DA BUROCRATE A MANAGER
Relazione Introduttiva di Francesco Naviglio
Convegno “Da Burocrate a Manager” CNEL – Sala della Biblioteca Roma, 19 giugno 1990
Relazione Introduttiva di Francesco Naviglio Introduzione Il disegno di legge sulla “Riforma della dirigenza statale e delle altre pubbliche amministrazioni territoriali ed istituzionali” n. 3464 è stato presentato alla Camera dei Deputati il 19 dicembre 1988. Da quella data in ambito governativo, politico e sindacale si è accentuato l’interesse sul riordino della dirigenza pubblica anche in relazione al più ampio dibattito sulla ristrutturazione della pubblica amministrazione italiana, vicina, ormai, ad un vero e proprio collasso e senza dubbio ben lontana dai modelli europei con cui si dovrà confrontare a partire dal 1993. Ad oggi il disegno di legge 3464 continua a navigare al Parlamento da una Commissione all’altra, ad essere oggetto di critiche ed apprezzamenti, ad essere vagheggiato come il rimedio per la pubblica amministrazione, che renderà efficiente la gestione della cosa pubblica. Da ultimo è emerso lo “scoglio” del costo e sembra che non ci siano i fondi per la copertura degli oneri finanziari derivanti dalla riforma anche se da almeno due anni sono stati previsti , in appositi capitoli, gli stanziamenti. Una parte di questi stanziamenti sono stati utilizzati per coprire i costi di due decreti del Presidente della Repubblica con cui, ultimamente, sono stati aggiornati gli stipendi dei dirigenti pubblici, ciò era necessario al fine di evitare che, nel frattempo, il personale dei ministeri e degli enti pubblici inseriti nella IX qualifica funzionale raggiungessero e superassero come stipendi tabellari i dirigenti pubblici. Sono fatti certamente singolari ed anacronistici in uno Stato che nelle dichiarazioni ufficiali dichiara guerra all’inefficinza e all’inerzia. Da qualche tempo, nell’ambito sindacale, la riflessione sulla dirigenza pubblica si è fatta più profonda e ci si è resi conto che una corretta ed efficace ristrutturazione della Pubblica Amministrazione non può prescindere da una riforma della Dirigenza Pubblica che deve incentrarsi su una nuova dignità e cultura del dirigente che si fondi, al di là del grado specifico, su una nuova managerialità equiparabile a quelle esistenti nel settore privato che è l’unico dato obiettivamente valutabile in un contesto professionale. Su questo tema la UIL è da tempo impegnata a prefigurare e sostenere un modello di dirigente pubblico che abbia le caratteristiche manageriali necessarie per l’attuale gestione della Pubblica Amministrazione che deve finalmente essere in grado di fornire ai cittadini italiani, e tra qualche tempo “europei”, quei servizi e quella assistenza che uno stato moderno ed efficiente deve poter offrire in tempo reale e senza disfunzioni. Il disegno di legge 3464 fa intravedere alcuni principi validi, ma purtroppo non li concretizza. Della separazione tra funzione politica ed amministrativa e dell’ingresso di manager privati nell’area pubblica se ne parlerà in seguito. Preme sottolineare un aspetto generale che investe l’intero disegno di legge.
Esso riguarda, come enunciato nell’intestazione, in primo luogo la dirigenza statale e, collateralmente, quella degli altri apparati pubblici in quanto assimilitata ed equiparata come se quest’ultima sia una dirigenza di secondo piano. E’ questo un punto di vista che dovrebbe essere superato. Parlando di dirigenza pubblica e della sua riforma bisogna intenderla nella sua globalità. Seguitando a legificare sulla “dirigenza statale” e delle altre pubbliche amministrazioni si perpetua una discriminazione concettuale e pratica che da un lato da spazio a spinte centrifughe e dall’altro agevola un proliferare di normative di settore che rendono impossibile una gestione ed una visione uniforme dell’intera categoria. La Pubblica Amministrazione è unica ed una deve essere la dirigenza che la guida senza per questo sottovalutare le specificità che ogni amministrazione o settore possiede. Tuttavia è necessario, per attuare una reale riforma, che la materia sia sia regolamentata da una “legge di principi”, una legge quadro, se vogliamo, che indichi con precisione i punti fermi cui i diversi settori della Pubblica Amministrazione debbano uniformare le normative esistenti per i propri dirigenti. 1.
