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MASTER TAPE Baustelle
TRE CATTIVI SNOB DI CAMPAGNA Cinque dischi in 10 anni: l’ultimo s’intitola I MISTICI DELL’OCCIDENTE, terzo capitolo di un trittico ascensionale di “spietata” critica nei confronti della nostra società. Archetipi pop, citazioni letterarie, musicali e cinematografiche ad alta fedeltà, chitarre in primo piano abbinate a un uso massimalista dell’orchestra. Un modernariato d’autore per “decostruire e ricostruire in forma nuova, distruggere la storia e ricostruirla da capo serbandone il ricordo”. Conversazione con Francesco Bianconi dei Baustelle | di Timisoara Pinto Povera patria, diceva Battiato, dopo tre dischi la situazione non è migliorata. La cura è diventare mistici? Nelle canzoni si dicono, più o meno, sempre le stesse cose. Già nel CD LA MALAVITA si parlava di male di vivere, sia personale che sociale. Schulz, l’autore dei Peanuts, diceva che uno racconta sempre la stessa storia in maniera diversa. Diciamo che io scrivo senza pensare a quanto è peggiorata la società dal disco precedente, so solo che certe cose continuano a non piacermi. Di sicuro, non riesco a non parlare di cose che m’indignano e che mi fanno soffrire. È più difficile scrivere canzoni sulla gioia assoluta. Come rimedio, cerchiamo di non credere a tutto quello che questo sistema di valori vuol farci credere. Si può essere mistici disprezzando la realtà, nel senso di cominciare a darle il giusto peso, a non credere ai prezzi in vetrina. Jacopone da Todi diceva che il suo disprezzare la realtà era non darle prezzo perché l’uomo alla fine polvere ritornerà… A me sembrava molto moderno e ho provato a farne una versione aggiornata. Nei mistici non c’è passività o rassegnazione, c’è la reazione positiva a un mondo ingiusto, c’è l’invito a vedere la realtà con ottica diversa. Essere mistico è un atto di coraggio, è una vittoria, non un fallimento. Il titolo I MISTICI DELL’OCCIDENTE l’ho preso da un’opera di Elémire Zolla, un doppio tomo dell’Adelphi trovato per caso nella libreria esoterica sotto casa a Milano: mi ha subito incuriosito e ho pensato che poteva essere un bellissimo titolo per un disco, di Battiato per esempio… Tra l’altro, leggendo le note di copertina, ho scoperto che Zolla ha vissuto ed è sepolto nella mia città, Montepulciano. Non siamo partiti da Battiato per caso. La ragione di tanta sintonia? Sono nato nel ’73 e cresciuto negli anni 80, mi facevano schifo tutte le cose a me contemporanee. L’unica cosa che salvavo, e avevo l’originale in cassetta, era LA VOCE DEL PADRONE. Cosa che mi si è impressa indelebilmente. Crescendo, ti sei ricreduto sugli anni 80? 6
Su alcune cose sì, perché a me non piacevano le tastiere, le batterie elettroniche e i synth che stavano esplodendo in quegli anni. I Depeche Mode, ad esempio, non li sopportavo, poi ho capito che sono un grandissimo gruppo. Mi piacevano le cose straniere che suonavano anni 60 come i Rem e gli Smiths e gli arrangiamenti degli anni 70. Lucio Dalla, ad esempio, è un altro amore folle. Di Dalla non si parla mai, eppure COM’È PROFONDO IL MARE e il successivo, insomma i primi due dischi in cui Dalla ha cominciato a scrivere i testi, per me sono una cosa eterna, bellissima. Strano, ma paradossalmente ho dovuto aspettare un americano, il produttore Pat McCarthy, per ottenere sul mio disco un suono RCA anni 70. Nel brano che dà il titolo all’album aleggia Fabrizio De André. È un omaggio? Per la prima volta i Baustelle utilizzano la forma della ballata popolare. Infatti, il brano, dal punto di vista armonico ha una struttura folk. Se a questo aggiungi che il mio timbro vocale è simile al suo, ecco che sembra un pezzo alla De André. Tuttavia, sul piano musicale, I mistici dell’occidente è un pezzo fatto di tre momenti diversi, difficili da legare insieme: parte come una ballata alla De André, poi diventa più rock alla Flaming Lips, infine una coda strumentale free-jazz – quando ascoltavo il provino lo chiamavo Flaming De André. È il lavoro finale di cucito e arrangiamento che plasma il tutto in un oggetto unico. Il brano Gli spietati ricorda, invece, un noto riff d’epoca beat. È uno standard, un canone degli anni 60 che puoi trovare in Come potete giudicar, in Ragazzo triste, in Sonny & Cher o in Bob Lind. Gli spietati è una canzone folk-beat e per questo abbiamo provato a giocare con quelle quattro note. È difficile pensare che certi lavori di sartoria siano apprezzati dalle radio commerciali. Cosa fa dei Baustelle un gruppo sofisticato e al tempo stesso di “facile ascolto”?
