Musica Leggera #13

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storie di artisti, dischi e canzoni

#13 • dicembre 2010 • € 7,00

EUGENIO BENNATO

Dalla Nuova Compagnia a Taranta Power

I RIBELLI Natale Massara: Io, Celentano e Stratos C

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GIANNI NAZZARO Buddy e l'affare dei dischi da bancarella

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TRIO PARA GUAI Ci manda Paolo Conte

ANGELICA LUBIAN e la generazione Demo

Nada


Gianni Nazzaro: tra il 1966 e il 1969 ha registrato decine di dischi-cover con lo pseudonimo di Buddy.

S

e io ti dico KappaO e Buddy , tu cosa mi rispondi? Fratelli Esposito, Napoli! [ride, nda]

Come, quando e perché sei stato scritturato da questa etichetta? Per volere di Sandro Petti, forse. Era un architetto romano, che gestiva uno storico locale notturno a Ischia, Il Castello d’Aragona. Erano i miei primi passi in quest’ambiente, avevo il mio gruppo e… Buddy… mi chiamavo Buddy. Mi ero scelto questo soprannome e il mio gruppo si chiamava i Bohemiennes. Ci esibivamo tutte le sere in questo locale. Una sera Sandro Petti ospitò un paio dei fratelli Esposito (quelli che ti ho citato prima), che erano quattro in tutto: due erano lì con famiglia per passare una serata carina e sai com’è, da cosa nasce cosa, e fui invitato al loro tavolo. Discutemmo di un’eventuale mia partecipazione a questo loro progetto, che era quello della pirateria del disco, in pratica. Perché avevi scelto come pseudonimo Buddy? Mah, non saprei… forse me lo ha suggerito il pianista. Si chiamava Franco… Chi erano i musicisti che suonavano in quei dischi ? C’era il meglio dei turnisti dell’epoca: ricordo in particolare Emilio Desè, un batterista straordinario che lavorava anche nell’Auditorium quando c’erano i programmi televisivi del sabato sera, lui era il batterista fisso, un po’ come il Restuccia della RAI di qualche anno fa. All’Auditorium di Napoli ti ricordi qualche altro musicista/percussionista? Che so, te lo ricordi Pitone? No, Pitone non me lo ricordo. Mi ricordo Cappellotto…

A Napoli c’è un ragazzino di quattordici anni capace di imitare alla perfezione qualsiasi voce, da Gianni Morandi a Enzo Jannacci. Diventerà la punta di diamante di un'industria abile a trasformare un piccolo business in un affare da molti milioni. Ecco la storia di Buddy. Conversazione con Gianni Nazzaro | di Christian Calabrese

C’erano anche il padre e il fratello di Tullio De Piscopo, e la famiglia Cicco (Tony Cicco, Formula Tre)… Sì, sì… poi c’era Desiderio, che era un trombettista molto bravo… Insomma, c’era il meglio dei turnisti napoletani… Ti ricordi di qualcuno che nel tempo – come James Senese – avrebbe fatto parte di qualche gruppo? È molto, molto probabile che ci sia stato Elio D’Anna, che era uno dei componenti degli Showmen [poi Osanna, nda] e ha fatto qualche mia registrazione… Posso legarmi con una cosa che esce fuori dal tema: Pino Daniele, per esempio, prima della Tazzulella ’e cafè, che è stato poi il suo disco “rompi-ghiaccio”, si trovava nella sala di registrazione di

