà se Bauke Mollema, in quel momento, immaginava che avrebbe vinto. Forse, no. E neanche noi.

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© Tornanti.cc

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Quando gli statunitensi arrivano ai Mondiali di sci alpinismo non sai mai chi siano, la Coppa del Mondo non la fanno. Non sai mai se la tutina l’abbiano messa qualche volta soltanto oppure se fino a quel momento siano andati a sciare con gli sci da freeride. Fino a due anni fa la squadra US era quella delle patatine e ketchup. Ai Mondiali del 2017 in Alpago, Quinn Simmons era un emerito sconosciuto per tutti, allenatori compresi. Capello biondo lungo, trucker hat, occhiali da sole. Yankee. Aveva 15 anni ed era accompagnato dal papà, in gara anche lui tra i senior. Nella gara sprint junior firma una prestazione che da un americano non s’era mai vista: terzo posto assoluto. Alle interviste gli chiedono da che sport proviene e risponde: Cycling. In Yorkshire ha vinto il mondiale. Ah, ok. Tutto chiaro. (Luca Giaccone)

© Bettini photo

© Corrado Jeantet

Polivalenza

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La prossima Eroica

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Tutti gli anni è così: diciamo che ci andremo l’anno prossimo, con calma. Per immergerci nell'atmosfera giusta, non si può andare a L’Eroica di fretta. Bisogna trovare il tempo. È un processo di maturazione e cambiamento. L’anno prossimo ci andremo e ne racconteremo su queste pagine, promesso. Non si può continuare a non andarci.

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editoriale

Felice Al primo Giro d’Italia mi ci hanno portato, da piccolo. Era il tempo delle elementari. Per me il Giro d’Italia aveva a che fare con i corridori e con le biglie, con quelle palline di plastica metà colorata e metà trasparente con cui si giocava sulla spiaggia. Si incastrava la punta del dito indice sul polpastrello del pollice, si creava tensione e si lasciava partire il colpo. Le palline schizzavano via, rotolavano sulla sabbia bagnata e si imbarcavano nelle paraboliche disegnando linee perfette. Alla pallina rosa Panizza corrispondeva un corridore di nome Panizza. Alla pallina nera Bitossi corrispondeva un signor Bitossi; al signor De Vlæminck corrispondeva la pallina rossa e al signor Merckx la pallina gialla. E poi c’era Gimondi, pallina azzurra. Gimondi era di Bergamo, come me, quindi in un certo senso era come conoscerlo. Felice, come fai a scordarti di uno con un nome così? Alla fine delle lezioni ci avevano portati in strada e c’era stato un continuo sfrecciare di auto e di moto e di sirene, e poi ancora auto con la musica ad alto volume e motociclette e camioncini che distribuivano cappellini, borracce, volantini. Poi altre auto e moto, sempre più ravvicinate tra loro e sempre più veloci. Vidi un'auto con un signore anziano a bordo che stava con mezzo busto fuori dal tettuccio dell’auto, i capelli grigi, tutti per aria svolazzanti. Gli adulti si sporgevano in avanti verso la strada, guardavano a sinistra, in attesa dei corridori, io non avevo ancora visto niente. Arrivarono i primi quattro fuggitivi, ci colsero quasi di sorpresa, menavano in silenzio. Io delle bici, in mezzo a tutta quella confusione di automobili e moto, se devo essere sincero, mi ero quasi dimenticato. Dopo quei quattro e dopo tutto quel rumore e quei colori che mi erano sfrecciati davanti in una serie di strisce sfocate gialle, rosse, bianche, azzurre, arrivarono gli inseguitori. C’era uno con la maglia

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di Emilio Previtali

tricolore e poi un altro chino sul manubrio con una maglia azzurra Bianchi, la testa bassa, i calzini bianchi, gli scarpini in cuoio nero puntati nei pedali. «Gimondi!» disse uno. Un attimo, ed era già andato. Poi in strada non ci fu più niente da vedere per parecchio tempo, solo qualche moto della polizia e il vociare della gente. Ci furono altre urla e alcuni applausi, dopo un po’ le grida delle persone come un’onda risalirono veloci fino a me e mi oltrepassarono. Stava arrivando il gruppo accompagnato dal rumore cupo di ruote che giravano sull’asfalto e punteggiato con il rumore secco delle catene che spinte dal cambio saltavano sui pignoni. Girato con la testa a sinistra vedevo i corridori avvicinarsi e fu in quel momento che capii. C’erano altri colori e altre maglie, ne riconobbi qualcuna che era uguale identica a quelle che avevo visto indosso ai corridori dentro alle palline con cui giocavo al mare. Mischiati a tutti gli altri suoni e agli applausi c’erano le voci dei corridori e quelle furono una sorpresa, non me l’ero proprio immaginato che in gruppo i corridori si parlassero tra loro. Erano persone vere. Tutto durò pochi minuti, sfrecciarono le ammiraglie e poi la strada fu di nuovo libera, niente più bici, se non quelle - tantissime - parcheggiate a bordo strada. Passarono l’ambulanza e il veicolo di fine corsa, quindi gli automobilisti si rimisero al volante e le persone rientrarono nei bar, nei negozi, nelle macellerie, nelle case, a fare quello che stavano facendo. Tutto ricominciò come prima. I semafori che prima cambiavano di colore nell’indifferenza generale ripresero la loro funzione e il traffico ripartì. Io andai a casa, quando entrai il pranzo era già in tavola. Mi sedetti al mio posto e anticipai mia mamma con la sua solita domanda: «Ho visto Gimondi!» - dissi entusiasta. «E a scuola, invece, come è andata?». Forse è lì che mi sono innamorato del ciclismo.


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Sommario 18 36

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60 La tappa degli assassini Siamo andati a ripercorrere la tappa del Tour del 21 luglio del 1910, da Bagnères de Luchon a Bayonne. 326 chilometri per scoprire il perché di questa definizione. di Pascal Caré e Dorian Tabeau

Come inguaiammo il Tour de France Gimondi e le paure dell’era post-Coppi Con un articolo pubblicato originariamente su L’Europeo nel 1967, il nostro ricordo di Felice Gimondi. di Gian Franco Venè

32 Fine della giovinezza [di Remco Evenepoel] La vittoria ai Campionati Europei a cronometro proietta definitivamente il talento belga tra i grandi del ciclismo. di Emilio Previtali

Julianne Alaphilippe, ovvero il rimescolamento delle carte nella più classica delle corse a tappe. di Filippo Cauz

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Tadej

Nella new-age del ciclismo professionistico un posto in prima fila spetta anche a Tadej Pogačar. di Alessandro Autieri

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72 Garibaldi fu

Dalla Calabria a Genova. In bici. Confrontandosi con le domande di chi si incontra lungo il percorso. di Federico Damiani

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La vittoria delle gambe nere

Nipote sei incredibile

Il Riccardo Magrini che conoscono tutti è il commentatore di Eurosport: ce lo siamo trovati dentro la televisione, ma pochi sanno la sua storia di corridore.

Uno zio e un nipote di nove anni, 500 chilometri in una settimana. Per il piacere di stare insieme.

di Francesco Beltrami

di Paolo Ronc


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I FORZATI DE±A STRADA

Niente di speciale Una storia di ispirazione, motivazione e bikepacking sui Pirenei. di Simon Cittati

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Bici Bice

NO EXTRA WATER NEEDED Ideale per le salite

In tutto il tempo che sono stato con lui, non ho mai sentito Dario usare una volta la parola cliente. Credo che sia una parola che non senta sua. di Giovanni Di Stefano

108 Confessioni di un cicloamatore anonimo

Bastano una decina di euro, una bici di media gamma ed un tesserino, anche da indipendente, per salire sull’ottovolante e misurarsi in una gara intensa, corsa a medie da professionisti.

w e N

di Pietro Maurizio Lungo

146 Lost in Prealps Pensi di conoscere un territorio, ma ti sbagli. Viaggio alla scoperta delle Prealpi Travigiane.

Uno degli scrittori più brillanti dell’epoca moderna ci racconta della sua passione per la bici. Il racconto inedito di un viaggio sui confini dell’Impero Romano (parte prima).

di Manuel Gatto

di Enrico Brizzi

OFFICIAL NUTRITION PARTNER

FORNITORE UFFICIALE DELLE NAZIONALI ITALIANE DI CICLISMO

MAIN PARTNER MARATONA DLES DOLOMITES-ENEL


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«Chi sei?» «Sono Merckx.» cover story

[Felice Gimondi, scherzando, al medico di gara che dopo una caduta in bici e una botta in testa, verificava le sue condizioni di salute].

Gimondi può essere considerato il primo ciclista italiano vincente dell’era moderna. Dopo il ciclismo degli eroi e dopo quello dei faticatori, venne l’era dei corridori robot, quelli che pensavano al successo nelle corse come al prodotto di un processo di fabbricazione industriale: allenamento, sonnellino, massaggio, dieta, riposo, corse. In un certo senso il ciclismo da allora in poi, è andato avanti sempre in quella stessa direzione. Oggi parliamo soprattutto di marginal gain e di pianificazione stagionale ma la traiettoria dello sport è rimasta sempre la stessa. Un giovane Felice Gimondi, nel giorno di riposo del Giro d’Italia 1967 (che poi vincerà) risponde alle domande di Gian Franco Venè, un giornalista la cui specialità era andare a pescare qualche piccolo fatto avvenuto in provincia, magari a margine della corsa, e farne un grande racconto alla Truman Capote. La fama dei campioni, da Coppi in poi, divenne fragile, così come l'entusiasmo popolare. Questa precarietà, un po’, preoccupava Gimondi.

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leggende

Gimondi

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E LE PAURE DELL’ERA POST-COPPI

Fausto Coppi attraversava la provincia come un generale. Vestiva doppiopetti, si faceva largo, accigliato, tendendo in avanti il braccio destro; non guardava noi ragazzi, guidava macchine potenti e veloci. Questo Gimondi qui se ne sta rannicchiato in poltroncina accanto a me, in maglietta grigia e calzoni color terra. L'altro ieri è scappato sul Tonale e sull'Aprica, ieri ha goduto il trionfo all'Arena: ma c'era il sole, almeno gli avesse lasciato il segno sulla pelle. Niente. Atroci maschere di Coppi, addio. Questo corridore racconta con calma, un risolino appena: anche la voce è pulita. Oggi è l'unico suo giorno di vacanza e lui sta qui con me. Mi racconta per tre ore, paziente, senza fumare, senza bere, senza commuoversi, senza arrabbiarsi, servizievole persino, chino in avanti, con il ginocchio destro in mano. Felice Gimondi, chissà come farà questo nome a stamparsi nella testa della gente?

di Gian Franco Venè originariamente pubblicato su L’Europeo, 1967.

Verona, 5 Giugno 1967 - Ciao, corridore acqua e sapone: ma è uno slogan anche questo, non è vero? E l'epoca degli slogan è finito per il ciclismo. Non è così, Gimondi? Lei fa l'umile, ma non è mica umile. Ai tempi di Coppi quest’atteggiamento sarebbe stato modestia: oggi è un'altra cosa; diciamo senso della realtà. È così? Oggi è difficile vincere e stupire. Coppi correva, Bartali correva, Magni correva: tutti gli altri dietro, come talpe. L'aquila solitaria seguita dai piccioni. Oggi vanno tutti molto forte, e si vince a poco a poco, se si vince, con l'astuzia, la forza fisica, il carattere, il lavoro di squadra. Che cosa è cambiato, la razza? Ma no, la preparazione, i mezzi tecnici… Le strade? Le biciclette? La preparazione atletica. Il corridore viene curato, fabbricato muscolo per muscolo, messo a posto, seguito. C'è più ordine: se un uomo corre è perché esiste chi lo alleva e poi lo inserisce in, in…


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Foto di gruppo. Si apriva con Gimondi (in alto a sinistra), Motta e Merckx la storia originale di Gianfranco Venè su L'Europeo.

In un organico? In un sistema? Sì. Dalle capacità di ciascuno poi dipende diventare campioni o no, capitani o gregari. Ma sono qualità che vengono fuori alla distanza di anni, con pazienza e tanta sopportazione. Ma sopportare che cosa, Gimondi, oltre alla fatica? Le umiliazioni, le piccole grandi cattiverie, le dicerie. Esistono in ogni lavoro. Correre non è un lavoro? Sì che è un lavoro. Un lavoro un po' buffo, però. Non si capisce come a uno salti in testa di correre in bicicletta, oggi che in bicicletta non ci va più nessuno. Tra l'altro: non è uno sport da provincia, la bicicletta? Nasce in provincia: ma poi s’è visto in questo Giro d'Italia come va a finire, entusiasmi dappertutto, fin troppi. E che cosa vuole di più? Ma no, era per spiegare le difficoltà di oggi, il cambiamento. La gente si entusiasma sì, ma è diverso. Quando Coppi correva c'era lui solo, sia come campione sia come divertimento, mi spiego?

Il 19 marzo partiva la Sanremo, tutti si ricordavano del Coppi dell’anno prima e lo aspettavano sulle strade. E lui passava solo, bello, veloce. Oggi non è più così. Oggi c'è più gente forse, ma è gente con la radiolina all'orecchio che mentre aspetta i corridori sente le canzoni o la partita, o pensa agli affari suoi, alle donne, al lavoro, alle rate da pagare, ai Beatles, quelle cose lì. Poi passi, vinci e ti battono le mani (se vinci) ma non puoi pretendere che tutti giorni pensino a te, di trovare posto nella loro fantasia. Non puoi pretenderlo. Anche ai tempi di Coppi capitava di pensare a qualcuno e a qualcos'altro che al ciclismo, lo sa, Gimondi? Eh, sì, ma c'erano solo lui e Bartali al vertice. Coppi per tutti era sempre primo e solo in cima alle montagne e in cima ai pensieri. Di Bartali mi hanno raccontato che una volta, dopo la guerra, fece capitare una rivoluzione. Tutta l'Italia ferma, non so esattamente, lui aveva vinto il Tour e l'intera vita italiana si fermò per Gino Bartali quel giorno.


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leggende

È un po' una leggenda, Gimondi. Era il 14 luglio del 1948. Avevano sparato a Palmiro Togliatti, sembrava scoppiasse la rivoluzione, poi vinse Bartali al Tour… Ecco, sì. E questo non succederà mai per Felice Gimondi. Sarebbe splendido, ma non succederà: io vinco il Giro, il Tour e tutta la nazione mi viene dietro? Fantasia. Lei non si sente abbastanza sicuro di sé? In fondo, Gimondi, persone come lei non sono né avventurieri né pionieri. Ha uno stipendio fisso, partecipa ad un organico: che lo voglia o no fa parte di un'industria. Le pare poco? Il suo contratto è abbastanza lungo. Io mi sento sicuro. Per esempio a Verona, dopo la cronometro, potevo giurare che avrei vinto il Giro. Ma non l'ho detto nessuno, capisce? C'è una probabilità su cento che vada male, e allora arriva la valanga di l'avevo detto io, Gimondi è finito, s’è fatto la fidanzata e non va più. È la gente che tiene su il morale al corridore. Il morale conta per il 70, il 75% del rendimento. È come l'onestà per un impiegato di banca, è basilare. Lei riesce a scrivere un articolo come va scritto se è ansioso, preoccupato? Anche se è capace, non può. Con la differenza che il suo morale lei lo fa dipendere dagli umori degli altri. E poi quali altri? Lei corre tra ali di folla, sente centinaia di migliaia di voci tutte insieme, come fa a sapere che dicono? Alle volte si capisce, basta una voce soltanto, una frase, un cartello. Io cerco di convincermi che un giudizio detto da un tifoso qualunque non ha peso, che io sono più forte: però alla fine pesa. Così ci si porta appresso la paura fino all'arrivo. Paura?

Perdere una corsa oggi è questione di pochi minuti, di secondi. Coppi alla sua epoca aveva delle mezz'ore di distacco sugli inseguitori. Poi, però, al traguardo… Mezz'ora dopo la vittoria, la tensione taglia ancora le gambe. Non ti lascia nemmeno essere contento. E prima della contentezza vera e propria c'è ancora una moltitudine di pensieri: sei contento per quelli che ti vogliono bene, ma anche per quelli che non ti vogliono bene. Fai il giro d'onore e rifletti: adesso sì che vorrei vedere in faccia voi, maldicenti. Non credo che a Coppi succedesse così. Di lui si sapeva poco, la gente gli impazziva intorno e non stava a misurargli ogni pedalata o ogni risultato. Lui non diceva niente. Oggi sono più pericolose le parole che le forature. Noi siamo in svantaggio di fronte al pubblico: i tifosi sanno tutto di noi o credono di sapere tutto. Noi non sappiamo niente di loro. [N.d.r. -Chissà cosa pensava Gimondi, dei social media?]

Non vuol dirlo?

No. Perché? Perché se la gente sa quanto guadagno mi tiene ancora di più gli occhi addosso. E alla prima sconfitta dice: ecco Gimondi, guadagna tanto e non vale quello che guadagna. La gente non sa i sacrifici… Lasciamo stare i sacrifici, Gimondi. E poi ci sono i colleghi che guadagnano meno. Come fai a correre a fianco a fianco con un collega che magari ha delle difficoltà di denaro. Non si può… Lei deve molto a questi gregari, Gimondi. Eh, devo molto sì. Io mi trovo con ragazzi dalle mie stesse potenzialità, anzi più intelligenti di me che sono costretti a sottomettersi, ad obbedirmi. E immagino che cosa voglia dire sottomettersi a uno meno intelligente di te, soprattutto quando sogni grandi risultati e a ogni corsa ti dicono: tu fa così e così come ti diciamo, punto e basta. E se non vuoi far così, cambia mestiere. Capita dappertutto, nel mondo del lavoro.

Qual è, Gimondi, una cosa che, se detta da lei, sicuramente le farebbe del male? Quanto guadagno.

Magari sì, non so. Ma il brutto, tra noi, è che siamo a fianco a fianco, sudiamo nella stessa maniera eppure uno comanda e l'altro ubbidisce: e - ripeto - spesso chi obbedisce è il più intelligente.


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leggende Le sembra molto ingiusto? Non c'è altra strada, mi sa. Lei si ritiene particolarmente intelligente?

E poi il miracolo, vero? Cerchi di spiegarmelo come è nato questo miracolo, Gimondi. Bartali e Coppi piombarono nel ciclismo come meteore; lei, se non sbaglio, è salito dalle cantine. E ce ne hai messo del tempo. Che cosa è accaduto?

Non lo so. Non credo. So che ho molta volontà e molto carattere.

Mi sono adeguato in tutto e per tutto alle regole biologiche, alle disposizioni del medico: riso e bistecca tutti giorni, a letto alle nove e mezzo, niente bere, forza di volontà.

Chi glielo ha detto? Sono arrivato dove volevo, e perché volevo. Io sono uno che continua a battersi anche quando non c'è più niente da fare, ormai. Lotto quando gli altri si arrendono. Sono un buon lavoratore.

Quante calorie al giorno? Lo sapevo ma non me lo ricordo più. Ma due volte la settimana passavo la visita.

Quando ha cominciato a correre? Otto anni fa. Nel 1959-1960.

E poi cominciò a vincere. Prima il Tour dell'Avenir. Poi via via…

Moriva Coppi. Eh sì: ho corso per la prima volta negli allievi che era il 1959. Mio papà, i fratelli Ghisalberti, il curato Don Tommaso Marcella avevano fondato una squadretta come ce ne sono tante nei paesi. La Sedrinese, da Sedrina. Nel 1959 non ho vinto niente, nel 1960 tre garette, finché sono passato dilettante. Da dilettante, un po' per la lunghezza delle corse, un po' perché forse non ero del tutto sviluppato, ho cominciato a perdere. Non vincevo mai. Andavo via fortissimo per cento chilometri, e poi scoppiavo. E i suoi sogni di campione?

Senta Gimondi. Certi amici, che queste cose le sanno, dicono che Coppi fu l'inventore del nuovo ciclismo, del sistema ciclismo. I gregari sottomessi e tanto più adoperati quanto più intelligenti; il gioco di squadra militaresco o industriale. Coppi morì quando lei correva a vanvera e perdeva. Ora che lei vince col sistema inventato da Coppi, la gente per la strada dice che lei è il nuovo Coppi. Ma fino a questo punto della intervista lei lo ha negato. Vorrei sapere: in fondo lei, non deve qualcosa il ciclismo di vent'anni fa? Se non altro, non deve agli uomini di allora quella trasformazione del ciclismo da contesto mitologoco a sistema, senza la quale – scusi - ho l'impressione che lei farebbe un altro mestiere?

Macchè campione. Nel 1961 avevo già deciso di ritirarmi. E la passione?

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Non lo so. Le dirò che dei tempi di Fausto Coppi, io ricordo poco. Mica è passato un secolo, Gimondi!

Va bene la passione: ma se non combinavo niente! Giorgio Ghisalberti mi impedì di ritirarmi. Era il mio direttore tecnico, un ragazzo di 24 anni, ora è morto. Ghisalberti voleva, insisteva, aveva fiducia.

Ero un ragazzino allora, mi piacevano i motori E questi cartelli che dicono Gimondi uguale Coppi io non li voglio vedere. Gimondi, è Gimondi.

Fiducia in che cosa, Gimondi? Negli anni, nel futuro. Ma se ne intendeva di ciclismo, questo signor Ghisalberti? Un po' sì. Gimondi e Merckx. Senza uno non sarebbe esistito l'altro.


Puntuale, come sempre Tutti gli anni è sempre così: sui giornali serve Vincenzo Nibali per accendere l’entusiasmo italiano al Tour. D’altronde è lui il nostro ultimo vincitore e non ci sono in gruppo corridori con il suo palmares. E per questo, Vincenzo è sempre al centro delle discussioni. È stata una vittoria molto sofferta, la mia. È stato un Tour difficile, dopo le fatiche del Giro. Ci ho provato a fare classifica, ma non era possibile. Non si è mai nascosto Nibali, o vergognato. O tirato indietro. In molti sostenevano che avrebbe dovuto ritirarsi e tornare a casa, lui ha onorato la corsa, fino alla fine. Nell’ultima settimana ha ritrovato condizione. A cinque anni dal suo successo finale al Tour, 16 mesi dopo la sua ultima vittoria, all’ultima occasione buona, ecco la vittoria. Puntuale. La tappa era corta ma la salita interminabile. Quindici chilometri di cronoscalata, da solo sul traguardo e tutti zitti. Complimenti, Vincenzo. Come sempre, del resto.

© Tornanti.cc

TOUR


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Ruban Jaune Philippe Gilbert nella diciassettesima tappa della Vuelta, lunga 219,6 km, ha tenuto una media di 50,628km/h aggiudicandosi il Ruban Jaune, il premio creato nel 1936 da Henri Desgrange, il fondatore del Tour de France, per il corridore vincente con la velocità media più alta su una prova di lunghezza superiore ai 200 chilometri. Si tratta di un vero e proprio record (per la prima volta stabilito in una gara a tappe e non in una gara di un giorno) che umanizza i 55,089 km/h del record dell'ora di Campenaerts e perfino i 56,375 km/h del record di Chris Boardman del 1996, quest’ultimo ormai declassato da record dell'ora a miglior prestazione umana sull'ora. Gilbert ha beneficiato ovviamente della dinamica della gara e delle scie ma questo non significa che la sua performance non sia stata entusiasmante e degna di nota. Forse i nostri amici runner, con un po' più di apertura mentale, dovrebbero rendersi conto che non c'è un unico modo di correre una maratona, esattamente come non c'è un unico modo di andare forte in bicicletta. Domenica 12 ottobre Eliud Kipchoge è stato il primo essere umano della storia a correre 42,195 km in meno di due ore. C’è gente in giro, che sostiene che non si tratta di un vero e proprio record e neanche di una vera maratona. Come se Kipchoge non avesse corso con le sue gambe. La gente è pazza.

© Chiara Redaschi

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Gli roderà C’è stato un momento in cui sembrava molto probabile che a vincere questo Campionato Mondiale sarebbe stato Mathieu van der Poel, come de pronostico. Nel gruppetto dei fuggitivi, a quindici chilometri dal traguardo, lui c’era. Poi è saltato e a noi italiani, con Matteo Trentin e Gianni Moscon tra i fuggitivi, era sembrato scontato che dieci anni dopo Ballan a vincere il Mondiale saremmo stati noi. Matteo Trentin, per l’esattezza, era lui l’altro favorito della gara. A un certo punto della telecronaca, quasi all’arrivo, un dettaglio avrebbe dovuto forse renderci più cauti: Trentin si era rovesciato il contenuto della borraccia sulle gambe, non un buon segno per chi di corse se ne intende un po’. Forse perfino lui a quel punto, non era più così sicuro di farcela. Sul rettilineo ci aspettavamo un Trentin irresistibile e invece in uno sprint che sembrava andare al rallentatore come una partita di calcio dei Mondiali del ’78, è arrivato Mads Pedersen. Terzo Stefan Küng. Mi roderà ogni volta che lo vedrò con quella maglia ha detto Trentin dopo l’arrivo. Anche a noi, un po’. Però, Matteo sei davvero forte.

© Tornanti.cc

MONDIALE


Prima volta. La prima vittoria da professionista alla Classica di San Sebastián.

FINE DELLA GIOVI— NEZZA. [DI REMCO EVENEPOEL] Testo Emilio Previtali

Foto Bettini photo

Giovedì 8 agosto Remco Evenepoel ha vinto la prova a cronometro dei Campionati Europei di Ciclismo. Era forse il concorrente più atteso e osservato anche se non partiva certo da favorito. Dopo la sua gara ed un’infinità di tempo trascorso sulla hot seat, diciannove secondi prima che sul traguardo transitasse Yves Lampaert - l'ultimo corridore che potesse insidiare la sua vittoria - Remco era già in lacrime. A quel punto era senz’altro lui il vincitore. A consolarlo e a stringerlo in un abbraccio come quello di un fratello maggiore sul palco c’era il suo compagno di squadra Kasper Asgreen, secondo in classifica, cinque anni più grande di lui. Non deve essere facile nemmeno per Remco, a soli 19 anni e sei mesi e alla prima stagione da pro, dopo la prima vittoria in una gara World Tour avvenuta soltanto una settimana prima alla Classica di San Sebastián, prendere definitivamente coscienza del proprio immenso talento. Piangeva Remco e a chiunque fosse lì o davanti alla televisione a guardare era venuto il dubbio che alla gioia per la vittoria si sommasse anche il dispiacere per la scomparsa soltanto qualche giorno prima di Bjorg Lambrecht al Giro di Polonia.

corridori

Lambrecht meno di un anno prima ai Campionati Mondiali di Innsbruck, quando Remco aveva indossato la maglia di Campione del Mondo Juniores sia nella prova su strada che in quella a cronometro, si era classificato secondo nella gara riservata agli U23. Remco Campione del Mondo e lui vice-campione del mondo, entrambi belgi. Avevano gioito insieme e intrecciato indissolubilmente tra loro l’inizio della carriera nel ciclismo che conta. Dopo la vestizione della maglia bianca a righe azzurre di Campione Europeo e il cerimoniale delle medaglie davanti alle telecamere ed ai fotografi Remco Evenepoel, Kasper Asgreen e il nostro Edoardo Affini, che si è classificato terzo, stavano in piedi sul podio, ognuno al proprio posto. Remco aveva a quel punto già alzato lo sguardo e il dito indice al cielo per dedicare la sua gara al compagno scomparso.