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L’entusiasmo, la voglia di trovare cose nuove pur restando sempre nell’ambito della formacanzone. E la canzone pop è di per sé un ottimo contenitore per sperimentare. Il che non significa suonare le corde del pianoforte con lo spazzolino da denti. Forse siamo percepiti
come “freschi” e “indie”, anche se non mi piace la parola, perché cerchiamo di inserire all’interno di una forma ben definita da codici precisi, piccoli meccanismi che spingono alla rottura dei codici stessi. Credo che in questo disco abbiamo osato abbastanza. Sul sistema delle radio, c’è da dire che gran parte delle re-
gole che loro applicano per la musica leggera italiana poi non vale per gli stranieri. Qualsiasi radio passerebbe il nuovo singolo dei Rem, dei Radiohead, dei Gorillaz, ma persino di un artista minore purché anglo-americano, anche se fosse registrato o mixato in maniera sperimentale. Non so perché si sia formato questo canone radiofonico italiano, so soltanto che
I Baustelle. Da sinistra, Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini.
«Non so perché si sia formato questo canone radiofonico italiano, so soltanto che siamo ancora in tempo a modificarlo. Tutte le cose si cambiano, come quando si forma un gusto. E il gusto si forma per piccole abitudini, per piccole somme di pigrizie, come prendere una piccola dose di veleno giorno dopo giorno» 7
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C
he scusa hai fornito a tua madre per il fatto di trovarti in un certo giorno del 1959 a Torino, nel tinello, probabilmente marrone, di un appartamento a cantare sulla base di Ciao ti dirò per quello che sarebbe stato il tuo primo 45 giri? Nessuna, e nessuno avrebbe potuto immaginare che mi sarei trovato in un tinello per incidere il mio primo disco, tantomeno io. Lei sapeva che andavo a Torino a fare il disco e io pensavo che sarei andato in un vero studio di registrazione, di quelli che vedevo nelle riviste americane che compravo allora, tipo «Song Hits»: studi bellissimi dove registrava gente come Gene Vincent o Little Richard. Invece capitai in un appartamento, nel tinello, dove il microfono era appeso al gancio del lampadario, mentre il magnetofono, cioè il registratore, era in cucina. Non avevo cuffie, ascoltavo la base grazie a due piccoli altoparlanti dai quali si sentiva poco e male. Su una pista c’era la base (e non ho mai saputo chi e dove l’avesse registrata), sull’altra avrei inciso la mia voce. Il nastro era un quarto di pollice Ampex.