Claudio Mattone, che è stato il mio produttore esecutivo per quattro anni… In che periodo? Era il 1975. Mattone poi avrebbe avuto la Easy Records… La Easy, sì esattamente, già ce l’aveva, forse… Insomma, io mi trovavo lì e ci mancava una chitarra all’arrangiamento di questo brano, che poi tra l’altro divenne pure un discreto successo – il titolo era Me ne vado… Quindi siamo tra la fine del ’76 e l’inizio del ’77… Giusto. E quindi Claudio Mattone disse: «Madonna, una chitarra… servirebbe una bella chitarra… Pino, viene ’nu momento…». E Pino era proprio lui, il grande Pino Daniele, un artista che io ammiro moltissimo. E questo Pino si prestò senza nessun problema, e mi fece l’introduzione della chitarra. Non finisce qui, perché dopo c’era bisogno dei cori, e noi eravamo pochi per farli e non c’era ancora il sistema di sovrapposizione, per cui più eravamo e più si rendeva bene l’idea. Allora Claudio richiamò Pino e gli disse: «Vieni un po’ qua, facci ’sto coretto». E lui lo fece, col suo vocino… [ride, nda]. E quindi, come dire, io sento come un fatto gratificante l’avere avuto la chitarra e la voce di Pino Daniele in uno dei miei dischi… Me ne vado a me è sempre sembrata un po’ copiata da Io me ne andrei di Baglioni… Onestamente, dal punto di vista armonico, non mi pare. Insomma, Io me ne andrei è una grande canzone, Me ne vado invece è una canzoncina – sono il primo a dirlo. Era un divertissement, una cosa poco impegnativa, una canzone nata in un momento di crisi, di crisi mia privata, di separazione reale. E nello stesso tempo anche dell’autore, che era Mimmo Politanò: pure lui in quel momento si separava, pure lui soffriva le dannazioni della separazione. Insomma, ci riunimmo, ci scambiammo le idee sulla cosa e a lui venne spontaneo scrivere una canzone come Me ne vado, che parla della storia di una rottura… Io me ne andrei invece è al condizionale: me ne andrei!!! Torniamo alla KappaO. Come avvenivano i pagamenti? Siamo partiti con tremila lire a facciata, quindi siamo passati a seimila lire e abbiamo chiuso là. Stop. Non c’erano percentuali di nessun tipo. Siamo partiti quindi da tremila e siamo arrivati con gran successo a seimila a facciata, per cui dodicimila lire a disco.

Di cover ne hai incise tantissime: Nessuno mi può giudicare, È la pioggia che va, La rivoluzione, La fisarmonica, Lei, L’ora dell’amore, Pietre, Se perdo anche te. Chi sceglieva il repertorio? Questo faceva parte di un processo di sondaggi: i discografici “sondavano” (tra virgolette) quale era il successo del momento, quindi poteva succedere che c’era Morandi con Se perdo anche te e Little Tony con Cuore matto. Due successi da replicare, che dovevano immediatamente essere messi in macchina da me, dal “coverman”, dall’imitatore. Si sfruttava la scia del successo, quindi dell’originale. Poi il disco veniva venduto sulle bancarelle nei vicoletti di Napoli, a un terzo di quello che era il costo reale. Le canzoni le sceglievi tu o avevate un ordine del giorno? No, no, io non c’entravo. Ripeto, mi venivano commissionate dal discografico. Non ti pesava il fatto di dover fare il replicante? No, perché per me era un inizio di carriera. Io sapevo già che quello mi sarebbe servito come “gavetta”… Era un modo per uscire da casa e di portare anche dei soldi. Non dimentichiamoci che erano periodi abbastanza bui a livello economico. E io, essendo stato sempre educato in questo senso, cioè “vai a lavora’ e porta i soldi a casa”, lo facevo ben volentieri. Anche quello andava messo in conto. Poi io mi ci divertivo, a dirti la verità: l’istinto imitativo non mi mancava. Mio padre è stato un imitatore di suoni e rumori: imitava mitragliatori, macchine da corsa, sirene della polizia, cavalli da corsa e cose del genere. Io invece imitavo le voci ma – tra virgolette – non è che “imitavo”, mi accostavo all’originale…

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Gianni Nazzaro: tra il 1966 e il 1969 ha registrato decine di dischi-cover con lo pseudonimo di Buddy.

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e io ti dico KappaO e Buddy , tu cosa mi rispondi? Fratelli Esposito, Napoli! [ride, nda]

Come, quando e perché sei stato scritturato da questa etichetta? Per volere di Sandro Petti, forse. Era un architetto romano, che gestiva uno storico locale notturno a Ischia, Il Castello d’Aragona. Erano i miei primi passi in quest’ambiente, avevo il mio gruppo e… Buddy… mi chiamavo Buddy. Mi ero scelto questo soprannome e il mio gruppo si chiamava i Bohemiennes. Ci esibivamo tutte le sere in questo locale. Una sera Sandro Petti ospitò un paio dei fratelli Esposito (quelli che ti ho citato prima), che erano quattro in tutto: due erano lì con famiglia per passare una serata carina e sai com’è, da cosa nasce cosa, e fui invitato al loro tavolo. Discutemmo di un’eventuale mia partecipazione a questo loro progetto, che era quello della pirateria del disco, in pratica. Perché avevi scelto come pseudonimo Buddy? Mah, non saprei… forse me lo ha suggerito il pianista. Si chiamava Franco… Chi erano i musicisti che suonavano in quei dischi ? C’era il meglio dei turnisti dell’epoca: ricordo in particolare Emilio Desè, un batterista straordinario che lavorava anche nell’Auditorium quando c’erano i programmi televisivi del sabato sera, lui era il batterista fisso, un po’ come il Restuccia della RAI di qualche anno fa. All’Auditorium di Napoli ti ricordi qualche altro musicista/percussionista? Che so, te lo ricordi Pitone? No, Pitone non me lo ricordo. Mi ricordo Cappellotto…