La malinconia aveva finalmente lasciato spazio alla gioia, the show must go on, è dura la vita per i corridori. Guardandoli di fronte i tre, era fin troppo facile notare che i due ai lati di Remco, seppur stando in piedi su due gradini notevolmente più bassi del suo, svettavano con la testa molto più in alto di lui. Remco pareva stretto tra due colossi. Gli spettatori e i fotografi avevano a quel punto già iniziato a farci caso e a darsi di gomito e a sorridere e anche da casa, in TV, la differenza di corporatura tra il vincitore e i vinti era più che evidente. Dopo la consegna delle medaglie, come sempre avviene a quel punto delle premiazioni, Remco ha invitato gli altri due atleti ad unirsi a lui e a stringersi per le foto sul gradino più alto del podio. Affini più rapido di Asgreen ha fatto un passo di lato e il braccio di Remco è rimasto agganciato sopra alla sua spalla. Poi è arrivato anche Asgreen. Era biomeccanicamente impossibile per il piccolo Remco (è alto solo 171 cm, contro i 192 cm degli altri due) rimanere in quella posizione per più di mezzo secondo, per giunta con un gigantesco mazzo di fiori in mano. C'è stato un istante di divertente imbarazzo. Remco rischiava di restare sospeso per aria e per non correre il rischio di lussarsi una spalla ha dovuto rassegnarsi a sfilarsi con il braccio da sopra e stringere i suoi rivali da sotto, cingendoli alla vita con un gesto simpatico e plateale. Sembrava un bambino in mezzo a degli uomini fatti e finiti. In quel momento Remco deve essersi chiesto cosa ci faceva lui lì, al centro dell’inquadratura e sul gradino più in alto del podio dove in pochi se lo aspettavano. Deve aver provato quell’imbarazzo insolito e divertente da maschio alfa che chi tra noi ha avuto la ventura di uscire con una fidanzata pallavolista o giocatrice di basket molto più alta di lui, ha certamente sperimentato. Alla fine mentre posava per le foto Remco Evenepoel si è finalmente lasciato andare ad un sorriso grande e spontaneo. Probabilmente è finita esattamente lì, su quel gradino del podio dei Campionati Europei, stretto tra quei due giganti, la giovinezza di Remco. Da ora in avanti ad ogni gara a cronometro (e non solo) sarà probabilmente sempre uno di quelli da tenere d’occhio. Non più un outsider o una promessa ma uno dei favoriti. P.S.: Per Remco non si applicano criteri di normalità. Alla prova a cronometro del Campionato del Mondo in Yorkshire si è classificato al secondo posto dietro ad un imbattibile Rohan Dennis. A guardarlo in faccia, nel riquadro della TV, sulla solita hot seat che aveva occupato a lungo, non aveva la faccia di uno totalmente felice. Aveva piuttosto quella di uno che invece che sentirsi vincitore della medaglia d’argento, sentiva di aver perso quella d’oro.

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SETTE SEGNALI CHE TI DICONO CHE LA GIOVINEZZA È FINITA

1 — I tuoi compagni delle superiori vanno all’Università o cercano un lavoro stabile. Alcuni tra questi si sposano. Le domeniche di maggio prima andavi in bici al lago, in montagna o al mare, adesso sono quasi tutte occupate dai matrimoni. 2 — Quando vai a trovare tua nonna, non ti da più la mancia. 3 — Farsi la lavatrice da soli, è dura. 4 — Quando rientri a casa la sera prima delle due di notte i tuoi genitori ti chiedono: ‘Come mai a casa cosi presto ieri sera?’. 5 — Non ti ricordi esattamente i nomi dei tuoi compagni delle medie e hai smesso di segnare i nomi delle tue ex fidanzate o dei tuoi fidanzati su un’agendina. (Alcune o alcuni di questi ora li incontri per strada il sabato pomeriggio: spingono un passeggino). 6 — A Natale può capitarti che ti regalino un dopobarba o un pigiama di lana e tu lo apprezzi moltissimo. 7 — Dopo l’esame di Maturità è stato un sollievo pensare che in vita tua non ti saresti mai più dovuto occupare della tabella periodica degli elementi. Quando sei depresso cerchi di rievocare quella sensazione.

Xelius SL NON SIAMO MAI ANDATI COSI’ LONTANO


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COME INGUAIAMMO IL TOUR DE FRANCE Il geniale luglio di Julian Alaphilippe Testo Filippo Cauz

Foto Tornanti.cc


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Sempre Nibali. In fin dei conti è sempre lui a lottare per le vittorie di prestigio.

La Saint Jean de Maurienne a Tignes, 19ª tappa del Tour, era appena stata interrotta a metà quando Julian Alaphilippe ha visto il suo compagno di squadra Enric Mas aggirarsi nel traffico delle ammiraglie parcheggiate in mezzo alla strada e gli è saltato sulle spalle. Julian ed Enric si sono infilati tra una sparuta folla improvvisata e un nugolo di fotografi diretti verso il furgone della squadra che li aspettava, a ruoli invertiti rispetto a quanto previsto ad inizio Tour: Enric in mantellina blu a farsi carico di Julian in maglia gialla. Stanchi ma sorridenti. Gioiosi nonostante quella maglia a lungo difesa fosse appena sfumata, e nel più assurdo dei modi. Qualsiasi altro corridore in quel momento sarebbe stato come minimo abbattuto, più verosimilmente arrabbiato, per come era terminato il suo sogno. Qualsiasi altro ma non Julian Alaphilippe, che al Tour era venuto con lo stesso spirito con cui partecipa ad ogni altra corsa: per divertirsi o meglio, per vincere divertendosi. Un approccio che – incidentalmente - comporta spesso che anche il pubblico si diverta, solo gli avversari forse un po' meno.

Lo strumento grazie a cui Julian Alaphilippe riesce a divertirsi vincendo le corse è l'audacia, il continuo disequilibrio tra il rischio non calcolato e l'ottimismo dato dalla conoscenza delle proprie forze, dall'apprendimento dai propri errori. Non è un esercizio facile, non è da tutti arrivarci, nemmeno da Alaphilippe. Al Tour de France aveva agguantato la maglia gialla una prima volta con un'azione di classe e potenza, di quelle che ormai si possono definire à la Alaphilippe, e una seconda volta grazie ad un attacco istintivo e puntuale, figlio di una capacità rara di leggere le dinamiche di una corsa dall'interno. Tutti i suoi altri giorni in giallo sono stati una conseguenza di questo approccio, quello del giorno per giorno ripetuto ad ogni intervista, mischiando in egual misura desiderio ed improvvisazione, un po' mago e un po' saltimbanco. Verrebbe quasi da pensare che sia qualcosa di ereditario, che nel DNA di Alaphilippe ci sia lo spirito del musicista di strada, che è stato suo padre, e che avrebbe dovuto essere (e a suo modo è diventato) anche Julian. Nel 2004 Daniele Ciprì e Franco Maresco si presentarono alla Mostra di Venezia, massimo appuntamento del cinema italiano, con un documentario su Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Un viaggio che partiva dalle strade di Palermo e raccontava l'impatto clamoroso sulla cultura popolare raggiunto da questo duo improbabile, cresciuto tra arte di strada e sogni teatrali, capace di rivoluzionare l'avanspettacolo affidandosi totalmente all'istinto invece che alla progettualità. Nei loro anni d'oro Franco e Ciccio riuscivano a completare anche due film al mese, quasi senza ricorrere alla sceneggiatura: il copione prevedeva il loro ingresso in scena e da lì in avanti era pura improvvisazione comica. Il documentario di Ciprì e Maresco aveva un titolo che era tutto un programma: Come inguaiammo il cinema italiano.



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Con un salto in avanti di qualche decennio e un leggero spostamento geografico, si potrebbe replicare la stessa storia nel parlare della costante e geniale improvvisazione di Julian Alaphilippe, e dell'estate in cui ha inguaiato il Tour de France. Questa del 2019 non si presentava come un'edizione qualsiasi per la Grande Boucle. Certo, c'erano due anniversari importanti: i 50 anni dal primo Tour (vinto) di Eddy Merckx, omaggiati dalla partenza a Bruxelles, e i 100 dalla prima maglia gialla, ma era il giallo indossato dal resto della Francia ad attirare l'attenzione sul Tour, il primo nell'era dei gilets jaunes. In un bizzarro vortice cromatico, il colore di una corsa fattasi istituzione nazionale andava a coincidere con il colore della più vasta mobilitazione popolare dei nostri tempi, che aveva attraversato ogni anfratto di Francia proprio come un Tour, muovendosi dai paesini delle campagne per arrivare agli Champs Élysées. Il 2019 è stato l'anno in cui i francesi sono tornati a prendere parola, a rivendicare un ruolo da protagonisti, e si pensava che avrebbero contagiato persino il loro momento più alto, il Tour de France. Invece alla Grande Boucle sono stati sì i corridori di casa a farsi vedere, ma il popolo è rimasto a bordo strada. I gilets jaunes si sono riversati sulle strade del Tour, con i colori ben visibili in ogni tappa e gli slogan delle lotte sociali vergati sull'asfalto (con buona pace degli effaceurs, le temibili squadre di censori che anticipano ogni frazione per cancellare le scritte non gradite), ma non hanno mai interferito con la gara. In corsa hanno lasciato fare a Julian Alaphilippe, talvolta in coppia col connazionale Thibaut Pinot. Un rivoluzionario in corsa e un disturbatore fuori, capace anche di irridere il criticatissimo Emmanuel Macron, imitandolo alle sue spalle o esibendo facce stupide e giochi di sopracciglia di fianco al presidente che rilascia interviste in occasione della sua visita alla Grande Boucle.

È come se Julian Alaphilippe, vestito coi colori simbolici del leader, avesse deciso di sovvertire le gerarchie e scendere in strada dalla parte del popolo, anziché dell'istituzione rappresentata dal Tour. Al termine dell'ultima tappa di montagna, quella della sua unica crisi, che lo ha estromesso definitivamente dal podio relegandolo al quinto posto finale, il corridore francese ha ammesso di aver compreso il senso di questo suo ruolo: Ci ho messo il cuore e le viscere, ho lasciato la pelle sulla strada. Questo ha colpito la gente. Sono contento di averli resi felici di seguire il Tour.

Rebus. Anche in questo Tour la UAE Emirates è stata un enigma. Pagina precedente: Enric Mas è il fido scudiero di Julian Alaphilippe.

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A differenza di quasi tutte le edizioni recenti, quello del 2019 è stato un Tour che sarà ricordato a lungo. Per la prima volta dopo troppi anni, la corsa francese non è stata solo la più importante dell'anno ma anche tra le più belle, animate e passionali della stagione. Merito di un percorso ben disegnato e di una stagione strana che ha messo i corridori più importanti e titolati fuori corsa (è il caso degli infortunati Chris Froome e Tom Dumoulin) o fuori gioco, come nel caso di Vincenzo Nibali, costretto ad inseguire avversari e motivazione sino alla penultima tappa di Tour, quando con la vittoria di Val Thorens è riuscito a dare un senso alla propria presenza in gara. Merito soprattutto di Julian Alaphilippe, uomo-immagine di un'edizione che qualcuno ha definito addirittura la più bella dai tempi del duello Lemond-Fignon di 30 anni fa.

È stato il Tour di Alaphilippe più ancora del Tour di Egan Bernal, vincitore finale e protagonista atteso di un futuro già arrivato, ma anche nel successo del colombiano è enorme il contributo di chi ha portato la maglia gialla per due terzi di gara. La regola numero 1 del ciclismo dice che la corsa la fanno i corridori, e la corsa al Tour l'ha fatta soprattutto Alaphilippe: la sua audacia e la sua inattesa resistenza hanno obbligato anche gli avversari a ripensare il loro approccio alla corsa. Dave Brailsford, la mente del team Ineos che ha dominato la Grande Boucle in questo decennio, lo ha ammesso candidamente alla vigilia delle tappe alpine: È stato il grande cambiamento del Tour, ha innescato una reazione a catena che ha portato tutti a reagire. Liberarsi di lui è un rompicapo da risolvere. La soluzione è arrivata con l'imprevisto: la grandinata e la frana in Val d'Isère, la prima tappa interrotta nella storia del Tour, la consacrazione da vincitore di Bernal. La Ineos continua a dominare nell'albo d'oro come la Sky, ma per raggiungere il risultato ha dovuto interpretare una corsa nuova, lasciando le redini libere al suo cavallo di razza. L'impatto di Alaphilippe ha reso il terreno fertile per far germogliare il talento di Bernal, e dal talento è fiorito l'entusiasmo per una corsa nuova, sorprendente, diversa da come l'avevamo conosciuta e da come era stata immaginata. Un Tour riscritto dal suo corridore più rivoluzionario, che festeggia anche dopo aver visto il suo sogno svanire, perché ha capito che da qui in avanti il rompicapo tocca agli altri, a chi dovrà correre la prossima Grande Boucle e quelle a venire. Il rompicapo di Alaphilippe e di come ha inguaiato il Tour de France.


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TADEJ. Testo Alessandro Autieri

Foto Bettini photo

In bicicletta è salito per imitare il fratello più grande, perché: Qualsiasi cosa faceva Tilen, dovevo farla anche io. Ha seguito le sue impronte nel team Radenska Rog, poi suo fratello si è fermato e ha scelto di fare altro, mentre Tadej ha iniziato la propria scalata al vertice del ciclismo.

Tadej Pogačar ha solo ventun'anni, i capelli a spazzola biondi e occhi grandi che mettono in risalto uno sguardo vispo, assetato di vittorie e affamato di conoscenza. Sulla guancia sinistra spuntano due nei, mentre qualche lentiggine gli macchia il viso: se lo guardi pensi sia uscito da un libro di Mark Twain. Quando piove, si trasforma: ha caratteristiche simili ad un anfibio e la forma di un ciclista navigato. La sua zattera è un mezzo a due ruote; non arriva dal Missouri, ma da Komenda, un piccolo paesino della Slovenia a nord di Ljubljana, dove vivono circa mille persone dedite principalmente all'agricoltura e all'allevamento.

In bicicletta è salito per imitare il fratello più grande, perché: Qualsiasi cosa faceva Tilen, dovevo farla anche io. Ha seguito le sue impronte nel team Radenska Rog, poi suo fratello si è fermato e ha scelto di fare altro, mentre Tadej ha iniziato la propria scalata al vertice del ciclismo.
È considerato un predestinato: un marchio che può mettere pressione o suscitare invidia. Pogačar, però, ha spalle corazzate e caratteristiche inconsuete rispetto a tanti suoi giovani colleghi emergenti: sa gestire bene le situazioni più intricate ed è abile nel leggere la corsa; è riflessivo in gara quanto nei momenti in cui racconta di sé. Dice di sentirsi diverso dal suo capitano Aru, di non accusare la pressione e di fregarsene se una corsa non va come sarebbe dovuta andare. Il suo è uno dei volti che sta cambiando il ciclismo di questi anni, ma se Bernal macina pedalate con una cadenza così devastante da scuotere le montagne, se van der Poel e Van Aert sono talento e perseveranza, se Evenepoel è un


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Tadej è intelligente in corsa, sa quando deve usare la potenza ed è cosciente del fatto che per salvare la gamba ha bisogno dell’agilità.

divoratore che non si pone limiti e Pidcock recita la parte dello showman, Pogačar è pura saggezza, un cavaliere Jedi capace, in poco tempo, di controllare la propria forza.
Tadej Pogačar migliora di corsa in corsa, giorno dopo giorno, pedalata dopo pedalata. Lo abbiamo definito un anfibio, ma è anche una spugna. Assorbe il meglio da chi gli corre a fianco ed è capace di amministrarsi come se fosse in gruppo da oltre vent'anni. Se chiedi in giro notizie su di lui, le parole chiave che emergono con maggiore frequenza sono: intelligenza e capacità di gestire la corsa; se lo osservi con attenzione non è bellissimo da vedere, non ha la grazia o lo stile di altri corridori che come lui hanno avuto la voglia di concedersi al ciclismo, ma è tremendamente efficace. La sua pedalata non gli fa perdere un briciolo di energia, la sua posizione in sella non gli fa disperdere nemmeno un watt. È intelligente in corsa, si diceva, sa quando deve usare la potenza, ma è cosciente che per salvare la gamba ha bisogno dell'agilità. Il suo fisico non ha raggiunto la completa maturazione: è brevilineo, senza essere basso, ha potenza devastante e gambe enormi, nei finali di gara ha anche un discreto spunto veloce e se osservi gli ordini d'arrivo, difficilmente te lo ritrovi lontano dai primi, anche in frazioni prive di significato per un uomo di classifica. Poliedrico: va forte nelle corse a tappe, ma anche in quelle di un giorno dal profilo altimetrico più impegnativo. A inizio stagione ha concluso al trentesimo posto la Strade Bianche e al diciottesimo la Liegi-Bastogne-Liegi: in entrambi i casi più giovane al via e migliore dei neo professionisti al traguardo. Come tutti quelli che corrono in bicicletta - racconta – vorrei vincere il Tour de France, ma la corsa dei miei sogni è Il Lombardia. In tutto questo suo dolce navigare, aggiunge anche una maglia di campione di Slovenia nel ciclocross, specialità in cui si diverte a pedalare durante l'inverno, stagione in cui a volte si diletta persino a correre con gli sci stretti. Non parla ancora né italiano, né spagnolo le lingue più in voga all'interno della sua squadra - se gli fai qualche domanda risponde in modo pacato, quasi a bassa voce, con un inglese accademico e pulito. Fuori dalla bici ricorda, per certi versi, Ivan Basso: ti guarda negli occhi fiero, ma mantenendo una decisa punta di educazione. Gambe e ambizioni, in Tadej Pogačar, corrono veloci e cambiano il suo stato di ebbrezza giovanile fino a fargli assumere, una volta salito in bici, un aspetto decisamente più maturo rispetto ai suoi vent'anni.

La Vuelta 2019 è il suo romanzo di formazione: è lì che Pogačar prende e strapazza il suo destino e quello di tutto il ciclismo. Alla vigilia della corsa parte a fari spenti, ma solo per chi non lo conosce: chi si addentra nella materia dice di tenere d'occhio lui, più che Fabio Aru. L'esile fantino proveniente dalla Sardegna, sembra avere messo alle spalle il meglio della propria carriera andando incontro ad una stagione - per citare il Poeta di Charleville - all'inferno; ciclisticamente parlando, s'intende. Prima della partenza della corsa, Matxin, team manager di entrambi in seno all' UAE-Team Emirates, racconta: Esistono corridori che hanno buone, se non ottime qualità, che magari emergono col tempo, poi esistono altri come Pogačar o Evenepoel: loro sono i campioni e i personaggi del futuro. Oramai anche del presente. Proseguendo il gioco dei paragoni: qualcuno lo accosta a Tony Rominger. L'elvetico andava forte a cronometro e in salita e sapeva esaltarsi nelle giornate di maltempo; Tadej Pogačar, alla vigilia della prima delle tre tappe vinta alla Vuelta, afferma: Se domani dovesse piovere, potrei vincere. E lungo le rampe che portano verso la cima di Cortals d'Encamp, arrivo della nona tappa della corsa spagnola, piove. Gocce massicce come grossolane pennellate e che in alcuni momenti si tramutano in grandine: schiaffi in faccia ai corridori. Chicchi enormi, destabilizzanti, e che in un tratto di sterrato costringono diversi protagonisti


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La Vuelta 2019 è il suo romanzo di formazione: è lì che Pogačar prende e strapazza il suo destino e quello di tutto il ciclismo. Alla vigilia della corsa parte a fari spenti, ma chi lo conosce, nelle file della UAE, tiene d’occhio lui.

Podio. Pogačar è secondo alla Vuelta con tre vittorie di tappa e la Maglia Bianca dei giovani.

della corsa a scendere dalla bicicletta. Non lui, che, come detto, va forte anche nelle corse fuoristrada. Mancano poco meno di cinque chilometri alla vetta e Pogačar segue come un’ombra Quintana, non un corridore qualsiasi, ma un vincitore di Vuelta e Giro, uno così enigmatico che ad analizzarlo per bene farebbe la fortuna di psicologi di fama mondiale. Pogačar lo osserva, assimila quanto basta e a tre chilometri dalla vetta lo lascia sul posto. Scatena i suoi watt su una micidiale rampa in rettilineo, mentre davanti si consuma la tragedia - che ha i tratti della sceneggiata - di Marc Soler. Lo spagnolo, nella sua casacca blu Movistar, reagisce d'istinto all'ordine dell'ammiraglia; gli viene intimato l'alt per attendere il suo capitano e dopo aver scosso la testa in modo plateale, manda a quel paese chi gli ha impartito l'ordine: accarezzava il sogno di vincere la tappa, ma è costretto a piegarsi alle regole del ciclismo. Pogačar le regole, invece, le riscrive: a vent'anni, al suo primo Grande Giro, stacca Quintana e mette un punto esclamativo alla fine di quel capitolo, conquistando la sua vittoria più importante in carriera.
Passano pochi giorni e lo scenario cambia: dai Pirenei alla Cordigliera Cantabrica. Ora Pogačar segue a ruota Roglič e lo osserva; cambia tattica: invece della potenza usa l'agilità e dopo aver superato rampe superiori al 26% e scavalcato un avversario dietro l'altro, vince, vicino al monumento dedicato alla Vaca Pasiega, scrivendo il suo nome per la seconda volta in terra di Spagna. Forse un caso, o forse no, ma due sloveni si issano davanti ai colombiani in un arrivo in salita: difficile da immaginare poche settimane prima. Pogačar entro fine corsa farà in tempo a conquistare, e poi perdere, e poi riconquistare, la maglia bianca di miglior giovane - come un segno del destino la classifica è stata istituita per la prima volta nel Grande Giro spagnolo proprio quest'anno - e a salire sul podio finale. López, suo avversario diretto, trasformatosi in un tipo avaro dai modi scellerati, incupito e incapace di fare la differenza, perderà dallo sloveno su tutti i fronti. Il protagonista della nostra storia avrà solamente una giornata di difficoltà, nella quart'ultima tappa della Vuelta; un momento che farà vacillare i cronisti, ma non le sue gambe possenti. Due giorni dopo, infatti, quando mancherà una settimana al suo ventunesimo compleanno e trentotto chilometri verso Plataforma de Gredos, scatta. Si inventa uno dei numeri più interessanti dell'intera stagione, con un’azione che, chi lo conosce appena, non si sarebbe potuto immaginare. Abbiamo raccontato fino adesso della sua capacità di gestire e ce lo ritroviamo partire da lontano dal traguardo - per i modi del ciclismo di oggi - con quattromila metri di salita impegnativa ancora da percorrere e poi una discesa che precede il falsopiano: pazzi noi che lo descriviamo in un certo modo, oppure visionario lui? La sua azione spettacolare paga: è quella giusta. L'ha calcolata e decisa a tavolino sul pullman, la mattina prima della partenza, come rivelerà Tiralongo ai microfoni di Eurosport a fine tappa: Ci ha detto che avrebbe attaccato esattamente in quel punto. Mentre da dietro López arranca come in quasi tutta la sua Vuelta, Quintana parla con i suoi fantasmi, Valverde e Roglič si accontentano - per modo di dire - rispettivamente del nono podio in un Grande Giro e della Roja finale, Pogačar cavalca solitario per un'ora abbondante: il futuro, all'improvviso, è diventato il presente. Nemmeno Mark Twain avrebbe immaginato un finale di questo genere: invece di risalire il Mississippi, si pedala forte in salita, verso la consacrazione. Un epilogo che sembra, così tanto, l'inizio di una grande avventura.

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interviste

Il Riccardo Magrini che conoscono tutti è il commentatore di Eurosport: ce lo siamo trovati dentro la televisione ma pochi conoscono la sua storia di corridore. Noi abbiamo voluto indagare gli anni in cui correva nella pancia del gruppo. Per intervistare Magrini non occorrono domande. Bisogna solo ascoltare e lasciare che la conversazione faccia il suo corso.

La vittoria delle gambe nere Intervista di Francesco Beltrami

Foto Sirotti

Riccardo, iniziamo dal principio e torniamo con la memoria ai primi momenti in cui hai deciso di fare il corridore. In realtà io non ho deciso, è stata più la causalità a decidere. Da ragazzo ero un buon mezzofondista nell’atletica leggera. Avevo vinto un paio di gare sui mille metri con buoni tempi, dunque non pensavo a correre in bici. Successe però che chiesi un motorino come premio per una promozione scolastica, ma i miei non ne volevano sapere. Allora gli dissi di regalarmi almeno una bicicletta e con settantamila lire me ne comprarono una da corsa. Siamo nel 1970, avevo sedici anni e un cugino che faceva il cicloamatore. Che era un fatto raro all’epoca, quando la bicicletta era ancora più che altro un semplice mezzo di locomozione. Uscii con lui per la prima volta e al ritorno mi disse che gli pareva andassi proprio forte, convincendomi a provare ad esordire tra gli allievi. Era tutto programmato per le ultime gare della stagione. Io all’epoca frequentavo l’Istituto Alberghiero a Montecatini e

quell’estate lavorai, per quello che oggi si definirebbe uno stage, come commissioniere all’Hotel Croce di Malta, sempre a Montecatini. Nelle due ore di pausa mi allenavo. Per evitare di lasciare incustodita la bicicletta fuori dall’albergo la lasciavo a casa e mi muovevo per raggiungere il lavoro con un vecchio motorino scalcagnato che mi prestava un collega. Un giorno, era il 7 settembre, nel chilometro e mezzo del tragitto presi una buca e mi spaccai tutto. Non potei quindi disputare le poche gare - tre - che restavano nel calendario degli allievi del primo anno in Toscana. Dovetti restare col braccio ingessato per centoventi giorni. Insomma, la mia carriera rischiò di interrompersi ancora prima di iniziare. A gennaio però, venne Franco Mazzoncini, che ancora oggi fa correre i giovanissimi nella zona, e nonostante avessi il gesso, mi chiese: Allora bimbo, che si fa? Ritorni? Io nemmeno ci pensavo più a correre in bicicletta, ma accettai e fui tesserato per il 1971 nel Gruppo Sportivo Moschini Vianova, e iniziai a correre da allievo del secondo anno.
 Tre anni dopo però eri già in Nazionale per i Mondiali dei dilettanti a Montreal nel 1974. Ho bruciato le tappe. Vinsi la prima corsa già a settembre del 1971. A quei tempi c’erano dei signori corridori in Toscana: atleti come Cardelli, Barbugli, Buonamici. Il mio rivale storico divenne proprio Alessandro Cardelli, correva per la Cantagrillo, una squadra gloriosa che negli anni successivi svezzò corridori come Ballerini, Tafi e Bartoli. Lui era molto forte, vinceva una dozzina di corse l’anno. Io, al suo confronto, ero niente. In casa Magrini però l’obiettivo era soltanto quello: battere Cardelli. Quindi quando lui si trasferì alla MobilGiannoni, che era intenzionata ad allestire una formazione molto competitiva e ci avrebbe voluto entrambi, io andai a prendere il suo posto alla Cantagrillo. Correre insieme proprio non si poteva. Arrivai il primo anno in cui avevano stretto un accordo di sponsorizzazione

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interviste qualifica di probabile olimpico, che comportava vantaggi ma anche molti oneri visto che sugli atleti probabili olimpici venivano fatti investimenti da parte delle Federazione, la quale non voleva perderli proprio appena prima delle Olimpiadi. Io non avevo ancora ventuno anni. Ci furono parecchie polemiche: fui accusato di restare nei dilettanti soltanto per ricevere uno stipendio da nababbo. Che poi era anche vero, perché rimasi a trecentomila lire mensili che erano lo stesso ingaggio che avrei ottenuto da professionista, solo che lo prendevo in rimborsi spese. In squadra alla Fiorella ritrovai il mio grande rivale Cardelli, ma stavolta accettai di correre con lui e diventammo (e ancora siamo) grandissimi amici. Due anni dopo la Fiorella decise di fare il salto nel professionismo portandosi tutti i corridori che già aveva tesserati, me compreso.