«Mi ricordo uno spettacolo con Mike a Cividale del Friuli, e la mattina dopo mi riconoscevano per strada e mi dicevano: “Ricky, vien, vien che se femo un tajut”, vale a dire un bicchiere di vino bianco, ma alle dieci di mattina, e io che ero solo un ragazzino non sapevo dir di no, per cui arrivavo a mezzogiorno mezzo ciucco»
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Era uno studio della Fonit Cetra, visto che la etichetta con cui uscì il tuo primo 45 giri, la Excelsius, era un marchio minore di quel gruppo? Era una specie di piccolo studio dove facevano delle cose semi-improvvisate, come dei provini, niente di importante. La Cetra aveva lo studio di registrazione a Milano,
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REMASTER RICKY GIANCO
LA FORZA DI UNA CANZONE Mezzo secolo di carriera festeggiato da poco, un disco nuovo in promozione e mille storie da raccontare. Perché lui le ha viste davvero tutte, dalla nascita dei cantautori alle molotov degli autonomi, passando per le liti con Celentano e le accuse di plagio. Storia di un musicista più grande della sua fama. Conversazione con Ricky Gianco | di Luciano Ceri ma evidentemente pensavano che fosse inutile usarlo per un giovane imberbe come ero io allora: avevo solo 15 anni.
e diede l’acetato al marito (che era il direttore alle vendite della Cetra, a Milano). E lui, dopo un certo periodo di tempo, mi chiamò e mi disse che avrei fatto un disco. Tutto sulla paChi ti aveva portato a Torino? rola, senza contratto, senza niente, ma del Le cose sono andate così. C’era un’amica di mia madre, la signora Migliavacca, che mi vo- resto nessuno ci pensava, lo consideravamo tutti una specie di gioco. Una volta fatto il leva molto bene, e siccome sin da quando primo disco – con la mia versione di Ciao ti avevo sette-otto anni io già cantavo in famiglia, ogni volta lei diceva: «Questo bambino ha dirò e sul retro Bye Bye Love degli Everly Brothers – qualcuno, e non ricordo chi, lo fece aruna bella voce, ha una voce particolare, bisorivare a Mike Bongiorno, che dopo avermi gna farlo studiare…». Quando arrivava l’estate, andavamo in vacanza a Varazze, che è incontrato mi fece fare due caroselli insieme a lui, per la Oreal: in uno parlavo soltanto, menun posto di mare in Liguria allora molto noto tre nel secondo cantavo una delle due canzoni e anche molto popolare (non lussuoso come Portofino, tanto per capirci), e nel 1954 al Kur- del disco. Poi Mike mi portò con sé anche nei saal Margherita, uno stabilimento balneare, si suoi spettacoli: faceva delle vere e proprie tournée, era una star già all’epoca, presentava teneva una gara di canto per dilettanti. Allora la signora Migliavacca, che andava anche lei in dei numeri artistici, mi sembra che ci fosse anche qualche concorrente di Lascia o radvacanza a Varazze, cominciò a dire: «Bisogna doppia?, e a un certo punto uscivo io con la iscrivere Riccardo a questa gara, perché è mia chitarra e facevo le due canzoni del disco troppo bravo, non bisogna perdere quest’ocpiù qualche altro pezzo. Subito dopo, nelcasione…». E così mia madre mi iscrisse: l’estate del 1959, avevo sedici anni e andavo avevo undici anni e mezzo, portavo i pantaancora a scuola, feci un provino e girai per loncini corti. Il pomeriggio feci una mezza l’Italia per due mesi con una compagnia di prova con l’orchestra, che era quella di Marino Barreto, famoso per aver lanciato Arrive- avanspettacolo. I miei mi lasciarono andare, derci di Umberto Bindi. Dopo la prova tornai a ancora oggi non so come, ma di sicuro giocò a mio favore il responso scolastico: “promosso” casa per cambiarmi e cominciai a piangere, – e non succedeva tutti gli anni. Comunque è non volevo più cantare, forse per paura del pubblico, ma la signora Migliavacca mi conso- stata un’esperienza indimenticabile, una fantalava, mi stava vicino, mi incoraggiava. Così alla stica gavetta. Con quale compagnia giravi? fine sono salito sul palco e ho cantato, vincendo il primo premio. Dopo qualche anno la Con la compagnia di Lola Gracy e Mimmo mia talent-scout mi fece fare una registrazione Giusti: lei era la soubrette e lui il capocomico.