A Napoli c’è un ragazzino di quattordici anni capace di imitare alla perfezione qualsiasi voce, da Gianni Morandi a Enzo Jannacci. Diventerà la punta di diamante di un'industria abile a trasformare un piccolo business in un affare da molti milioni. Ecco la storia di Buddy. Conversazione con Gianni Nazzaro | di Christian Calabrese

C’erano anche il padre e il fratello di Tullio De Piscopo, e la famiglia Cicco (Tony Cicco, Formula Tre)… Sì, sì… poi c’era Desiderio, che era un trombettista molto bravo… Insomma, c’era il meglio dei turnisti napoletani… Ti ricordi di qualcuno che nel tempo – come James Senese – avrebbe fatto parte di qualche gruppo? È molto, molto probabile che ci sia stato Elio D’Anna, che era uno dei componenti degli Showmen [poi Osanna, nda] e ha fatto qualche mia registrazione… Posso legarmi con una cosa che esce fuori dal tema: Pino Daniele, per esempio, prima della Tazzulella ’e cafè, che è stato poi il suo disco “rompi-ghiaccio”, si trovava nella sala di registrazione di

Claudio Mattone, che è stato il mio produttore esecutivo per quattro anni… In che periodo? Era il 1975. Mattone poi avrebbe avuto la Easy Records… La Easy, sì esattamente, già ce l’aveva, forse… Insomma, io mi trovavo lì e ci mancava una chitarra all’arrangiamento di questo brano, che poi tra l’altro divenne pure un discreto successo – il titolo era Me ne vado… Quindi siamo tra la fine del ’76 e l’inizio del ’77… Giusto. E quindi Claudio Mattone disse: «Madonna, una chitarra… servirebbe una bella chitarra… Pino, viene ’nu momento…». E Pino era proprio lui, il grande Pino Daniele, un artista che io ammiro moltissimo. E questo Pino si prestò senza nessun problema, e mi fece l’introduzione della chitarra. Non finisce qui, perché dopo c’era bisogno dei cori, e noi eravamo pochi per farli e non c’era ancora il sistema di sovrapposizione, per cui più eravamo e più si rendeva bene l’idea. Allora Claudio richiamò Pino e gli disse: «Vieni un po’ qua, facci ’sto coretto». E lui lo fece, col suo vocino… [ride, nda]. E quindi, come dire, io sento come un fatto gratificante l’avere avuto la chitarra e la voce di Pino Daniele in uno dei miei dischi… Me ne vado a me è sempre sembrata un po’ copiata da Io me ne andrei di Baglioni… Onestamente, dal punto di vista armonico, non mi pare. Insomma, Io me ne andrei è una grande canzone, Me ne vado invece è una canzoncina – sono il primo a dirlo. Era un divertissement, una cosa poco impegnativa, una canzone nata in un momento di crisi, di crisi mia privata, di separazione reale. E nello stesso tempo anche dell’autore, che era Mimmo Politanò: pure lui in quel momento si separava, pure lui soffriva le dannazioni della separazione. Insomma, ci riunimmo, ci scambiammo le idee sulla cosa e a lui venne spontaneo scrivere una canzone come Me ne vado, che parla della storia di una rottura… Io me ne andrei invece è al condizionale: me ne andrei!!! Torniamo alla KappaO. Come avvenivano i pagamenti? Siamo partiti con tremila lire a facciata, quindi siamo passati a seimila lire e abbiamo chiuso là. Stop. Non c’erano percentuali di nessun tipo. Siamo partiti quindi da tremila e siamo arrivati con gran successo a seimila a facciata, per cui dodicimila lire a disco.