Una nuova cultura per la dirigenza
Nelle premesse la riforma della dirigenza pubblica aveva dato ampio risalto al concetto della separazione della funzione POLITICA da quella AMMINISTRATIVA. In questo scenario s’intendeva modificare la struttura attuale della dirigenza dando un nuovo assetto alla categoria e sottolineando l’importanza per la stessa dei risultati di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa strettamente collegati alla nuova immagine della dirigenza che doveva essere in possesso di una professionalità adeguata, adeguata e valutabile, anche in relazione ai risultati conseguiti nella gestione dei settori amministrativi affidati. I fautori della riforma sostenevano e sostengono che il nuovo dirigente deve essere un “manager” con caratteristiche equiparabili a quelle richieste nel settore privato. Da qui lo slogan del Convegno. Su questo punto siamo tutti d’accordo. Ma una legge di riforma, né tanto meno uno slogan, possono modificare una realtà così sedimentata come quella della dirigenza pubblica italiana. E’ la cultura sottostante a questa realtà che deve cambiare. E’ questo il tema centrale su cui confrontarsi. Attualmente la filosofia che guida la Pubblica Amministrazione italiana è basata su concetti quali “..la legittimità dell’atto amministrativo…” che impregna tutte le relazioni tra organi di una stessa amministrazione ed i contatti tra diverse amministrazioni. E’ questa la filosofia che in senso spregiativo viene definita “burocratica” mettendola in contrapposizione con la “managerialità” del settore privato. Questo è un primo nodo da sciogliere. Se si vuole dare un taglio “manageriale” alla gestione della cosa pubblica si deve in primo luogo “delegificare” gran parte delle attività dello Stato e degli Organi ad esso collegati dando ai dirigenti la responsabilità totale della gestione delle risorse, economiche ed umane, chiamandoli a rispondere in prima persona dei risultati conseguiti e, ancora più importante, garantirgli strumenti per realizzare questi obiettivi. 2.
Separazione tra Direzione Politica ed Amministrativa
L’art,1 della legge di riforma introduce il principio della distinzione tra funzione politica e funzione amministrativa nell’ambito della Pubblica Amministrazione, cosa questa immediatamente smentita nel disposto dell’art.2. C’è da rilevare in primo luogo che tale principio, oltre ai compiti ed alle responsabilità dei dirigenti era già presente nel DPR 748 del 1072. In ciò il disegno di legge 3464 innova ben poco!
Con l’art 2 del disegno di legge si prevedono due organismi (il Comitato di Indirizzo e Coordinamento ed il Nucleo di Valutazione) nominati dal Ministro, il quale può far ricorso anche ad elementi estranei all’amministrazione, che per le attribuzioni loro concesse assumono l’aspettp di organi di controllo dell’intera macchina amministrativa e della dirigenza in primo luogo. Il “Nucleo di Valutazione”, in particolare, previsto dal comma 3, ha compiti di controllo in merito al raggiungimento di specifici obiettivi e/o programmi affidati ai dirigenti. Certamente l’operato della dirigenza deve essere sottoposto a controllo, ma da parte di un organismo specifico formato in gran parte dagli stessi dirigenti, non legato alla direzione politica dell’amministrazione o dello stato. Potrebbe configurarsi alla stregua di un “Consiglio Superiore della Dirigenza Pubblica” cui demandare, per l’intera Pubblica Amministrazione la garanzia di una corretta gestione della dirigenza in modo articolato per categorie tale da poter assicurare ai dirigenti stessi, con modalità e strumenti da stabilire, un obiettivo sistema di valutazione e controllo ed alla Pubblica Amministrazione un organismo che si faccia interprete delle esigenze funzionali e di decentramento istituzionale e terriotoriale della stessa. 3.