Il pubblico veniva soprattutto per guardare le cosce delle ballerine. Poi uscivo io, con la mia chitarrina, appoggiavo un piede sulla sedia e cominciavo a cantare: Ciao ti dirò, Malagueña, A Woman In Love, quella che cantava Marlon Brando nel film Bulli e pupe. E avevo successo, per cui ho continuato: avevo vinto la paura del pubblico – anzi, ora cominciava a piacermi. Mi ricordo uno spettacolo con Mike a Cividale del Friuli, e la mattina dopo mi riconoscevano per strada e mi dicevano: «Ricky, vien, vien che se femo un tajut», vale a dire un bicchiere di vino bianco, ma alle dieci di mattina, e io che ero solo un ragazzino non sapevo dir di no, per cui arrivavo a mezzogiorno mezzo ciucco. Ma alla Cetra non ti seguiva nessuno, non avevi un produttore, un musicista che ti stava dietro? Per il primo disco proprio nessuno, mentre per il secondo e il terzo c’era già Gian Franco Reverberi, anche se non mi ricordo assolutamente come entrai in contatto con lui. Avevo registrato La notte e Senza parole, due sue composizioni. E poi Precipito e Twenty Flight Rock di Eddie Cochran (che avevo scelto io): li facemmo in due sedute diverse, in uno studio della Durium e nello studio della Cetra a Milano. Poi sono passato alla Ricordi. Come nacque il 45 giri della Italdisc, quello con un lato tuo, La camicia blu, e l’altro dei Ribelli, Ribelli in blues? Nell’estate del ’60 i Ribelli suonavano come gruppo di accompagnamento di Colin Hicks, 13
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SEGRETI E BUGIE A 43 anni di distanza, la tragica scomparsa di Luigi Tenco resta la pagina più brutta e ambigua dell’intera storia della nostra canzone. Benché nel 2006 una sentenza abbia definitivamente chiuso la questione sul fronte giudiziario, archiviando il caso-Tenco come “suicidio”, molti dubbi persistono ancora e molte domande non hanno trovato risposta. Le controverse dichiarazioni rilasciate a «Musica Leggera» da Nicola Di Bari (vedi pag. 25) hanno sollevato violente polemiche e riacceso per l’ennesima volta il dibattito, costringendoci a una riflessione più approfondita. Le pagine che seguono sono dunque il frutto di un frenetico lavoro di ricerca e raccolta di testimonianze, teso a ricostruire nella maniera più aperta e obiettiva possibile lo scenario di quella notte fra il 26 e il 27 gennaio 1967, ma soprattutto a tracciare un profilo umano e psicologico di quello che è stato uno dei nostri artisti più amati. Troverete Tenco raccontato da chi lavorava a stretto contatto con lui, da chi lo frequentava in qualità di amico o conoscente, da chi ne ha analizzato professionalmente la inspiegabile fine dalla misteriosa donna che sostiene di averlo amato segretamente per anni e che preferisce nascondersi dietro un nome fittizio e infine dall’attrice con cui Luigi interpretò il suo unico film. Queste ultime due testimonianze sono tuttavia a nostro giudizio in larga parte inattendibili, ma proprio per questa ragione meritano la pubblicazione e ci sembrano oltremodo rivelatrici. Perché? Provate a leggerle una dietro l’altra, e poi a incrociarle e magari a sovrapporle. A cura di Maurizio Becker. Con la collaborazione di Aldo Fegatelli Colonna, Franco Grattarola, Michele Neri, Timisoara Pinto, Franco Settimo. 22