Di cover ne hai incise tantissime: Nessuno mi può giudicare, È la pioggia che va, La rivoluzione, La fisarmonica, Lei, L’ora dell’amore, Pietre, Se perdo anche te. Chi sceglieva il repertorio? Questo faceva parte di un processo di sondaggi: i discografici “sondavano” (tra virgolette) quale era il successo del momento, quindi poteva succedere che c’era Morandi con Se perdo anche te e Little Tony con Cuore matto. Due successi da replicare, che dovevano immediatamente essere messi in macchina da me, dal “coverman”, dall’imitatore. Si sfruttava la scia del successo, quindi dell’originale. Poi il disco veniva venduto sulle bancarelle nei vicoletti di Napoli, a un terzo di quello che era il costo reale. Le canzoni le sceglievi tu o avevate un ordine del giorno? No, no, io non c’entravo. Ripeto, mi venivano commissionate dal discografico. Non ti pesava il fatto di dover fare il replicante? No, perché per me era un inizio di carriera. Io sapevo già che quello mi sarebbe servito come “gavetta”… Era un modo per uscire da casa e di portare anche dei soldi. Non dimentichiamoci che erano periodi abbastanza bui a livello economico. E io, essendo stato sempre educato in questo senso, cioè “vai a lavora’ e porta i soldi a casa”, lo facevo ben volentieri. Anche quello andava messo in conto. Poi io mi ci divertivo, a dirti la verità: l’istinto imitativo non mi mancava. Mio padre è stato un imitatore di suoni e rumori: imitava mitragliatori, macchine da corsa, sirene della polizia, cavalli da corsa e cose del genere. Io invece imitavo le voci ma – tra virgolette – non è che “imitavo”, mi accostavo all’originale…

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L E B E L R EBE

Cinquant’anni fa usciva il primo disco dei Ribelli, punto iniziale di un viaggio durato tutto il decennio dei Sessanta, dapprima al fianco di Adriano Celentano e poi di una fra le voci più straordinarie della scena musicale italiana, Demetrio Stratos. Un percorso in cui i viaggiatori cambiavano di continuo, per una delle formazioni più influenti e instabili del giovane rock italiano.

R

Conversazione con Natale Massara / di Luciano Ceri

Prove di un concerto di Adriano Celentano all’Olympia. Oltre al Molleggiato e a Natale Massara (al sax), si riconoscono Giorgio Benacchio e (seduto) Gino Santercole. Parigi, 1963.

L’esordio discografico dei Ribelli avviene nel 1960, in un quarantacinque giri Italdisc diviso a metà con Ricky Gianco. In quel periodo eravate già il gruppo che accompagnava Adriano nelle serate e nei dischi? Sì. Io personalmente ho cominciato con lui all’inizio del 1960. Adriano girava già con una specie di complesso, con Gianni Dall’Aglio, Gino Santercole e Mariano Detto, il quale a un certo punto era stato incaricato da Adriano stesso di creare un vero e proprio gruppo che potesse essere pronto nel momento in cui lui, che in quel momento stava facendo il militare, avrebbe potuto ricominciare a suonare in giro una volta finito il servizio di leva. Io, come tutti i ragazzi della mia generazione, al di là del fatto che avevo deciso di studiare la musica in maniera seria, come poi ho fatto, volevo crearmi una mia autonomia, ma i mezzi erano quelli che erano e allora entrai in un gruppo con cui riuscivo a suonare e anche a lavorare un po’ nelle varie balere, e qualche lira ce la davano. Era un gruppo legato a un cantante-pianista, Dany Selva. Contemporaneamente mi ero iscritto al Conservatorio a Milano, dove studiavo clarinetto. E come arrivasti a Celentano? Il bassista di Dany Selva, Giannino Zinzone, a un certo punto venne a sapere che Celentano stava cercando dei musicisti e così andammo insieme a fare

