Musica Leggera #14

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storie di artisti, dischi e canzoni

#14 • febbraio marzo 2011 • € 7,00

MATIA BAZAR Tutta la storia, dai Jet a oggi

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MARIO BIONDI A mio padre MARIO MARIANI Biomusica in trance

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JULA DE PALMA Il concerto al Sistina

Pino Daniele


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UN ALTRO

GIRO DI GIOSTRA Le ULTIme ReGISTRAzIONI DI SUO pADRe Le ReGAlaNO UN vIAGGIO STRUGGeNTe NeLla SUA INfANzIA, qUANDO eSSeRe la fIGLIA DI UN mITO DeL JAzz eRA ANcORA UN GIOcO. CONVERSAZIONE CON MONICA SHAKA | DI MAURIZIO BECKER La chiave più giusta per entrare in questo tuo primo CD mi sembra l’ultima traccia, una vecchia registrazione amatoriale di Lush Life… Sì, una delle tante registrazioni fatte a casa da Tony con mia sorella Nina e me, quando io avevo 8 anni. Tony a casa suonava ogni giorno. Quindi per noi quella Lush Life non fu una cosa diversa dal solito. Lui registrava sempre. Tuo padre, il jazzista Tony Scott, è scomparso quattro anni fa, nel 2007. È automatico pensare a questo lavoro come a un omaggio a lui. Più che un omaggio, è una cosa personale, una cosa che ho avuto bisogno di fare per far uscire una parte di me. Con queste canzoni io sono cresciuta e a un certo punto non ho potuto evitare di affrontarle. Farlo era la cosa più importante per me. E per questo motivo non è un disco molto commerciale, non ho cercato produttori, ho messo i pezzi che volevo mettere. E basta. Quando è iniziato il tuo viaggio nella musica con tuo padre? Tony è arrivato a Roma nel 1970, e quell’anno io sono nata, a dicembre. Lui ha cominciato a fare musica prima con Nina, che è più grande di me. Poi, quando io avevo quattro anni, ha visto che ci prendevo, che ero portata. E dove hai avuto le tue prime esperienze?

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Le ho fatte a New York, all’inizio dei miei vent’anni. Però facevo delle robe non jazz, stavo in un gruppo e cantavo dei cover di musica soul nei locali. Poi sono andata a Tokyo e ci ho vissuto cinque anni, e lì ho cominciato a suonare jazz, prima con un pianista americano e poi con un quartetto, a farmi un repertorio jazz e finalmente ad affrontare questa strada che avevo sempre un po’ evitato, perché mi sembrava troppo importante, troppo impegnativa per me. Ti spaventava il fatto di essere la figlia di una leggenda del jazz? Questa è una cosa che ho capito veramente forse solo negli anni più adulti. All’inizio sai solo che quello è tuo padre e pensi che sia tutto normale. Certo, andavo in giro con lui ai concerti, vedevo che la gente lo trattava in una certa maniera, ma tutto sommato stiamo parlando di jazz: Tony non era una popstar. Per me era un padre, più che un mito del jazz. Più avanti, quando ormai ero una teenager e ho cominciato ad ascoltare con più attenzione le sue storie, a memorizzare certi nomi, solo allora ho capito chi era veramente, e che aveva davvero suonato con tutti i grandi. E che impressione ti fece questa consapevolezza? In realtà io e mia sorella ci siamo abi-