Combattivo. Riccardo Magrini ha vinto al Giro e al Tour, tre volte in tutto da professionista.

con Inoxpran, un’importante azienda bresciana. Alla Cantagrillo-Inoxpran cambiai marcia: vinsi cinque corse ed il Titolo Italiano Uisp, mettendomi quasi alla pari con Cardelli che quell’anno ne vinse otto. La mia caratteristica era quella di essere sempre battagliero, andavo spesso in fuga e feci anche molti piazzamenti. La rivalità con Cardelli crebbe molto. Raggiungemmo entrambi i fatidici ventuno punti che occorrevano allora per salire di categoria e per la stagione 1973 fummo promossi dilettanti di seconda. La Cantagrillo predispose una squadra per correre bene anche a quel livello. Io vinsi una corsa, e non era facile perché la squadra non si accontentava di fare gare qualsiasi, magari le più vicine a casa, ma si andavano a cercare le corse più prestigiose ed importanti. Come la Settimana Ciclistica Bergamasca, dove ti incontravi con corridori come Rosani, Algeri, lo stesso Baronchelli. Nel 1974 esplosi: feci una bella stagione e vinsi diverse corse che mi valsero la

convocazione per i Mondiali. In Nazionale eravamo Vittorio Algeri, Giuseppe Rodella e Angelo Tosoni della GS.Itla, che tra i dilettanti era uno squadrone, poi Gabriele Mirri della Fiat, io e Giuseppe Martinelli. In quello stesso anno il meccanico dove andavo a sistemare la bicicletta, Fernando Morini, che era il meccanico della Magniflex, insisteva sulle mie qualità ogni volta che aveva occasione di incontrare patron Magni e mi esaltò a tal punto che Franco Magni, prima della partenza per Montréal, mi fece firmare un pre-contratto per passare professionista. Andai a casa sua a Lido di Camaiore con mio padre e mio zio. Incontrammo, suoi ospiti, personaggi come Gösta Pettersson, uno dei quattro fratelli svedesi specialisti della cento chilometri a squadre, quell’anno in forza alla Magniflex e lo storico fotografo Penazzo, con la moglie anch’essa svedese. Ci accordammo e firmai. Ci fu però un inghippo: ero andato ai Mondiali e avevo la

Tra i professionisti come andò? Che ricordi hai? A quei tempi, più che imparare il mestiere si cercava di rubarlo. Io sono sempre stato molto attento a ciò che mi dicevano i più anziani ed esperti. In quei primi anni alla Fiorella Mauro Simonetti fu molto importante per tutti noi neo-professionisti: arrivava dalla Sammontana e fu una sorta di chioccia. Mi disse fin da subito che la cosa principale che dovevo capire era quale fosse il mio ruolo all’interno della squadra. Prima lo capisci e meglio è diceva. E io apprezzai molto quei consigli. E cercai di ricordarli sempre. Quando nel 1979, dopo due anni alla Fiorella, passai alla Inoxpran, fui compagno di camera di Giovanni Battaglin e iniziai a diventare uomo di fiducia del capitano. Quello comunque, non fu un grande anno e così l’anno dopo cambiai squadra nuovamente. Nel 1980 arrivai alla Magniflex. Nel 1981 passai alla Santini Selle Italia. Non riuscivo mai però, per un motivo o per l’altro, ad ottenere il risultato personale. Cosa non andava? Già nel 1979 al Giro di Puglia la mia carriera avrebbe potuto cambiare, ma era andata male. Alla terza tappa, da Locorotondo a San Pancrazio, ci fu molto vento, si aprirono diversi

ventagli e io riuscii ad andarmene in solitaria: mi presero a venti metri dal traguardo. Vinse De Vlæminck, secondo Van Linden, mentre io rimasi terzo. Nel 1981, alla Santini Selle Italia, rischiai di non fare il Giro d’Italia; ebbi diverse difficoltà anche dovute al mio carattere troppo esuberante che in quell’epoca non era troppo gradito. Un corridore che rideva, scherzava, faceva le imitazioni, suonava la chitarra era considerato troppo fuori dagli schemi. Infatti anche successivamente, in occasione delle tue vittorie, tutti gli articoli dei giornali italiani parlavano del comico del Giro, ti definirono il Jerry Lewis del ciclismo. Fu il grande Adriano De Zan che mi battezzò così, nel 1977, al primo anno da professionista. Quando venne a conoscermi personalmente (lo faceva sempre con tutti i nuovi corridori) e seppe che arrivavo da Montecatini, dove aveva vissuto da piccolo, mi prese subito in simpatia. Scoprì le mie capacità di imitatore, si divertiva a sentirmi fare la sua imitazione, al punto che al Giro d’Italia, dopo la mia vittoria a Montefiascone me la fece fare in diretta televisiva. Raccontaci delle tue vittorie. Non ho vinto tanto, soltanto tre volte, però in prove di peso. La prima vittoria arrivò al Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, in volata. La seconda l’anno successivo al Giro d’Italia a Montefiascone. Partii a sei chilometri dal traguardo e respinsi Lejarreta, che arrivava velocissimo negli ultimi metri, Argentin fu terzo. Fu una bella cavalcata, col gruppo che inseguiva a tutta e De Zan che aveva ospite in cabina Felice Gimondi. Quella mattina Guerrino Farolfi mi aveva chiesto di andare al dopo tappa per raccontare del ruolo del gregario. Dopo aver fatto le interviste con Giorgio Martino, Farolfi disse in diretta: Stamattina Magrini doveva venire a parlare del gregario e oggi ha vinto una meravigliosa tappa. Che cosa è cambiato? e io gli risposi: Nulla, solo che da oggi mi conoscono più persone grazie a questo palcoscenico, ma non sono certo un campione. La sala stampa quel giorno era nel municipio di

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interviste

Eccentrico ed entusiasta. Riccardo Magrini si è sempre distinto, da corridore, da DS e anche da commentatore sportivo.

Montefiascone, dove c’era anche la sala dell’antidoping. Quando uscii dal controllo c’erano Franco Calamai della Gazzetta e Denis Polverosi del Corriere dello Sport con i taccuini in mano. Mi chiesero come fosse andata, e io: Eh no, un momento: vinco una volta ogni morte di papa, fatemi fare una vera conferenza stampa!.Allora mi accompagnarono dai colleghi, che scrivevano come dei matti lavorando curvi sulle loro Olivetti Lettera 22. Entrai nella sala del municipio, mi sedetti al posto del sindaco e urlai all’improvviso: Eccomi qui ragazzi! Potete farmi tutte le domande che volete, sono a vostra disposizione. Fu una giornata per me memorabile. Fossati il giorno dopo titolò: A Montefiascone vincono le gambe nere. Le gambe della fatica, quelle del gregario. Gian Paolo Ormezzano invece, su La Stampa titolò il suo elzeviro giornaliero: Il Comico del Giro.

E al Tour, l’8 luglio del 1983? Partii ad un chilometro dall’arrivo e i velocisti riuscirono ad arrivarmi in scia ma senza superarmi. Secondo fu il belga Eric Vanderaerden e terzo lo svizzero Gilbert Glaus. Quinto finì Sean Kelly. Erano sei anni che un italiano non vinceva al Tour e dunque il mio successo ebbe parecchia risonanza in Italia. Allora c’erano solo due inviati che seguivano la corsa francese, Beppe Conti e Piero Ratti: mi fecero entrambi degli articoloni. E da direttore sportivo, invece? Feci subito il corso a Salò insieme a Miro Panizza, Gabriele Landoni e Mario Beccia, mentre ancora correvamo. Alla fine della stagione ’86, mi buttai sull’ammiraglia. Mauro Battaglini mi diede la possibilità di salire su quella della Vini Ricordi, la mia ultima squadra da corridore. Poi approdai di nuovo alla Magniflex che aveva una buonissima squadra con corridori come Ballerini, Cenghialta, Canzonieri, Santaromita,

ragazzi che poi hanno fatto una bella carriera da professionisti. Ebbi poi una fase di stop, rimasi per anni nel mondo del lavoro, sempre con attività legate alla bicicletta e feci per sei anni il direttore sportivo negli Juniores nella mia vecchia Cantagrillo. E poi venne Marco Pantani e mi chiese di tornare tra i professionisti seguendo la sua squadra. Accettai e feci ancora tre anni in ammiraglia. E credo di avere un record: sono l’unico ad essere stato direttore sportivo sia di Pantani che di Cipollini, che ebbi alla Domina Vacanze nel 2004. E la passione per i cavalli? Il cavallo per me è come il corridore: è un atleta. Quello dell’ippica è un mondo meraviglioso. La prima vittoria che ho ottenuto in sulky al Premio delle Stelle a Montegiorgio fu la finale del campionato riservato ai personaggi noti, ed è stata una gioia uguale a quella del Tour. Ho vinto dieci corse su cinquantadue disputate. In occasione

della Gran Fondo Magrini, questa primavera, abbiamo fatto le operazioni preliminari all’ippodromo Sesana a Montecatini in contemporanea con le corse. Mi hanno dedicato la giornata battezzando una gara: Premio La Fagianata. Per me queste, sono soddisfazioni.

Non ho vinto tanto, soltanto tre volte su 900 corse. La prima vittoria al Giro della Provincia di Reggio Calabria nel 1982, in volata. La seconda l'anno successivo al Giro d’Italia a Montefiascone. La terza al Tour de France, l'8 luglio del 1983.

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libri

La nuova lingua del ciclismo Il dizionario sentimentale del ciclismo di Riccardo Magrini e di Luca Gregorio vi servirà. È indispensabile averlo non soltanto per decifrare le corse ma per goderne, in dimensione aumentata, davanti alle telecronache di Eurosport. Ci sono le definizioni classiche (allungo, carovana, manubrio), quelle romantiche (bacio, cotta), quelle goliardiche (piss stop, trombatura, miciola), quelle autobiografiche (la presa della pastiglia) e quelle improvvisate, che nascono dall’illuminazione di un momento, dall'atmosfera magica e scanzonata che nasce certe volte in telecronaca. Riccardo Magrini, per tutti Il Magro e Luca Gregorio con le parole non si limitano a commentare le corse: piuttosto ci fanno acrobazie e ci giocano. Hanno inventato una lingua nuova per chi guarda le corse in tv e per chi le fa nei criterium di provincia. Hanno fondato un vero e proprio universo narrativo, è un fenomeno che in un futuro prossimo verrà forse studiato all'università. Fagianate, scatti e scie è una specie di grimaldello per entrare in una dimensione diversa del ciclismo. Lo trovate in libreria, non lasciatevelo scappare.

Fagianate, scatti e scie. Riccardo Magrini, Luca Gregorio Rizzoli Editore, 240 pagine, 18 €.

Resistenza massima agli sprint

Pedalata fluida e realistica

Trasmissione diretta

Silenzioso

Simulazione superfici stradali

Simulazione pendenza fino al 25% Connettività completa

NEO 2T Smart Compatibili con le app di allenamento più popolari


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sfide

L’Etape des Assassins Testo Pascal Caré e Dorian Tabeau

Foto Dom Daher

Maggio 1910 È già mezzogiorno passato quando Alphonse Steines, in corriera, arriva ai piedi del Tourmalet, nei Pirenei. È un giorno di primavera del 1910, la neve ricopre ancora le cime delle montagne e l’aria è pungente, poche ore ancora di luce e poi sarà buio. Steines è un giornalista de L’Auto e ha ricevuto da Henry Desgrange - direttore del Tour de France e del suo giornale - l’incarico di tracciare il percorso dell’ottava edizione, che avrà inizio di lì a qualche mese, a luglio.


sfide

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Ci sono cinque passi da valicare nella prima parte del percorso e oltre 170 km di pianura da affrontare con un ulteriore colle, prima di raggiungere Bayonne, sulla costa basca. Si tratta di un percorso allucinante.

Pirenei. Le montagne sono prive di alberi e le strade desolate.

L’idea di far passare la corsa dai Pirenei è di Steines che da qualche tempo non pensa ad altro: scoprire se è possibile far pedalare i corridori sulle rampe del Tourmalet. Desgrange non sembra molto convinto della possibilità. Depositati i bagagli in hotel e ricevuta qualche sommaria informazione, Steines decide di andare subito a vedere la strada. Passare il Tourmalet a luglio può essere impossibile per via della neve, figuriamoci in questa stagione - lo mette in guardia l’albergatore. Noleggia un’auto con conducente e si fa portare su, verso il passo. A 4 chilometri dalla cima la carreggiata è intransitabile per via della neve e, dopo aver dato indicazione all’autista di aspettarlo lì, prosegue a piedi, da solo. Vuole raggiungere il passo prima che faccia buio. Ci riesce e dopo averlo raggiunto, sulla via del ritorno, una fitta nebbia avvolge la montagna facendogli perdere le tracce di salita. È ormai buio e ha smarrito la strada; nel tentativo di orientarsi scivola in un burrone e si ritrova al termine di un canale ingombro di una vecchia valanga di neve primaverile. È solo alle tre del mattino che viene recuperato, vivo per miracolo e un po’ stordito grazie all’allarme lanciato dall’autista preoccupato di non vederlo tornare. Steines è suonato e ammaccato ma entusiasta della sua scoperta, non ha dubbi. Il mattino seguente, malconcio e zoppicante, si affretta a raggiungere l’ufficio postale e ad inviare un telegramma a Henry Desgrange, il suo capo: Tourmalet passato. Stop. Strada molto buona. Stop. Perfettamente transitabile nessun problema. Stop. Firmato Steines. Alcuni mesi più tardi, il 21 luglio 1910, alle 3:30 del mattino, viene dato il via alla decima tappa dell’ottavo Tour de France, in Rue d'Etigny a Bagneres de Luchon. È una tappa spaventosa di 326 km quella che attende i 59 corridori rimasti in corsa. Ci sono cinque passi da valicare nella prima parte del percorso e oltre 170 km di pianura da affrontare con un ulteriore colle, prima di raggiungere il traguardo a Bayonne, sulla costa basca. Si tratta di un percorso allucinante. È sulle rampe del Colle Aubisque, l'ultimo grande passo dei Pirenei di quella tappa, che Octave Lapize - dopo avere sceso a piedi il Tourmalet a causa di un problema meccanico e rimontato sulla testa della corsa (Lapize sarà poi vincitore oltre che della tappa anche del Tour) - pronuncerà una frase che entrerà a far parte della leggenda del ciclismo: Siete degli assassini! Assassini! La tappa degli assassini era nata.


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LUCHON - NAVIGARE L’OSCURITÀ 20 giugno - Bagnères de Luchon / Km 0 / 3h30 del mattino La piccola cittadina termale ai piedi dei Pirenei dorme ancora profondamente. Come fecero i corridori nel 1910, mi sposto lungo quella che oggi è una pista ciclabile andando verso Etigny, dove avverrà la partenza. Il rumore della mia ruota libera rompe il silenzio della notte. L'aria per ora è ancora fresca e me la gusto, so che oggi sarà una lunga giornata e che più tardi arriverà un gran caldo. Centootto anni fa, erano 59 i corridori che avevano iniziato questa tappa del Tour de France, che diventerà leggendaria. Oggi ce n’è uno solo, io. Non ho mai avuto l'opportunità di pedalare nei Pirenei prima d’ora, questo battesimo ha tutte le premesse per essere memorabile. Infilo le tacchette nei pedali alle 4 del mattino e comincio a pedalare lentamente. Non c'è vento e il cielo è sereno. Lascio in fretta l’abitato, i lampioni si allontanano e arrivo rapidamente ai piedi del primo passaggio, quello sul Peyresourde. Non c'è nessuno, nessuna automobile, nessun rumore. Solo io e la mia bici. Sto pensando a quei 108 che cominciarono la loro tappa con delle bici pesantissime e lo scatto fisso, io pedalo su una bici che pesa solo 6,8 chili, ha il cambio elettronico e come optional un'illuminazione ultra potente. Se i Pirenei sono per me una novità, anche pedalare di notte alla luce di un faro lo è. È la prima volta e mi pare stranissimo: quando la salita aumenta, scopro nuove sensazioni. Nel buio rotto solo dal mio faro sento il ritmo del respiro, il suono della catena, i campanacci del bestiame che immagino nei prati che contornano la strada su cui procedo. I miei sensi sono all’erta, pedalare è un pretesto per scoprire un ambiente che, nel buio, posso solo vagamente intuire. Il cielo è limpido e le stelle brillano. Mentalmente, ho diviso il percorso in due parti: la sezione delle grandi salite fino al Col de l'Aubisque e quella della pianura vallonata verso Bayonne. La notte non mi lascia ancora godere dei paesaggi che immagino oltre il filo delle montagne, non vedo l'ora che arrivi la luce. Dopo un'ora di sella sono già in cima al Col de Peyresourde. Al passo il sole non è ancora sorto e decido di prendermela comoda, mi fermo al cartello che segna 1.563 metri sul livello del mare per indossare una giacca a vento e i manicotti. Poi mi tuffo nell'oscurità della discesa.

GRANDI SALITE Col d’Aspin – 49esimo km / 2h27 di strada / 1.730 D+ Dopo una prudente discesa, le prime luci della giornata arrivano quando ho appena iniziato a salire sul Col d'Aspin.

Mentre spingo sui pedali l'alba mi svela gradualmente i meravigliosi paesaggi che attraverserò oggi. La montagna rivela timidamente i suoi tesori man mano che mi avvicino alla sommità del colle. Voglio approfittare di questa luce magica per vedere il panorama dall’alto. Dopo 2h30 in sella, raggiungo il Col d’Aspin. Mi fermo, voglio godermelo. Il sole è finalmente sorto, lo spettacolo è bellissimo. In lontananza è visibile il Pic du Midi, ancora coperto di neve. È sorprendente quanto al mattino la luce sia tersa e limpida, so che nel pomeriggio le nubi arriveranno.


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Tourmalet – 79esimo km / 4h05 di strada / 3.000 D+ Se c'è un passaggio chiave e simbolico in questa giornata folle è il Tourmalet.

Spettacolo surreale. Oltre alle pecore a bordo strada, può capitare di imbarttersi in un lama.

So che lì in cima mi sentirò almeno un po’ come i pionieri de l’Etape des Assassins. Quante volte nelle vecchie fotografie o guardando il Tour de France alla TV, ho visto la statua dedicata a Octave Lapize? Quanti ciclisti orgogliosi di aver salito il Tourmalet scatteranno una foto proprio lì davanti? È solo una salita e so che non è impossibile ma non vedo l'ora di affrontarla. La prima parte è piuttosto tranquilla: è ancora mattino presto e non incontro auto o persone ma gradualmente la pendenza aumenta. So che questo è uno dei passaggi più difficili della giornata quindi gestisco i miei sforzi, cerco anche di alimentarmi a dovere. Dopo più di 10 chilometri di salita arrivo a La Mongie e mi pare di comprendere tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare i corridori nel 1910. Intorno a me greggi di pecore pascolano felici, non c’è vegetazione e l'altitudine si fa sentire. La neve a bordo strada è piuttosto alta e la pendenza ora è costantemente intorno al 9%. Finora ho pedalato da solo, nella mia bolla di fatica, ma l'arrivo al colle è straniante: alcuni lama al pascolo che attraversano la strada mi accompagnano negli ultimi metri; poi un'orda di cicloturisti olandesi organizzati con rifornimento volante e gazebo mi accolgono al passo con trombe e applausi. Saluto e sorrido. C’è anche altra gente, ciclisti, motociclisti e turisti a piedi, è un’atmosfera da Tour de France piuttosto bizzarra ma piacevole. Cullato da questo caos festoso, decido di fermarmi al bar del passo per gustarmi una coca-cola e una fetta di torta. Con sorpresa scopro che all'interno del locale c’è un piccolo museo e faccio un viaggio indietro nel tempo, con vecchi poster, foto e soprattutto biciclette vintage appese alle pareti. Mi immagino per un momento quei 108 su questa salita, nel fango e al freddo, mentre pedalano su strade non asfaltate. Una follia.

Cols du Soulor e d’Aubisque – 146esimo km / 6h42 di strada / 4.380 D+ L'adrenalina del valicamento del Tourmalet è finita, riprendo il filo della mia avventura.

Il caldo inizia a farsi sentire e così anche un po’ di stanchezza. Scendendo a valle la vegetazione riprende, prima di diventare meno densa e poi scomparire di nuovo a metà del quarto colle della giornata: il Col du Soulor. La salita è lunga ma la pendenza è meno ripida. Arrivo in cima e decido di non fermarmi. La distanza dal prossimo passo, il Col d'Aubisque, è di soli 7 chilometri quindi poco più di mezz’ora è sufficiente per coprire tutto il tratto. Qui invece mi fermo allo chalet per fare rifornimento, prima di buttarmi a valle.


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L’ambiente è meno folcloristico del Tourmalet. Ho appena concluso la prima parte del percorso. Il secondo pezzo della mia avventura, lungo ampie pianure ondulate da affrontare da solo solo fino a Bayonne, sta per cominciare.

PIANURA, CALDO FEROCE E STANCHEZZA Laruns – 164esimo km / 7h06 di strada / 4.380 D+ Laruns si trova in fondo alla discesa del Col d'Aubisque ed è anche, a tutti gli effetti, il punto di partenza di questa seconda sezione del percorso. È l'inizio del pomeriggio ed il caldo è opprimente quando arrivo nella piazza del paese. Questa è la parte che più temo, francamente: lunghe strade esposte al vento, caldo torrido (il termometro della farmacia segna 34°C), piccoli strappetti che si sommano in centinaia di metri di dislivello e rompono il ritmo. Procedere è abbastanza monotono e comincio ad avere un po’ di mal di culo. Mi alzo spesso in piedi sui pedali per cambiare posizione. I chilometri passano ma la strada è meno divertente delle cime coperte di neve di poche ore fa. Trovo anche un bel po’ di traffico.

Col d’Osquich – 250esimo km / 9h58 di strada / 5.023 D+ Il Col d’Osquich è l'ultima difficoltà in programma, ma a 70 chilometri dalla fine del viaggio, sento che le forze mi stanno a poco a poco abbandonando. Forse devo mangiare. Mi fermo per fare un po’ di stretching e per riposare. Il calore e le ore in sella iniziano a farsi sentire: mi fermo spesso per bagnarmi viso, collo e gambe. Ripenso ai primi momenti di questo viaggio, questa mattina, all’aria fresca dell’alba, all'eccitazione del cominciare: mi sembra sia successo così tanto tempo fa. Ogni piccola salitella adesso diventa difficile da oltrepassare, mi accorgo di avere il volto contorto in una smorfia; questi piccoli mangia-e-bevi che normalmente si risolvono di forza con un rapporto lungo ora sono da scalare agili proprio come una grande salita.

BAYONNE, L’ARRIVO Bayonne – 326esimo km / 12h12 di strada / 5.800 D+ La fine della giornata è vicina, per fortuna. Sono stanco. I cartelli stradali si susseguono sempre più numerosi, indicando la direzione di Bayonne. Ormai sento di essere arrivato e il morale è alto, le forze ritornano. Sono galvanizzato per la mia piccola impresa. Il mal di culo e di muscoli è dimenticato e pedalo trovando le forze non so dove; tutto intorno mi sembra nitido e cristallino, i colori vividi, i profumi forti. Costeggio la riva sinistra del fiume Adour fino all'ingresso in Bayonne. Vedo in lontananza il cartello stradale di ingresso in paese e non riesco a trattenermi: mi fermo, scendo dalla bici e lo tocco. Mi faccio anche un autoscatto, sorrido come un ebete. Più di 12 ore di sforzo, quasi 320 km e poco meno di 6.000 m di dislivello positivo sul mio Garmin. Non ho parole per descrivere come mi sento. Felice, credo. Poi mentre sino lì, in estasi, mi vengono in mente quei pionieri che nel 1910, furono i primi eroi dello sport ciclistico. Chapeau.


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TOUR DE FRANCE 1910 Un’innovazione dell’edizione del 1910 fu l'introduzione in corsa del camion balais ovvero il ‘camion-scopa’, su cui salivano i ciclisti che si ritiravano dalla gara. Quale occasione migliore di una tappa di 320 km in gran parte sterrati con 6.000 m di D+ per sperimentare la novità?

Le strade erano prevalentemente non asfaltate, si pedalava con rapporto fisso in salita e senza la possibilità di ricevere assistenza in caso di incidenti. Durante la scalata al Tourmalet, Lapize fu vittima di un incidente meccanico, con la rottura del manubrio. Non potendo riparare da solo il danno fu costretto ad affrontare a piedi l'intera discesa. Dopo aver riparato la bici in un’officina riuscì comunque a ripartire e a vincere la tappa. Celebri furono le parole che pronunciò nei confronti degli organizzatori dopo quella tappa: Siete degli assassini! Su 110 corridori partenti soltanto in 41 giunsero a Parigi. Il francese Adolphe Hélière morì durante un bagno in mare mentre si rinfrescava alla fine della sesta tappa. Octave Lapize, oltre a trionfare nella classifica generale del Tour de France, vinse anche 4 tappe su un totale di 15. Fu un Tour memorabile.

LE SALITE DELLA TAPPA DEGLI ASSASSINI Per la prima volta dalla creazione del Tour furono affrontati i Pirenei, con le ascese su Col d'Aubisque, Col d'Aspin, Col du Peyresourde e Tourmalet; di conseguenza fu anche la prima volta che il Tour fece tappa a Luchon.


cover story

bikepacking

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Garibaldi fu. Testo Federico Damiani

Foto Federico Damiani Francesco Franchi Maicol Zoia

Sulla carta l’Italia, dal 1861, è un’unica nazione ma ad attraversarla in bicicletta da capo a piedi, anzi, da piedi a capo, è chiaro che di Italie ne esistono tante. Per fortuna e purtroppo, come direbbe Gaber. C’è una cosa però che non cambia a qualunque latitudine. Vestitevi da ciclisti, casco in testa e se possibile l’espressione sfatta di chi pedala a 40 gradi da ore ma con un bel sorriso stampato in faccia. Prendete una bici, attaccateci delle borse piene e delle luci. Ora che siete pronti presentatevi in un luogo qualunque, l’importante che sia un contesto sociale interessante. Un bar nel centro di un paese, se possibile piccolo, funziona benissimo.