questa specie di provino da Mariano Detto, per il quale naturalmente il fatto che qualcuno conoscesse la musica era un elemento in più a favore dei singoli musicisti nel giudizio finale. In quel momento nel gruppo suonavo il sax alto, mentre Mariano cercava un sax tenore, e allora mi feci prestare da un amico un sax tenore e visto che la tecnica è la stessa ma cambia soltanto il modo di emettere il fiato e il tipo di bocchino, mi presentai ugualmente. Il provino andò bene, fummo presi tutti e due, io e Giannino. E così, con Dall’Aglio alla batteria, Mariano al pianoforte e Gino Santercole alla chitarra, nacque il primo nucleo dei Ribelli, quello che ha accompagnato ufficialmente Adriano nelle sue serate e il cui nome era stato scelto dallo stesso Celentano, ispirandosi alla canzone che aveva pubblicato l’anno prima, Il ribelle. Ma di quel primo disco non so molto, io arrivai subito dopo, solo che i Ribelli accompagnarono per un breve periodo in tournée Colin Hicks, un cantante inglese che ebbe un certo successo anche da noi, soprattutto negli spettacoli dal vivo. In quell’occasione si era unito a loro anche Ricky Gianco, e mi sembra di ricordare che oltre a Gianni e Gino gli altri due musicisti fossero Livio Pasolini al basso e Nando De Luca al pianoforte, al posto di Mariano Detto. Avete cominciato subito a suonare anche nei dischi? Sì, subito. Per quanto riguarda poi le serate dal vivo preparavamo il repertorio di Adriano e contemporaneamente anche un nostro repertorio, perché in attesa che lui si liberasse dal servizio militare andavamo a fare qualche serata per conto nostro, giusto per tirar giù qualche lira e per non rimanere fermi, e in quelle occasioni cantava Gino Santercole. Così ci trovammo in una strana situazione: da una parte eravamo coinvolti in un progetto di grande qualità e che a tutti piaceva moltissimo, però contemporaneamente non potevamo fare le serate con lui perché era ancora militare. A un certo punto cominciammo a prendere dei cantanti che cantassero al posto suo, mi ricordo di Clem Sacco e di una giovane cantante che si chiamava Mirella Rini e cantava un po’ come Mina. E il cartellone recitava così: I Ribelli di Adriano Celentano con Clem Sacco e Mirella Rini: facevamo sia i pezzi nostri che quelli di Adriano. In questo modo avevamo quattro soldi da portare a casa nell’attesa che lui tornasse con noi. Dicevi che cominciaste a fare dischi con Celentano quando lui faceva il militare. Ma quelle sedute di regi-

strazione le dirigeva già Mariano Detto o c’era ancora Giulio Libano? C’era ancora Libano, e in qualche occasione anche Ezio Leoni. Incidevamo in uno studio che stava in via San Martino, a Milano. Il vostro secondo 45 giri, Duecento all’ora/Enrico VIII, fu pubblicato nel 1961 dalla Celson. Che era comunque un’etichetta di Gürtler: ormai noi eravamo il gruppo ufficiale di Celentano, che incideva per lui con la Jolly e che aveva cominciato con un’altra delle sue etichette, la Music. Era un periodo in cui andava molto la musica strumentale, tipo Apache degli Shadows o Tequila dei Champs, tanto per fare un esempio, o ancora King Curtis, che ad esempio io ascoltavo perché ero un sassofonista come lui. Duane Eddy aveva in repertorio dei pezzi ai quali Duecento all’ora o La cavalcata – che insieme a Serenata a Vallechiara faceva parte del nostro quarto singolo – potevano in qualche modo riallacciarsi. Il terzo 45 giri, il primo su Clan, fu Alle nove al bar, che sul retro riprendeva un classico tradizionale del folklore anglosassone, più precisamente irlandese, Danny Boy. Quel pezzo risulta accreditato a te, in una curiosa dicitura, Natale Befanino e i Ribelli. Questa è una storia interessante. I chitarristi e i sassofonisti americani di allora erano formidabili, e lo sono ancora oggi, e quando li ascoltavo mi rendevo conto che quello era un modo di suonare completamente diverso, e la cosa mi piaceva molto. Una volta mi capitò di ascoltare una versione per sax di September Song fatta con una leggerezza molto elegante, con grande gusto, e siccome conoscevo bene Danny Boy mi venne in mente di farla proprio in quello stile, durante i nostri spettacoli, e piaceva, piaceva a tutti. E infatti Adriano, quando si riposava un attimo durante il suo spettacolo, magari per bere un bicchier d’acqua, ci diceva di fare Danny Boy. Finché una volta mi disse che sarebbe stato bello anche inciderla, oltre che suonarla dal vivo, però poi la cosa finì lì. Qualche tempo suonavamo dalle parti di Rimini e venne a sentirci Flavio Carraresi, che lavorava alla RCA come compositore e anche come produttore, e che alla fine della serata venne a propormi di incidere per la RCA proprio Danny Boy, che avevamo suonato anche quella sera. Mi chiese se ero libero contrattualmente, e io in effetti lo ero perché con il Clan non avevamo nessun contratto ufficiale e in esclusiva, però gli dissi che ero in parola con Adriano e che quindi

