Quaderni della Sicurezza Aifos n.3, 2010
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Quaderni della Sicurezza Aifos n.3, 2010
Sommario
EDITORIALE, Fabrizio Benedetti
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Fabrizio Benedetti
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I Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro tra Linee Guida SGSL e OHSAS 18001, struttura, sequenza operativa Alberto Andreani
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L’identificazione delle responsabilità di SS in azienda, la delega, l’effettività della funzione dal D. Lgs. n. 81/2008 al SGSL
Cinzia Frascheri
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La partecipazione dei lavoratori nel “nuovo” modello di tutela della salute e sicurezza sul lavoro
Riccardo Bianconi
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Il processo di valutazione dei rischi nel SGSL
Francesco Naviglio
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Ruolo, modalità e strumenti per l’efficacia dell’addestramento e della formazione come elemento effettivo di prevenzione degli infortuni sul lavoro
Laura Manfrin
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Gestione Operativa
Giuseppe Spada
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La certificazione dei Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro
Giovanni Alibrandi
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Responsabilità amministrativa degli enti e controlli interni Carlo Zamponi La gestione integrata: l’opportunità aziendale
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Attieniti alla disciplina, non lasciarla, praticala, perché essa è la tua vita. (Proverbi 4, 1-27) Dedicato a tutte le persone che si impegnano quotidianamente per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro con l’augurio che tutti i loro sforzi siano premiati.
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Editoriale Fabrizio Benedetti
Nel 1998, poche settimane dopo aver preso servizio al Centro Studi e Servizi per la Prevenzione dell’INAIL, un collega mi diede una copia della BS 8800:1996. Si trattò di una lettura difficile perché questo standard pubblicato dall’ente normatore inglese, il British Standard Institute, era un testo in lingua straniera. Questo non solo e non tanto perché era scritto nell’idioma di Shakespeare, ma soprattutto perché parlava della salute e sicurezza sul lavoro come un elemento dell’attività aziendale, un prodotto dei suoi processi produttivi da conseguire come un obiettivo deliberato e guidato dal management, con impatto sui risultati di business. La BS 8800:1996 non parlava mai della salute e sicurezza sul lavoro come del prodotto della conformità formale ad una serie di adempimenti di legge ma di un sistema di gestione in grado di generare un miglioramento continuo delle prestazioni prevenzionali delle aziende che lo adottavano. In un primo momento pensai che fosse una visione delle cose assurda. Però poi, fermandomi a riflettere, mi vennero una serie di domande: a. Perché, nonostante una montagna di leggi specifiche in materia di salute e sicurezza sul lavoro vigenti nel nostro Paese, si manteneva una sostanziale disapplicazione dei dettati normativi? b. Perché gli infortuni non diminuivano e vi erano ancora tanti morti sul lavoro? c. Perché si percepiva, nel sentire di imprenditori, dirigenti e anche dei lavoratori, una distanza profonda tra “il lavoro” e la sicurezza? A poco a poco ho iniziato a considerare che forse la prospettiva della BS 8800 offriva una serie di vantaggi e traduceva anche il dettato legislativo, allora appena emesso, del D. Lgs. n. 626/94 e del D. Lgs. n. 242/96 in maniera adeguata alle nuove indicazione di valutazione dei rischi e di programmi per eliminare e ridurre i rischi stessi attraverso la responsabilità del datore di lavoro basata sulla conoscenza delle attività aziendali. Dal 1998 ad oggi, sono passati 12 anni, molta strada è stata fatta. Nonostante nel mondo del lavoro, in materia di salute e sicurezza, il passaggio culturale dalla logica dell’adempimento a quello del risultato non sia ancora completamente compiuto, certamente siamo nella giusta direzione. Sono state pubblicate delle Linee guida italiane in materia di sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro, si è diffuso uno standard come la OHSAS 18001, molte aziende hanno adottato un proprio SGSL, la formazione degli RSPP è fondata su questi temi ed anche il recente D. Lgs. n. 81/2008 dà grande importanza ai SGSL ed agli standard che ne descrivono una via applicativa. 1