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tuate abbastanza presto a convivere con tutti questi nomi. Mia sorella, in particolare, ha avuto addirittura modo di conoscere di persona Ben Webster, Dizzy Gillespie e tanti altri che io invece, essendo più piccola, ho solo sentito nominare. Pur essendo un grande, Tony forse ha raccolto meno di altri suoi colleghi. Hai mai avvertito del rimpianto in lui per questo motivo? Rimpianto? Vuoi dire complain? No. Perché lui diceva sempre che nella sua vita aveva fatto quello che voleva fare. L’unico rimpianto che gli ho mai sentito esprimere era quello relativo alla storia di Day-O. Alludi all’arrangiamento della famosa Banana Boat di Harry Belafonte, che tuo padre scrisse ma non poté firmare… Sì, esatto. È una storia molto complicata che solo di recente mi è stata spiegata nei dettagli da Fran, la prima moglie di Tony, di cui sono diventata molto amica. Lei sa tutto, perché era molto amica, e ancora lo è, di Harry Belafonte e di sua moglie Julie. Quindi lei stava là e finalmente mi ha chiarito questa storia: in pratica, era successo che Tony si era fatto un po’ imbrogliare. E questa storia lui non l’ha mai digerita, perché se avesse firmato l’arrangiamento di quel pezzo avrebbe potuto avere veramente tanti soldi. Nella sua carriera tuo padre ha detto tanti no. Alla fine degli anni 50, per esempio, rifiutò un contratto da 150.000 dollari che gli era stato offerto dalla RCA americana. Conosci questa storia? No. Ci sono tante cose della carriera di Tony che io non conosco, o che ho imparato solo adesso, da Fran o magari leggendo delle cose che sono state scritte su mio padre. A proposito di quell’episodio, lui commentò così: «Avrei dovuto suonare musica bianca con musicisti bianchi. Così dissi: no, grazie. I miei amici mi dissero che ero un pazzo, ma io volevo vivere come un jazzista nero. E in ogni caso, non puoi fare la suora di giorno e la puttana di notte»… Non mi stupisce. Lui è sempre stato dalla parte dei neri, i suoi migliori amici sono sempre stati neri, Harry Belafonte, Billie Holiday, Charlie Parker, Lester Young. Tony era circondato da neri. Non ha mai accettato di prostituirsi. È un uomo che è sempre ri-

masto fedele alle sue idee. Idee che probabilmente gli resero la vita molto difficile, tanto che all’inizio degli anni 60 decise di lasciare gli Stati Uniti. Penso che in quella scelta ci sia stato un misto di cose: i suoi amici più vicini erano scomparsi e lui diceva che anche il clarinetto cominciava a morire. E poi, avventuroso com’era, voleva scoprire sempre nuovi orizzonti. Nel 1957 fu il primo jazzista americano a esibirsi in Sudafrica, per di più davanti a un pubblico integrato. Fran mi ha raccontato che quando andò la prima volta in Sudafrica gli proposero di fare un concerto soltanto per un pubblico bianco, ma lui rispose di no e subito dopo andò a cercare un locale nero dove poter suonare senza imposizioni e invitare anche i bianchi. Questo era Tony. In Indonesia finì addirittura in prigione per motivi politici. Penso che lì sia stato lo zampino della CIA. Evidentemente fu considerato troppo politicamente attivo per essere un musicista. Allora in quei Paesi c’era un regime molto chiuso, dove non c’era spazio per questo genere di coinvolgimenti, e probabilmente Tony aveva sorpassato tutti i limiti consentiti. Ho letto che anche in Italia ebbe qualche problema, ad esempio quando accompagnava Romano Mussolini… Questo non lo so. So soltanto che in quegli anni lui aveva una moglie e due bimbe e per portare da mangiare a casa doveva lavorare tanto. Per cui accettò di lavorare anche con Mussolini. Che poi la gente abbia giudicato quella scelta in modo negativo è possibile, ma io veramente non lo so. Prima hai accennato ai grandi amici neri di tuo padre. Quanto hanno influenzato la tua formazione? Musicalmente non tanto. Non è che a casa Tony suonasse tanto questa musica… Charlie Parker per esempio credo mi abbia influenzato pochis-

simo, non ascolto mai la sua roba. Magari è soprattutto nei racconti che ne faceva Tony, o forse attraverso la musica di Tony che io sento il suo suono, la sua influenza. Con Billie Holiday invece è tutto diverso: mi sono sempre sentita vicina a lei. Forse anche perché Tony me ne parlava soprattutto dal punto di vista umano, me la descriveva come un’amica. Se ad esempio io poggiavo un cappello sul letto, lui mi diceva: «Non farlo, Billie diceva che non si deve mai mettere il cappello sul letto». Cose così. Per cui Billie diventava parte del mio quotidiano, quasi come una aunt, una vecchia zia che non ho mai conosciuto ma di cui sapevo tutto, come la pensava e soprattutto come soffriva. Questo l’ho sentito molto attraverso lui, e poi nei miei teenage years i suoi dischi li ho ascoltati molto, per cui sicuramente mi ha segnata. Tuo padre ha lavorato con molte altre grandi cantanti jazz: Sarah Vaughan, Peggy Lee, Carmen McCrae. Chi ti piaceva di più? Di nuovo, devo rispondere Billie Holi-