non potevo accettare la sua offerta. Poi raccontai questa cosa ad Adriano, il quale subito disse: «No, no, Danny Boy la incidete subito per il Clan!». A questo punto io e Mariano ci mettemmo a lavorare insieme sull’arrangiamento: io volevo utilizzare gli archi, e ad Adriano venne in mente di accreditare l’incisione a Natale Befanino, un soprannome scherzoso che lui mi aveva appioppato. Alla fine venne fuori una bella versione, devo dire anche suonata molto bene da me. Terminato il servizio di leva di Adriano e nato il Clan anche come etichetta, per voi il lavoro cominciò ad aumentare… Esatto, proprio così. Nel frattempo cambiava la formazione: fino al 1963, cioè fino al disco di Alle nove al bar, al basso c’è Giannino e c’è anche Gino Santercole alla chitarra e al canto. Poi, quando si trattò di incidere Danny Boy, Adriano ebbe un’idea: «Facciamo su un lato del disco Danny Boy suonato da Natale e sull’altro un pezzo strumentale di chitarra suonato da Gino». La cosa in realtà non si fece più, però è proprio da lì che nacque l’idea di staccare Gino dal gruppo e di farlo diventare un solista. Più tardi Adriano gli fece fare Stella d’argento, che era la cover di South Of The Border, uno standard americano degli anni Quaranta, rivisitato per l’occasione. Tra l’altro proprio in quei giorni Mariano aveva avuto problemi di salute e mi chiese di aiutarlo nell’arrangiamento e nella registrazione, e a me fece molto piacere avere quel tipo di opportunità, perché in realtà io già da allora avevo bene in mente che proprio quello volevo fare, cioè arrangiare i pezzi e dirigere l’orchestra – del resto già nel 1963 mi ero diplomato al Conservatorio, anche se poi continuai a studiare, sia pianoforte che composizione, fino al 1972. Così quella fu la tua prima seduta di registrazione da arrangiatore? La prima: registrammo alla Philips di piazza Cavour, nel Palazzo della Stampa, con il fonico Berlinghini. Era uno degli studi più attrezzati in quel periodo a Milano, Adriano ci registrò tantissimi dischi, a cominciare da Stai lontana da me. Nel frattempo Giannino era andato via e al basso entrò Giorgio Benacchio, che in realtà nasceva chitarrista e che poi quando Gino se ne andò riprese la chitarra, mentre per sei-sette mesi venne a suonare il basso con noi Gianfranco Lombardi, il futuro arrangiatore e direttore d’orchestra, che all’epoca seguiva un gruppo napoletano nel quale suonava suo fratello e che si chiamavano i Campanino, dal

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L E B E L R EBE

Cinquant’anni fa usciva il primo disco dei Ribelli, punto iniziale di un viaggio durato tutto il decennio dei Sessanta, dapprima al fianco di Adriano Celentano e poi di una fra le voci più straordinarie della scena musicale italiana, Demetrio Stratos. Un percorso in cui i viaggiatori cambiavano di continuo, per una delle formazioni più influenti e instabili del giovane rock italiano.

R

Conversazione con Natale Massara / di Luciano Ceri

Prove di un concerto di Adriano Celentano all’Olympia. Oltre al Molleggiato e a Natale Massara (al sax), si riconoscono Giorgio Benacchio e (seduto) Gino Santercole. Parigi, 1963.

L’esordio discografico dei Ribelli avviene nel 1960, in un quarantacinque giri Italdisc diviso a metà con Ricky Gianco. In quel periodo eravate già il gruppo che accompagnava Adriano nelle serate e nei dischi? Sì. Io personalmente ho cominciato con lui all’inizio del 1960. Adriano girava già con una specie di complesso, con Gianni Dall’Aglio, Gino Santercole e Mariano Detto, il quale a un certo punto era stato incaricato da Adriano stesso di creare un vero e proprio gruppo che potesse essere pronto nel momento in cui lui, che in quel momento stava facendo il militare, avrebbe potuto ricominciare a suonare in giro una volta finito il servizio di leva. Io, come tutti i ragazzi della mia generazione, al di là del fatto che avevo deciso di studiare la musica in maniera seria, come poi ho fatto, volevo crearmi una mia autonomia, ma i mezzi erano quelli che erano e allora entrai in un gruppo con cui riuscivo a suonare e anche a lavorare un po’ nelle varie balere, e qualche lira ce la davano. Era un gruppo legato a un cantante-pianista, Dany Selva. Contemporaneamente mi ero iscritto al Conservatorio a Milano, dove studiavo clarinetto. E come arrivasti a Celentano? Il bassista di Dany Selva, Giannino Zinzone, a un certo punto venne a sapere che Celentano stava cercando dei musicisti e così andammo insieme a fare