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Il mondo è grigio... Il punto di partenza del nostro viaggio nel mistero della morte di Luigi Tenco non può che essere lui: nello scorso numero di «Musica Leggera» Nicola Di Bari aveva aggiunto alla vicenda particolari inediti e per molti versi sorprendenti. Prevedibilmente, ne è scaturita una polemica. Forse disorientato da tanto clamore, il cantante ha bruscamente faccio retromarcia. Non ci credete? Intervista a Nicola Di Bari | di Timisoara Pinto
Secondo alcuni, le tue dichiarazioni sulla vicenda Tenco non quadrano. Allora lo sanno loro come sono andati i fatti. E tu che altro sai? Che dopo 43 anni è meglio chiudere qui questa storia, non voglio più parlare di Luigi, forse è ora di lasciarlo riposare in pace. Ma tu hai ricostruito nei dettagli tutti i tuoi movimenti in seguito allo sparo. Quella notte ero molto confuso, afflitto, addolorato, qualche cosa posso anche ricordarla male, oltretutto la mia situazione in quelle ore era un po’ sfasciante… Che vuoi dire? Certamente non ero sereno, tant’è vero che sono scappato a Milano. La cosa mi ha sconvolto talmente tanto che evidentemente non ricordo bene tutti i miei movimenti. Quelli che erano con me mi hanno detto che ho fatto un po’ di confusione. Questo non cambia la storia però. Hai avuto modo in questi giorni di ripensare a quella tragica notte e di ricordarti qualcosa di più preciso? Le persone che erano con me mi hanno detto che fu qualcuno a chiamarmi per dirmi quello che era successo. Invece io me la ricordavo in un’altra maniera la faccenda, dopo tanti anni chi è che si ricorda bene tutto? Per la situazione in cui ero messo io, poi, è veramente difficile mantenere la lucidità. Quindi ti sei consultato con delle persone che erano con te a Sanremo… Tua moglie?
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No, mia moglie non c’era. Il tuo accompagnatore al Festival era Giampiero Simontacchi, il tuo ufficio stampa, ma purtroppo è scomparso un anno e mezzo fa. Non c’era solo Simontacchi. E chi allora, gli autori della tua canzone? Lascia stare i nomi, se no faccio altra confusione. Ero annebbiato, chiedo scusa e non voglio più saperne. Se c’è qualche inesattezza non è colpa mia, evidentemente la mia mente l’ha vissuta in maniera distorta la storia. Posso capire che non ti ricordi il numero della camera, ma il fatto che hai chiamato la reception e che all’inizio hanno opposto resistenza, come fai ad averlo confuso? Furono loro a chiamare me, così mi hanno detto. E chi te l’ha detto? Chi me l’ha detto me l’ha detto, lascia stare. Un’ultima cosa: come mai quelli della reception non hanno fatto il tuo nome a chi ha condotto le indagini? Non credo neanche che fossi lì a dormire! Sì, questo lo abbiamo verificato… Forse ero in un altro posto. Mi chiamarono e mi dissero che un mio compagno si era suicidato. La sequenza non me la ricordo più, al punto da far confusione persino su quale fosse il mio albergo.
E dopo la telefonata sei andato al Savoy a vedere cos’era successo? Lasciamo andare quello che ho fatto, non c’entra niente. L’ultima cosa che ricordo bene è quando ho lasciato Luigi e gli ho detto vado in albergo, ti vedrò e domani ti racconto come sei venuto. Non mi ricordo se prima sono passato al Savoy e dopo sono andato in albergo, non mi ricordo niente. Scusa se insisto, ma c’è stato un botto, il botto che tu hai sentito, che proveniva da una stanza molto vicina alla tua. Perché probabilmente la mia mente l’ha vissuta così la cosa. Io non ho ammazzato nessuno né cambierò la storia, quello che è accaduto è accaduto.