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MASTER TAPE Pino Daniele

Non è mai stato un personaggio facile da maneggiare, né per i discografici né tantomeno per i media. Forse perché la sua musica guardava altrove, forse perché i suoi amici più veri erano un jazzista mulatto e anarchico e un regista meridionale fuori dagli schemi almeno quanto lui. Oggi, trentacinque anni dopo il suo debutto, non è che sia cambiato molto.

Conversazione con Pino Daniele | di Maurizio Becker

A dicembre hai fatto uscire BOOGIE BOOGIE MAN. Come mai l’annunciato ACOUSTIC JAM è saltato? Per questioni discografiche: non mi hanno permesso di farlo in un certo modo. Ma adesso che ho finito il mio contratto con la Sony posso fare quello che mi pare. Di ELECTRIC JAM mi aveva colpito soprattutto Sesso e chitarra elettrica… Quello era esattamente il pezzo che avrei voluto promuovere, poi non mi è stato possibile. Questi discografici di oggi vanno in giro per le radio per vedere se il pezzo va bene oppure no. Cercano il singolo che funziona, l’artista per loro non esiste più. Quel pezzo imprimeva alla tua musica una direzione molto precisa, la spingeva verso un sound sanguigno, blues, insomma molto anni 60, molto Cream… Io ho cominciato proprio con quel tipo di musica, quando suonavo nei locali ameri18


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cani: avevo tredici o quattordici anni e facevo i pezzi dei Cream e di Jimi Hendrix, inventandomi l’inglese. Quindi questo sound fa parte del mio modo di essere. Diciamo che fa parte di un sogno che poi si è realizzato l’estate scorsa, quando sono stato l’unico musicista italiano invitato da Eric Clapton a suonare al Crossroads Festival di Chicago insieme a gente come Jeff Beck e Stevie Winwood. Ho visto Buddy Miles, ho visto Ron Wood. Mi sono confrontato con una realtà che per me stava nella mia stanzetta a Napoli. Pensa che piangevo, accanto a me c’era il chitarrista degli Allman Brothers, mi guardava e diceva: «Ma che cazzo piangi?». Stavo lì, guardavo Stevie Winwood e mi dicevo: «Cazzo, io sto qua!». Dicevi che il tuo contratto con la Sony è finito. Cosa farai, da chi andrai? Mi produco da solo. Sicuramente il prossimo sarà un disco di cose nuove, un disco particolare.

BOOGIE BOOGIE MAN, sostanzialmente, è un modo di riproporre in versione aggiornata alcuni tuoi classici. Ci sono ad esempio Napule è, Chi tene ’o mare, Je so pazzo e Yes I Know My Way, tutte e quattro prese dal repertorio dei tuoi primi anni. Eppure sembrano scritte oggi. Questo è perché io sono un portatore di napoletanità diverso: più che un cantante napoletano, sono un napoletano che canta, che è una cosa diversa. Sono venuto fuori da una generazione per la quale la musica leggera si sposava ai linguaggi internazionali. Un po’ come venti anni prima aveva fatto Carosone: lui aveva usato il boogie-woogie e il jazz, io ho usato il blues e il jazz moderni, cioè in pratica il rock. Non a caso fra i miei pezzi più famosi ci sono Je so’ pazzo e A me me piace ’o blues, che sono legati al blues, alla cultura americana. Insomma, mi rifaccio alle mie melodie, anche se scopiazzo il blues americano.

Giocare sul sicuro non ti diverte, giusto? Io rischio sempre. Non so mai il risultato delle cose.

Tu sei sempre stato un po’ restio a parlare del passato, ma a volte fa bene. Sì, è vero, fa bene.

In questo momento rischiare non dev’essere semplice. Quale è la tua strategia? Fare il meno possibile. Guadagnarti lo spazio sforzandoti di non cambiare niente di te.