questa specie di provino da Mariano Detto, per il quale naturalmente il fatto che qualcuno conoscesse la musica era un elemento in più a favore dei singoli musicisti nel giudizio finale. In quel momento nel gruppo suonavo il sax alto, mentre Mariano cercava un sax tenore, e allora mi feci prestare da un amico un sax tenore e visto che la tecnica è la stessa ma cambia soltanto il modo di emettere il fiato e il tipo di bocchino, mi presentai ugualmente. Il provino andò bene, fummo presi tutti e due, io e Giannino. E così, con Dall’Aglio alla batteria, Mariano al pianoforte e Gino Santercole alla chitarra, nacque il primo nucleo dei Ribelli, quello che ha accompagnato ufficialmente Adriano nelle sue serate e il cui nome era stato scelto dallo stesso Celentano, ispirandosi alla canzone che aveva pubblicato l’anno prima, Il ribelle. Ma di quel primo disco non so molto, io arrivai subito dopo, solo che i Ribelli accompagnarono per un breve periodo in tournée Colin Hicks, un cantante inglese che ebbe un certo successo anche da noi, soprattutto negli spettacoli dal vivo. In quell’occasione si era unito a loro anche Ricky Gianco, e mi sembra di ricordare che oltre a Gianni e Gino gli altri due musicisti fossero Livio Pasolini al basso e Nando De Luca al pianoforte, al posto di Mariano Detto. Avete cominciato subito a suonare anche nei dischi? Sì, subito. Per quanto riguarda poi le serate dal vivo preparavamo il repertorio di Adriano e contemporaneamente anche un nostro repertorio, perché in attesa che lui si liberasse dal servizio militare andavamo a fare qualche serata per conto nostro, giusto per tirar giù qualche lira e per non rimanere fermi, e in quelle occasioni cantava Gino Santercole. Così ci trovammo in una strana situazione: da una parte eravamo coinvolti in un progetto di grande qualità e che a tutti piaceva moltissimo, però contemporaneamente non potevamo fare le serate con lui perché era ancora militare. A un certo punto cominciammo a prendere dei cantanti che cantassero al posto suo, mi ricordo di Clem Sacco e di una giovane cantante che si chiamava Mirella Rini e cantava un po’ come Mina. E il cartellone recitava così: I Ribelli di Adriano Celentano con Clem Sacco e Mirella Rini: facevamo sia i pezzi nostri che quelli di Adriano. In questo modo avevamo quattro soldi da portare a casa nell’attesa che lui tornasse con noi. Dicevi che cominciaste a fare dischi con Celentano quando lui faceva il militare. Ma quelle sedute di regi-

strazione le dirigeva già Mariano Detto o c’era ancora Giulio Libano? C’era ancora Libano, e in qualche occasione anche Ezio Leoni. Incidevamo in uno studio che stava in via San Martino, a Milano. Il vostro secondo 45 giri, Duecento all’ora/Enrico VIII, fu pubblicato nel 1961 dalla Celson. Che era comunque un’etichetta di Gürtler: ormai noi eravamo il gruppo ufficiale di Celentano, che incideva per lui con la Jolly e che aveva cominciato con un’altra delle sue etichette, la Music. Era un periodo in cui andava molto la musica strumentale, tipo Apache degli Shadows o Tequila dei Champs, tanto per fare un esempio, o ancora King Curtis, che ad esempio io ascoltavo perché ero un sassofonista come lui. Duane Eddy aveva in repertorio dei pezzi ai quali Duecento all’ora o La cavalcata – che insieme a Serenata a Vallechiara faceva parte del nostro quarto singolo – potevano in qualche modo riallacciarsi. Il terzo 45 giri, il primo su Clan, fu Alle nove al bar, che sul retro riprendeva un classico tradizionale del folklore anglosassone, più precisamente irlandese, Danny Boy. Quel pezzo risulta accreditato a te, in una curiosa dicitura, Natale Befanino e i Ribelli. Questa è una storia interessante. I chitarristi e i sassofonisti americani di allora erano formidabili, e lo sono ancora oggi, e quando li ascoltavo mi rendevo conto che quello era un modo di suonare completamente diverso, e la cosa mi piaceva molto. Una volta mi capitò di ascoltare una versione per sax di September Song fatta con una leggerezza molto elegante, con grande gusto, e siccome conoscevo bene Danny Boy mi venne in mente di farla proprio in quello stile, durante i nostri spettacoli, e piaceva, piaceva a tutti. E infatti Adriano, quando si riposava un attimo durante il suo spettacolo, magari per bere un bicchier d’acqua, ci diceva di fare Danny Boy. Finché una volta mi disse che sarebbe stato bello anche inciderla, oltre che suonarla dal vivo, però poi la cosa finì lì. Qualche tempo suonavamo dalle parti di Rimini e venne a sentirci Flavio Carraresi, che lavorava alla RCA come compositore e anche come produttore, e che alla fine della serata venne a propormi di incidere per la RCA proprio Danny Boy, che avevamo suonato anche quella sera. Mi chiese se ero libero contrattualmente, e io in effetti lo ero perché con il Clan non avevamo nessun contratto ufficiale e in esclusiva, però gli dissi che ero in parola con Adriano e che quindi