Attribuzioni e responsabilità dei dirigenti (art. 5 e 6)
Se si vuole realmente introdurre una figura di “dirigente manager” non si devono delegare allo stesso tutte le attribuzioni per legge in modo da creare una impalpabile gabbia normativa entro cui il dirigente si muove a stento. Certo una serie di principi normativi devono essere stabiliti a garanzia delle leggi generali dello Stato e della Pubblica Amministrazione, tuttavia il vero controllo deve essere necessariamente successivo, tale da valutare il raggiungimento o meno degli obiettivi e dei programmi formulati su base annuale o pluriennale. Il “Dirigente Manager”, una volta che gli viene assegnato un incarico specifico, deve avere la piena disponibilità delle risorse umane, finanziarie e strumentali. Se ciò non è concesso in primo luogo diviene difficile contestare il mancato raggiungimento degli obiettivi e nel contempo si crea un alibi in base al quale si giustifica da parte di alcuni l’impossibilità di rendere efficiente l’apparato pubblico. In questa ottica deve essere riformulata la legge che regola la Contabilità di Sato già attualmente non più adeguata alle esigenze di uno stato moderno e funzionale. Alla luce di quanto detto si deve ribadire altresì la titolarità per il dirigente amministrativo del potere di direzione e gestione che non può essere affidato a personale inquadrato in altri ordinamenti e ruoli. Ci si riferisce alle problematiche presenti presso alcune amministrazioni ove diversi incarichi dirigenziali sono riservati, per legge o prassi, a personale proveniente dalla Magistratura, dall’Università, dal corpo diplomatico, etc. In sede di riforma si deve identificare esattamente lo spazio di esclusiva pertinenza del “dirigente pubblico” distinto da quello riservato ad altre funzioni, di pari pregio ma di diversa natura, come quelle giurisdizionali, o diplomatiche. Le interferenze oggi presenti in alcune amministrazioni nell’ambito delle qualifiche dirigenziali creano gravi stati di confusione gestionale che pregiudica l’efficienza e l’economicità dell’azione amministrativa, creando altresì situazioni di attrito tra il personale dei ruoli amministrativi con qualifiche dirigenziali e gli incaricati di mansioni dirigenziali appartenenti ad altri organismi o funzioni. Emblematica a tale riguardo è la situazione presente al Ministero degli Affari Esteri ove da anni gli appartenenti alle qualifiche dirigenziali sono in conflitto con i vertici politici per farsi riconoscere appieno la loro titolarità ad esplicare il potere di direzione nell’ambito del Ministero
anche a livello elevato visto che il DPR 18 del 1967 ha riservato tali incarichi al personale appartenente alla carriera diplomatica. In una ottica “manageriale” del dirigente pubblico la commistione di funzioni contrasterebbe con la ricerca dell’efficienza delle strutture amministrative qualora queste fossero affidate a persone altamente qualificate in altri campi ma non in quello amministrativo. 4.