Anche per far capire alle giovani generazioni cosa c’è dietro… Esatto, esatto. Quindi facciamo un po’ di storia: a dodici

anni hai iniziato a suonare la chitarra, una Eko mi pare. Era il ’67. Chi ti ha consigliato i primi dischi importanti? I dischi me li sono scelti da solo. Allora si viveva di queste cose: andarsi a comprare il disco, portarselo a casa, scoprirlo, guardarsi le copertine, leggersi i testi. La musica era cultura. Il primo disco che hai comprato te lo ricordi? Era di Elvis, si chiamava Pot Luck. Poi i suoi dischi li ho comprati tutti. Subito dopo sono andato a finire su Frank Zappa, HOT RATS, OVERNIGHT SENSATION, quei dischi lì. E poi i Cream e tutto il rock inglese, i Traffic, i Gentle Giant, i Genesis… E il blues: BB King, i primi di Clapton, i Blind Faith… E i jazzisti? Quelli che mi hanno cambiato la vita sono stati Gato Barbieri, Don Cherry, Wayne Shorter, Chick Corea… Miles Davis, immagino… Eh, Davis ha cambiato la vita a tutti, mica solo a me… Quello di BITCHES BREW… Sì, ma anche quello di TUTU. E poi i Weather Report. Omar Hakim, che ora suona con me, era il batterista dei Weather Report, Rachel Z 19


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REMASTER MATIA BAZAR

MATIA, PRIMA E DOPO Il ricordo degli anni con Antonella è indelebile, eppure nella tumultuosa storia di questa istituzione della musica italiana c’è molto altro. A cominciare da una strana band che scelse di chiamarsi come un collezionista tedesco un po’ toccato... Conversazione con Giancarlo Golzi | di Vito Vita

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Prima dei Matia Bazar sei stato il batterista di un gruppo di rock progressivo, il Museo Rosenbach… Ho iniziato come batterista non proprio giovanissimo… Avevo vissuto l’epoca beat, due anni prima, da ragazzino, guardando suonare i vari complessi che traducevano in italiano i successi inglesi e americani, tipo l’Equipe 84 o i Corvi. Ma è stato a diciott’anni che ho avuto il mio primo impegno serio con i Museo Rosenbach: era il periodo della nascita del Progressive, e mi ricordo tantissimi dischi che uscivano in quel periodo, dischi meravigliosi. Noi avevamo la fortuna di avere il papà del nostro bassista (Alberto Moreno, con cui suono tuttora nei Museo Rosenbach quando sono libero dai Matia Bazar) che era un avvocato di grido e che tra i suoi clienti aveva attori come Marcello Mastroianni e Yul Brynner: per lavoro si recava spesso all’estero, negli Stati Uniti, e una volta tornò con dei dischi per suo figlio. È un momento che ricordo benissimo, come se fosse ieri: venne nella cantina dove provavamo, perché noi suonavamo in cantina da Alberto, e portò questi quattro album: il primo dei Procol Harum, quello con A Whiter Shade Of Pale, ARE YOU EXPERIENCED? di Jimi Hendrix, uno dello Spencer Davis Group… Cioè Stevie Winwood prima dei Traffic… Esatto. E poi c’era anche il primo Led Zeppelin, quello con il dirigibile in copertina, che in Italia non era ancora uscito. Ora, tu immagina cinque ragazzi che si vedono sul tavolo questi quattro dischi, li mettono sul giradischi e li ascoltano… Prova a immaginare l’effetto di quelle sonorità. Quella è stata la scintilla. Esatto. Da lì è nato tutto il nostro interesse: abbiamo iniziato con le cover per poi passare in breve a un repertorio nostro. Passavamo le giornate, le settimane, in cantina insieme a studiare le parti, a suonare, a provare e a riprovare. Siamo arrivati al punto che non prendevamo nemmeno in considerazione un brano se non era, almeno, in tempo dispari! Poi sono iniziati i primi concerti in zona, a Sanremo, a Bordighera… È stata una bella palestra. Come siete stati contattati dalla Ricordi? Non ci ha contattato la Ricordi, siamo stati noi: abbiamo cercato il telefono sulla vecchia guida telefonica di Milano, perché loro avevano appena pubblicato il primo album del Banco del Mutuo Soccorso, quello del salvadanaio, che stava andando fortissimo e ci era piaciuto molto. Ormai avevamo un repertorio completo per un disco, un album concept, come si usava allora, quello che poi diventò ZARATHUSTRA. Quindi abbiamo pensato che