non potevo accettare la sua offerta. Poi raccontai questa cosa ad Adriano, il quale subito disse: «No, no, Danny Boy la incidete subito per il Clan!». A questo punto io e Mariano ci mettemmo a lavorare insieme sull’arrangiamento: io volevo utilizzare gli archi, e ad Adriano venne in mente di accreditare l’incisione a Natale Befanino, un soprannome scherzoso che lui mi aveva appioppato. Alla fine venne fuori una bella versione, devo dire anche suonata molto bene da me. Terminato il servizio di leva di Adriano e nato il Clan anche come etichetta, per voi il lavoro cominciò ad aumentare… Esatto, proprio così. Nel frattempo cambiava la formazione: fino al 1963, cioè fino al disco di Alle nove al bar, al basso c’è Giannino e c’è anche Gino Santercole alla chitarra e al canto. Poi, quando si trattò di incidere Danny Boy, Adriano ebbe un’idea: «Facciamo su un lato del disco Danny Boy suonato da Natale e sull’altro un pezzo strumentale di chitarra suonato da Gino». La cosa in realtà non si fece più, però è proprio da lì che nacque l’idea di staccare Gino dal gruppo e di farlo diventare un solista. Più tardi Adriano gli fece fare Stella d’argento, che era la cover di South Of The Border, uno standard americano degli anni Quaranta, rivisitato per l’occasione. Tra l’altro proprio in quei giorni Mariano aveva avuto problemi di salute e mi chiese di aiutarlo nell’arrangiamento e nella registrazione, e a me fece molto piacere avere quel tipo di opportunità, perché in realtà io già da allora avevo bene in mente che proprio quello volevo fare, cioè arrangiare i pezzi e dirigere l’orchestra – del resto già nel 1963 mi ero diplomato al Conservatorio, anche se poi continuai a studiare, sia pianoforte che composizione, fino al 1972. Così quella fu la tua prima seduta di registrazione da arrangiatore? La prima: registrammo alla Philips di piazza Cavour, nel Palazzo della Stampa, con il fonico Berlinghini. Era uno degli studi più attrezzati in quel periodo a Milano, Adriano ci registrò tantissimi dischi, a cominciare da Stai lontana da me. Nel frattempo Giannino era andato via e al basso entrò Giorgio Benacchio, che in realtà nasceva chitarrista e che poi quando Gino se ne andò riprese la chitarra, mentre per sei-sette mesi venne a suonare il basso con noi Gianfranco Lombardi, il futuro arrangiatore e direttore d’orchestra, che all’epoca seguiva un gruppo napoletano nel quale suonava suo fratello e che si chiamavano i Campanino, dal

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REMASTER Eugenio Bennato

LA VITA NOVA La storia del New Folk in Italia l’ha scritta lui: prima con i seminali dischi di “arte varia” della Nuova Compagnia di Canto Popolare, poi con le preveggenti contaminazioni rock del progetto Musicanova e adesso con la spiazzante sintesi stilistica del movimento Taranta Power. Il meno egocentrico dei fratelli Bennato racconta quarant’anni di battaglie musicali e in un libro ispirato ai mitici briganti del Sud si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Conversazione con Eugenio Bennato | di Francesco Donadio


REMASTER Eugenio Bennato

LA VITA NOVA La storia del New Folk in Italia l’ha scritta lui: prima con i seminali dischi di “arte varia” della Nuova Compagnia di Canto Popolare, poi con le preveggenti contaminazioni rock del progetto Musicanova e adesso con la spiazzante sintesi stilistica del movimento Taranta Power. Il meno egocentrico dei fratelli Bennato racconta quarant’anni di battaglie musicali e in un libro ispirato ai mitici briganti del Sud si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Conversazione con Eugenio Bennato | di Francesco Donadio


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