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REMASTER: BOBBY SOLO
«Cominciarono a mettere cipria, fondotinta e un sacco di rimmel, così che poi mentre cantavo iniziai a sudare per l’emozione, e il rimmel finì col colarmi dall’occhio in maniera vistosa…» 26
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IL RIMMEL DI ELVIS Sanremo. 30 gennaio 1964. Interno giorno. Nella stanza dell’Hotel Bordighera il diciannovenne Roberto Satti, che quella sera deve debuttare con il nome d’arte di Bobby Solo nel corso della quattordicesima edizione del Festival della Canzone Italiana, si sveglia e si accorge di non riuscire a modulare la voce sulle note della melodia della canzone che deve presentare, Una lacrima sul viso. Una canzone in cui lui e il suo discografico Vincenzo Micocci credono moltissimo, e su cui ha puntato anche il patron del Festival, Gianni Ravera. Quando Roberto gli telefona per comunicargli la novità, Micocci capisce di avere un problema serio. Comincia così, da un banale abbassamento di voce, la storia di una carriera straordinaria. Conversazione con Bobby Solo | di Luciano Ceri
Che cosa era esattamente successo, Roberto? Era successo che qualche giorno prima, durante le prove, avevo conosciuto Little Tony. Felice di scoprire la nostra comune passione per Elvis, mi aveva portato con la sua Jaguar E a mangiare con lui (a sue spese), per tutti i dieci giorni del Festival. La sera prima dell’inizio del Festival eravamo andati insieme a Gino Paoli in un night-club, il Capo Nero, dove io avevo avuto il mio primo incontro ravvicinato con una entreneuse, una gran bella ragazza tutta scollata con un completino attillatissimo color grigio tortora con la quale ballai per tutta la sera. Naturalmente mi riscaldai parecchio, in tutti i sensi. A Sanremo durante il giorno fa caldo, mentre la sera (del resto eravamo a gennaio) la temperatura precipita, e io ero in giacca e camicia, non avevo il maglione perché di giorno avevamo avuto una temperatura quasi primaverile. Uscendo dal night a notte fonda ho preso freddo, e probabilmente mi è venuta una tracheite. Così la mattina dopo, tutto preoccupato, ho chiamato Micocci: vedevo crollare tutte le mie possibilità, perché senza voce perdevo l’unica carta che avevo. E Micocci? A un certo punto della giornata mi guardò e mi disse: «Tu canterai col nastro». Mi portarono un magnetofono e mi fecero provare la sincronia del finto canto con la base. Fu un’idea geniale: il sound che veniva dal palco allora era veramente primitivo, di un’orchestra con ventiquattro violini se ne sentivano sì e no i primi otto, mentre della batteria si sentivano soltanto il rullante e un po’ di charleston. Mentre io,
sfruttando il sound del disco, potevo contare su un impatto sonoro infinitamente superiore a quello degli altri cantanti. Era sicuro di vincere? Secondo me il candidato alla vittoria finale era Paul Anka, non dico che avessero fatto qualche combine, ma credo veramente che dovesse vincere lui. Era arrivato a Genova tutto abbronzato dalla California con un aereo privato, e alle prove era un vero schianto, un ciclone: Ogni volta aveva un ritmo travolgente e il suo arrangiatore americano (che si era portato dietro) lo accentuava ancora di più. E secondo me io sono stato quello che ha rotto le uova nel paniere alla RCA, che aveva puntato tutte le sue carte su Paul Anka. Devi sapere che il giorno dopo la mia prima esibizione il dottor Cantini, il loro responsabile delle edizioni, quasi mi mise le mani addosso e, in presenza di Micocci, mi urlò: «Non deve cantare in play-back!». In quell’occasione fu Guido Rignano, l’amministratore delegato della Ricordi, a coprirmi, nel senso che si mise letteralmente in mezzo tra me e Cantini, e a prendere le mie difese. Quel giorno ci furono trecentomila ordini del disco, dico trecentomila! Quelli della RCA erano imbestialiti, e per giunta quella canzone era stata registrata nei loro studi! Una vera beffa! La seconda sera, prima del secondo playback, dissi a Micocci: «È tornata la voce!». Ma lui mi rispose: «No, no, tu devi cantare in play-back». E probabilmente alla fine tra i due litiganti ha goduto il terzo, cioè Gigliola Cinguetti con Non ho l’età, con la purezza e la tenerezza della sua immagine. 27