loro potessero essere interessati: ma eravamo solo dei ragazzi di provincia, a momenti non sapevamo nemmeno dove fosse Milano… Comunque, abbiamo chiamato e loro ci hanno convocato per un provino: e allora siamo partiti da Bordighera in treno con gli strumenti, viaggiando di notte e arrivando alle sei di mattina, ci siamo lavati ai bagni diurni in stazione, e poi ci siamo presentati in via Berchet.

lissimo, con i dischi italiani che abbiamo preso per la distribuzione in Giappone». Andiamo in sala riunioni e lui ci mostra questo libro, con i dischi di gente come gli Osanna, il Balletto di Bronzo, con la copertina e qualche notizia a fianco, tutti in misura regolare standard. Poi in fondo, in misura decuplicata, che riempiva in pratica tutta la pagina, c’era ZARATHUSTRA, anche lui con la fotografia interna che c’è nell’album, quella con la nostra foto. A me a quel punto viene da ridere, e non ce la Chi avete trovato? faccio più, scoppio… E i giapponesi mi guarLucio Salvini e Angelo Vaggi, che poi divenne il dano non capendo, io rido come un pazzo, alproduttore del nostro album. La nostra musica lora Carlo Marrale gli dice: «Guardate che uno piacque. Poi capitò un episodio che facilitò l’uscita del nostro disco: subito dopo il Banco di questi del gruppo è lui!». E loro a quel punto mi dicono che quello è non solo uno del Mutuo Soccorso, la Ricordi aveva programmato il lancio di un altro gruppo prog di degli album più venduti in Giappone, ma Roma, i Fholks, che però avevano cambiato il anche uno di quelli considerati tra i migliori del Prog europeo, questo per dirti, io ero lì per nome… i Matia Bazar e ho scoperto questa cosa… La Reale Accademia di Musica. Sempre nel corso di quel tour, siamo andati Sì, erano diventati la Reale Accademia di Muospiti di Ryuichi Sakamoto, che conduceva un programma radiofonico nel canale nazionale giapponese e dedicava spazio alla musica europea e italiana. Ci aveva invitati perché ap«L’ingresso di una prezzava le nostre cose… E questa è una cosa nuova cantante avrebbe che ricordo con soddisfazione, essere apprezcambiato quest’identità: zati da un guru della musica internazionale.

si trattava di una cosa nuova per l’Italia, sul modello dei Jefferson Airplane con Grace Slick» sica… Insomma, questi fecero l’album, ma quando doveva cominciare tutto il lavoro di promozione, presero i soldi, mi pare cinque milioni di lire, e se ne andarono in India, lasciando la Ricordi dall’oggi al domani. Così noi occupammo tutti i buchi liberi della loro promozione, per cui il nostro album venne molto pubblicizzato. Mi sconvolgo ancora adesso quando con Google cerco “Museo Rosenbach” e mi leggo tutte le recensioni internazionali sul disco, che viene valutato meglio oggi che all’epoca ed è considerato una pietra miliare del prog, non solo di quello italiano… È conosciuto dappertutto, Svezia, Giappone, Stati Uniti… Posso raccontarti un aneddoto? Certamente. Risale al 1983-1984, i Matia Bazar erano in classifica ai primi posti in Giappone con Vacanze romane e con l’album TANGO. Abbiamo fatto un tour di 6 o 7 date, Tokyo, Okinawa, Kyoto, Sapporo… Alla fine di questo tour, che andò benissimo, ci invitano in una specie di assemblea alla sede della CBS a Tokyo, e a un certo punto il discografico ci dice: «Adesso vi faccio vedere un catalogo bel-