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...il mondo è blu Ma cosa aveva detto, esattamente, Nicola Di Bari? Estratto da: Lo sbranato dalla voce di sabbia di Timisoara Pinto (in «Musica Leggera» # 10, aprile 2010) Ma a me interessa moltissimo avere un tuo ricordo di Tenco… Se vuoi sentire una storia che nessuno conosce posso raccontarti di quella sera. La sera della sua morte? Esatto. Al Festival c’ero anch’io e sono stato al bar con Luigi fino all’ultimo momento prima che cominciasse la diretta televisiva. Abbiamo bevuto due whisky, poi gli ho detto: «Vado in albergo a vederti e domani ti racconto», perché io cantavo il giorno dopo. E lui che ti ha detto? «Ma no maestro, resta qui». Lui mi chiamava così, ma il maestro per me era lui. E sono andato via.
Non mi dire che pure tu alloggiavi al Savoy? Certo, come tutti. Addirittura in stanze vicine, se la camera di Luigi era la 219, la mia sarà stata la 221. E allora tu eri già in albergo quando c’è stato lo sparo… Sì, ho sentito un botto e ho pensato a un comò finito per terra. Ho chiamato subito la reception per chiedere di venire a controllare cosa fosse accaduto. La prima risposta fu che in quel momento in tutto l’albergo c’ero solo io, poi, quando ho insistito dicendo che non potevo essermi sbagliato, mi hanno detto che era arrivato anche un mio collega, che però non voleva essere disturbato. E tu? Ho chiesto chi fosse e quando mi hanno detto che era Luigi, ho tentato di convincerli a salire, perché i rumori sembravano provenire proprio dalla sua stanza e, oltretutto, io lo conoscevo molto bene. Insomma, se non fossero arrivati col passe-partout, la porta l’avrei buttata giù io da solo. Alla fine hanno aperto. Chi altro c’era con te quando avete aperto? C’erano quelli dell’hotel e basta. Quindi tu sei stato il primo a vedere Tenco? Il primo in assoluto. Hai chiamato tu gli altri?
Chiamato chi? Ho preso la macchina e sono tornato a Milano. Immediatamente. La notte stessa? Lì per lì! Ho fatto le valigie e sono andato via. E non ti hanno interrogato? Non c’ero, io sono andato via, in televisione ci sono andati quelli che non c’entravano nulla. Erano tutti lì a piangere davanti alle telecamere, ma nessuno sapeva niente di Luigi. [...] Ma non c’era pure Dalla quella sera? Lucio non era amico di Luigi. Sì, è un artista meraviglioso, faceva parte della stessa compagnia discografica, ma nient’altro. Ripeto, Luigi aveva un amico e mezzo. Forse i fratelli Reverberi. La mia è una risposta che non lascia dubbi. Luigi era quello che ti sto raccontando io. Per parlare di lui bisognava essere suo amico. [...] Tornando a quella notte, quando sei entrato cosa hai visto? Sono scappato… Ma ti sei fatto un’idea di quello che era successo? Eh, santo Iddio! Ma non voglio pensarci, non riesco a parlarne, mi mette troppa tristezza addosso. Chi era il tuo discografico? Con chi eri andato a Sanremo? Quello fu l’ultimo Sanremo con la Saar, mi accompagnava il capo ufficio stampa Giampiero Simontacchi. E come mai poi la sera seguente hai cantato? Mi chiesero una penale così alta che fui costretto a tornare. Per me il Festival non si doveva più fare, ma ero rimasto l’unico stupido a contestare Sanremo. Infatti quella sera cantai malissimo. Fatto il pezzo, me ne tornai a Milano, senza nemmeno attendere i risultati.
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Lorenzo Hengeller, fotografato da Lucia Dovere.