Incarichi di Dirigenza
Sul tema dell’affidamento degli incarichi di dirigenza non c’è niente di nuovo sotto il sole. Il disegno di legge 3464 contiene alcune norme che da più parti sono state definite innovative rispetto al passato. Si è sostenuto che con la nuova regolamentazione lo Stato era in grado di affidare la gestione di particolari “aree pubbliche” o di particolari “progetti speciali”a “manager esterni”alla Pubblica Amministrazione. Tutto ciò era già previsto dall’art 17 della 748! In alcuni casi è stato attuato ma per lo più è rimasto sulla carta. Perché dunque ripresentarlo come una novità ? Il problema è di ben altra natura. Forse si vuole far vedere che la Pubblica Amministrazione può risolvere i suoi problemi affidandosi a “ manager privati” contrapponendoli ai dirigenti pubblici che,tra le righe, vengono “bollati” come inneficenti? Non è questa la soluzione corretta. Nell’attuale scenario della Pubblica Amministrazione introdurre un “manager” privato valido ma con una cultura professionale ben precisa, significa legargli le mani in modo simile agli attuali dirigenti pubblici che, normalmente, per le materie di compiti di loro competenza sono dotati di ottime professionalità ma restano “ingabbiati”in una serie di norme e prassi amministrative ormai superate ed anacronistiche. Altro punto di divergenza tra settore pubblico e privato è il tipo di garanzia dell’incarico che viene dato al dirigente pubblico. Nel privato qualsiasi incarico è dato a tempo determinato ed è soggetto in continuazione a verifiche e controlli circa i tempi ed i metodi di raggiungimento degli obiettivi prefissati dal dirigente stesso. Ciò significa lavorare “per obiettivi”. Nella Pubblica Amministrazione si lavora “in conformità” di leggi e regolamenti, garantita la quali finisce la responsabilità del dirigente. Come si diceva in precedenza bisogna cambiare la cultura che sta alla base della Pubblica Amministrazione e con essa, di conseguenza, delegificare gran parte delle procedure amministrative essendo, quelle attuali, ormai obsolete e contraddittorie rispetto all’obiettivo di una Pubblica Amministrazione oltre che efficace anche moderna ed efficiente. Naturalmente la Pubblica Amministrazione deve essere in possesso di alcune garanzie allorquando decide di inserire nella propria struttura un “manager” cui affidare incarichi di direzione. Sorge l’esigenza, quindi, di creare un apposito elenco o albo nazionale, garantito da un organo costituzionale quale ad esempio il CNEL , da cui trarre i futuri “manager” pubblici,come del resto già previsto nel disegno di legge sulla riforma sanitaria. Le modalità di accesso a tale elenco o albo nazionale dovranno garantire adeguate professionalità degli aspiranti che, in linea di massima, dovranno superare con profitto appositi corsi tenuti presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione oppure documentare analoghi requisiti assunti presso aziende pubbliche o private.
5.
Formazione della dirigenza La formazione è certamente il punto nodale dell’intera problematica sulla dirigenza pubblica.
Nell’ambito privato viene assegnato un gran valore al reclutamento dei quadri e dei dirigenti che, successivamente, sono sottoposti a cura delle aziende ad un periodo di formazione per aumentare le loro capacità “professionali” e “manageriali”. Tutto ciò è esattamente quello che “non fa” la Pubblica Amministrazione italiana. Non esistono percorsi formativi, nell’ambito del pubblico impiego; finalizzati a formare dei dirigenti ad alta professionalità e, successivamente, ad aggiornare gli stessi sulle innovazioni tecnologiche, amministrative e normative. La formazione dei futuri dirigenti ed il perfezionamento degli attuali è lasciata all’iniziativa personale scollegata, per lo più, dalle esigenze funzionali delle amministrazioni di appartenenza. A fronte di ciò e della inefficienza dell’apparato pubblico si invoca da più parti il ricorso al reclutamento esterno al fine di occupare i posti dirigenziali con “manager privati”. Tale ricorso a personale proveniente dal settore privato è condivisibile a patto, tuttavia, che ciò non comporti una esclusione preconcetta degli appartenenti ai ruoli direttivi della Pubblica Amministrazione all’accesso alle qualifiche dirigenziali. Su questo punto è necessario infatti fare il massimo della chiarezza. Per ogni struttura lavorativa, sarebbe certo più opportuno formare i quadri dirigenziali al proprio interno e ricorrere al reclutamento esterno solo in casi eccezionali e per professionalità estremamente specifiche. Il progetto di legge sembra disconoscere il ruolo centrale del personale direttivo all’interno delle strutture amministrative, personale che acquisisce giorno per giorno uno zoccolo duro di professionalità svolgendo compiti amministrativi e di direzione. La qualità di base del personale direttivo pubblico sono le medesime di quello privato, uscendo ambedue dalla stessa struttura scolastica. La differenza consiste nel metodo di selezione e nella formazione che il settore pubblico non ha. Si assiste inoltre di regola al fenomeno del travaso di personale direttivo e dirigenziale dal pubblico al privato con questo confermando il livello qualitativo del settore. Perché tale area risulti un serbatoio ricco di professionalità e managerialità la Pubblica Amministrazione deve essere pari al privato, se non superiore, nell’opera di formazione del proprio personale al fine di porre gli appartenenti all’area direttiva della pubblica amministrazione in condizione di chiedere l’iscrizione all’ipotizzato elenco o albo nazionale presso il CNEL su basi paritarie. Inevitabilmente questa problematica investe l’altro punto debole esistente all’interno della struttura pubblica: la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. 6.
La Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Su questo tema vitale e propedeutico a qualsiasi riforma che si voglia occupare della dirigenza pubblica bisogna essere altrettanto chiari. La Scuola deve essere organizzata in modo efficiente, deve avere programmi chiari e finalizzati a formare una dirigenza pubblica qualificata, deve essere fornita di docenti all’altezza delle finalità che naturalmente dovranno essere incentivati a collaborare nell’opera di formazione. Non si può ottenere ciò riconfermando gli stanziamenti già programmati e prevedendo per i prossimi due anni un aumento degli stessi pari al tasso d’inflazione programmato. L’attuale attività della SSPA, certamente encomiabile per i mezzi di cui dispone, non è all’altezza delle Scuole similari europee ed è un miraggio voler formare una classe dirigente di
livello europeo senza avere strutture quanto meno simili a quelle dell’E:N:A: francese, solo per fare un esempio. Su questo punto vorrei far presente un ultimo problema che raramente è stato trattato. Il privato forma la propria dirigenza specializzandola per aree: amministrativa, finanziaria, commerciale, informatica, etc. Presso il pubblico il dirigente è, o dovrebbe essere, un “tuttologo” e per lo più è richiesta una conoscenza approfondita solo nel campo giuridico. Nessuno nega l’esigenza per il dirigente pubblico di avere conoscenze giuridiche approfondite vista la peculiarità della Pubblica Amministrazione, tuttavia non si può esaurire in ciò la professionalità. Anche in questo caso è necessaria una modifica culturale all’interno della Pubblica Amministrazione. La specializzazione per aree della dirigenza pubblica è una esigenza ormai sentita da più parti ed è quella che spinge alcuni a cercare tali professionalità all’esterno. Tale esigenza deve essere soddisfatta nell’ambito della Pubblica Amministrazione tramite una formazione programmate dei propri quadri. E’ un percorso lungo e difficile e per tale motivo è doveroso che esso inizi con il personale reclutato nell’area direttiva che dovrebbe sentirsi un tutt’uno con la dirigenza aspirando così a conquistarne il posto nel tempo. Cambiare la cultura consiste anche nel fare del dirigente pubblico una professione di pari dignità alle altre oggi esistenti. Non si è mai sentito dire ad un bambino che da grande vuole fare il “Dirigente Pubblico”. Magari aspira a diventare medico, avvocato o architetto, mai dirigente pubblico. Nel nostro paese non esiste una cultura professionale del dirigente pubblico. E’ piuttosto una attività intrapresa per esigenze lavorative giovanili e, di solito, in attesa di migliore sistemazione. Insomma un posto poco remunerato ma sicuro. Non c’è nel nostro sistema scolastico ed universitario un iter formativo dedicato al “Dirigente” della Pubblica Amministrazione. E’ proprio ciò che ci differenzia dagli altri stati europei ed extra europei. 7.
Trattamento economico
Spendere due parole sul trattamento economico è d’obbligo. Anche questo tema assume una notevole rilevanza quando ci si pone in una ottica di “managerialità”. Ci sono dei parametri ben delineati che correlano il dato della professionalità con quello della retribuzione. Non si può realmente pretendere di avere nei propri organici personale dirigente altamente professionalizzato e retribuirlo in modo decisamente inferiore rispetto al privato. Se\a ciò si aggiunge la proposta di introdurre sistemi di controllo e sanzionatori basati su concetti privatistici, come il “raggiungimento degli obiettivi”, “la rimozione dall’incarico”, “l’interruzione del rapporto di lavoro”, il progetto non ha grande possibilità di successo. Nella Pubblica Amministrazione si assiste ad uno strano fenomeno. Nel suo ambito esistono dirigenti “molto ben retribuiti” anche se a seguito di incarichi collaterali e dirigenti “molto mal retribuiti”. Da qui l’esigenza di una chiarezza delle retribuzioni dei dirigenti pubblici che devono essere omnicomprensive prevedendo in esse anche gli incarichi speciali che dovranno rientrare comunque nelle competenze dirigenziali, applicando ad essi le norme sull’anagrafe tributaria.