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SPECIALE
GAETANO E VINCENZO Ha lanciato Bobby Solo, ha coniato il termine “cantautore”, ha offerto asilo ai devianti del progressive e del jazz nostrano, ha scoperto De Gregori, Venditti e l’intera “scuola romana”. La sua vita è un complicato intrico di incontri, volti, voci, storie. Eppure, se fra tutti dovesse scegliere un solo nome, probabilmente non avrebbe dubbi e indicherebbe quello di un ragazzo magro e introverso arrivato dalla Calabria con il sogno di “sistemare” la sua famiglia. Un ragazzo andato via troppo presto. E troppo male. Stefano Micocci intervista Vincenzo Micocci
Tu sei stato molto legato a Rino Gaetano. Eppure, in tempi recenti hai scelto la strada del no comment. Perché, Vincenzo? Ti riferisci anche alla fiction televisiva, naturalmente, sulla quale al tempo ho preferito non fare commenti. Non rilasciare dichiarazioni, pur richieste dai giornalisti. Che dire? Le puntate sono andate piuttosto bene, bravi gli attori, mi fa piacere per i produttori. Ma perché chiamare quel personaggio Rino Gaetano? Lasciamo perdere! Però di Rino puoi parlarne… Sì, ritengo che per me sia giunta l’ora di dire qualche parola sulla persona che era Rino Gaetano. Come lo ricordi? Di lui ho apprezzato la semplicità e, nello stesso tempo, l’unicità. Nel suo caso, la realizzazione del progetto-Rino prevedeva sia l’aspetto artistico che quello umano: la realizzazione della sua identità artistica certo, ma anche e soprattutto la “sistemazione” della sua famiglia. Cosa c’entra la sua famiglia? I Gaetano erano venuti a Roma da Crotone e nella mente e nel cuore di Rino c’era soprattutto l’idea fissa di riscattare la sua famiglia. Aveva già scelto, in fondo, la sua “missione”: migliorare la vita dei suoi genitori.
Ottant’anni lo scorso anno, Vincenzo Micocci ha iniziato dal jazz la sua straordinaria carriera di discografico, produttore e talent scout.
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Come arrivò a te? È venuto alla it accompagnato da Antonello Venditti, che aveva la macchina (Rino prendeva l’autobus) e lo stimava come potenziale artista: dopo un breve periodo di riflessione, aveva valutato che era quello il posto giusto per lui. Prima di tutto per le affinità con i cantautori che io avevo già pro-
dotto, ma credo soprattutto perché la it era perfetta per lo scopo che lui aveva in mente. Fu per te facile entrare in sintonia con lui? Personalmente, in principio, cercavo di “capirlo”, di venirgli incontro – vedi I love you, Maryanna. Anche se, sempre a causa di alcune sue incertezze, le sue canzoni erano addirittura in inglese. Però dicevano cose precise che, forse per timidezza, Rino non aveva ancora il coraggio di esprimere. Al punto che decise di nascondersi dietro quello pseudonimo, Kammamuri. Col passare dei giorni, però, i nostri punti di vista andavano chiarendosi sempre più e alla fine Rino accettò l’idea che le sue canzoni dovessero essere in italiano. Tuttavia decise che ne avrebbe delegato l’esecuzione ad altri cantautori “suoi amici”. Perché, secondo te? Perché lui non si considerava “all’altezza”. L’unica strada sarebbe stata quella di convincerlo a cantare: lo convocai di nuovo e ricordo che restammo a parlare per un’intera mattinata. Ma ancora una volta, non riuscii nel mio intento. Così decisi di sospendere la “seduta” anche perché erano “le tredici”, così, almeno, gli dissi… Ricordo che passai una nottata in bianco, pensando di potercela fare, ma avvertendo anche la forza della sua difesa psicologica. Il giorno dopo, data prefissata per le registrazioni, arrivai in ufficio alle dieci, cercai di distrarmi con altri ascolti, ma di lì a poco mi arrivò una telefonata con una dichiarazione formale dello studio: la registrazione aveva avuto regolarmente inizio. Ti aveva dato ascolto… Be’, pur nella diversità delle nostre personalità, il nostro rapporto era basato su poche parole e su comuni sentimenti. Una serenità di fondo e una reciproca sincerità. Lo testimonia il nostro comune percorso produttivo, durato fino all’esaurimento della sua migliore produzione artistica, con l’ultimo dei brani di quel periodo, Gianna, che uscì nel 1978 ed ebbe un enorme successo.