— Dove vai?

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Arrivate, appoggiate la bici ad un muro e sedetevi sulla canna. Guardate nel nulla per trenta secondi e lasciate che la vostra audience vi noti. A questo punto, mentre iniziano a guardarsi straniti, giratevi e incrociate lo sguardo di quello che vi sembra l’influencer del gruppetto, sorridetegli e ditegli solo buongiorno. Solo per fargli capire che non siete marziani e che parlate italiano.

— Da dove arrivi? Sarà come rompere l’argine di un fiume dopo un temporale estivo. Da dove arrivi? Dove vai? Ma quanto pesa la bici? Sei in giro da solo? Ma hai tutto nelle borse o c’è qualcuno in macchina che ti segue? E se buchi come fai? Nel mio caso, quest’estate, rispondevo più o meno che sono partito dalla Calabria e vado a Genova. Come Garibaldi in nave, ma in bici, in undici giorni e in direzione esattamente contraria. Che siamo in tre, ma ogni tanto ci separiamo e facciamo strade diverse. Che c’è tutto nelle borse, non c’è nessuno in macchina e la bici pesa 19 chili. A questo punto, non importa la latitudine né l’interlocutore, vi diranno tre cose. Ma tu sei scemo?, declinata in dialetti ed espressioni diverse, accompagnata da una grassa risata, per prima cosa. Voglio farlo anche io un viaggio in bici come te per seconda, che se tra il dire e il fare non ci fosse di mezzo il mare, Nure di Miss Grape sarebbe più ricco del fondatore di Google. Ma hai bisogno di qualcosa?, come terzo e ultimo, ma bellissimo, elemento di qualunque dialogo.


bikepacking

Caldo. Un giorno a Isernia, c'erano 42 gradi all'ombra.

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È successo con Beppe a Diamante e con Ivano e Massimo nella piana di Battipaglia. Fruttivendoli con il camion a bordo strada, che mi hanno regalato frutta per una famiglia intera. Con Nicola e Severino, due pensionati di Castelpetroso, Molise, a cui ho chiesto se ci fosse una fontana per riempire le borracce. Sono finiti per trascinarmi dentro ad un bar e offrirmi una birra prima di tornare dalle mogli per pranzo. Per me era la prima, per loro sicuramente no… Per non parlare di Remo, a Rionero Sannitico. Paese di 1200 abitanti, un solo bar, in cui sono arrivato dopo una salita infernale da Isernia in un pomeriggio da 42 gradi all’ombra. Le tre del pomeriggio e Remo, pizzetto da pirata e braccio ingessato, mi fa un terzo grado molto più approfondito del solito mentre beve in venti minuti due Moretti da 66. Poi mentre io pago le mie

granite - che Dio benedica la granita - sale in sella per provare la bici. Mi passa la vita davanti, ma miracolosamente torna sano e salvo poco dopo e io posso ripartire. La tappa finisce a Roccaraso, in quota, dopo un’altra salita. Arrivo intorno alle sette e Gilberto è seduto su una sedia di plastica con due amici fuori dalla sua macelleria. Un buonasera e puntualmente si apre un mondo. Dopo avermi raccontato che la sua è la macelleria più antica di Roccaraso mi fa assaggiare tutto quello che ha in negozio e mi obbliga a portare via Angeli e Demoni, i suoi salamini dolci e piccanti. Provo a spiegargli che non posso metterli in borsa ma non vuole sentire ragioni. Li appendo sulla sottosella, l’indomani riparto così e la pausa pranzo è già risolta.

— Ma quanto pesa la bici?

— Sei in giro da solo?

Due giorni dopo tra L’Aquila e Norcia è la tappa che più mi segna di tutto il viaggio. Fabio, abruzzese trapiantato a Milano, mi ha dato la traccia e mi ha fatto passare per L’Aquila, Campotosto, Amatrice, Arquata del Tronto e Norcia. Un giro tra i luoghi dei terremoti del 2009 e del 2016 che mi dà un pugno dritto nello stomaco. Paesaggi e paesi bellissimi che nei posti più fortunati portano le cicatrici del sisma e in quelli più dimenticati hanno ancora le ferite aperte. E nessuno che si sia degnato di portare ago e filo per provare a rimediare. Non è Amatrice a fare impressione, sono i chilometri prima che mi distruggono. Dal lago di Campotosto dietro una curva trovo Poggio Cancelli. Poche case, tutte come se fossero state bombardate il giorno prima. Provo un misto tra angoscia, dolore, rabbia ed incredulità. Da qui ad Amatrice è un falsopiano in discesa tra distese di pascoli bellissimi. Lo faccio senza riuscire a pedalare, mentre da sotto le lenti dei miei occhiali spuntano lacrime che non riesco a trattenere, sotto un cielo che per la prima volta dopo una settimana senza una nuvola fa cadere qualche goccia per non farmi piangere da solo, un po’ alla Bombarolo di De André.

Ad Amatrice ho quasi perso le speranze. I militari non fanno transitare i ciclisti dal centro del paese - pare perché la gente si fermava a fare foto e selfie tra le macerie - e mi dicono di prendere la statale Salaria. Vuol dire allungare di 50 chilometri. Se però c’è una cosa che ho imparato in questa settimana di viaggio è di continuare ad andare fino a dove è possibile proseguire, poi qualcosa succederà. Mi fermo all’ultimo ristorante prima dello sbarramento per un’amatriciana e una gricia. C’è una famiglia di Milano che vede la bici, li saluto con un buongiorno e vogliono sapere tutto, come sempre. Si offrono di portarmi in camper dell’altra parte di Amatrice e non me lo faccio ripetere due volte. Mujo e Faredin invece mi salvano poco dopo Arquata del Tronto. L’unica strada aperta è una statale con una galleria di 6 chilometri, tutte le altre chiuse per il terremoto. Anche qui continuo fino a dove posso e mi metto a fare autostop. Si fermano loro e mi caricano su una Golf in cui cerchiamo di far stare tutto. Nel viaggio, dieci minuti, mi raccontano che Mujo è Macedone, fa il muratore e vive in Italia da trent’anni. Faredin invece è suo figlio e va all’Università a Torino. Sono di Cascia e da tre anni vivono in sette in un prefabbricato da 80 metri quadri. Aspettano che


Siamo gente semplice, noi. Volevamo andare in vacanza e volevamo andarci in bici, se possibile partendo da un generico Sud Italia e puntando verso un generico Nord Italia. Alla fine abbiamo percorso il viaggio di Garibaldi al contrario.


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Incontri. Non è solo la strada che conta, sono anche le persone a bordo strada.

— È tutto nelle borse o c’è qualcuno in macchina che ti segue?

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la loro casa sia ricostruita: sperano in un paio di anni. Mi raccontano tutto con una dignità ed una naturalezza che mi spiazzano, mentre cercano di aiutarmi in ogni modo mentre forse dovrebbe essere esattamente il contrario. Nei giorni seguenti ci sono Gianluca e Mattia, di Cicli Testi, a Perugia, che mi sistemano un freno che ha deciso di non funzionare più e non vogliono nemmeno un euro. Ci sono Carlotta, Alice e Lorenzo che mi ospitano a dormire e c’è Daniele, un cicloamatore vecchio stampo che dopo qualche chilometro insieme mi vuole offrire la colazione e mi obbliga a fare la strada delle Cinque Terre invece dell’Aurelia per arrivare a Quarto dei Mille e chiudere il mio Garibaldi Fu Bikepacking. Com’è nata l’idea di questo viaggio e di questo tema non ci è esattamente chiarissimo. Pare che la prima volta che un paio di pedali ed un manubrio sono stati attaccati ad una coppia di ruote fossimo a Parigi, nella bottega del costruttore di carrozze Pierre Michaux. Correva l’anno 1861. Mentre al di qua delle Alpi si era impegnati a fare l’Italia, di là si inventava la bicicletta. Noi tutto questo quando abbiamo pensato Garibaldi Fu Bikepacking non lo sapevamo ovviamente. E nemmeno stavamo pensando che

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Il Garibaldi è il libro tecnico ufficiale del Giro d’Italia. Una Bibbia per i direttori sportivi e gli addetti ai lavori. Niente di tutto questo. Siamo gente semplice noi. Volevamo andare in vacanza e volevamo andarci in bici, se possibile partendo da un generico Sud Italia e puntando verso un generico Nord Italia. Dall’idea originaria alla traccia definitiva è un flusso di coscienza non ricostruibile, ma ad un certo punto gli exit poll danno sempre più insistente l’idea di percorrere il viaggio di Garibaldi al contrario. Da Melito di Porto Salvo, comune più a sud dell’Italia continentale e punto di sbarco dei Mille sulla penisola, fino a Quarto dei Mille, punto di partenza della spedizione garibaldina. Ci è sembrata una bella idea e abbiamo buttato giù una traccia che piacesse a tutti e tre. Niente di più, niente di meno. Questi i tre di cui si parla. Francesco, che con Garibaldi c’entra perché fu ferito ad una gamba l’anno scorso all’Eroica, investito da un polacco: frattura del femore in 7 punti - ma ora è pronto per il viaggio. Maicol, che abita a Bergamo, e senza almeno un bergamasco Garibaldi non va da nessuna parte. E poi ci sono io, che di Garibaldi forse ho solo la barba.


Fino al 13 aprile 2020 il Museo della Figurina di Modena presenta la mostra BICI DAVVERO! Velocipedi, figurine e altre storie che ripercorre due secoli di storia della bicicletta, attraverso 350 pezzi tra album e figurine.

Celo, celo, manca! Raccontare tutto quello che è successo e che abbiamo visto in undici giorni, 1.600 chilometri e 20.000 metri di dislivello sarebbe impossibile. Non si farebbe in tempo nemmeno a nominare, figuariamoci a rendergli giustizia, tutti i posti, i paesaggi e le città incredibili che abbiamo attraversato. Tutti belli da togliere il fiato; dall’Aspromonte alla scogliera di Maratea, dalla Piana delle Cinque Miglia a Rocca Calascio, da Perugia alla Val d’Orcia e le strade bianche dell’Eroica, dalle colline di San Gimignano alle Cinque Terre. Mai come in un viaggio in bici mi sono reso conto che viviamo in un Paese ricco e vario come pochi al mondo. C’è un dialetto diverso al di là di ogni montagna da scollinare e girata ogni curva potresti trovare un paesaggio che fino a cento metri prima neanche pensavi possibile.

Sono stati undici giorni che mai mi sarei immaginato in sella alla Zydeco appoggiato ai miei Spinaci, in barba ai divieti dell’UCI. Sono arrivato a Quarto dei Mille con le gambe vuote ed il cuore e gli occhi pieni di posti e di persone che forse, almeno un pochino, mi hanno cambiato per sempre. Mi hanno sbattuto in faccia che, davvero, esistono un milione di Italie diverse. Per fortuna o purtroppo. E voi, non fate come tutti, prendetela davvero una bicicletta. Caricatela di borse ed inventatevi un viaggio. Se lo farete con lo spirito dei viaggiatori e non dei turisti tornerete cambiati sul serio. Se invece rimanete a casa e qualcuno vi chiederà un aiuto provate ad immaginarlo con una bicicletta ed un casco sulla testa. Vi verrà più facile dargli una mano. Da quel che ho visto funziona. Io, da oggi, farò così.

— E se buchi come fai?

La rassegna, curata da Francesca Fontana e Marco Pastonesi, con il patrocinio della Federazione Ciclistica Italiana, ha un percorso espositivo diviso in sezioni. Agli esordi la bicicletta era definita cavallo d’acciaio e i ciclisti cavalieri. Le figurine documentano quindi l’evoluzione dell’abbigliamento mutuato, per gli uomini, da quello dei fantini, costituito da casacche in seta, stivali e cappellini ippici, in seguito rimpiazzati da abiti più pratici che lasciano scoperte gambe e braccia. Una sezione della mostra mette in evidenza quanto guidare una bicicletta, per una donna, fosse comunque molto più complicato che per un uomo: l'uso del biciclo da parte delle donne veniva costantemente osteggiato sia dai moralisti che lo ritenevano poco decoroso, sia dai medici, secondo cui sconvolgeva il sistema nervoso, danneggiava gli organi di riproduzione ed esponeva al rischio di cadute. La mostra prosegue con una serie di copertine di riviste, cartoline e bolli chiudilettera.

BICI DAVVERO! Velocipedi, figurine e altre storie. Modena, Museo della Figurina, Palazzo Santa Margherita (corso Canalgrande 103). Fino al 13 aprile 2020.


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avventura

N I P O T E S E I I N C R E D I B I L E La levataccia è quella dei grandi eventi. Sì, anche quest’anno ti farò gustare il nostro viaggio in bicicletta. Tutto è pronto: maglietta di Mattia, nuova per l’occasione, pantaloncini, scarpette e casco di entrambi in ordine sulle due sedie del soggiorno. Le bici cariche e lucide in garage. L’aria afosa, di questa calda estate trentina, ci accompagna alla stazione: destinazione Dobbiaco.

Testo e foto Paolo Ronc

I tuoi nove anni non riescono a contenere l’entusiasmo di questa nostra avventura. Saranno 500 chilometri in una settimana dove il sole, il vento, la polvere e spero non la pioggia saranno i nostri compagni di viaggio. Ma, soprattutto, solo tu sarai il mio vero compagno e motore di quest’affascinante avventura. Dobbiaco, mi chiami e mi dici: dammi un cinque… si parte. La Pusteria ci accoglie con il suo rigoroso ordine: prati infiniti perfettamente rasati, balconi esuberanti di fiori, piccoli paesini incastonati alla base delle Dolomiti. La ciclabile si srotola davanti a noi. Sei incredibile.

Fai girare le ruote da 20” con una pedalata frenetica, con quelle gambe esili, che poi tanto esili non sono. Smanetti come non ci fosse un domani, scatti, lanci sfide, mi dici di fermarmi perché vuoi bere ma la verità è che la sella comincia a farsi sentire. Ti fa male il sedere. Riparti senza battere ciglio. Io ti seguo con la mia gravel, ruote da 29” plus, borse con tutto il nostro bagaglio dentro e mi domando quanti giri di pedale devi fare per mantenere la mia velocità. Percorriamo dei tratti di ciclabile dove è evidente quello che la natura, con una devastante violenza, ha distrutto in pochi minuti lasciando profonde cicatrici nel paesaggio.


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avventura

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Passiamo Lienz, arriviamo a Oberdrauburg: i chilometri percorsi sono 75. Non sei ancora stanco, mi chiedi di fare quattro salti con la bici. Andiamo lungo le sponde della Drava dove dai fondo alle ultime energie. Entriamo in Carinzia, la regione più a sud dell’Austria. La temperatura ci fa intendere che sarà una giornata torrida. Fitti boschi, sterrati che ti permettono di fare le sgommate, pozze d’acqua che ti

riempiono di fango come i veri ciclisti alla Parigi-Roubaix ed una silenziosa Drava ci accompagnano verso Döbriach, luminosa cittadina sulla riva del lago Millstatt. Nei tuoi occhi vedo la gioia e l’orgoglio per quello che stai facendo. Sapere che questa nostra avventura ti fa sentire grande ed importante ma soprattutto dà un senso ad una quotidianità a volte noiosa e ripetitiva, mi dà grande soddisfazione. Una natura di incantevole bellezza ci accompagna verso Unterthorl e Tarvisio. Lasciamo la ciclabile Alpe/ Adria per seguire la Romea/Strata che ci farà conoscere alcuni dei borghi più belli d’Italia: Venzone, Spilimbergo,

Concordia Sagittaria. Percorriamo la strada della vecchia ferrovia Pontebbana con le sue suggestive gallerie e le vecchie stazioni utilizzate come punti di ristoro. Oggi i chilometri percorsi sono stati 90, piccola deviazione per un mio errore e non dai segni di sconforto o cedimento. Ormai la nostra meta è vicina, lì sarai accolto come un vincitore. Jesolo, ci siamo. Ultimo chilometro, ultimo sprint, ultimo sguardo sornione con un sorriso infinito, alzi le mani al cielo sotto un virtuale arrivo. Batti cinque, un abbraccio e un bacio dal nonno che ci aspetta in veste di ‘Miss’. Chapeau nipote mio.


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viaggi

Niente di speciale Una storia di ispirazione e motivazione

Testo Simon Cittati

Foto Federico Merlo

Antefatto Questa storia nasce sui primi chilometri del Col du Portet, tra le nuvole, il freddo e la pioggia di un giorno di metà Agosto. Sto salendo piano, molto piano, la bici appesantita dalle borse e le gambe altrettanto appesantite da ormai quasi una settimana in sella, tra granfondo La Purito di Andorra (145 km, 5.200 m di salita, disegnata da Purito Rodriguez) ed i primi cinque giorni di bikepacking su Pirenei. Salgo talmente adagio che riesco a togliere dalla tasca il telefono ed inizio a dettare pensieri sconnessi in una nota vocale - pensando che per completare i 16 chilometri all’ 8.7% di media di questa salita sarà meglio trovare un modo per far passare il tempo.

D’altronde come dice Omar di Felice Se ci pensi ti fermi, se pedali arrivi. Allora pedalo, e mentre pedalo (piano), scrivo (parlando). Sperando di arrivare. Svolgimento Al giorno d’oggi è sempre più facile trovare ispirazione per andare in bicicletta. Strava, riviste, siti, social media, Youtube ci ricordano costantemente che mentre noi stiamo pensando se uscire a fare un giro in bici o meno, c’è qualcuno che nel frattempo ha fatto 200 km alle media dei 35 km/h, che va da Pechino a Roma non-stop o sta pedalando con 45°C gradi sotto al sole o con -20°C sotto la neve. A questo eccesso di offerta di

Asfalto. In certi tratti un po' rovinati restano ancora le scritte degli ultimi passaggi del Tour de France.

ispirazione fa spesso da contraltare una carenza di motivazione. Troppo caldo, freddo, piovoso, ventoso, troppo poco tempo, non ce la faccio con le ferie, troppo duro, troppo poco duro, insomma di scuse per non uscire dalla routine ne troviamo sempre in ogni caso. Troppe. È per questo che quando il mio amico di una vita Merlo, che di nome fa Federico ma lo chiamiamo tutti Merlo cioè il suo cognome, mi inizia a proporre il percorso di quello che effettivamente sarà il mio (e nostro) primo bikepacking serio, ho diversi dubbi. 700 chilometri e 19.000 metri di dislivello in nove giorni? Con le borse? E subito dopo una delle Granfondo più dure d’Europa, La Purito, di cui sopra?

E dove dormiamo? E se piove? E se fa freddo? Procrastinare, si sa, è il modo migliore per non fare le cose, ma anche di eliminare i dubbi, e quindi quasi senza pensarci dopo un paio di mesi stracolmi di impegni di lavoro, un trasloco e pochissimo allenamento eccoci nella piazza di un paesino minuscolo dell’Aragon, con la nostra roba sparpagliata sull’asfalto, pronti a selezionare cosa andrà nelle borse e cosa no. Faccio scelte che al momento non capisco (scarpe da trail running sì, gambali no) ma che capirò, o continuerò a non capire, solo nei giorni successivi.


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Procrastinare, si sa, è il modo migliore per non fare le cose, ma anche di eliminare i dubbi

La notte dormo poco e niente, per il caldo, 30°C a quasi 1.000 metri ma soprattutto per l’emozione. Per me è sempre così la sera prima di un giro lungo, o di una Granfondo, difficilmente dormo. Non vedo l’ora che arrivi il momento di salire in bici. Che puntualmente arriva. Partiamo. L’obiettivo? Un itinerario circolare che ci porterà sui Pirenei francesi, a caccia di tutte le salite più famose del Tour de France, fino poi a rientrare in Spagna, recuperare l’automobile e tornare a casa. Saranno 700 chilometri e oltre 20.000 metri di dislivello, numeri che sulla carta ci fanno un po' paura. I Pirenei sono stupendi, molto più selvaggi e meno blasonati delle Alpi, a tratti quasi malinconici ma siamo pur sempre in agosto e trovare un posto per dormire ad ogni tappa non è stato semplicissimo - ma sicuramente ha aggiunto un bel po' di avventura al viaggio, visto che più di una volta il nostro rifugio per la notte si trovava in cima ad una bella salita sterrata con rampe al 18%. Il Col du Portalet, dal lato spagnolo, è la nostra prima vera salita pirenaica ed un antipasto di ciò che ci aspetta. Si sale, lasciandosi alle spalle il fondo delle valli, con un panorama che poco alla volta cambia, lasciando spazio a montagne verdissime e maestose, stazioni sciistiche piuttosto sconosciute e poi finalmente - eccola - la cima, con qualche bar e negozi di souvenir.

I professionisti in cima a salite come questa si infilano una mantellina senza neanche rallentare e si buttano in discesa, noi ci fermiamo. Ordiniamo birre e panini al bar e celebriamo degnamente ogni Col conquistato. Plaisir Avant Tout, il piacere prima di tutto, recitano le maglie di due simpatici francesi che ci accompagnano durante la salita al Col d’Aubisque nel corso del primo vero giorno sulla Route des Cols, e ci sembra proprio una gran filosofia. Iniziamo a seguirci a vicenda su Strava e promettiamo di ritrovarci sul Mount Ventoux. Ogni sera arriviamo in un villaggio diverso, sganciamo le borse dalla bici e l’unica nostra preoccupazione è quella di trovare un torrente ghiacciato dove mettere a bagno le gambe e cenare, prima di andare a dormire presto. Siamo fortunati, il tempo è splendido per tutta la prima metà del giro e cambia repentinamente proprio il giorno in cui affrontiamo sua maestà, il Col du Tourmalet. Imbocchiamo tra le nuvole la vecchia strada di questa cima mitica, ora battezzata Voie Laurent Fignon, ormai chiusa al traffico, e sull’asfalto un po’ rovinato ci sono ancora le scritte degli ultimi passaggi del Tour de France. Qui sono passati negli anni recenti Schleck, Contador, Hushovd. E poi noi. Pedaliamo tranquilli, scattiamo decine di foto fino al punto in cui, a 3 chilometri dalla cima, non si ritorna sulla strada principale.


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I Pirenei sono stupendi, molto più selvaggi e meno blasonati delle Alpi, a tratti quasi malinconici.

A poco meno di due chilometri dalla cima ecco uno squarcio di cielo azzurro, la fatica quasi non si sente più. Il Tourmalet è più di una salita, è un museo del ciclismo a cielo aperto e nel bar in cima sono appese le bici del primo Tour de France a passare da qui, quello del 1910. Vengono i brividi, soprattutto pensando alla durezza di questi percorsi anche con le nostre bici di oggi, in carbonio, con ruote e gomme tubeless, cambi elettronici e freni a disco. Penso a Octave Lapize, che proprio durante il Tour del 1910 in una tappa mostruosa da Luchon a Bayonne (326 km), dopo aver passato il Tourmalet in cima all’Aubisque urlò Assassins agli organizzatori minacciando di ritirarsi (per la cronaca non si ritirò, e quel Tour lo vinse). Ma anche alla signora basca che oggi il Tourmalet l’ha fatto con una bici da passeggio, con tanto di portapacchi e borse - e non ci ha messo nemmeno tanto. Il marito, pazientemente, l’ha scortata in macchina. Penso che in fondo non stiamo facendo nulla di speciale, semplicemente qualcosa che ci rende felici: svegliarsi, mangiare, fare le borse, salire in bici e pedalare tutto il giorno. Fermarsi, mangiare, dormire e ricominciare di nuovo. Lo fanno i professionisti, a ritmi mostruosi, durante tante corse. Lo fanno i viaggiatori e attraversano

i continenti. E lo stiamo facendo noi. Non è niente di speciale, appunto. Andare in bici è questo. Il meteo vira deciso al brutto e gli ultimi due giorni in terra francese li passiamo bagnandoci di pioggia e sudore in salita tra Col du Beyered (stupendo e quasi sconosciuto), Portet, Azet e Peyresourde, congelandoci in discesa, sempre immersi tra nuvole e nebbia. Il Peyresourde è l’ultimo Col che onoriamo aggiungendo quasi 50 chilometri alla nostra penultima tappa, per farlo in salita e senza borse. Scarichiamo tutto il nostro armamentario nell’unico bar in cima, dove una coppia di vecchietti fantastici sforna tutto il giorno crêpes-sucrées a 60 centesimi l’una (preparano almeno 1.000 crêpes al giorno, ci spiega orgoglioso il signore). Scendiamo a Luchon, ci sfianchiamo in salita, omelette e patatine per ricompensa sempre allo stesso bar dai signori delle crêpes (anche perché in cima non c’è altro), foto di rito, ricarichiamo le borse sulle bici e via verso la Spagna. Il Col du Portillon con le sue rampe al 12% è l’ultima salita francese del nostro viaggio ed in cima c’è il confine di stato. Soffriamo, ma pedalare lentamente quasi ci aiuta ad assaporare meglio questi ultimi momenti. In cima ci imbattiamo in Pavel Sivakov del team Ineos (nono all’ultimo Giro d’Italia), indossando


Penso che in fondo non stiamo facendo nulla di speciale, semplicemente qualcosa che ci rende felici: svegliarsi, mangiare, fare le borse, salire in bici e pedalare tutto il giorno.


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Ho voglia di una Coca Cola gelata, di una birra e di un panino e poi di sedermi su qualcosa che non sia il sellino di una bici.

le mantelline commentiamo quanto sia dura la salita, lui ci guarda perplesso prima di lanciarsi in discesa. Coscienti del nostro status ibrido tra viaggiatori e ciclisti rientriamo in Spagna e celebriamo subito con una birra alla spina a prezzi finalmente umani. È finita, o quasi. Non so se essere contento perché siamo riusciti a concludere il giro, oppure triste perché è già finito. Intanto continuo a pedalare, che per arrivare alla nostra automobile manca ancora un giorno di salite sotto il sole (finalmente!) di agosto. Epilogo Manca meno di un chilometro a Liri, dove abbiamo lasciato la macchina. Fa caldo, caldissimo, sono senz’acqua e le gambe non girano più. Ho voglia di una Coca Cola gelata, di una birra e di un panino e poi di sedermi su qualcosa che non sia il sellino di una bici. Merlo capisce la mia crisi, mi aspetta, due curve e finalmente vedo la macchina. Non erano nemmeno 500 metri di strada. Sono passati solo nove giorni da quando siamo partiti ma mi sembra di aver pedalato per un anno. Arriviamo pedalando alla terrazza dell’unico albergo-ristorante. Ci abbracciamo. Scattiamo foto. Ordiniamo birra, olive, patatine, la ragazza al bancone ci riconosce e ci chiede

come sia andato il nostro giro. La gente ai tavoli continua a mangiare e non capisce cosa ci sia di speciale in quei due tizi sudati e con le bici stracariche. Di speciale non c’è nulla, in effetti. A rendere veramente speciale quello che volevamo fare è bastato farlo. Post Scriptum In cima al Col du Portet ci sono arrivato, alla fine. Fradicio, stanco e infreddolito, ma ci sono arrivato. In cima non c’è assolutamente nulla, se non le automobili di alcuni escursionisti che attendono pazientemente che la strada riapra (gli ultimi 10 chilometri sono chiusi al traffico tra le 10 e le 16 di tutti i giorni in estate, una pacchia per noi ciclisti). Guardo Merlo e gli chiedo dove sia il rifugio che abbiamo prenotato per la notte. Tre chilometri in quella direzione, tutta discesa - mi risponde. Già, tutta discesa. Prima su una strada sterrata, poi sulle piste da sci e poi di nuovo strada sterrata. Poco male, tiro fuori dalla borsa sottosella le scarpe da trail running (visto, ho fatto bene a portarle!) indosso la giacca pesante e via a piedi, tra prati bagnati e marmotte. I gambali no, quelli non li ho portati. Questione di scelte.