Se si vuol raggiungere l’obiettivo di una dirigenza pubblica unica per tutto lo scenario della Pubblica Amministrazione che possa anche essere soggetta a processi di mobilità in modo che la singola professionalità possa essere utile, di volta in volta, ai settori momentaneamente in crisi, è necessario che le retribuzioni di questo personale siano omogeneizzate quanto più possibile. Altro punto importante a tal fine è stabilire con precisione le fonti normative che dovranno regolamentare la dirigenza pubblica sia dal punto di vista giuridico che economico. Attualmente in alcuni comparti del pubblico impiego le retribuzioni dei dirigenti sono stabilite per contratto creando ulteriori motivi di disparità rispetto ai dirigenti di altri settori della Pubblica Amministrazione e innescando una “rincorsa salariale” che crea turbativa nell’intera categoria. Noi confermiamo la nostra scelta per la contrattualizzazione dell’area dirigenziale affermando una sua peculiarità e specificità. In merito al problema dell’uniformità di trattamento è doveroso citare brevemente un argomento la cui soluzione si trascina da anni e che dovrebbe definirsi in concomitanza dell’approvazione del disegno di legge 3464. Mi riferisco al problema dei ruoli ad esaurimento, nati con il DPR 748 del ’72 per lo stato ed introdotti, seppur con alcune peculiarità, con la legge di riforma dell’INPS n. 88/89 nel parastato. Nello stato questo personale ha svolto e svolge funzioni prettamente dirigenziali da anni. Nel parastato gli è stato riconosciuto da poco un trattamento giuridico ed economico del direttore di divisione o dell’Ispettore Generale in relazione a certe anzianità. A fronte di tali riconoscimenti, sia giuridici che economici, tuttavia questo personale evidenzia una sorta di malessere in quanto non ha ricevuto e non riceve, soprattutto ne parastato, una collocazione adeguata, In alcuni casi si potrebbe riscontrare una responsabilità in quegli amministratori che disponendo di personale con qualifica prettamente dirigenziale, sia per competenze che per emolumenti, adibisce gli stessi a mansioni inferiori. La riforma è l’occasione per risolvere questo problema in maniera definitiva riconoscendo al personale inquadrato nei ruoli ad esaurimento la reale ed indiscussa qualifica dirigenziale ed utilizzando gli stessi in effettive mansioni di direzione amministrativa. Rimane comunque la sensazione che il disegno di legge sia disattento alle questioni dell’attuale fittizia omogeneità retributiva ed alla necessità di commisurare la retribuzione allo specifico<livello di responsabilità ed all’ammontare delle risorse gestite, anziché alla qualifica rivestita ed all’amministrazione di appartenenza. La volontà di realizzare i principi enunciati in materia retributiva perde di credibilità quando si ignorano norme ed emendamenti ad altri disegni di legge che prevedono l’attribuzione di trattamenti economici dirigenziali in favore di alcuni segmenti di personale. Da come viene trattata la materia retributiva traspare la considerazione negativa che le forze politiche dimostrano di avere nei confronti della dirigenza pubblica, il cui trattamento economico continua ad essere agganciato a quello di altre categorie dello Stato. Non si vuole rivendicare da parte della dirigenza pubblica un ruolo di preminenza rispetto ad altre categorie come quelle della magistratura o del corpo docente universitario. Ciascuna svolge funzioni diverse con diverse responsabilità che non possono essere correlate tra loro ai fini retributivi. Si tratta di rivendicare per la dirigenza pubblica una valutazione autonoma rispetto ad altre categorie ad essa tradizionalmente correlate, prendendo come parametro retributivo il peso che le specifiche funzioni di decisione e di responsabilità, connessa con la paternità del provvedimento, devono avere nel nostro sistema istituzionale e sociale.