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«Quando pensavo a lui mi piaceva pensare a Gesù». (Vincenzo Micocci su Rino Gaetano)
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STRADA CHIUSA Gianni Leone nasce nel Progressive, ma ha bisogno di spazi espressivi più ampi. Così decide di ribattezzarsi LeoNero e diventa un cantautore. Dopo un primo disco finito nel vuoto, vola in California e riparte da zero con un progetto ambizioso e in anticipo sui tempi. Eppure non basta. di Franco Brizi
rtista inquietante e surreale, irrequieto e passionale, ambizioso e fatalmente attratto dall’innovazione. Così è LeoNero, nome d’arte di Gianni Leone: napoletano di nascita e romano d’adozione, enfant prodige di formazione classica ma sconvolto bambino dall’ascolto di Jimi Hendrix e Frank Zappa. Il suo ingresso nel panorama musicale italiano è per certi versi trionfale: Gianni entra nella formazione del Balletto di Bronzo all’epoca dell’inarrivabile Ys, e con le sue tastiere e la sua voce compone un mosaico sinistro e ossessivo, un tessuto musicale nuovo e ardito in cui la melodia è bandita. Giovanissimo, è acclamato come il miglior talento del Prog nostrano: un angelo venuto dal cielo o un’anima dannata? Complice un tenore di vita smodato, il gruppo perde in brevissimo tempo la sua identità, gli altri non lo seguono, Gianni accusa il colpo e inizia un percorso artistico solitario e provocatorio. È allora che assume l’identità di LeoNero (anche se inizialmente intendeva farsi chiamare Ego). Su VERO, il suo primo lavoro solista, riversa le frustrazioni del periodo e nonostante una forma chiaramente cantautorale (sviluppata in brani quali Sono stanco anch’io, La luce o Tu ti ricorderai di me) riesce a non recidere del tutto il cordone ombelicale con il passato del Balletto, grazie a una serie di momenti musicali d’indubbio valore: l’introduttiva Scarpette di raso blu, La bambola rotta e soprattutto La discesa del cervello, sorta di citazione capovolta del Secondo incontro da Ys. Con Una gabbia per me si spinge però già oltre, e prefigura una nuova forma di rock italiano. Il disco nasce a New York nella primavera del 1975, dove LeoNero è giunto accompagnato dal suo produttore Corrado Bacchelli. Ha preso una stanza al celebre Chelsea Hotel, lo stesso albergo abitato da gente come i New York Dolls: con loro realizzerà delle jam session al Matrix. È caldeggiato dalla Warner Bros, che è rimasta impressionata dal
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suo talento e si dice interessata al suo disco. Ma tutto va storto: Bacchelli intasca l’ingaggio di LeoNero a sua insaputa, poi paga una penale e tenta di vendere il disco a un’altra casa discografica (l’artista lo saprà solo anni più tardi). Sarà la Emi, due anni dopo, a pubblicare VERO in Italia, nell’indifferenza generale. Ma il feeling con l’ambiente italiano non è dei migliori e neanche il singolo Fremo/Sono stanco anch’io riesce a risollevare le sorti del musicista. Deluso, nel 1979 LeoNero si trasferisce a Hollywood, entra a stretto contatto con la new wave di Los Angeles (gli Screamers e gli Avengers, tanto per citarne alcuni) e partorisce l’idea di un
nuovo e totalmente diverso lavoro. Ispirato dalla musica dei primi Devo e XTC, LeoNero si tuffa così in un progetto nuovo, in cui la scrittura musicale è solamente uno degli elementi in gioco. Compone gran parte delle canzoni su un antico pianoforte a coda che ha trovato nella sua camera da letto al famoso Trianon, un castello bianco con guglie e torri situato in una traversa di Hollywood Boulevard. Per cambiare pelle, però, ha bisogno di stimoli nuovi, così coinvolge un gruppo di musicisti di talento provenienti da diverse band locali, da lui stesso selezionati nei club di Hollywood e ribattezzati come Optical Band: il frutto di questa collaborazione fi-
Per registrare MONITOR, LeoNero vola a Los Angeles e assembla una band sul posto: Steve Hufsteter, Steve Sykes, Scott Lipsker e Charlie Quintana. Che diventano The Optical Band.
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