Tornando al Museo Rosenbach, come era nato quel nome? Da un’idea di Alberto Moreno: Rosenbach era un collezionista tedesco di libri e anche editore, e la sua idea è stata quella di immaginare un suo museo, un museo con le sue collezioni. All’epoca si usavano questi nomi, come Premiata Forneria Marconi o Raccomandata con Ricevuta di Ritorno… Come mai il gruppo si è sciolto? Io partii per il servizio militare, il disco era già uscito e c’erano buone recensioni – ne ho conservate alcune dove mi paragonavano a Bill Bruford, meglio di così… Altre mettevano in risalto l’uso del mellotron, che allora era una novità e costava un occhio della testa. L’avevamo comprato da una ditta di Napoli che si chiamava Mirage e che lo importava in Italia. Comunque durante il servizio militare, che facevo a Genova alla caserma di Bolzaneto, quella poi diventata famosa per i fatti del G8, non ne potevo più… Gli altri avevano smesso di suonare, io stavo lì, ma non è che c’erano molte licenze o cose così, non ne potevo più… E una sera scappai. Scappasti? Sì. Telefonai al cantante Stefano Galifi: «Stefano, non ce la faccio, sto diventando pazzo, portami fuori, vieni a prendermi alle 9 con la macchina e andiamo in giro». Scavalcai il muro e lui mi aspettava lì fuori, e mi portò a Sturla, che è un quartiere di Genova sul 31


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Compone in tempo reale, cucina la sua musica come un cibo biologico, cade in trance al piano e suona gratis per chi è disposto a scalare una montagna pur di scoprire cosa ci fa tutto solo per un mese in una grotta. Conversazione con Mario Mariani | di Pietro Paluello Facciamo in modo che i nostri lettori possano conoscerti un po’: partiamo dalla tua formazione, che è accademica… Sì, il mio è stato un percorso tradizionale in conservatorio. Anche se poi, visto che i programmi ministeriali arrivano fino al 1930, tutto quello che conosco come compositore l’ho imparato sul campo. Questo mestiere non lo si impara a scuola.

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Ha ancora senso per te oggi parlare di musica colta, nel senso di musica seria? Questa definizione di musica seria è più tecnica, forse è un’invenzione della SIAE. Secondo me ci sono una musica vera e una musica meno vera. Però anche dire questo è ambiguo. E allora come definiresti la tua musica?

La paragono spesso a un cibo biologico. È una musica vera, perché parte da me e sono io che la faccio e la eseguo nello stesso momento in cui la concepisco. È quella che io chiamo una composizione in tempo reale. Non è di fatto un processo “raffinato”… È insomma un momento istintivo, di getto, che tu fotografi… Giusto, lo fotografo, catturo questa scintilla creativa e la restituisco nello stesso momento. Da un lato in questo è sicuramente, come dire, soggetta a errori, a imprecisioni, a sbavature di suono, insomma a una sorta di svista frettolosa definibile appunto come errore… Anche nel disco ci sono un po’ di questi cosiddetti errori, però li ho voluti lasciare, l’ho fatto di proposito, per-


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ché queste sporcature sono appunto una testimonianza di questo mio modo di comporre “di getto”. Penso che tutta l’idea compositiva, strutturalista, che stava alla base della maggior parte della musica scritta nel secolo scorso abbia terminato il suo ciclo: come nel 1900 non ci si sarebbe mai sognato di comporre musica classica così come lo si faceva nel 1700 e come avrebbe fatto Beethoven, oggi si è esaurito il tempo di comporre su quei parametri abituali di cui per me il massimo esponente è stato Pierre Boulez. Quali sono allora i compositori ai quali guardi di più? Per me ci sono due grandi filoni: Schoenberg e con lui i famosi inventori della dodecafonia, che hanno portato tutto questo modo strutturalistico di scrivere musica. L’altra parte a cui mi sento molto vicino è Stravinsky, che invece ha invece privilegiato l’aspetto tematico e anche materico. A me piace molto mettere un po’ questa materia, e in questo mi sento molto più affine a un pittore che non a un altro musicista che ha i suoi soliti iter, vale a dire lo studio, la scrittura musicale, il ricontrollare tutto. A me piace il gesto, di getto, che c’è nel momento creativo. Dunque come ti definiresti, come musicista e compositore? Lo scrivo anche nelle note del disco: io cerco di creare una reintegrazione tra le tre figure del compositore, dell’improvvisatore e dell’interprete. Guarda che nel disco ci sono anche un paio di pezzi che sono proprio scritti: parlo di Cagliostro e di Variazioni sulle previsioni del