8.
Conclusioni
Da quanto detto fin qui appare evidente il giudizio di fondo negativo sul disegno di legge 3464. Quello che viene definito come una legge di riforma appare per lo più come una puntualizzazione di quanto regolamentato con il DPR 748 del 1972 lasciando inalterato l’impianto generale della dirigenza pubblica. Viene proposto l’eliminazione di un livello dirigenziale (quello del dirigente superiore) e viene introdotta una parametrazione della già prevista “indennità di funzione” (da 0.1 a 2) che se corrisposta nel livello massimo può triplicare gli emolumenti del dirigente cui viene assegnata senza peraltro garantire allo stesso dei parametri obiettivi di valutazione del proprio operato. Troppo poco per identificare il disegno di legge 3464 come una legge di riforma della dirigenza pubblica. Come si sottolineava in precedenza, si lascia inalterata la struttura complessiva della categoria, non si prevede l’adozione di una nuova filosofia e cultura della gestione degli apparati pubblici, non si realizza concretamente la tanto pubblicizzata separazione tra direzione politica e direzione amministrativa e gestionale, non si specifica il come e il quando ricorrere alle professionalità esterne di manager privati. L’approvazione definitiva del disegno di legge avrà probabilmente l’unico effetto di ridisegnare la mappa del potere amministrativo all’interno della Pubblica Amministrazione senza peraltro dare alla stessa quei canoni di efficienza e di efficacia che erano le premesse enunciate come presupposto della riforma. Attuare una vera e efficace riforma della dirigenza pubblica, come presupposto per una ormai indilazionabile e contemporanea ristrutturazione della pubblica amministrazione italiana, significa innescare un processo di rinnovamento culturale e procedurale a 360 gradi tale da poter giungere in tempi relativamente ristretti ad una conduzione e gestione della cosa pubblica in maniera quantomeno simile al settore privato relativamente alla “qualità del prodotto” ed ai tempi di produzione. Sono termini questi presi in prestito dal settore privato e che probabilmente si attagliano male alla realtà della Pubblica Amministrazione. Dietro questi termini, tuttavia, si cela una cultura ed un modo di operare che deve necessariamente essere mutuato da chi è responsabile della conduzione e gestione dello stato e da chi opera, a tutti i livelli, in esso. Imboccare questa strada significherebbe senz’altro alterare equilibri e “status” di gran parte dell’attuale dirigenza provocando situazioni di instabilità sia pratica che concettuale. E’ un rischio questo che è necessario correre ma in modo “calcolato”. Per contro è d’obbligo garantire al personale attualmente inquadrato nei ruoli dirigenziali una facoltà di opzione, lasciando loro la scelta d’intraprendere un percorso formativo orientato all’acquisizione di nuovi modelli culturali e professionali del “manager pubblico”, oppure mantenere l’attuale “status” giuridicoeconomico in base a modalità da stabilire. Volutamente questa relazione introduttiva non ha fatto cenno agli appartenenti ai ruoli professionali che l’art. 13 del disegno di legge rielaborato dalla Commissione Affari Costituzionali istituisce presso ogni amministrazione pubblica. Le problematiche di questa categoria sono certamente importanti per le funzionalità della pubblica amministrazione, tuttavia, al fine di analizzare in modo preciso ed esaustivo l’intera materia, non possono essere confuse con quelle della dirigenza amministrativa. Sono due realtà professionali distinte per mansioni e responsabilità che devono necessariamente collaborare, garantendo tuttavia ognuna il rispetto della sfera di competenza dell’altra.
Naturalmente in questa relazione sono state trattate tutte le problematiche che si dovranno risolvere nell’ambito di una reale riforma della dirigenza pubblica. Si ritiene comunque di aver individuato i punti salienti su cui aprire un confronto che dovrà essere , nel contempo, approfondito e rapido tale da assicurare entro un tempo ragionevolmente breve questo passaggio dei vertici amministrativi pubblici da una cultura di stampo “burocratico” ad una cultura “manageriale”. Grazie per l’attenzione. © Francesco Naviglio - 1990