© Giovanni Toldo

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— Sì è il mio lavoro,

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Dario Colombo è nato nel 1983. Da quando si ricorda una bicicletta, dice che se la ricorda d’acciaio.

faccio solo questo.

— Produco 50 telai l’anno. Testo e foto Giovanni Di Stefano

Bici Bice Verderio è un comune della Brianza. È diviso in Verderio Superiore e Verderio Inferiore, non si è mai capito per quale motivo. È il classico paese di provincia, fabbriche, villette, dossi e vie a senso unico; ci si arriva percorrendo un po’ di strade in campagna, belle dritte e poco trafficate. Sono strade ideali per i ciclisti, i vari paesi sono uniti da questi lunghi rettilinei, il fatto che ci si trovi tra l’Adda e la tangenziale est di Milano è un dettaglio. Ce ne sono tanti di paesi così, in Italia. Quando arrivo a Verderio sono pensieroso, sto pensando all’insegna che ho visto prima Colnago. Apro le mappe sul telefono e mi rendo conto che qui nel raggio di venti chilometri hanno sede alcune delle aziende più importanti del mondo per la bicicletta: Prologo, Bianchi, Colnago, FSA, De Rosa, Guerciotti e molte altre. Se la motor valley è l’Emilia Romagna fino a Misano, questa in qualche modo è la bike valley. Sono così, fermo in macchina a verificare sul telefono la distanza tra loro di queste aziende, quando un signore sulla settantina mi si avvicina e mi dice con un tono

deciso: Cerchi Dario?. Prima che io possa rispondere mi indica il cancello del numero 19 e poi dentro un portico. È li. Non mi era mai successa una cosa del genere in vita mia, un anziano brianzolo che mi indica premuroso il laboratorio di un giovane produttore di telai. Quasi andandone fiero come dicendo guarda che è qui, a Verderio. Dario Colombo è nato nel 1983. Da quando si ricorda una bicicletta, dice che se la ricorda d’acciaio. Dopo due lauree in ingegneria si avvicina alla bicicletta attraverso una tesi sulla bicicletta come mezzo per la mobilità sostenibile. Poi si appassiona, inizia a fare il meccanico e oggi come dice lui, Sì è il mio lavoro, faccio solo questo. Produco 50 telai l’anno. Mi accoglie con un sorriso, è da un po’ che gli corro dietro per incontrarlo: messaggi, chiamate, chiacchiere dal vivo. Oggi sono nel suo regno. Lui ha un ciuffo sbarazzino e la serenità di chi fa qualcosa che ama. Il suo laboratorio è un macello pazzesco, gli artigiani sono così. Lavorano nel loro ordine. Dopo i convenevoli di rito mi dice:


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Continuo a guardarmi attorno e cerco di capire secondo quale ordine sono disposte le cose. C’è uno scaffale pieno di scatole e di tubi di vari diametri e diversi spessori. Viene da chiedersi quante bici si possano costruire con tutti quei tubi.

artigiani

Vado a mettermi un cerotto, aspettami qui e guardati pure in giro, sparisce per circa dieci minuti. Quando mi capita di andare in officine di questo tipo sono sempre molto timoroso, se ti ci trovi da solo sai perfettamente che un movimento sbagliato potrebbe causare danni o peggio innervosire il proprietario. A tutti gli effetti stai violando l’intimità di una persona. Continuo a guardarmi attorno e cerco di capire secondo quale ordine sono disposte le cose. Ok quello è il tornio, questa è una fresa con le sue punte, questo è un telaio e qui ci sono le chiavi inglesi. Sulla scrivania - c’è sempre una scrivania in un’officina - c’è il computer con disegni tecnici, appunti e scritte indecifrabili. C’è uno scaffale pieno di scatole, di tubi di vari diametri e diversi spessori. Tantissimi tubi, cosi tanti che viene da chiedersi quante

bici si possano costruire con tutti quei tubi. Dario nota che sto ancora guardando lo scaffale, tira fuori una scatola e mi chiede brandendo un tubo in mano: Secondo te quanti anni ha questo? Scuoto la testa e alzo le spalle, Dario ha la risposta pronta: Hanno trent’anni questi tubi, li ho recuperati sacrificando i soldi per le vacanze, sono fantastici. Ogni scaffale è strapieno di oggetti, ad un certo punto vedo una scatola di scarpe piena di forcellini per il deragliatore posteriore, credo siano circa cinquanta pezzi. Poi ci sono le macchine, di cui Dario va fiero. Questa l’ho comprata usata, aveva lavorato solo il legno quindi è praticamente nuova. L’ho fatta modificare e adesso è perfetta. Ha 40 anni ma durerà in eterno. La macchina più bella è la sabbiatrice, serve a ripulire e preparare i telai prima

della verniciatura, è blu, enorme e fa molto rumore. Quando la usa Dario mette le mani all’interno di due fori, impugnando con dei guanti la pistola che si trova all’interno, lavora sul telaio guardando attraverso un vetro. Io provo a sbirciare ma vedo poco o nulla. Quando ha finito la apre. All’interno è piena di sabbia. Dario ne prende un po’ e me la fa vedere: Questi sono granuli da 75 micron, è la misura che garantisce il risultato migliore. Io annuisco facendo finta di aver capito, quella che mi sembrava una macchina grossa e divertente in un attimo mi appare come qualcosa di estremamente complesso e delicato. Adesso è ora di saldare. Mi metto in un angolo in modo da non dare fastidio e mi chiudo dietro alla macchina fotografica per evitare di guardare direttamente la luce. Mentre infila il casco da saldatore pieno di adesivi, Dario si ferma per un momento. Mi guarda e si dirige velocemente verso il computer. Per saldare ci vuole la musica giusta, altrimenti il lavoro viene male. Finisce la frase ed osservo lo schermo: è partita la playlist Welding, un lungo mixtape di drum and bass reggae. Questa cura del dettaglio e del superfluo forse è la caratteristica di Dario, uno che ha sempre il sorriso sulle labbra ma che ha una voglia di migliorarsi infinita. Questa voglia si è tradotta in un metodo di lavoro preciso (dopotutto è ingegnere) fatto di ricerca e sviluppo. Ovviamente una parte fondamentale del lavoro non è più come si faceva negli anni ‘70, adesso attraverso un programma di disegno tecnico posso fare tutte le simulazioni del caso. Posso provare i vari formati

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di ruota o addirittura la misura dello pneumatico e verificare che il piede non tocchi sulla pedivella. Sono stato anche ad insegnare l’uso di questo programma a telaisti che lavorano con il carbonio. Il carbonio è il materiale più diffuso per la costruzione delle biciclette. Ma ormai non è più artigianato quello, i telai in genere sono stampati in serie in Asia. L’Italia ha sempre avuto una grande storia e tradizione di telaisti: Columbus, Deda, Cinelli per citarne alcuni ma con l’avvento del carbonio il baricentro dell’industria si è spostato. Però devo dire che in Italia siamo pochi, facciamo anche pochi numeri ma nonostante la nostra flebile voce, lavoriamo bene e riusciamo a resistere. La resistenza. Quest’immagine dei telaisti partigiani-artigiani dell’acciaio è affascinante. Tra l’altro combacia perfettamente con i pregi del materiale stesso. Il carbonio, ormai universalmente riconosciuto come il materiale principe per costruire telai, ha anche dei difetti. Il primo fra questi è la sua rigidità. Se da un lato questo è un vantaggio per la trasmissione della potenza, dall’altro si traduce spesso in una generale sensazione di scomodità. Dopo molte ore in sella si accusa la fatica, si sentono le piccole buche della strada. Il carbonio è il miglior prodotto per la performance e per le gare. Ma a parità di geometrie una bici in acciaio è decisamente più comoda di una in carbonio. Inoltre è anche più resistente: L’acciaio è un materiale votato alla comodità. È resiliente, dal punto di vista urti e rotture è il migliore che ci sia. Anche come produttore sono molto tranquillo nel lavorarlo e nel consegnare al ciclista un telaio d’acciaio.


Sono nato con l’acciaio e mi sento più a mio agio nella sua lavorazione rispetto all’alluminio o al titanio, materiali che non conosco e per i quali non ho le attrezzature. Per me conta solo che io sono nato con l’acciaio, ci vivo con l’acciaio, ed è la mia passione. È interessante anche capire come funziona l’acquisto di un telaio prodotto da Dario, che vende con il marchio BICE. Io non ho una vetrina fisica, ho pochissimi telai esposti nei negozi. Le persone mi trovano o mi scoprono principalmente con il passaparola. Questa è una cosa che mi fa molto piacere perché vuol dire che si fidano di me e del mio lavoro. In linea generale il processo è molto lineare, chi è interessato mi spiega cosa vorrebbe fare. Qualcuno ha già idee ben definite e sa cosa vuole. Altri sono solo affascinati dall’idea di un prodotto come il mio e ragioniamo insieme su che strada prendere. Se questo primo passaggio può sembrare facile vi assicuro che

non lo è, Dario è sempre molto preso e spesso risponde ai messaggi che gli arrivano solo dopo qualche giorno. Bisogna essere pressanti con lui, diciamo. Offro 5 modelli mtb, 3 modelli gravel, 2 modelli da strada. Quindi diciamo che la bici che si sta cercando bene o male si trova. C’è anche la possibilità di customizzare la costruzione ma penso che questi modelli siano i migliori possibili, sopratutto grazie alla scelta delle tubazioni che deriva da anni di esperienza e tentativi. Sono i miei modelli, li ho sviluppati io, li conosco e mi fido. Ovviamente il passaggio successivo sono le misure del ciclista che userà la bici. Alla fine anche qui dipende. L’ideale è una scheda del biomeccanico oppure posso prenderle io o si possono prendere dalla bici che già si usa. Provo a fare la domanda che ritengo essenziale e forse lo è per molti

Ingegnere. Dario ha due lauree in Ingegneria.

appassionati. Insomma, quanto pesano queste bici? Non molto in realtà. Il telaio pesa circa 1,6 kg ma ho fatto la gravel con ruote da 29'' che pesa solo 9.8 kg. In più (indicando una bici meravigliosa) quella, ovvero il modello da strada, montata in quel modo pesa 8.2 kg. Per una bici in acciaio con cambio elettronico e freno a disco è un peso di tutto rispetto. Ogni telaio prodotto viene montato in maniera completamente personalizzata. Dalle ruote al cambio, molto spesso quest’operazione non avviene sotto il controllo di Dario, che ci tiene a specificare che lui produce telai E basta. Il processo d’acquisto si conclude poi con la scelta della colorazione. Per la verniciatura Dario si affida a due artigiani, maestri nel proprio campo: Probabilmente in Italia sono i migliori, dice. Scegliere il colore di una bicicletta è

molto complicato: Ovviamente è l’aspetto che mette in crisi tutti e alla fine si finisce per fare quasi sempre il contrario di ciò che si era detto all’inizio ma il risultato di solito è strabiliante. La fine dell’esperienza Bice è la consegna, se si può, mi piace farla qui. Si beve una birra o una bottiglia di vino insieme e si festeggia la nascita di una nuova bicicletta. Durante il tempo in cui sono stato da Dario non l’ho mai sentito nominare una volta la parola cliente. Non perché realmente non ne abbia, ma perché credo che non senta sua questa parola. Per lui fare bici è una passione, fare la bici di qualcuno è come dare forma alle emozioni che vivrà su quella bicicletta. Allo stesso modo comprare una bici BICE non è come acquistare un telaio qualsiasi. Ci si fa mettere a disposizione un know-how, delle abilità, uno studio, una passione. D’acciaio, rigorosamente.

In tutto il tempo che sono stato con lui, non ho mai sentito Dario usare una volta la parola cliente. Credo che sia una parola che non senta sua.


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Cargobike

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Testo e foto Daniele Cappato

I miei giri in bicicletta sono iniziati come quelli di moltissimi della mia generazione: quattro ruote, due da 12 pollici e due rotelline per evitare che ogni tentativo di pedalare si trasformasse in una sbucciatura.

Per la famiglia. Certe volte il cargo sono i tuoi figli.

Ora è diverso, le mie bimbe scorrazzano sulle balance-bike. Due ruote, senza pedali, il difficile non è stare in equilibrio ma pedalare, appunto. Quello che non è cambiato in tutti questi anni è l’aspetto ludico: la bici per un bambino è sempre stata un gioco, uno svago, il primo oggetto che regala indipendenza. Tolte le rotelline, le due ruote mi hanno regalato la libertà di girovagare per il paesino di montagna dove passavo le estati da adolescente e si sono motorizzate sotto forma di cinquantino per esplorare la riviera ligure dove vivevo. I pistoni hanno fatto fare le ragnatele ai raggi della bici fino a quando nei vari trasferimenti di lavoro la bicicletta è tornata ad essere il mio mezzo di spostamento preferito, complici i servizi di bike-sharing che si trovano ovunque nelle grandi città. Vivevo senza macchina ai tempi, noleggiando bici, con le scarpe da running sempre nello zaino. Poi sono diventato papà di due bambine, Sole e Fiamma, e mi sono fermato in un punto del pianeta: Milano. La città è piatta, con un numero sufficientemente alto di ciclabili incompiute e scollegate da far tornare la voglia di possedere una due ruote a trazione umana. Ma dove le metto, le bimbe? Troppo piccole per i seggiolini, troppi i marciapiedi sconnessi in città per il carrello porta bimbi. Nell’attesa di trovare il mezzo giusto i fine settimana si erano trasformati in un’esplorazione del circondario in un raggio massimo pari alla nostra autonomia nello spingere i passeggini. Eravamo intrappolati nel quartiere. Le cargo bike mi incuriosivano: tre ruote sono troppe, le long tail con la fila di sedili sulla ruota posteriore e le bimbe immobili a guardare la mia schiena sudata mi sembrano una tortura, forse le due ruote con cassone frontale possono essere la scelta giusta, ma pesano e sono lunghe più di due metri. Vada per una Long John tipo quelle che si usano in Danimarca. La cerco, la trovo fatta a mano in Italia e la aspetto tutta l’estate ed un bel pezzo di un settembre senza neanche un giorno di brutto tempo. È arrivata col primo freddo, ma ci ha cambiato la vita. Nello stesso tempo in cui a piedi riuscivamo a fare colazione al bar e la spesa, con la cargo si andava in piscina, al bar, dal macellaio e pure al parchetto. È arrivato il freddo vero e abbiamo messo la coperta, è arrivata la pioggia e abbiamo installato una capottina. Laddove ti guardano storto quando passi sul marciapiedi con la bici, la cargo con le bimbe che giocano o dormono raccoglie sorrisi e complimenti, grida di ammirazione e pure qualche selfie. Dopo un inverno in bici, una primavera a fare picnic (o ‘pikpik’ come li chiama Sole) nei dintorni di Milano era ora di passare al prossimo livello: cicloturismo in bicicletta con bimbe di un anno e nove


SEARCHING A NEW WAY

mesi e tre anni e mezzo. La scelta è caduta sul lago di Costanza, all’incrocio tra Svizzera, Germania e Austria. Un giretto da poco meno di 200 chilometri dove in ogni momento si può prendere il battello e arrivare a destinazione senza pedalare. Una cosa facile, un’avventura a prova di bimbi. La cosa più difficile a posteriori è stata convincere la mia compagna a rinunciare a Sardegna, Grecia o a viaggi dall’altra parte dell’emisfero per rischiare di andare a prendere pioggia in Germania. È andata bene, ha piovuto un giorno solo e quel giorno era di riposo. La pianificazione di un viaggio in bici richiede un attento calcolo di distanze, dislivelli, tempi e velocità. La pianificazione di un viaggio in bici con i bambini parte da identificare gli alberghi adatti, possibilmente con ristorante e parco giochi vicino dove le piccole pesti possano stare comode e sfogarsi. Le distanze diventano un problema secondario e così la prima tappa era di 15 chilometri, la seconda di 40 chilometri e così via da un piccolo parco divertimenti all’altro. Il primo vero ostacolo è stato caricare la cargo sul tetto della macchina. Ventotto chili agganciati ad un portabici artigianale saldato a mano, in viaggio per 300 chilometri, avevo il dubbio che l’accrocchio potesse reggere. Il coraggio è stato premiato e giunti a destinazione un ragazzo tedesco con le spalle da rugbista mi ha aiutato a scaricare la bici. I primi giorni li abbiamo passati a Costanza per prendere confidenza con quello che ci avrebbe aspettato nella successiva settimana.

La cargobike è subito diventata la cameretta dei giochi delle bimbe. Bambole, pupazzi, ciucci e biberon sparsi un po’ ovunque nel cassone. Il peluche preferito di mia figlia grande, un orsacchiotto Trudy, Dado all’anagrafe, con cui vive in simbiosi da più di due anni deve essere caduto in aperta campagna svizzera mentre le bimbe dormivano, nell’unico tratto in cui la mia compagna mi pedalava davanti. Se ne accorge Sole dopo quaranta minuti quando ormai siamo già in Germania. Dramma, panico e inversione a U per tornare sulle nostre tracce riattraversando di nuovo il confine con la Svizzera. All’inizio Sole pensava ad un gioco e rideva e scherzava credendo che fosse tutto uno scherzo. Dopo mezz’ora che Dado non si trovava, era in lacrime e singhiozzi disperati. Lo abbiamo trovato in bella vista a bordo strada quando ormai avevamo perso le speranze, sembrava ci aspettasse. Il momento in cui mia figlia ha riabbracciato il suo pupazzo era l’immagine della gioia. Ritrovato Dado eravamo pronti per ripartire. I bagagli erano il minimo indispensabile ma pur sempre tanti per via delle bimbe. Chilometri di ciclabili, sterrati e strade a basso scorrimento, salitelle improvvise, brevissime ma taglia gambe dove alle volte scendevamo e spingevamo a mano mentre biciclette elettriche ci sorpassavano col motore che ronzava producendo il massimo dello sforzo. Impossibile perdersi, lago sempre a destra, indicazioni precise e deviazioni ben segnalate verso ristori e sagre di paese. Ci rimangono negli occhi le immagini di castelli arroccati sul lago, prati verdi a filo d’acqua, campagne selvagge nel delta del Reno, villette dove ci saremmo trasferiti a vivere, parchi giochi enormi con scivoli, carrucole, altalene, giochi con l’acqua. Ci rimangono nella pancia chili di Wiener Schnitzel e patatine rigorosamente con ketchup e maionese, ovvero l’unico piatto che le bambine mangiavano sempre e comunque. Ci rimane nelle orecchie la playlist delle canzoni per le bambine con Jingle bells che piace tanto alle mie figlie in testa alla hit-parade. In pieno agosto raccoglievamo sguardi quantomeno perplessi. Sole, la mia figlia più grande e l’unica delle due che parla, un pomeriggio di fine vacanza mi ha confidato: Papà da oggi voglio sempre viaggiare in bicicletta. In macchina ho caldo e non riesco a giocare. La bicicletta in fondo, altro non è che un bellissimo gioco per adulti e bambini.

www.montura.it

Foto di Giampaolo Calzà

Laetitia Roux

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STUDIO BI QUATTRO

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Testo Pietro Maurizio Lungo

Foto Naoto / naotohori.org

Confessioni di un cicloamatore anonimo

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Body nero, gambe depilate e lucide, zainetto in spalla, attraverso spingendo la bici da corsa l’atrio brulicante della Stazione Centrale di Milano. Sono decisamente una figura insolita. Il ticchettio delle suole rigide in carbonio mi accompagna mentre cerco il binario seminascosto da cui parte il regionale per Vercelli. Oggi si corre a Villata, ad una decina di chilometri dalla stazione ferroviaria. È una gara infrasettimanale serale, il tipo di corsa che preferisco. L’arrivo al tramonto, in una campagna silenziosa, dove sembra che il tempo si sia fermato. Il ritrovarsi degli abitanti nei bar e in piazza alla fine della giornata lavorativa. Il rifugio dalla confusione metropolitana offerto dai tranquilli borghi sparsi tra campi e risaie. Non vedo l'ora di spillare il numero di gara e dare fuoco alle polveri. Suno. Gattico. Orio Litta. Borghetto Lodigiano. Cava Manara. Rivanazzano Terme. Buscate. Sozzago. Arborio. Villata. Paesini sperduti che probabilmente non ti diranno nulla, ma sono al centro del mio mondo. Una costellazione di luoghi periferici che porto scolpiti nel cuore perchè formano l’universo parallelo dove da marzo ad ottobre ogni weekend - e, d’estate, anche in settimana - smetto gli abiti di Bruce Wayne e divento Batman. Faccio parte di una comunità di corridori amatoriali che si materializza dal nulla in questi paesi, scovati sulle pagine dedicate alle gare in programma di siti semisconosciuti. Per qualche ora mettiamo da parte gli impegni lavorativi, familiari e sociali per darci battaglia su un reticolo di strade dissestate che seziona la campagna, sfiorando cascine, rogge, anonimi capannoni industriali e svincoli autostradali. Corriamo gare di lunghezza variabile tra sessanta e cento chilometri su circuiti da ripetere più volte, anche se non mancano alcune classiche in linea come la Garlasco-Montalto o la Ghemme- Alagna. Insieme al ciclocross e alle gare su pista sono palestra formativa e anima tradizionale della competizione ciclistica. Niente a che vedere con le più recenti variazioni sul tema, come criterium a scatto fisso, granfondo, ciclostoriche e gravel race. Le regole d’ingaggio sono poche e semplici, uno stadio primordiale di combattimento aperto e senza reti di protezione nel quale mi trovo perfettamente a mio agio. Villata è un circuito veloce di una ventina di chilometri da ripetere più volte. Sul percorso non ci sono molte asperità che possano rendere la corsa selettiva, ma ci penserà il vento teso ad imporre un ritmo infernale, portando inevitabilmente ad una frattura in più tronconi del gruppo. Sarà indispensabile correre davanti da subito per evitare sorprese e non rimanere tagliati fuori dai giochi. Dopo il primo chilometro a velocità controllata suona la sirena e la corsa parte. Iniziano immediatamente gli attacchi, che continueranno in modo incessante fino a quando non riuscirà a sganciarsi una fuga. Sono presenti un paio di squadre di peso quindi la corsa sarà più controllata del solito. Bisognerà fare attenzione sia ai loro corridori, che riusciranno ad entrare nelle fughe, sia ai tappi che i compagni possono formare, specialmente nelle strettoie del percorso, per proteggere i fuggitivi.

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Bastano una decina di euro, una bici di media gamma ed un tesserino, anche da indipendente, per salire sull’ottovolante e misurarsi in una gara intensa, corsa a medie da professionisti.

Le gare amatoriali su strada sono le ultime vere corse ciclistiche rimaste. Autentiche, esasperate, spartane, popolari. Divertirsi è importante, ma secondario rispetto alla furia agonistica. Non ci sono magliette da finisher per chi arriva al traguardo, se perdi le ruote del gruppo sei inesorabilmente fuori dalla corsa. La graduatoria finale toglie ogni scusa sbattendoti spesso in faccia, con ruvida onestà, che non sei quel fenomeno che pensavi di essere. Sono gare sufficientemente corte da mitigare l’innegabile vantaggio che hanno ex- dilettanti ed ex-professionisti - nonché gli irriducibili che non disdegnano qualche aiutino farmacologico - permettendo anche ad un amatore con testa e gambe buone di giocarsi ogni tanto la vittoria. Bastano una decina di euro, una bici di media gamma ed un tesserino, anche da indipendente, per salire sull’ottovolante e misurarsi in una gara intensa, corsa a medie da professionisti. Per primeggiare in queste esplosive pentole a pressione bisogna disporre di qualità molto particolari. È indispensabile un motore in grado di resistere ai continui fuorisoglia, di sprigionare l’elevata potenza richiesta per strappare fughe, chiudere rapidamente i buchi e lanciarsi in scatti e volate ad oltre 60 km/h, ma dotato anche di ottima capacità aerobica per sostenere una lunga fuga conservando lo spunto necessario per giocarsi la corsa nel finale. Bisogna saper usare le gambe e la testa ma anche le mani, per farsi spazio nei frangenti più movimentati della gara, quando si corre incollati ed il posizionamento in gruppo è decisivo. I circuiti, veloci, tecnici e spesso con manto stradale disastrato, richiedono una raffinata capacità di guida, per evitare le cadute ed essere sempre sulle traiettorie giuste, dove il gruppo è più filante e meno esposto a rischi. Infine c’è la caratteristica più importante, ma anche più elusiva e ineffabile, cioè la capacità di leggere la corsa. È la qualità tattica che consente di cogliere istintivamente nel caos turbolento della gara i momenti decisivi, è l’abilità quasi zen di scegliere come un surfista l’onda giusta da cavalcare

scivolando con lucidità e tempismo perfetto verso il punto di massima spinta, è l’astuzia nell’orchestrare la sequenza più efficace di mosse per arrivare nel finale a disputarsi la vittoria. Il primo giro è stato fatto in apnea con attacchi continui che, nei rettilinei esposti con vento laterale, ci hanno costretto a lunghe file indiane schiacciati al ciglio della strada, dove una piccola distrazione può costare una caduta, un volo nei campi o l’apertura di un buco incolmabile. Le continue accelerazioni hanno iniziato a mietere vittime, sono già una decina i corridori rimasti per strada. Il gruppo comincia ad essere affaticato, reagisce in modo sempre più scomposto e indeciso. È nell’aria l’imminente distacco di una fuga e volano le prime spallate per cercare di stare sulle ruote buone, quelle dei corridori che davanti ci sono sempre. È da un centinaio di metri che la velocità si è abbassata, e mi trovo pericolosamente in testa con un lungo cavalcavia che si avvicina. È un punto di stallo perfetto per un attacco importante, e infatti appena si inizia a salire quattro corridori escono dal gruppo con una violenta accelerazione. Due di loro sono elementi di punta di squadre ben organizzate, e in una frazione di secondo c’è da prendere la prima decisione importante della corsa. Sento la gamba buona, ma se scatto dalla prima posizione per agganciarli è molto alto il rischio di trascinarmi dietro tutti ed essere poi tagliato fuori da un probabile contro-scatto. Tengo la posizione, confidando nervosamente in una reazione pronta da parte di chi sta dietro. Purtroppo, è la scelta sbagliata. Come spesso accade quando attaccano corridori forti, si perdono secondi preziosi guardandosi ed aspettando che sia qualcun altro ad esporsi per primo, lasciando così ai fuggitivi lo spazio per prendere il largo. Sarà una corsa tutta in salita per andarli a riprendere.

Traguardo. Lo zona d’arrivo del G.P. Terre di Boca D.O.P.