tempo. Ecco, lì io sono proprio compositore, poi però sono anche sono improvvisatore, perché improvviso su un tema che posso già avere scritto o solo abbozzato, e poi naturalmente sono interprete quando eseguo la mia musica scritta. In questo elemento dell’improvvisazione non c’è più forse un’anima jazz? Infatti, invece del termine improvvisazione, io preferisco sempre usare quello di composizione in tempo reale. Perché l’improvvisazione è una variazione su un tema dato. Succedeva anche nel Rinascimento, con le improvvisazioni all’organo o al clavicembalo. Il jazz ha una sua struttura abbastanza chiusa, nel senso che c’è questa armonia che va seguita come se fosse una partitura di musica classica. Io non ho una formazione di tipo jazzistico. Posso ogni tanto magari farvi qualche riferimento, ma se senti anche nel disco… non c’è molto jazz. Magari più melodie del XX secolo, del tipo Messiaen o Hindemith, due cardini la cui armonia anche dissonante mi ispira molto di più. Sei abbastanza legato al suo territorio. Ma perché ti sei voluto chiudere in una grotta per un mese esibendoti lì per chi veniva a trovarti? Vicino a Piobbico c’è il monte Nerone. Io lì ho una casa: è un luogo che ho cercato e trovato quattro anni fa, un luogo lontano dalle città che ho scelto per comporre le mie cose, per sentirmi più in libertà. C’è buona aria, bella natura. Facendo lunghe scarpinate, frequentando le grotte – e lì nel monte Nerone ce ne sono circa 200, si va da piccoli anfratti a grotte che si sviluppano per centinaia di metri – ecco, lì ho appunto trovato questa grotta che

aveva una connotazione molto particolare, non solo come acustica ma anche come disposizione. Era come un teatro costruito istintivamente dalla natura. Ed è anche facilmente raggiungibile da chiunque. Così ci ho fatto portare un pianoforte e ci sono rimasto per un mese: vivevo lì dentro. Era naturalmente una grotta aperta, quindi uscivo, stavo anche fuori, non ero sempre al chiuso. Nel boschetto vicino ho allestito anche un’altra tenda per gli ospiti, perché durante questo mese che sono stato lì suonavo e questa musica la offrivo a chi voleva venire ad ascoltarla. Con ciò ritorno al cosiddetto cibo biologico: ho suonato io, ma ho avuto modo sempre il modo di interagire anche con altri artisti che sono venuti. Con Giuliano del Sorbo, per esempio, un pittore con il quale collaboro e che ha fatto anche la copertina del disco. Ma è venuto anche un violinista molto bravo di Londra che si chiama Roberto Manes, con un’altra improvvisatrice di Varsavia, Lidia Ciaicoska. Tutto questo è avvenuto la scorsa estate. Esattamente per un intero ciclo lunare, dall’ 11 di luglio all’11 di agosto. Per me è stato un modo di vivere a più stretto contatto con la natura, perché comunque vedere un ciclo lunare, vedere che la luna fa tutto questo percorso, direi che è stato un modo di riappropriarsi di se stessi e della natura. È un’esperienza che rifarai? Sicuramente farò altre cose che coniugano l’idea dell’arte musicale con la natura. Ma non nella stessa maniera. Quella è un’esperienza conclusa. Ho già un’idea molto forte che però per scaramanzia non voglio ancora rivelare. Anticipo solo che, mentre per la grotta era

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Il Folkstudio di Cesaroni, la IT di Micocci e la potente RCA di Melis, Francesco De Gregori e Amedeo Minghi, Ernesto Bassignano e Stelio Gicca Palli, questi i primi compagni di viaggio di un giovane autore spinto da un’unica ma solida certezza: le canzoni non lo avrebbero mai più abbandonato. Conversazione con Edoardo De Angelis | di Luciano Ceri Come nasce Lella? Dov’eri quando l’hai scritta? Lella ha una doppia genesi, una musicale e una letteraria. In quel periodo, da vero dilettante, scrivevo canzoni insieme a Stelio Gicca Palli, mio compagno di scuola dalle elementari al liceo, e andavamo a cantarle in alcuni locali di Roma, tra i quali Il Folkstudio era sicuramente il più importante, ma