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Il giovanotto matto è diventato maggiorenne e in Canzoniere minimo leggero fa incontrare il Petrarca, Giorgio Gaber e Virgilio Savona. Alla scoperta di un giovane pianista napoletano che ha ereditato lo spirito di Renato Carosone e l’atteggiamento di Lelio Luttazzi. Conversazione con Lorenzo Hengeller | di Valentina Farinaccio Il tuo terzo CD hai voluto chiamarlo CANZONIERE MINIMO LEGGERO: dal momento che insegni lettere in una scuola superiore, c’entra qualcosa il Petrarca? Quando Petrarca scrisse il Canzoniere lo fece con intento giocoso e l’idea per me è esattamente questa: dire alle persone «Guarda che questa cosa è uno scherzo, stiamo giocando!». Tuttavia non c’è solo Petrarca dietro questo titolo: volevo in primo luogo rendere omaggio a Gaber, che faceva un programma che s’intitolava proprio Canzoniere minimo. E con lui, indirettamente, volevo rendere omaggio a Virgilio Savona, che scrisse Sexus et politica, in cui Gaber cantava testi di autori latini. Un disco molto bello che non ebbe successo.
Sì, ho ripreso Musetto di Modugno, ma nella versione dei Cetra (quella del numero di telefono), e poi una canzone di Lelio Luttazzi che ho recuperato grazie a sua figlia: lui la eseguì esclusivamente a Studio Uno, senza mai inciderla. È bellissima, s’intitola Nostalgia per la musica. Di cosa parla? Di Luttazzi stesso che è costretto a fare il presentatore di Studio Uno, mentre vorrebbe soltanto suonare. Da qui la sua nostalgia per la musica. Il testo inizia proprio raccontando di lui che si veste e si trucca da conduttore.
Effettivamente quando si pensa a Savona si pensa automaticamente al Quartetto Cetra. E invece lui ha avuto un’attività parallela di grande rilievo, interessantissima. Mi piaceva l’idea di omaggiarlo insieme a Gaber e di farlo semplicemente raccontando storie di personaggi, cose che ho visto, vissuto, senza nessuna pretesa di lanciare messaggi etici.
Si sceglie, solitamente, di reinterpretare un brano piuttosto che un altro perché in qualche modo ci si riconosce. È il tuo caso? Sì. Io sono un musicista, ma con la musica ancora non ci campo e, mentre insegno, mi trovo spesso a pensare a quell’accordo, al fatto che vorrei suona re e che vorrei farlo sempre. Ho addirittura cambiato un po’ il testo di Luttazzi per riportarlo alla mia dimensione, alla mia nostalgia per la musica, quella che mi viene quando sono in classe e quando mi vesto e mi trucco da professore.
Rispetto al tuo precedente lavoro, IL GIOVANOTTO MATTO, ci sono meno cover, soltanto due…
Nel disco nuovo c’è anche un duetto con Stefano Bollani, bravissimo e celebre pianista: la cosa inedita – e
forse caso unico nella sua carriera – è che sei tu ad accompagnare al piano lui che canta. Il pezzo l’abbiamo registrato il 2 dicembre scorso, in pigiama, nella cameretta di Frida, la figlia di Stefano. È stato incredibilmente bello, perché ci tenevo davvero al fatto che cantasse nel mio disco. Gli piace quello che faccio, ama la musica del passato, quella a cui io mi ispiro e che amo. E poi, c’è una cosa che rende Bollani il musicista speciale che è: la sua incredibile intelligenza. A lui non importa l’idea che hanno molti jazzisti di dimostrare, lui è assolutamente divertente e divertito da quello che fa. E questo è lo stesso approccio di artisti che stavano avanti già anni e anni fa. Chi sono questi artisti? Gorni Kramer, per esempio, che non aveva il piglio di andare in tv per far vedere quanto conoscesse Gershwin. E, come lui, tutti quelli che nel suonare le cosiddette nonsense songs non facevano capire quanto erano bravi, ma lo erano davvero moltissimo. Che musica ascoltavi da bambino? Ero lontano dalla musica e dal pianoforte. Ero un bambino strano… Che vuol dire strano? Strano è un aggettivo che mi insegue da sempre. Mia madre me lo diceva, mia
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