Al megafono. Ultime raccomandazioni del direttore di gara prima della partenza.

Mi piace andare alle corse in treno. C'è sempre una stazione a meno di venti chilometri anche dal paesino più sperduto dove si corre, e ne approfitto per fare un buon riscaldamento prima di iniziare la gara ed il necessario defaticamento quando finisce. Cerco di evitare le statali trafficate, pedalando sulle strade secondarie immerse nel silenzio della pianura Padana. Adoro questi posti che portano sulla pelle, più visibilmente che nelle città, le cicatrici dei mutamenti sociali e culturali che hanno attraversato l’Italia negli ultimi decenni. Nonostante tutto molti dei piccoli borghi rimangono vitali e belli. Gli alti campanili visibili da lontano nella campagna, le piazze principali ordinate, le strade tranquille costeggiate da case semplici, le persone cortesi e dignitose. Rientrando verso la stazione dopo la corsa mi fermo spesso in locali sperduti per mangiare qualcosa, ritrovandomi a chiacchierare con qualche avventore incuriosito della mia insolita presenza nel locale. A volte riaffiorano storie lontane e inattese, ricordi di corridori del passato originari di quelle parti, o di gare che si organizzavano quando il paese era fiorente. È uno dei piaceri nascosti delle corse. Corro per lo stesso motivo per cui entra in gabbia un combattente di arti marziali miste, un apneista si immerge nel profondo blu semplicemente trattenendo il respiro, o ancora un free climber si arrampica su una parete liscia senza corde di sicurezza. Corro per soddisfare il misterioso istinto di confrontarmi col Caos ed esplorare le incerte frontiere del limite. È una pulsione innata, una sfida senza la quale mi sento incompleto e irrequieto, come se non stessi vivendo fino in fondo. La ripetizione presente nelle nostre corse, per molti noiosa, aiuta a creare i vincoli necessari per spingersi ai limiti della prestazione. Come accade nel pianoforte, i cui tasti sono limitati a ottantotto, o negli scacchi, i cui pezzi sono trentadue e si possono muovere solo in modo predeterminato, è la costrizione

ad affinare l’attenzione, acuire i sensi, imporre la perfezione del gesto tecnico e obbligare alla padronanza dei fondamentali. Solo allora possono dischiudersi le dirompenti forze elementari nascoste nel mondo interiore. A volte, nel vortice della corsa, succede l’imponderabile. La mente si cheta, la percezione diventa limpida e immediata, i gesti fulminei e di precisione assoluta. Inizio a correre in modo istintivo, pennellando traiettorie perfette attinte da una sorgente creativa sconfinata. È come se la corsa spalancasse l’accesso ad un piano di coscienza superiore semplicemente fuori portata nella vita quotidiana, un fugace stato di grazia che trasforma l’atleta in artista. I fuggitivi, che vediamo in lontananza, hanno un bel vantaggio e stanno girando regolari. Un gruppo ben organizzato riuscirebbe a chiudere su qualsiasi fuga, ma nelle gare amatoriali l’organizzazione è rara, improbabile. Ognuno cura i propri interessi e spesso ci si corre tutti contro, con la conseguenza che se la fuga contiene qualche corridore di peso il più delle volte arriva al traguardo. Questo modo caotico di correre viene spesso sfruttato dalle squadre più numerose e strutturate e dai corridori più forti per blindare corse sulla carta maggiormente aperte. L’unica soluzione per rientrare sui fuggitivi è organizzare una controfuga. Un lavoro estenuante in cui bisogna ricercare alleanze inevitabilmente labili e temporanee con altri corridori disposti a rischiare per inseguire la vittoria. Bisogna cercare di escludere i compagni di chi è già davanti e sfuggire alla loro azione d’intralcio tesa a soffocare ogni controffensiva. Il tutto complicato dal fatto che il gruppo si danna invariabilmente l'anima per chiudere sulle controfughe, rendendole spesso più complesse da far partire delle fughe iniziali. Dopo un giro intero di pazienti e faticosi tentativi riusciamo a costituire un drappello di sei contrattaccanti, ed iniziamo la caccia ai corridori in testa. Ma siamo male


Adoro questi posti che portano sulla pelle, piÚ visibilmente che nelle città , le cicatrici dei mutamenti sociali e culturali che hanno attraversato l’Italia negli ultimi decenni.


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assortiti: due sono compagni di squadra dei fuggitivi, quindi collaborano poco, e uno di loro è anche un ottimo velocista, in caso di rientro chiaramente avvantaggiato per la vittoria finale. La nostra è un’azione nervosa che non riesce ad essere decisa come dovrebbe, una situazione che rappresenta bene la tensione destabilizzante, sempre presente nel ciclismo, tra lotta individuale e collaborazione. Il margine di sicurezza per rientrare in tempo utile si riduce ad ogni metro, ma non ho scelta se non quella di continuare e tirare a tutta insieme agli altri tre che collaborano. Manca meno di un giro al traguardo quindi non c’è più lo spazio per rialzarsi, lasciarsi riprendere dal gruppo ed imbastire un'altra controfuga meglio assortita. La probabilità di vittoria è molto bassa ma pur sempre meglio della quasi certezza di perdere, e preferisco dare battaglia per cercare di giocarmi la corsa nel finale, anche in condizioni disperate, piuttosto che rimanere passivo in gruppo sperando nel miracolo della fuga che implode. Bisogna cavalcare la tempesta. La corsa è un’espressione di arte cinestetica, una tela da dipingere con guizzi istintivi al momento giusto, esplosioni di watt, stalli strategici e traiettorie impossibili. Il capolavoro è la vittoria per knock-out del gruppo, un'improbabile sequenza di pennellate cinetiche che portano prima a dare vita ad una fuga e poi a staccare i compagni di avventura, arrivando da soli sul traguardo. Richiede una forma fisica perfetta ed un'esecuzione impeccabile, ma dipende anche da molte variabili incontrollabili. È una magia che capita solo raramente, ma è questo che cerco tra le pieghe della corsa ogni volta che attacco il numero sulla schiena. Usare il movimento come strumento espressivo è un processo creativo di cui non mi stanco mai e che, col passare del tempo, trovo sempre più immersivo. Un meraviglioso frattale che diventa via via più intricato, espansivo e vivace. Le gare amatoriali presentano molti elementi di immutabilità, e in un mondo che cambia rapidamente questo crea un insolito ancoraggio. Si corre da decenni sugli stessi circuiti, i premi in natura riservati ai primi dieci classificati si ripetono anno dopo anno, ci si ritrova sempre in quell’angolo buio del bar al centro del paese, negli stessi orari, e più o meno con lo stesso giro di persone, sia atleti che organizzatori. Ogni corsa ha però una sua storia unica, e la ripetizione nel tempo anzichè stancare porta a conoscere i circuiti con risoluzione sempre maggiore e ad affinare sempre più la tattica di gara. Gli stessi riti e le stesse persone creano una piacevole atmosfera di familiarità. Spesso le corse sono organizzate in occasione delle sagre di paese, quindi dopo la gara c’è l’opportunità di conoscersi e di incontrare le persone del posto. Coinvolgendo atleti di diverse categorie, dagli Junior, di poco più di vent’anni, ai SuperGentlemen, di quasi ottanta, le gare e le attività al contorno offrono uno spazio di socializzazione e comunicazione tra le generazioni. Siamo un allegro e colorato circo che ritorna ogni weekend negli stessi posti, anno dopo anno. Un filo rimasto forte e intatto in una tela socioculturale che lentamente si sbrindella. Ci siamo. Mancano pochi chilometri al traguardo e abbiamo finalmente i fuggitivi a tiro, si entra nella fase decisiva della corsa. Davanti hanno cominciato a guardarsi e quindi teoricamente si apre per noi l’opportunità di agganciarli. Ma più ci avviciniamo, più la nostra già fragile collaborazione vacilla. La tensione sale. Gli sguardi si fanno circospetti, le mani si abbassano con gesti furtivi a stringere gli scarpini e impugnano i corni bassi del

Si può vincere con una condotta di gara mediocre, oppure perdere nonostante una prestazione magnifica. La corsa chiama ad un’esplorazione più profonda.


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Verso casa. Chiazze di luce artificiale illuminano le ultime pedalate sulla via di casa.

manubrio, il tonfo delle catene che scendono di un dente. Tutto annuncia l’imminente inizio della bufera di scatti di chi cercherà di rientrare da solo sui primi, migliorando così le sue chance di vittoria. È la fase della corsa che preferisco, quella più difficile ed imprevedibile. Più ci si avvicina al traguardo e più si stringe l’imbocco del corridoio che porta alla vittoria. Ora basta anche solo un impercettibile tentennamento per compromettere tutto il lavoro fatto sinora. Gli scatti si susseguono in modo continuo, specialmente da parte dei due corridori rimasti a ruota, molto più freschi. Sono sferzate dolorose e brucianti e serve uno sforzo al limite del collasso per chiudere il buco, cercando poi di riprendersi in tempo per reagire quando parte l'attacco successivo o sferrare il proprio. È un’esasperante guerra di nervi e di logoramento fisico che ci porta, in numero ulteriormente ridotto, a poche decine di metri dai quattro in testa. Ma anche davanti hanno preso a scattare come furie e all'ultimo chilometro li vediamo allontanarsi di nuovo, questa volta inesorabilmente. La corsa è andata. All'improvviso sento le gambe vuote e mi piomba addosso una sensazione di sfinimento totale. E con essa il dubbio, in realtà quasi una certezza, che a cedere davvero sia stata la mente, che mi sia mancata la volontà, il coraggio di inoltrarmi un po’ più a fondo nella sofferenza. A volte basta stringere i denti solo per qualche metro in più, e la corsa all’improvviso si riapre. È una consapevolezza amara, che brucia, ma che alimenta il paziente lavoro necessario per presentarsi più resilienti e tenaci alla prossima corsa. Passata la linea del traguardo il supplizio finisce. Arrestare finalmente lo sforzo mi regala una sublime sensazione di sollievo, alla quale mi abbandono per qualche istante. Avviandomi verso il bar dove si riconsegnano i numeri di gara incrocio il vincitore della corsa e gli faccio i complimenti. Lo riconosco perché in un mare di volti distrutti il suo è l’unico che irradia una felicità genuina che la fatica non riesce a mascherare. La vittoria non è mai facile, nemmeno per i più forti, va sempre strappata con le unghie e con i denti, ma regala una scarica di endorfine indescrivibile. Consegno il numero e riprendo lo zainetto che ho lasciato in custodia agli organizzatori. Comincia ad imbrunire e la stazione è lontana. Mi rimetto in sella, avviandomi lungo la statale per Vercelli avvolto dalla lenitiva luce del tramonto. Correndo è facile lasciarsi travolgere dall’ossessione dei risultati e dalla voglia di vincere, trovando in questo la principale motivazione al notevole e prolungato impegno che le gare esigono. Sono solo corse amatoriali, ma il livello competitivo è alto e non è facile resistere alla tentazione della gloria, dei premi e degli applausi. È però una visione limitata, che scalfisce solo la superficie del possibile. Si può vincere con una condotta di gara mediocre, oppure perdere nonostante una prestazione magnifica. La corsa chiama ad un’esplorazione più profonda. Nella finale dei 5.000 m delle Olimpiadi del 1972 Steve Prefontaine arrivò solo quarto, fuori medaglia. Apparentemente, una gara da dimenticare. Invece lasciò un segno indelebile quella gara, corsa in modo audace e aggressivo, imponendo agli altri un ritmo infernale e persa solo dopo aver provato sino alla fine a vincerla, di fronte ad un pubblico sbalordito da quella cavalcata travolgente. Fu un’impresa di quelle su cui si fonda la sua forza ispiratrice e la sua reputazione come uno dei migliori mezzofondisti di sempre. Pre correva

sempre e solo così. La corsa era il suo mezzo espressivo. Dava tutto see stesso per trasformare ogni gara in un’opera d'arte, in uno spettacolo di audacia, grinta, ferocia agonistica e dirompente forza fisica. I suoi avversari non avevano mai dubbi sulla sua voglia di vincere, ma il modo in cui vinceva era per lui più importante della vittoria stessa. L'approccio di Pre svela la più autentica chiave di lettura della corsa. Coltivandola come un’opera d'arte e attenendosi ad uno standard ancora più alto della semplice vittoria, la si può liberare dagli angusti confini sportivi, sino a trasformarla in un’esplorazione dei limiti dell’animo umano, capace di toccare nel profondo chi vi assiste. Concentrandosi su questo processo, che scava in profondità dentro di sé, è possibile fare della corsa un’avventura di crescita personale, e trasformare il proprio modo di essere. Sono le dieci passate quando il treno di ritorno arriva a Milano Garibaldi. Rimetto il libro nello zaino, sollevo la bici e scendo insieme ai pochi altri viaggiatori per avviarmi verso casa. È una serata calda e umida, nel cielo c’è ancora l’ultima luce del tramonto. Corso Como e corso Garibaldi sono invase da persone di ogni età che si divertono fuori dai bar e dai locali alla moda, e sono di nuovo alieno mentre attraverso sulla mia astronave a due ruote un mare di eleganti abiti da sera e tacchi a spillo. L’atmosfera è allegra, estiva, elettrica. Superato il Castello Sforzesco la folla si dirada e posso pedalare veloce e agile per smaltire le scorie che mi intossicano ancora i muscoli dopo lo sforzo violento della gara. Sfreccio attraverso un parco Solari deserto e illuminato a chiazze dalla luce dei lampioni, imboccando la penombra di via Cola di Rienzo. Tra qualche minuto l’avventura iniziata nel pomeriggio si infrangerà sul portone di casa, ma la testa è già al weekend, al prossimo giro di questa giostra caleidoscopica. Sorrido, butto giù un dente e con un’ultima accelerata mi dileguo silenzioso e veloce nella notte milanese.


I FORZATI DE±A STRADA Viaggio su due ruote lungo il confine dell’Impero Illustrazioni Giulia Milos

Testo Enrico Brizzi

Art direction Tundra


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≠ Bisognava partire, e bisognava farlo al più presto. La vita mi aveva portato in dono quattro figlie e la certezza di non essere tagliato per un’esistenza scandita dagli orari domestici. A 44 anni, potevo ricominciare a pedalare.

AMSTERDAM

COLONIA MAINZ

PASSAU BASILEA

LAGO DI COSTANZA MONACO

VIENNA


Enrico Brizzi - I forzati della strada

L'idea è nata, come al solito, camminando insieme.
È da quindici anni, ormai, che la brigata originale di amici viandanti ha preso la forma di una regolare associazione sportiva, ma lo spirito è quello avventuroso e irriverente degli inizi, quando partivamo a piedi direttamente da casa, la tenda e il fornello stipati nello zaino.
Ci chiamiamo Psicoatleti perché crediamo che i viaggi si facciano con la mente e con l’anima, non solo a forza di polpacci, ma se qualcuno ci scambia per una congrega di fuori di testa con lo zaino in spalla non ci offendiamo; in fondo, per traversare l’Italia un passo alla volta dall’Alto Adige alla Sicilia, e l’Europa intera prima da Canterbury a Roma, poi da Torino a Santiago, la testardaggine e la curiosità vanno sfumate con un pizzico di

opportuna follia.
Alcuni dei nostri viaggi sono lunghi appena un weekend, altri un’intera stagione, e al solito sono costellati di decisioni rivoluzionarie: separazioni, nuovi amori, autolicenziamenti e inaugurazioni di sorprendenti attività lavorative. Non c’è dubbio che ossigenare il cervello e disporre il corpo al cambiamento crei una certa dipendenza, e tipicamente, quando l’itinerario si avvicina alla fine, ci prende la fregola di stabilire dove si andrà la volta successiva.
È stato così anche nella primavera 2018, mentre camminavamo a ridosso del confine fra Inghilterra e Scozia lungo il Vallo di Adriano, il muro costruito dai legionari romani per difendere la Britannia dalle incursioni dei selvaggi Caledoni dai volti dipinti di blu. Partiti da Newcastle, per sei giorni eravamo andati avanti opportunamente foraggiati a shepherd’s pies e haggis innaffiati da generose dosi di bitter, pale ale e IPA; nel corso dell’ultima tappa, fra la cittadina di Carlisle e Bowness-on-Solway, il terminale del muro sul Mare d’Irlanda,

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UN SOGNO MATTO

è saltata fuori l’idea matta di ripercorrere per intero il Limes, la frontiera dell’Impero che separava l’Europa in due porzioni: di qua la civiltà, di là la barbarie. Almeno dal punto di vista dei Romani.
Di questi tempi, con tutte le questioni e le tragedie legate ai confini, le pretese di superiorità di chi sta dentro e i drammi di chi sta fuori, pareva un’impresa più attuale che mai. Giunti in riva al mare, però, ci siamo resi conto che l’impresa rischiava di essere troppo ambiziosa: l’intero percorso tra il delta del Reno e quello del Danubio misura oltre 4000 chilometri, una distanza che avrebbe richiesto fra i quattro e i cinque mesi di cammino, troppi anche per noi e le nostre dinamiche agende.
L’indomani ci siamo portati a festeggiare la conclusione del viaggio a Edimburgo, e lì, fra l’aperitivo al pub della Brew Dog e la cena in un ristorante che propone piatti cucinati a base di whisky, è saltata fuori l’idea decisiva: rispolverare le biciclette, e compiere il viaggio a forza di pedali, mille chilometri alla volta.
Era l’inizio di aprile, e da allora

non c’è stato giorno in cui non abbiamo coltivato con amore quel sogno matto. Bisognava partire, e bisognava farlo al più presto.
Così l’ultimo giorno di giugno ho caricato la mia vecchia mountain bike anni ‘90 su un treno diretto Oltralpe; insieme a me c’era il buon Mirko, un passato da promessa fra gli juniores del ciclismo su strada e un presente da grafico pubblicitario, con la sua gravel nuova di zecca. Entrambi i mezzi erano dotati di portapacchi e sacche da cicloturismo, e noialtri sfoggiavamo le maglie nere dalle maniche tricolori che riproducevano i colori della nostra associazione, rosso, bianco e blu.
Dopo quattro cambi di convoglio e ventiquattr’ore di viaggio, siamo scesi ad Amsterdam, una città che fra i venti e i trent’anni ho visitato con cadenza ossessiva; l’ultima volta ci avevo passato una settimana per il mio addio al celibato, e nel ritrovarmi a pedalare lungo i suoi canali mi sono meravigliato di quanto tempo fosse trascorso da allora, e di come la mia vita attuale somigliasse più a quella conosciuta da ragazzo che non alla stagione in cui sono stato un marito. La vita mi aveva portato in dono quattro figlie e la certezza di non essere tagliato per un’esistenza scandita dagli orari domestici; a 44 anni, potevo ricominciare a pedalare fra buoni cugini.
L’appuntamento con il giovane Flash, che di lì a pochi giorni ci avrebbe raggiunto dall’Italia, era fissato; la migliore libreria specializzata in libri di viaggio, guide e mappe già individuata; l’erba lucida del Vondel Park risultava ideale per ospitare il briefing pre-partenza.
Al crepuscolo, seduti al tavolino d’una birreria di Rembrtandtsplein, abbiamo battezzato la nostra squadra. Poiché Mirko e io avevamo risposto ai movimenti tellurici della crisi di mezz’età con troppo vigore, entrambi ci trovavamo momentaneamente alle prese con noie legali, avvocati e minacce di gattabuia; per questo ci è parso adatto che la sezione ciclistica degli Psicoatleti prendesse il nome I forzati della strada.
L’avventura poteva cominciare.


I FORZATI DELLA STRADA

Enrico Brizzi - I forzati della strada

Da Amsterdam ad Arnhem.
 «I miei ragazzi vanno alle superiori, e da quando sono nati non hanno mai visto un’estate come questa. È da quindici giorni che c’è sempre il sole!» spiega stupefatta la signora che gestisce la nostra locanda.
La stagione più calda a memoria d’olandese spinge le folle sulle ampie spiagge distese fra Nordwijk e Hoek van Holland, dove il ramo del Reno che bagna i moli di Rotterdam si riversa nel Mare del Nord; pedaliamo fra le dune seguendo la segnaletica locale, deliziati dal rispetto che gli automobilisti portano verso chi si muove in bici, rapiti dallo stile dei locali che avanzano nel vento con i gomiti poggiati sull’esterno di manubri extralarge, ideali per riposare braccia e polsi nel percorrere i lunghi rettilinei dei Paesi bassi. 
Quanto a me, abituato a spingere su pedali dotati di gabbiette, prendo confidenza un chilometro alla volta con le mie nuove tacchette e il loro incastro che mi rende tutt’uno con la bici; finché si va, tutto bene, ma un paio di volte, persa velocità per arrestarmi,

scordo il mio nuovo status e cado rovinosamente da fermo. Sono scene tanto grottesche quanto indicative della metamorfosi cui mi sto sottoponendo. Mirko, che in virtù della maggiore esperienza ciclistica è stato proclamato capitano della squadra, mi rassicura sul fatto che non sono il primo e non sarò l’ultimo a incappare in simili incidenti di percorso; in ogni caso, non saranno le sbucciature alle ginocchia a fermarci. 
All’Aia si manifesta il primo segno di stravaganza da parte del mio compagno: mentre ci apprestiamo a pranzare in un caffè dalle pareti in legno scuro, lo sorprendo a fissare turbato il ritratto della bionda e sorridente regina Maxima appeso sopra il nostro tavolo. Nel giro di poco, gli occhi si fanno lucidi e le lacrime scivolano copiose lungo le sue guance. 
«Che diavolo ti succede, Mirko?» gli domando.
«La vita è feroce, fratello mio» sussurra asciugandosi le ciglia col dorso della mano. «Era una così bella ragazza» aggiunge in un sospiro, poi distoglie l’attenzione dalla sposa di re Guglielmo di Orange-Nassau per rivolgere uno sguardo pietoso alla barista, una donna non più giovane intenta a guarnire i nostri pannenkoeken. «Chissà che dolore, perdere una figlia tanto bella. Sarà stato un incidente o una malattia?»
Per qualche motivo si è convinto che il ritratto onori

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una giovane scomparsa prematuramente; risolvo l’equivoco, spiegando di chi si tratta in realtà, e lui non sta nella pelle dalla gioia.
«Allora è viva!» esclama sollevato. «Per fortuna!». Poi mi guarda in tralice e confessa: «Credo di essermi innamorato di lei. Dici che riusciamo a farci ricevere a palazzo?»
«È sposata» ribadisco. «Sposata con il sovrano di questo paese. Va bene che sono gente aperta, ma non mi farei troppe illusioni».
Ormai è deciso a incontrarla e, pazzo d’amore, raccoglie informazioni fra i passanti; ai piedi della casa di Erasmo a Rotterdam, nelle campagne di Dordrecht e persino a bordo dei traghetti un certo numero di Olandesi si trova a rispondere al balbettante interrogativo “Do you know queen Maxima?”. Rispondono chi fiero e chi meravigliato di sì, solo per ritrovarsi di fronte a una nuova domanda che li spiazza: “Do you have her phone number?”.
Ad Arnhem, l’ultima città olandese, ci raggiunge Flash, che ha dieci anni meno di noi, un lavoro di responsabilità, un bell’appartamento e una fidanzata in quel di Milano. Sfoggia già la maglia con la manica tricolore, quando entriamo insieme nel pub prescelto per la cena, e ci ritroviamo fissati dai giovani local con aperto sospetto. Basta un attimo per capire dove siamo finiti: i ragazzi indossano

tutti giacchini e magliette con la rosa dei venti della Stone Island, e le pareti sono fitte di gagliardetti giallo-neri del Vitesse, foto della sua curva e di cortei a volto coperto. L’equivoco con gli hooligan del posto è presto risolto: no, se portiamo i colori che portiamo non è perché siamo ultrà del Willem II di Tilburg. Siamo i Forzati della strada, italian cyclist, stiamo seguendo i segnali del percorso Eurovelo 15 per risalire il vastissimo letto del Reno, e tanto basta per risultare ospiti graditi; la serata finisce con un imprevisto gemellaggio scandito da brindisi e racconti di antiche trasferte ambientate, a seconda del narratore, a Nimega o a San Siro, in casa del Feyenoord o dell’Atalanta.
L’indomani superiamo la grande testata in pietra nera d’un ponte distrutto durante la Seconda guerra mondiale e mai più ricostruito; in questo labirinto terracqueo si svolse una delle più colossali operazioni aviotrasportate del conflitto, con i parà angloamericani impegnati sulle rive occupate dalla Wehrmacht in ritirata, e le SS costrette a spostarsi in bicicletta per individuare i plotoni appiedati degli incursori nemici.
Ancora una manciata di chilometri lungo la riva del fiume e ci rendiamo conto di essere entrati in Germania.