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andavamo anche al Puff di Lando Fiorini perché spesso le canzoni che scrivevamo avevano un taglio un po’ da cabaret, canzoni un po’ istrioniche o umoristiche, ed erano soprattutto opera di Stelio, che aveva un temperamento più estroverso. Stelio era più bravo di me con la chitarra, era più avanti, suonava le canzoni di Joan Baez, tanto per fare un esempio. Tra

queste ce n’era una, Saigon Bride, che iniziava con un giro di accordi in arpeggio che a Stelio piaceva molto e così mi propose di scrivere il testo di una canzone sulla musica che lui poi aveva sviluppato partendo da quel giro di accordi. Il mio sistema di scrivere le canzoni – e lo è ancora oggi – era questo: quando nasceva una linea melodica, mia o di altri, mi annullavo il cervello ascoltando questa musica tantissime volte, fino a quando il cervello non ne poteva più e mi proponeva un’idea di testo. Adesso questo metodo è inquadrato in un certo schema, ma allora era puro esperimento. Eravamo nel 1969, non mi ricordo bene in che mese, e succede che un giorno, andando a pranzo da mia nonna che abitava a Monteverde, scendo dall’autobus e nel percorso di qualche centinaio di metri nasce tutta la canzone, come se fosse un getto continuo di pa-


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Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palli nello studio A della RCA Italiana. Roma, 1971.

role e di immagini, come pochissime altre volte mi è successo. L’hai scritta camminando… Sì, e praticamente è venuta fuori tutta, tanto che mi prese un po’ di ansia per riuscire subito a trovare una penna per buttare giù le parole, e poi praticamente la penna andò da sola. Telefonai subito a Stelio per vederci, la cantammo, la provammo, facemmo qualche piccola correzione, soprattutto da parte di Stelio per adattare meglio le parole sulla metrica musicale e, come sempre accadeva per tutte le canzoni nuove, la facemmo ascoltare subito agli amici. Come mai il testo ti era venuto in romanesco? Era una cosa voluta? No, assolutamente. Non so veramente come mi sia venuta così, proprio non lo so, e non era neanche voluta o cer-

cata quel tipo di storia, alla quale sono poi state attribuite dai giornalisti una serie di appartenenze pasoliniane o di nomi altrettanto importanti che però non avevano nessun collegamento diretto con la canzone. Ne approfitto però per fare chiarezza sulla professione del marito di Lella, un commerciante di cravatte con il negozio a via del Tritone e non un usuraio, come il termine romanesco cravattaro potrebbe far supporre. I primi ad ascoltarla furono i vostri amici. E la prima esecuzione in pubblico? Credo che sia avvenuta al Folkstudio, dove continuammo a suonarla per tante volte, compresa quella famosa in cui Ernesto Bassignano si alzò in piedi mentre il pubblico applaudiva e disse: «Che cazzo applaudite? Non è una canzone abbastanza politica!».

Facciamo un passo indietro. Quando avevate cominciato a suonare, cantare e scrivere canzoni, tu e Stelio? Più o meno all’inizio del liceo, che abbiamo fatto al Tasso. Abitavamo tutti e due vicinissimi, io a via Savoia, lui a via Nizza, studiavamo spesso insieme a casa sua o a casa mia. Stelio veniva da una famiglia di musicisti dilettanti, ricordo che il padre, che era una persona per bene e rivestiva un ruolo professionale importante, quando tornava a casa dal lavoro si levava giacca e cravatta, si metteva comodo e cominciava a suonare la fisarmonica. Eravamo ancora al liceo quando abbiamo cominciato a suonare nei locali, ma erano situazioni un po’ improbabili. Abbiamo iniziato a esibirci con una certa professionalità quando siamo approdati al Folkstudio: suonavamo con due chitarre acustiche e Stelio, come ho già

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