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Da Arnhem a Magonza.
 Il giovane Flash è un cultore delle scienze esatte, e basando la sua triangolazione sulle due estremità d’un ponte e un campanile ci comunica che qui il Reno è largo trecentoventisei metri, praticamente la lunghezza di tre campi da calcio. Non serve essere scienziati, invece, per rendersi conto che buona parte del traffico fluviale, nelle acque del land Renania Settentrionale – Vestfalia, è composto da enormi chiatte e battelli turistici. Ci divertiamo a gareggiare con loro, tirando a turno, l’uno a ruota dell’altro, lungo la ciclabile ampia e pressoché piatta, fino a quando un dente improvviso non ci trascina lontano dall’acqua, o un’ansa più profonda delle altre non regala ai natanti un vantaggio incolmabile. 
Per noi abituati a viaggiare a piedi, è impressionante vedere quali distanze si possono coprire in un giorno pur portando un pesante carico sul portapacchi; le giornate di maggior soddisfazione sono quelle in cui l’asfalto con vista sugli stabilimenti industriali della Ruhr si alterna allo sterrato di parchi e riserve. 
Le città si succedono a poche decine di chilometri l’una dall’altra: l’alienante Duisburg, Düsseldorf e il suo chilometro di bar l’uno a muro dell’altro, infine la splendida Colonia, dove arrivo con il copertone posteriore conciato da far schifo e la camera d’aria che regge solo grazie alla schiuma da riparazioni volanti; il primo giorno di pausa del viaggio, designato per visitare la città col suo spettacolare duomo, antica meta dei pellegrini intenzionati a rendere omaggio alle reliquie dei Re magi, trascorre in buona parte fra una lavanderia dalle istruzioni incomprensibili e l’officina della velostazione, dove finalmente riusciamo ad armare la mia bici con copertoni ben più filanti.
L’indomani rischio di volare, in tutti i sensi: la velocità di punta si fa inebriante, almeno per i miei modesti standard, ma quando piego in curva ho l’impressione di aver perso parecchio in stabilità, e serve raddrizzare la rotta in extremis prima di finire bocconi a lato della pista.
Ogni viaggio ha le proprie mitologie, e il nostro si trasforma

MORTE AI CORTELLAZZO!

nell’itinerante storytelling di tre uomini d’onore appena scarcerati, e decisi a far piazza pulita del clan rivale che ha prosperato in loro assenza; mentre scontavamo il nostro debito con la giustizia, l’immaginaria famiglia Cortellazzo ha messo le mani su gelaterie gestite da Italiani ti Cermania e cave di sabbia, fabbriche e imbarcazioni da crociera. Morte ai Cortellazzo, i nostri nemici diventa il ritornello che ci accompagna mentre procediamo a treno o invadendo l’intera carreggiata, nel corso dei pasti come al momento di brindare con la birra dell’arrivo. Qualche barista di ascendenze nostrane ci squadra allarmato, ma nessuno osa mettere i bastoni fra le ruote agli spietati Forzati della strada.
Con le nostre storielle esorcizziamo il timore per i guai che abbiamo da risolvere in patria; in realtà non facciamo che avvicinarci agli uni e all’altra, ma scivolando verso Sud fra le ripide colline tenute a vigneto d’un nuovo land, la Renania – Palatinato, abbiamo l’impressione di lasciarci i problemi alle spalle.
Per questo spingiamo come dannati, nonostante il vento contrario, nella pancia dell’ansa più spettacolare del fiume: ora non ci muoviamo più fra le testimonianze della storia recente, ma il viaggio è accompagnato dalle memorie mitiche dei Nibelunghi e di antichi tesori nascosti, da ombre di draghi fuori dal tempo e dalle seduzioni della bellissima ondina Lorelei, ingannatrice dei marinai al pari delle sirene di Ulisse. 
Arriviamo al crepuscolo a Magonza, antico possedimento d’un potente arcivescovo, primo fra i Grandi elettori ai quali spettava scegliere l’imperatore; l’aria torrida spinge i locali a camminare in calzoncini da bagno, la borraccia pronta in mano per versarsi di tanto in tanto uno spruzzo d’acqua in testa. Anche noialtri usi alle canicole mediterranee siamo allucinati dal caldo soffocante, e i nostri cerebri surriscaldati vedono un significato esoterico nella circolare perfezione dell’emblema cittadino: si tratta d’una ruota argentea in campo rosso, segno certo che qui i sedentari Cortellazzo non hanno giurisdizione, mentre noi Forzati saremo accolti come amici.


risbuchiamo nella civiltà scopriamo di trovarci tra i frutteti del Baden-Württemberg, scenario ideale per una battaglia a colpi di mele asprigne e coriacee, cadute al suolo dalle piante senza che nessuno prima di noi si preoccupasse di raccoglierle.
È già buio e vantiamo parecchi lividi a testa quando arriviamo a Karlsruhe, una città sorprendente che, nella mia ignoranza, ritenevo un polo industriale. È invece un centro urbano creato ex novo appena tre secoli fa; il margravio Carlo Guglielmo aveva sognato una residenza dalla quale promanava una luce soprannaturale, e di conseguenza aveva disegnato la sua nuova capitale secondo uno schema a raggiera, come se la propria residenza fosse il sole – o, ci par di intuire, il mozzo d’una ruota – e le strade principali i suoi raggi.
Tanto la Foresta nera quanto l’Alsazia sono ormai vicinissime, e al mattino ci imbattiamo in una comitiva di veterani franco-tedesca impegnati nella tradizionale Pedalata della pace che celebra la recente amicizia fra i due popoli che, nei secoli, se le sono date di santa ragione.
Ci intratteniamo con loro giusto il tempo di considerare che al nostro viaggio lungo il Limes dell’Impero romano, fra le province germaniche settentrionali e la remota Dacia conquistata da Traiano, si sovrappone un’identità attualissima; la bandiera col cerchio di stelle su fondo blu sventola ormai dalle spiagge d’Olanda al Mar Nero, le frontiere interne all’Unione sono sguarnite, e a noi non resta che pagare un modesto pedaggio all’ennesimo traghetto per proseguire il nostro Tour d’Europe in territorio francese. 
Nell’avvicinarci a Strasburgo, un tripudio di bandiere invade le strade: i Bleus giocano la finale del Mondiale contro la Croazia, e ai tre fischi esplode l’esultanza popolare. Ci ritroviamo nel pieno d’un carosello di auto e trattori, baciati e abbracciati da signore ebbre che ci scambiano per enfants de la patrie a causa del

tricolore sulle nostre maglie; pedaliamo nella nebbia dei fumogeni orientandoci con la slanciata guglia di Notre-Dame, sino al XIX secolo l’edificio più alto del mondo, per raggiungere faticosamente il cuore antico della città. Il nostro bed and breakfast affaccia su Place Kléber, il centro esatto della bolgia, e per guadagnarne l’ingresso dobbiamo farci largo fra torme esultanti, coppie che amoreggiano in pubblico gomito a gomito con i ladri di portafogli e i ragazzi feriti dopo essersi avventurati in infradito sul tappeto di cocci di bottiglia. È il caos totale, in onore d’una Nazionale che non è la nostra, ma una volta messe le bici al sicuro e fatta la doccia scendiamo in piazza anche noi a respirare l’atmosfera di gioioso delirio collettivo.
On est champions du monde, scandiscono ancora a tarda notte, fra i lanci di bengala e le esplosioni di petardi, i ragazzi bianchi, arabi e neri del capoluogo d’Alsazia, e in qualche modo abbiamo l’impressione di affacciarci sul futuro dell’intero continente, destinato a farsi multietnico e multiculturale a dispetto di chi vorrebbe fermare le lancette del tempo.
Ancora due giorni, passando per la pittoresca Colmar e patendo l’unico temporale del viaggio, e lasciamo una Francia in festa per raggiungere un nuovo confine; entriamo a Basilea, e nell’imboccare il ponte monumentale con le bandiere elvetiche e quelle dei diversi cantoni che conduce al quartiere di Kleinbasel ci sembra di passare sotto la flamme rouge dell’ultimo chilometro.
Ci siamo lasciati alle spalle mille chilometri abbondanti – non abbiamo strumenti per calcolarli con esattezza, così ci fidiamo delle guide – pedalando dall’Olanda sino a qui, e domani torneremo in Italia.
Riprenderemo la nostra avventura a fine estate, quando la prole con la quale trascorreremo buona parte delle vacanze sarà tornata a scuola, così nel seguire le liquide traiettorie dei locali che si lasciano trascinare dal flusso del Reno

aggrappati a grandi salvagente non sentiamo né amarezza né nostalgia. Fra due mesi torneremo qui, esattamente qui, dove il cartello a freccia dell’Eurovelo 15 sorge accanto alle indicazioni dell’Eurovelo 6 certificando l’incrocio fra i due percorsi. Del primo, che si dipana lungo la valle del Reno, conosciamo ormai la gran parte; l’altro, che unisce le coste dell’Atlantico alla riva del Mar Nero, è ancora tutto da scoprire.
La missione dei Forzati è appena all’inizio.

I MUSCOLARI E GLI ELETTRICI

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Da Magonza a Basilea.
 Siamo uno spettacolo curioso, noialtri: identici nelle divise, pedaliamo su tre cicli che non potrebbero essere più difformi. Mirko procede curvo sul manubrio da corsa della gravel, io alterno la presa sulle manopole a quella sulle corna esterne, mentre il giovane Flash pedala appollaiato a schiena dritta su una city bike d’alta gamma, il cannotto della sella e quello del manubrio snudati quasi per intero.
Di tanto in tanto, ci superano a velocità doppia strane creature solitarie, ircocervi fra un ciclista tradizionale e un coatto che detona cattiva musica da un ghetto blaster: sembra che tutte le vittime dell’ecstasy, in queste contrade sensibili alla techno hardcore, abbiano acquistato una bici elettrica, l’abbiano munita di casse bluetooth e tentino di smaltire la fattanza filando senza troppa fatica ai cinquanta orari. Come loro, si avvalgono della pedalata assistita coppie di sobri pensionati e gruppi di crocieristi impegnati in un’escursione sulla terraferma, e quando li inquadriamo nel mirino ci facciamo un punto d’onore nel ridurre la distanza, affiancarli, lasciarli indietro.
A Worms, ai piedi del monumento a Lutero, l’atmosfera si fa più severa, come se l’influsso della Riforma protestante riverberasse nei comportamenti della gente, più parca di parole e maggiormente incline a vestire di scuro; abbiamo passato da poco Spira quando ci imbattiamo in un velodromo meravigliosamente incustodito. Ci concediamo due, tre, cinque giri, e il carico che portiamo ci impone di mantenere una velocità sostenuta nel cuore delle paraboliche, pena un rovinoso ruzzolone.
Come lasciamo la struttura, ci ritroviamo a pedalare al coperto lungo i tunnel vegetali d’una riserva che occupa un’ansa morta del fiume. Dieci, quindici, venti chilometri senza incontrare nessuno, qualche dietrofront quando è chiaro che abbiamo sbagliato all’ultimo bivio, e quando

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per nulla salubri, e i proclami di guerra ai Cortellazzo e al mondo intero si succedono a gesti assai poco indicati per chi si trova già nel mirino delle forze dell’ordine: una volta irrompe in bici nella fiera paesana coprendo d’insulti il parroco sotto lo sguardo di centinaia di testimoni, un’altra litiga platealmente con un noto sportivo ospite d’un festival, un’altra ancora finisce sul giornale perché si presenta in municipio a minacciare di morte vigili urbani e consiglieri comunali. In compenso, non smette un solo giorno di pedalare: è deciso a recuperare la forma dei vent’anni, e si sottopone ad allenamenti massacranti vaneggiando d’un possibile ingaggio in una squadra del Pro Tour.
Sono preoccupato, lo siamo tutti, ma al momento andare in bici è l’unica cosa che lo tiene ancorato a un accettabile buonsenso, così non resta che assecondarlo, nella speranza che si riassesti e torni alla vita di prima senza combinarne una troppo grossa.
Il nostro unico rendez-vous nel corso della pausa estiva si tiene intorno a Ferragosto. Mirko si presenta in bici, fresco come una rosa nonostante i centodieci chilometri controvento, ma ne esce una serata tutta storta, dalla quale mi risveglio alle undici del giorno dopo con una orribile sensazione alla Fegato spappolato; non solo abbiamo

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È bello tornare in patria con l’idea di trascorrere settimane liete insieme ai propri figli; ancor più speciale è il ritorno se la prima persona che ci viene incontro appena sbarcati in città è la donna amata, un vestitino a fiori rossi che le lascia scoperte le belle spalle.
Le settimane della canicola scorrono veloci: il lavoro, le giornate in spiaggia con gli juniores e quelle piene di baci e meraviglia si succedono senza concedere spazio alla noia o al rimpianto; pare anzi che la prima parte del viaggio in bicicletta ci abbia proiettato in uno stato di grazia.
Se siamo ancora in grado di pestare sui pedali per mille chilometri, forse possiamo anche risalire la china dei nostri guai, inverarci nel nostro destino di padri, vivere illuminati dall’amore come ormai credevamo impossibile.
Gli unici segnali d’allarme arrivano da Mirko, che ha giurato di guidare la pattuglia dei Forzati sino al delta del Danubio, e ora vive un’estate tormentatissima: appena separato dalla moglie dopo vent’anni di matrimonio, s’infatua di un’altra donna che non lo ricambia, e finisce per gestire nella maniera più sconsiderata l’assedio delle ansie. I messaggi che ricevo via WhatsApp riportano orari da ventenne deciso a tirare l’alba, la sua voce lascia leggere in controluce abitudini

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UN'ESTATE ITALIANA

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bevuto troppo, ma la mia mano destra è dolorante e gonfia in maniera innaturale, e quando ricordo cos’è successo prima dell’alba maledico i ladri di biciclette, e la crisi di mezz’età che riporta a galla irruenze giovanili.
Se il ricordo in formato mp4 che mi infesta il cervello non è troppo corrotto, qualche ora fa abbiamo ritenuto cosa buona e giusta scaricare una gragnuola di diretti contro i due giovanotti sorpresi ad armeggiare intorno alla catena della gravel per portarsela via. Abbiamo conseguito una brillante vittoria ai punti, bastevole a mettere in fuga i ladri, ma l’assenza dei guantoni mi è costata cara: mi basta toccare l’esterno della mano per vedere le stelle, e tutte le pomate a disposizione non cancellano l’evidenza di una frattura scomposta al quinto metacarpo.
A detta di un amico medico dovrei ricorrere a un’ingessatura, ma ormai il tempo a disposizione è troppo poco, così mi limito a un bendaggio bello stretto, nella speranza che le due settimane a disposizione prima di ripartire aggiustino le cose. 
A metà settembre ci ritroviamo a Milano, le bici armate per la seconda parte del viaggio; fra uno sproloquio e un bisogno urgente che trattiene Mirko in bagno per un tempo inverosimile, a momenti perdiamo il treno che deve ricondurci in Svizzera insieme alle nostre

cavalcature.
A tarda sera finalmente sbarchiamo a Basilea, e le fondamenta del lungofiume che abbiamo conosciute inondate di sole e colme di bagnanti sono gelide e deserte, spazzate nel buio da un vento severo come un monito.
Abbiamo un giorno per visitare la città e due settimane per arrivare a Vienna. Prego che torni l’atmosfera spensierata d’inizio estate, ma non ci credo neppure io; la realtà è che qualcosa di nuovo e sconosciuto mina la nostra intesa e l’equilibrio dello stesso Mirko, eppure ormai bisogna andare. Serve lasciarsi le città alle spalle una dopo l’altra, raggiungere il lago di Costanza e uscire dalla Svizzera per rientrare in Germania, così da scavalcare le colline fra il bacino del Reno e la testata della valle in cui scorre, ancora giovane, il Danubio. È l’ultima finestra che ho a disposizione per arrivare nel cuore d’Europa prima che inizi per me il calvario delle udienze in tribunale; non so come potranno risolversi le cose, soltanto che l’esterno della mano mi fa ancora un male dannato e devo trovare il modo di pedalare senza scaricarvi il peso sopra, a costo di stringere il manubrio fra pollice e indice. Che il Cielo ce la mandi buona.


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Da Basilea al Lago di Costanza. Fra le sale del Kunstmuseum e quelle del Museo del fumetto, ci riempiamo gli occhi di immagini rasserenanti, ma i basilischi in agguato sopra le fontane pubbliche ci ammoniscono a non considerarci al sicuro: è in arrivo la prima perturbazione dell’autunno, e le raffiche di vento che ci rallentano nella prima semitappa verso Bad Zurzach inducono Mirko a indossare casco e maschera da sci. È come se non volesse più farsi riconoscere, o non ricordasse più chi siamo: due uomini che si conoscono da mezza vita, che hanno traversato insieme le Alpi e la Bassa Italia, le regioni spagnole distese lungo il Cammino di Santiago e la Gran Bretagna da un mare all’altro.
In estate pedalavamo di comune accordo, mentre ora lancia sfide a ogni accenno di salita; nel passarmi mi grida in faccia con cattiveria che a piedi gli posso essere superiore, ma in bicicletta può battermi senza neppure impegnarsi.
«Cosa sto a perdere tempo con te?» si rimprovera ad alta voce. «Non sai neppure starmi a ruota! Io, invece, sono pronto per un ingaggio da professionista!»
«A quarantasei anni?» domando col fiato corto mentre mi stacca senza scollare le chiappe dalla sella. «Puoi dire la tua nelle gran fondo degli amatori, ma per diventare pro mi sembra tardi».
«Lo vedremo» annuncia, volgendosi a guardarmi

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LA FOLLIA DI MIRKO

da sotto la maschera, poi non resiste alla tentazione d’un medio levato, d’una pernacchia, e prima di aumentare la cadenza mi fa: «Sei piantato! Ce la fai a scollinare senza mettere piede a terra, o devo chiamarti un carro attrezzi?».
Abbiamo sempre scherzato su tutto, ma ora nel suo tono riconosco una cattiveria inedita; lo mando silenziosamente a quel paese, e mi domando come faremo a sopportarci fino a Vienna.
Nel giro di ventiquattr’ore, con una notte che per il mio amico trascorre senza il conforto del sonno, imparo che non ce ne sarà bisogno.
Arrivando a Sciaffusa, infatti, il suo scontento esplode in una crisi di urla e accuse insensate. In camera mi imputa di avergli rubato dei soldi, i guanti e il giacchino antivento che non riesce più a trovare. È un’assurdità, e più lo invito a calmarsi più alza il tiro. Non gli ho forse mentito sulle spese del viaggio per fare la cresta sulle cene? Non gli mento, in fondo, da sempre? E non spero, nel cuore del mio cuore, che caschi malamente in discesa, che se la faccia addosso per ridere di lui, che muoia?
«Non so cosa ti abbia preso» considero, desolato. «Se è una specie di esperimento psicologico, puoi finirla qua. E se invece dici sul serio, be’, ti sbagli della grossa».
«Io ti ho capito» annuncia minaccioso. «Prima mi hai ingannato con la storia dei protestanti e della regina Maxima, e ora vuoi succhiarmi la ruota sino all’Austria!».
Scuoto la testa. Non so di cosa stia parlando. E a succhiargli la ruota, se si mette d’impegno,

non ci riesco neppure sputando l’anima. Cavalco una mountain bike con le ruote da 26 pollici, e sono decisamente meno allenato di lui. Al massimo posso guardarlo andar via. Ed è esattamente quel che succede.
«Ascolta» gli faccio. «Non so cosa ti abbia preso, ma domani è meglio se ognuno si fa la tappa per conto proprio. Ci rivediamo la sera, e speriamo di trovarci più rilassati».
«Io ti ho capito» ripete, gli occhi da manicomio. «Tu sei come la mia ex moglie. Vivi per controllarmi e dirmi quello che devo fare».
«Io?» replico, e ho l’impressione che mi cadano le braccia. «È tanto se controllo i miei figli finché non compiono i diciott’anni». «Ma io lo rompo, il tuo giochino» riprende in preda a un fervore malato. Afferra una matita dalla scrivania, me la mostra, la spezza in due. «Lo mando a rotoli, il tuo piano! E racconto a tutti che persona sei!».
«Che persona sono?» domando costernato.
«Un Cortellazzo!» esclama, lanciando a terra i mozziconi di matita. «Lavori per loro! Finalmente l’ho capito, e col cazzo che vengo a Vienna con te! È una trappola, e io domani me la filo in Italia. In bici. Sì. Mi sparo il Brennero e ti saluto».
«Al massimo il Gottardo o il San Bernardino» sibilo, come mi avesse prosciugato d’ogni energia. 
«Quel cazzo che è!» grida. «E non serve che m’implori di restare! Puoi anche piangere in greco, ché ormai il dado è tratto! Con te ho chiuso!».
Passo la notte a rigirarmi nel letto, e ogni volta che apro gli occhi mi rendo conto di come sia ancora in piedi, impegnato

a gironzolare per la stanza. Canticchia Guccini, butta giù pastiglie, mi rivolge versacci che rischiano di farci cacciare dalla locanda. Ormai farnetica.
L’indomani scendo a colazione, e quando torno in camera non c’è più. 
Il maestro di chiavi, alla reception, mi assicura con sussiego che è partito da un quarto d’ora. Sospiro, risalgo a vestirmi da bici e comporre il mio bagaglio. Prima di uscire controllo come sempre di non aver lasciato nulla nell’armadio. Ci trovo il suo giacchino antivento appeso a una gruccia, e nel taschino a zip c’è il portamonete con i denari che mi accusava di avergli rubato. Rido in maniera insensata. Solo quando mi chiudo alle spalle la porta della stanza realizzo davvero che sono rimasto solo.


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Dal Lago di Costanza a Passau. Il Bodensee, che noi chiamiamo lago di Costanza, è incastonato fra la Svizzera, la Germania meridionale e l’Austria. Sin dall’invenzione del concetto di turismo rappresenta una meta popolarissima, e nella seconda parte del XX secolo si è trasformato in un paradiso per i ciclisti: l’intero perimetro del bacino è circondato da una pista ad anello dalla quale dipartono percorsi di diversa difficoltà, ed è facile traghettare da una sponda all’altra per visitare le diverse cittadine che si affacciano sull’acqua. Ho letto che si tratterebbe del comprensorio che richiama più turisti a due ruote dell’intero continente, superiore persino al tratto austriaco dell’Eurovelo 6 compreso fra Passau e Vienna, che percorrerò più avanti insieme a un nuovo amico, e che ora m’appare lontanissimo; sulla riva opposta a quella che mi vede in arrivo

sorge Friedrichshafen, storica base dei dirigibili Zeppelin e sede dell’Eurobike, il principale salone europeo dedicato alla bici. Nel macinare stancamente gli ultimi chilometri, solo come può sentirsi solo chi è stato abbandonato all’improvviso, mi ritrovo a invidiare le pattuglie di amici che pedalano in fila indiana, si godono il paesaggio e scherzano fra loro pregustando la birra dell’arrivo e l’atmosfera conviviale della cena.
Li fermerei, per spiegare loro cosa mi è capitato.
Immaginavo sarei arrivato qui con Mirko. Si era pianificato di spingerci a visitare il sito dell’antico monastero di San Gallo, appena fuori dalla città di Costanza, ma ora mi basta chiudere la tappa senza soprassalti, raggiungere la locanda prefissata, legare la bici in garage e isolarmi in camera. Come scendo di sella realizzo che tremo di febbre, per gli strapazzi degli ultimi giorni e la solenne incazzatura che mi ha scortato sin qui. 
L’indomani sono ancora giù di corda, mi devo concedere una giornata di riposo che spendo come un convalescente,

IN SOLITARIA

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spingendomi ad acquistare dei pantaloni lunghi in vista delle gelate in arrivo e a rispondere ai messaggi degli amici che mi domandano perché Miro posti foto dall’Italia. Nel pomeriggio prendo un traghetto per andare a visitare il museo dei dirigibili Zeppelin; qui, dove si progettavano e si realizzavano aeromobili più leggere dell’aria, veri e propri hotel volanti a cinque stelle, mi prende una malinconia sconfinata, come se la forza di gravità mi inchiodasse al suolo. 
Nei prossimi giorni devo lambire la Foresta nera per scollinare verso la valle del Danubio, traversare il BadenWürttemberg e la Baviera, pedalando verso un appuntamento fissato a Passau con il quarto componente della squadra, il barbuto Rocky, ma provo la sensazione che si tratti di una missione impossibile. A piedi ho viaggiato da solo molte volte, ma in bici? Basterebbe una gomma a terra, una caduta sciocca, o qualche giorno d’acqua per condannarmi al fallimento. Provo a dirmi che in fondo mi attende una esperienza che tanti sognano per una vita e

una sfida stimolante; mi ripeto che non può capitarmi nulla di brutto, ché al peggio prenderò il treno per avvantaggiarmi, ma sono ancora fragile. La verità è che non ho ancora deciso cosa fare.
Serve ascoltare la voce della mia ragazza che mi risponde al telefono, ancora ignara di tutto, per decidere che non posso mollare. Andrà come andrà, ma intanto si va avanti.
L’indomani per me inizia per me un viaggio diverso, più fragile e guardingo, dilatato nei tempi e pieno di doni inattesi.
Dal momento in cui raggiungo la fontana che si alimenta con le prime acque del Danubio, il mio itinerario si fraziona in una quantità di obiettivi intermedi, come se ogni tappa ne contenesse parecchie diverse. 
Viaggio emozionato attraverso l’alta valle del maggiore fiume europeo, nel vecchio ducato di Svevia da cui sorse la potenza del Barbarossa e del grande nipote Federico II; pedalo su asfalti deserti e sterrate lambiti da boschi che sembrano usciti dalla penna dei fratelli Grimm. L’orografia è ancora capricciosa, l’acqua si fa largo attraverso una


persecutori d’Ebrei e partigiani, destinati alla condanna a morte nella nuova Francia di De Gaulle.
Si respira un’aria tetra nella galleria delle armi, tra le picche allineate e le bardature da cavaliere, ed è con un certo sollievo che mi rimetto in strada pensando allo strano destino dei contemporanei, primi Europei a non vivere un conflitto maggiore dopo secoli in cui, a ogni nuova primavera, le campagne erano razziate e solo chi viveva dietro alte mura poteva sperare di sfuggire alla violenza.
Ad andare soli bisogna stare attenti a tutto, controllare in maniera maniacale il percorso e il meteo, ma si è anche liberi d’indulgere in variazioni di programma; traverso la Blautal, e giunto a Ulm sotto una pioggia fina e ghiacciata, scopro che esiste una ciclabile in grado di condurmi a Monaco in tempo per l’ultima giornata dell’Oktoberfest. Non ho mai preso parte al rito in onore della bionda bevanda ideata dal dio Gambrinus, e un’amica che vive laggiù si offre di farmi da guida; così, appena entro in Baviera, lascio momentaneamente il fiume e le indicazioni dell’Eurovelo 6, punto Augusta e da lì la metropoli della Germania meridionale. Nell’ultimo settore m’imbatto nei cartelli della Via Claudia Augusta, che origina dalla pianura veneta; pochi mesi fa ne ho percorso a piedi il tratto iniziale, fra la Marca trevigiana e Venezia, ed è lì che la fortuna è tornata a sorridermi; mi fa impressione pedalare da solo lungo gli ultimi chilometri della stessa strada, come fosse scritto nella mia sorte che quest’anno bisogna chiudere un cerchio e disporsi a una vita nuova.
Le migliaia di uomini in lederhosen e le donne in dirndl gremiscono il recinto della festa e debordano al suo esterno, invadono tutta Monaco sfilando gomito a gomito con i turisti; mi mescolo alla folla che attende l’uscita degli automi dall’orologio in Marienplatz, la sera celebro il rito della

birra con la mia guida, e l’indomani riparto verso Nord. Ritrovo il fiume, lascio indietro Ingolstadt, mi sento a casa nella bella Ratisbona, resto a bocca aperta ai piedi della costruzione neoclassica del Valhalla, sorta di Partenone decontestualizzato e consacrato agli eroi bavaresi; il tempio fu voluto dal nonno di re Ludwig il pazzo, il committente del grandioso castello di Neuschwanstein, segno che un certo gusto per le grandiose eccentricità albergava nei geni della famiglia.
Macino altri chilometri solitari ai piedi della Selva boema; ormai ho traversato la Germania meridionale da parte a parte, il Danubio si è fatto ampio come era ampio il Reno qualche settimana fa, e manca poco all’appuntamento con il barbuto Rocky.
È il figlio del mio rivenditore di fiducia di carte escursionistiche, lui, ma l’ho conosciuto lungo i sentieri d’Italia. Vanta una laurea in ingegneria e un matrimonio che non ha ancora compiuto tre mesi, una bici da corsa in carbonio e un’impresa di tutto rispetto: quest’estate ha concluso con onore una informale cronoscalata notturna dalla velostazione di Bologna al Colle di San Luca, inclusa la famigerata curva delle Orfanelle, che aveva la caratteristica di svolgersi in sella alle Mobike, i pesanti cancelli messi a disposizione dal Comune per il bike sharing. Pare sia andato a podio con un tempo inferiore ai venti minuti, e mi domando come abbia fatto a non mettere piede a terra.
Dobbiamo incontrarci a Passau, in vista del confine con l’Austria; basterà gestire un paio di tappe per passisti, possibilmente evitando i temporali, e mi viene da sorridere all’idea che non troppi giorni fa raggiungere in solitaria il luogo del rendez-vous mi sembrava una missione impossibile.

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sequenza di anse, promontori, rupi a picco; i campi aperti di Baviera, verdi d’erba lucida, sono una promessa di là da venire, ma già tornano a farsi vedere i cigni, forse parenti di quelli che navigavano al tramonto sullo specchio del Reno.
Qui si parla un dialetto alto-germanico, o alemanno; i Tedeschi del Nord non mancano mai di ridicolizzarlo nelle loro storielle sugli Svevi, che da quelle parti hanno fama di contadinotti testardi e poco svegli. Ora però l’economia del Baden-Württemberg, trainata da imprese ad alto tasso d’innovazione tecnologica, è in pieno boom; fra Stoccarda e gli altri poli industriali della regione si fa a gara per sviluppare hardware e applicazioni, e il governo del land rivendica con orgoglio tanto la nuova identità smart quanto le radici storiche: “Possiamo fare tutto” si legge sui manifesti, redatti in rigoroso dialetto locale. “Tranne parlare tedesco standard”.
L’aria fredda mi impone salopette con gamba a tre quarti, guanti interi, sottocasco; i termometri sulle piazze dei paesi segnano 1 grado al mattino e non raggiungono i 10 neppure a mezzogiorno. Nel pomeriggio le nubi si rinserrano a nascondere il cielo, e arrivo a gara col temporale ai piedi del castello di Sigmaringen, maniero del ramo cadetto della famiglia Hohenzollern. I cugini prussiani divennero Kaiser di tutta la Germania, questi dovettero contentarsi dei loro feudi, ma a un bel punto ottennero il trono di Romania, che mantennero fra scandali e colpi di stato fino alla Seconda guerra mondiale. Sempre fra queste mura massicce e bianche di calce, sul finire del conflitto i Tedeschi in ritirata si portarono dietro il governo collaborazionista francese con l’anziano maresciallo Pétain e la sua corte di funzionari, protetti e simpatizzanti. Fra loro anche lo scrittore Céline, che qui scrisse Da un castello all’altro, e un certo numero di criminali di guerra,

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IL CUORE D'EUROPA

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ciclopiste europee, e l’unico che io abbia già percorso. La prima volta fu in occasione d’una route con gli scout; la seconda, un paio d’anni più tardi, per festeggiare l’esame di maturità.
L’Europa era appena diventata un posto in cui non serviva necessariamente il passaporto per passare una frontiera, l’Italia era nel bel mezzo d’una metamorfosi politica che prometteva inedite rivoluzioni e invece, infelice la rima e triste il destino, spianò la strada a Berlusconi. Fa impressione pensare a quanti anni sono trascorsi da allora, e mette un po’ paura pensare che in quei casi era estate e ora invece galleggiano sull’acqua le brume d’ottobre; lo stesso, è bello essere nuovamente qui, alle spalle della cattedrale bianca come una meringa dedicata a Santo Stefano; anche nel buio la città s’allunga sull’acqua come la prua d’una nave, lambita sulle fiancate dalle acque del Danubio e da quelle dell’Inn, ed entrambi i fiumi sono così grandi e gonfi d’acqua che faticheresti a dire quale dei due confluisce nell’altro.
Nelle precedenti occasioni ho impiegato sei giorni per coprire il percorso sino alla capitale austriaca, quest’anno ci siamo riproposti di farlo in quattro, così da riservarci una giornata per rivedere i capolavori del Kunsthistorisiches museum e la mostra temporanea dedicata a Brueghel, la

Enrico Brizzi - I forzati della strada

Da Passau a Vienna.
 L’ultimo giorno in solitaria, mentre viaggio fra Deggendorf e Passau, mi concedo una pausa in una gasthaus di paese. Sto spazzolando i miei würstel con patate quando mi raggiunge un messaggio allarmato della moglie di Rocky. “È partito senza portarsi dietro i muffin che gli ho preparato” scrive. “E ha scordato anche copertoni e camere d’aria di riserva. Se mi dici in quali alberghi dormirete gliele spedisco via corriere”.
No. Non è proprio il caso. Ormai il suo fresco marito è in viaggio, la bici caricata su un treno germanico, e non avrà che pochi giorni per staccare dal mondo che si lascia alle spalle e godersi la modalità avventura. Farà senza muffin, e se proprio serviranno copertoni e camere d’aria li troveremo lungo il percorso. “Non ti preoccupare” rispondo. “Ce la caveremo alla grande”.
Arrivo al tramonto, baloccandomi nelle pause con foto e letture, come volessi pregustare il momento in cui finalmente abbraccerò un amico e tornerò a parlare la nostra lingua. Mi sento bene, perché ho portato a termine una missione inattesa come quella di coprire settecento chilometri in solitaria, e in un certo senso da qui in avanti è tutta discesa.
Il settore che conduce a Vienna è uno dei più battuti in assoluto fra le

collezione d’armi requisite ai Turchi dopo il fallito assedio alla capitale dell’Impero asburgico e le più antiche bandiere tricolori mai portate da Italiani su un campo di battaglia.
Appena Rocky sbuca a cavallo della sua specialissima al carbonio di fronte alla locanda mi appare l’allegoria della beatitudine. «In viaggio ho dormito come un bambino» considera ancora assonnato. «E il percorso lo conosci già tu. Perfetto. Così nei prossimi giorni posso pensare solo a mangiare, bere e pedalare».
Il suo bagaglio si riduce a una borsa aerodinamica che, sospesa a un braccio avvinghiato al cannotto, si protende a coda dietro la sella. Non ha con sé altro, e mi dico che, in fondo, tutta la mercanzia che mi porto dietro forse non era così indispensabile. Forse la prossima volta limiterò il bagaglio, ché quindici chili sono tantini, e basta un dosso perché si facciano sentire tutti.
In un certo senso non posso che migliorare, e l’idea m’affascina; d’altro canto, mentre filo in scia a Rocky m’inorgoglisce il pensiero di arrivare in fondo a questo viaggio su una mountain bike con le ruote da 26 pollici e pochi anni di meno sul groppone. Certo, è stata una scelta poco razionale, ma cosa c’è di razionale nell’amore che ci lega alle donne e alle biciclette? 
Corriamo, cento chilometri in un giorno, poi altri

cento, e scorrono rapide come diapositive le immagini delle mie pedalate giovanili, la frontiera austriaca, la salita che conduce a Mauthausen, la piazza di Linz, Ybbs, le tavolate di turisti fuori stagione ai piedi dell’abbazia di Melk, le centrali idroelettriche con le loro dighe ciclabili, infestate di insetti nei mesi caldi, ora simili a deserte rampe di lancio.
Rocky vuol sapere cos’è capitato con Mirko; quando gli racconto la mia versione, si limita a osservare: «Bizzarro comportamento. Speriamo si rimetta», e davvero non serve aggiungere altro.
L’ultima notte dormiamo a Krems, e da lì è una galoppata a perdifiato lungo l’argine racchiuso in un’area protetta, prati verdi e boscaglie scandite da torrette in legno d’osservazione; spingiamo sino al ponte che ci porta sulla Donauinsel, la lunga isola lambita sui due lati dal Danubio che conduce sino alla città; nella sua porzione più orientale prende la forma d’un parco urbano, ed è strano, dopo avere trascorso settimane circondati da una repubblica di ciclisti, tornare a vedere così tanti umani contenti di andare a piedi, famigliole che spingono carrozzine, anziani, bande di gioventù periferica, donne a migliaia appena uscite dagli uffici e desiderose di relax.
È l’anticipazione di ciò che ci attende da qui a pochi chilometri, nel centro storico pettinatissimo di Vienna e, fra trentasei ore, in Italia. Dovremo tornare a vivere secondo la grammatica della vita civile e degli appuntamenti, delle consegne puntuali e delle telefonate ispirate alla professionalità, ma già so che per tutto l’inverno, sotto le nostre giacche e le nostre camice, batterà il cuore dei Forzati. A Milano, Bologna e Roma, dovunque ci porterà il lavoro, continuerà a vivere in noi lo spirito di queste settimane selvagge, e non ci sentiremo in pace finché non saremo tornati qui, nel centro della Mitteleuropa dove il passato vive accanto al presente; allora ritroveremo il fiume che segnava il confine fra civiltà e barbarie, e torneremo a seguirlo attraverso le terre degli Slavi cattolici e di quelli ortodossi, dei Magiari e dei Rumeni sino a quando non lo vedremo gettarsi, maestoso, in mare. Enrico Brizzi, Bologna, maggio 2019


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Ci chiamiamo Psicoatleti perché crediamo che i viaggi si facciano con la mente e con l’anima, non solo a forza di polpacci, ma se qualcuno ci scambia per una congrega di fuori di testa con lo zaino in spalla non ci offendiamo; alcuni dei nostri viaggi sono lunghi appena un weekend, altri un’intera stagione, e al solito sono costellati di decisioni rivoluzionarie: separazioni, nuovi amori, auto-licenziamenti e inaugurazioni di sorprendenti attività lavorative.


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Enrico Brizzi, scrittore Enrico Brizzi (Bologna 1974) ha esordito a vent’anni con Jack Frusciante è uscito dal gruppo, al quale hanno fatto seguito Bastogne (1996), Tre ragazzi immaginari (1998) ed Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile (1999). La passione per i viaggi a piedi ha condotto Brizzi a percorrere le principali rotte di pellegrinaggio del Vecchio mondo (Via Francigena, Via dei Palmieri, Cammino di Santiago) e a concepire un percorso originale fra l’Alto Adige e la Sicilia per i 150 anni dell’Unità nazionale; le esperienze a passo d’uomo hanno ispirato le opere narrative Nessuno lo saprà (2005), Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro (2007), Gli Psicoatleti (2011), Il sogno del drago (2017) e La via dei re (2018). Tra i suoi ultimi titoli le raccolte di racconti L’arte di stare al mondo (Mondadori Electa, 2013) e In piedi sui pedali (Mondadori, 2014, Premio Bancarella Sport), e i romanzi Il matrimonio di mio fratello (Mondadori, 2015), Tu che sei di me la miglior parte (Mondadori, 2018) e Il diavolo in Terrasanta (Mondadori, 2019).

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Enrico Brizzi - I forzati della strada

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Lost in Prealps «Sii gentile con te stesso e con le tue gambe, rilassati e rispetta la natura che ti circonda. Siamo parte integrante di un mondo che respira, dove i polmoni sono le foreste e gli alveoli i rami degli alberi, le piante e i prati che incontrerai sul percorso. Assapora la libertà e goditi il tuo personale viaggio…».

Testo Manuel Gatto

Foto Massimo Spada

Lost in Prealps è nato qualche anno fa, durante un’uggiosa giornata di primavera. D’un tratto, sulla scrivania, è apparso un libro intitolato Riscoprire le Prealpi Trevigiane. È stata proprio quella parola, riscoprire, a suggerirmi qualcosa. Una di quelle sere, con la mente già proiettata ai viaggi estivi, è sbocciata l’idea di organizzare un micro-viaggio alla scoperta di quei luoghi che pensavo di conoscere bene, ma sbagliavo di grosso.

Le Prealpi Trevigiane sono una catena montuosa che si estende tra la Val Belluna, a nord, e la Pianura Trevigiana, a sud. Lungo la dorsale che collega il Monte Grappa al Pian del Cansiglio si innalzano cime più o meno conosciute come il Monte Cesen, il Col de Moi, passando per il Cimone, l’Agnellezza fino al Col Visentin, con i suoi 1.760 metri di altitudine. Un territorio un tempo abitato da agricoltori e allevatori, persone volenterose che vivevano tra le valli ed i villaggi a mezza costa traendo profitto da terreni coltivati a patate, barbabietole, radicchio e con il pascolo di vacche, pecore e capre indispensabili per la produzione di pellami e lana, ma soprattutto di formaggi che prendevano forma e maturavano nelle numerose malghe. Questa realtà oggi è documentata nei libri di storia locale e nelle tante foto che

riempiono gli archivi comunali; nei racconti di qualche anziano all’osteria che fiero spiega ai più giovani il ritorno verso le grandi vallate o il miraggio economico che portò le famiglie ad abbandonare le terre alte. Ruderi e testimonianze del passato giacciono indisturbati tra i boschi o lungo i sentieri, lasciando spazio a rifugi e aziende agricole che oggi operano attivamente per mantenere vivo questo luogo. Un luogo a tratti ancora selvaggio e inesplorato. Esplorazione. Questa era la parola che mi risuonava in testa quando, per la prima volta, ho tracciato il mio percorso ideale. Un lungo serpentone che attraversava le zone più caratteristiche di tutta questa catena montuosa, tra borghi ricchi di storia, sentieri e strade secondarie sparse tra


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boschi di faggio, carpino e acero, accoglienti bivacchi e una natura incontaminata. Quante volte, durante le lunghe uscite in bicicletta, entri in uno stato di trance dove i pensieri scorrono nella mente, i minuti e le ore si dilatano, perdendo il senso del tempo? È proprio in questo stato di semi incoscienza che è nato Lost in Prealps. Un nome, una metafora, che nasconde un concetto caro a molti: perdersi lasciandosi trasportare dal vento, ritrovarsi e ripercorrere la strada verso casa, pedalare dimenticando i problemi quotidiani, ritagliandosi un momento di estrema sintonia con la natura, riscoprendo l’importanza dei sensi: vista, udito, tatto, gusto e olfatto.

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Da quel lontano giorno di primavera, Lost in Prealps ha cambiato diverse forme, mantenendo però sempre lo stesso spirito. Il trail di quest’anno si è svolto con un nuovo format: cinque check point, da raggiungere in sella alla propria bici, senza una traccia fissa. Cinque punti di interesse intrisi di storia e di storie. Un anello di circa 140 km e 3.800 m di dislivello positivo, da affrontare in totale autonomia e senza limiti di tempo. «Le Prealpi quel giorno erano un



parco giochi brulicante di bambini un po' cresciuti», mi racconta Eric Scaggiante a distanza di un paio di settimane. «Persi, a seguire tracce diverse, ma nelle stesse montagne, ripide e verdi, guardiane delle Alpi scure. Ogni tanto, in lontananza, si vedeva qualcuno acchittato in modo stravagante rispetto ai soliti amatori, con qualche borsa sulla bici, e capivi subito che era lì per il tuo stesso motivo. Lo spirito comune era lasciare ogni seccatura a casa, sfogare una passione svuotando la testa, cominciare a pedalare fregandosene della fatica e cercare qualcosa di cui avevamo bisogno: un sentiero mai battuto, un paesaggio mai visto, la gratificazione di una discesa, la sfida di una salita, imbattersi in situazioni improbabili cercando sentieri esistenti solo sullo schermo del gps, entrare nelle case degli abitanti della valle, conoscere persone e animali, e

alla fine, fermarsi sudati, stanchi, più o meno svuotati di tutto, senza nessun pensiero. Con le gambe sporche di fango, i piedi bagnati, qualche striscio sulla pelle, ma felici. A bere birra e a raccontarsela come amici di lunga data. Le Prealpi quel sabato erano solo nostre, del sole e di nessun altro. Qualcuno partiva solitario errante, come me, altri in compagnia, chi prima e chi dopo; ma prima o poi ci si incontrava lungo quei serpentoni ghiaiosi, tra i checkpoint che tutti volevamo conquistare. Magari poi, dopo essersi incontrati casualmente, si continuava la strada assieme, condividendo salite, discese, ma soprattutto l'euforia di arrivare in cima per guardarsi attorno, e vedere quanto siano pazzeschi questi luoghi. Le temperature gradevoli erano accompagnate da un sole quasi primaverile, ma sapevo che quello era territorio dai rapidi cambiamenti climatici,

era facile vedersi passare davanti d’un tratto una carovana scura di nuvole sature di pioggia, l'unica forma di traffico che si poteva incontrare». Al traguardo, insieme ai partecipanti, arrivavano storie come quella di Eric, gli aneddoti, tanti, rimbalzavano qua e là con un’eco assordante, si parlava di tutto: del percorso, dell’attrezzatura da bikepacking, degli strani personaggi incontrati durante il trail.

Si respirava un’aria autentica e rilassata. Chi doveva andare via alla fine restava lì, assaporando una buona birra artigianale.

Quel sabato sera, adagiati in silenzio sul prato, una folla di ragazzi e ragazze immobili ascoltavano racconti di tempi più o meno lontani cantati da una voce ruvida e profonda, note suonate da una chitarra acustica e quel ritmo lento cadenzato da uno strano strumento chiamato güiro. Un'atmosfera tanto autentica da non sembrare reale.Il giorno successivo, la domenica, continuava il frenetico arrivo dei partecipanti al trail che portavano con sé un sacco di contagioso entusiasmo: abbracci, strette di mano e risate. Chi accaldato si tuffava in acqua per un meritato recupero, chi affamato correva a prendere del cibo, chi assetato non perdeva tempo per ordinare una birra fresca. Si perché a mio parere il bikepacker, se così si può definire, è tutto questo: un appassionato che adora passare ore in sella alla propria bicicletta carica dello stretto


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Diversi. Ognuno ha la sua idea di ciclismo, ogni ciclista il suo volto.

necessario per la sopravvivenza in natura, una persona entusiasta del territorio, di quello che ha da offrire paesaggisticamente, ma anche a livello culinario, un ciclista esploratore alla ricerca di nuove avventure. Nessuno quel giorno può dire di essersi annoiato. All’interno del village costruito per l’occasione, curiosi, amici e sostenitori hanno avuto la possibilità di partecipare gratuitamente a numerose esperienze outdoor: il trekking con guida naturalistica, il SUP e la canoa canadese, le e-bike lungo la ciclabile del lago oppure approcciare il volo di parapendio. Il suo traguardo? Semplicemente una grande festa!. Così recitava lo slogan dell’evento e così è stato. Una festa in omaggio alle nostre montagne con un contorno di attività all’aperto. Una chiamata globale al bikepacking per regalare un’esperienza alla scoperta delle Prealpi Trevigiane. Volevamo creare un punto d’incontro, confronto e condivisione di

idee, in cui praticare sport ed approfondire tematiche legate alla natura ed il rispetto per l’ambiente. Ebbene, ci siamo riusciti. A distanza di qualche mese, vedo persone che ritornano sul percorso per scoprire nuovi sentieri e fermarsi ad assaporare i formaggi delle malghe. Leggo e-mail di partecipanti esaltati dalle creste a cavallo del Pian delle Femene, che scrivono di non aver mai visto nulla del genere, un paesaggio completamente inaspettato. Inutile dire che tutto questo ci riempie di gioia. Raccontare storie, esplorare percorsi meno battuti, scoprire luoghi e persone che vivono e mantengono in vita le Prealpi Trevigiane. Questo è il nostro scopo. Massimo, Davide, Niccolò, Elisa, Fabio, Roberto, Wladimiro. Sono i nomi di coloro che, come me, credono fermamente nel potenziale di questo territorio spesso screditato dalle più famose Dolomiti ma non per questo meno interessante. Ci sentiamo come una


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cellula che si divide, formando altre piccole cellule che vanno a comporre un tessuto fatto di persone. Quel reticolo è la nostra associazione per la tutela e la promozione del territorio. Faremo di tutto affinché l’edizione 2020 di Lost in Prealps, alla quale stiamo già lavorando, possa essere ancor più indimenticabile ricordandoci che ogni viaggio lo si vive tre volte: quando si sogna, quando trascorre e quando si ricorda.

Esplorazione. Questa è la parola che ci risuonava in testa quando, per la prima volta, abbiamo tracciato il nostro percorso ideale.

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direttore DAVIDE MARTA davide.marta@mulatero.it via Giovanni Flecchia, 58 10010 Piverone (TO) tel 0125 72615 www.mulatero.it - mulatero@mulatero.it

Alvento #7. Di Egan Bernal avevamo già detto lo scorso anno, quando in pochi scrivevano di lui. Ora ha vinto il Tour. Non potevamo non celebrarlo. Youhoou, Egan. Foto: Eloise Mavian / Tornanti.cc

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armati di matite e pennarelli; fai sloggiare il gatto dalla scrivania; musica a palla; crea il tuo kit Alvento 2020; fotografa con il cellulare la tua creazione e inviala a info@alvento.cc.

Collaborare

Direttore Responsabile Luca Giaccone Direttore Editoriale Emilio Previtali emilio.previtali@alvento.cc

Editing e revisione testi Simona Righetti simona.righetti@mulatero.it Segretaria di Amministrazione Elena Volpe elena.volpe@Mulatero.it Logistica E Magazzino Federico Foglia Parrucin magazzino@mulatero.it Progetto grafico e Impaginazione tundra visit@tundrastudio.it Hanno scritto su questo numero: Alessandro Autieri, Francesco Beltrami, Enrico Brizzi, Daniele Cappato, Pascal Caré, Filippo Cauz, Simon Cittati, Giovanni Di Stefano, Manuel Gatto, Emilio Previtali, Paolo Ronc, Dorian Tabeau, Gian Franco Venè.

Mandateci una storia intera che vorreste vedere pubblicata su Alvento con testo, foto e disegni se ce ne sono, oppure mandate un intro o un pezzetto di testo che sia un assaggio della storia che volete raccontare, in quel caso bastano 1800 caratteri, non di più. Se siete fotografi e volete collaborare vale lo stesso sistema: fate una selezione di immagini, mettetele in una cartella e condividetele con noi attraverso Dropbox o inviatecele con Wetransfer. Non mandate centinaia di fotografie, fate una selezione, il lavoro di fotografo è anche questo. Non mettete watermark sulle foto. L’indirizzo a cui dovete scrivere è quello del Direttore Editoriale, cercatelo nel colophon.

Hanno fotografato su questo numero: Tornanti.cc (Eloise Maivan, Francesco Rachello), Bettini Photo, Stefano Jeantet, Foto Sirotti, Dom Daher, Massimo Spada, Paolo Ronc, Federico Merlo, Giovanni Toldo, Giovanni Di Stefano, Daniele Cappato, Naoto / naotohori.org, Federico Damiani, Maicol Zoia, Francesco Franchi.

Dove trovarci

Hanno illustrato su questo numero: Stefano Drago Dragonetti, Giulia Milos.

Non è facilissimo costruire il piano di distribuzione per una nuova rivista, fare in modo cioè che sia reperibile in tutte le edicole. Ci vuole un po’ di tempo, ma il nostro distributore ce la sta mettendo tutta.

Autorizzazione del tribunale di Ivrea n. 1 del 27/06/2018 (Ruolo generale 1904). La Mulatero Editore è iscritta nel Registro degli Operatori di Comunicazione con il numero 21697.

Sono stati rintracciati per quanto possibile tutti i detentori di copyright; l’editore si scusa per eventuali omissioni e resta a disposizione degli aventi diritto. © Mulatero Editore Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa rivista potrà essere riprodotta con mezzi grafici, meccanici, elettronici o digitali. Ogni violazione sarà perseguita a norma di legge.

Per cui, se qualche edicola dove vi piacerebbe comprarla non fosse rifornita, segnalateci indirizzo, nominativo del gestore e codice rivendita con una mail a info@alvento.cc. Poi ci pensiamo noi. Se invece preferite ricevere la vostra copia direttamente a casa, basta andare sul sito della nostra casa editrice (mulatero.it) e scegliere una delle proposte di abbonamento.

LA SCORSA ESTATE ABBIAMO PRODOTTO I PRIMI KIT ALVENTO E ORA SIAMO AL LAVORO PER LA COLLEZIONE 2020. LA TUA PROPOSTA, QUAL È? DÁI, NON FARE IL TIMIDO.

Redazione Andrea Chiericato, Gabriele Pezzaglia, Claudio Primavesi

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Le collaborazioni che cerchiamo funzionano secondo il sistema delle submissions.

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stampa STARPRINT srl - Bergamo

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Non è un concorso, ma se scegliamo la tua grafica, veniamo a portarti il kit a casa tua (in bici).

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Se vuoi aiutarci, potresti fare questo:


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ultimo chilometro

Voltarsi Avvicinarsi ad una bicicletta per la prima volta significa soprattutto una cosa: imparare. Imparare a stare in sella, imparare a tenere ben saldo il manubrio, le dita pronte a frenare, a non sterzare bruscamente, a non tenere basso il piede dalla parte in cui si piega. Si imparano molte cose andando in bici, e non ce le si dimentica più. Ma se oltre ad avvicinarti alla bicicletta ti avvicini al mondo del ciclismo e delle corse, ci sono altre cose importanti da imparare. Tante altre, tutte cose da fare tranne una, da non fare mai: guardare indietro. Non bisogna farlo. Mai. È un istinto naturale. Te lo dicono i genitori perché è pericoloso: perdi la linea della strada; te lo vietano gli allenatori perché ti fa perdere tempo e non è così che vincerai le corse, ti distrarrà dal tuo sforzo e rischierai di perdere ritmo e velocità. Eppure chissà quante volte in corsa, la voglia di voltarti indietro sarà forte e l’istinto vincerà sulla ragione. Non sarà per disubbidienza o ripicca, semplicemente sarà spontaneo farlo. Testo Federico Galizzi

Illustrazione Matteo Carmosino

Voltarsi? Che sarà mai? È veloce, dura un attimo, un gesto innocente, senza conseguenze... Quando gli altri scappano via e tu non ce la fai, puoi voltarti a controllare se resta ancora qualcuno a farti compagnia. Se invece sei tu a tentare di scappare via, ti girerai a controllare che tu ce la stia facendo, che ti lascino fare, per sapere che tu sei davvero il più forte e non ti sta dietro nessuno. Altre volte invece qualcuno vicino lo vuoi. Un classico: chilometro zero, gruppo già in movimento, il direttore sbandiera per dare il via alla gara ed un corridore esce dal gruppo, come un’ape da un alveare. Per i primi metri pare un volo verso la libertà, fuga, un momento di momentanea follia. Dopo qualche colpo di pedale però, istintivamente viene da fare quello che ti hanno insegnato a non fare: ti volti. Se sei fortunato trovi qualcuno alla tua ruota, se lo sei un po’ meno trovi tutti a ruota, se non lo sei affatto, non trovi nessuno. Se non trovi nessuno, o solo uno o due compagni d’avventura, il tuo voltarti non sarà solamente una constatazione di quel che succede ma un invito a chi segue: Se qualcuno si aggiunge, mi fa piacere. Altre volte non si va all’attacco nelle prime fasi di corsa, ma soltanto quando la corsa è entrata nel vivo. Quelle volte lo fai di forza. Ed in qualunque modo tu ti sia trovato là davanti, lotterai contro chi ti insegue con le gambe, contro la tua fatica con il cuore, contro la voglia di voltarti indietro, con la testa. Voltarsi è un’arma a doppio taglio: se ti volti e vedi gli altri lì vicino o in avvicinamento, ti lasci andare; se li vedi lontano, magari non molto ma quanto basta, beh, quelle volte le telecamere fisse del traguardo scorgono un viso sofferente, al massimo dello sforzo; un viso che sparisce dall’inquadratura per un istante per poi mostrarsi di nuovo alle telecamere, con lo sguardo puntato in avanti. Al traguardo. Il ghigno ha lasciato spazio ad un sorriso, la sofferenza al sollievo, la fatica alla gioia.

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Primo nel ciclocross, ora anche nel WorldTour, Mathieu van der Poel ha l’abitudine di far sembrare semplici le imprese impossibili. Ha infiammato le Classiche con la sua Aeroad CF SLX, ma era solo l’inizio. Per MVDP il meglio deve ancora arrivare.


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