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Tutto ciò fa sì che l’approccio manageriale alla salute e sicurezza sul lavoro non è più in discussione e la comunità tecnica e scientifica lo ha ormai adottato nella sua validità riconoscendo come unica, ma importante, difficoltà la necessità di identificare modalità e strumenti utili a renderlo applicabile ad ogni tipologia di impresa ed in particolare a quelle piccole e piccolissime. Oggi si può iniziare a dire che i soldi spesi in prevenzione sono investimenti e non costi. I costi, gravi, anzi gravissimi, per il sistema Paese e per ogni impresa, sono quelli della non sicurezza. Possiamo spingerci a dire che una parte del recupero di competitività può passare anche per l’abbattimento degli enormi costi sociali ed economici di infortuni e malattie professionali diminuendone il numero e la gravità. Si può iniziare a dare evidenza di come l’approccio manageriale è utile per massimizzare in termini di efficienza gli investimenti prevenzionali aziendali e, soprattutto, di come sia efficace nel ridurre frequenza e gravità degli infortuni. Questo percorso l’abbiamo condiviso in molti, alcuni sin dall’inizio, altri si sono convinti e vi hanno aderito strada facendo. A questo libro partecipano alcuni tra coloro che più attivamente hanno contribuito ad indicare la giusta direzione. Ognuno dal suo punto di vista - dettato dalle propria formazione di base, tecnica, giuridica, economica, e dalla appartenenza a organizzazioni diverse, istituzioni, associazioni datoriali e sindacali, o piuttosto al mondo dell’impresa e della consulenza - ha apportato un contributo importante nell’individuare necessità, opportunità, criticità e, quindi, soluzioni, modalità operative e strumenti applicativi. Sono onorato e lieto di poter condividere con queste persone il ruolo di autore di questa pubblicazione nella quale, ognuno con il suo stile e con il proprio punto di vista personale, come è sempre stato, fornirà non solo la sua visione sui temi affidati, ma anche indicazioni pratiche ed applicative, pur nei limiti delle pagine disponibili, alle quali unirà quelle che sembrano essere al momento, le linee di sviluppo per il prossimo futuro sul tema dei Sistemi di Gestione della salute e sicurezza sul Lavoro. Il testo è articolato in un capitolo generale di inquadramento ed in una serie di capitoli specifici di approfondimento su una serie di argomenti chiave per implementare correttamente un SGSL. Indispensabile, in chiusura del libro, dare collegamenti tra Sistema di Gestione della Sicurezza, responsabilità amministrativa (D. Lgs. n. 231/2001 e artt. 300 e 30 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i.) e responsabilità sociale delle imprese (CSR – Corporate Social Responsability). Devo ringraziare tutti gli autori per il contributo qualificato che hanno fornito, sintomo di una professionalità ampia e dalle competenze estese sul fronte della salute e sicurezza sul lavoro e non solo. Un grandissimo ringraziamento deve andare anche al Presidente ed al Segretario Generale di AiFOS, così come al Presidente del Comitato Scientifico 2
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ed a tutti i membri che hanno voluto dedicare il terzo volume di questa collana al tema dei Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro, facendomi anche l’onore di affidarmene il coordinamento. Infine un ringraziamento a tutti voi che sarete i lettori di questo breve trattato sui SGSL, sperando che avrete modo di apprezzarlo e, soprattutto, di ricavarne indicazioni, spunti, suggerimenti, strumenti utili sul tema. Quello dei SGSL è un argomento ancora aperto, numerosi sono gli aspetti da estendere ed approfondire. Ci si augura che aumenti nelle aziende la schiera di coloro che approfondendo e sperimentando contribuiscano ad individuare soluzioni, modalità operative e modelli applicativi, contribuendo così allo sviluppo di una cultura della sicurezza fattiva, pratica e non teorica, orientata all’ottenimento di risultati e non della conformità formale, aderente alla filosofia del miglioramento continuo propria dei Sistemi di Gestione della Sicurezza. Noi tutti che abbiamo contribuito a questo testo vogliamo sperare che esso possa contribuire, anche solo in parte, a realizzare questo obiettivo.
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Fabrizio Benedetti
I Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro tra Linee Guida SGSL e OHSAS 18001, struttura, sequenza operativa Fabrizio Benedetti ‐ Componente del Comitato Scientifico AiFOS – Esperto di prevenzione e di gestione della salute e sicurezza sul lavoro – Coordinatore Settore Prevenzione INAIL – CON.T.A.R.P. (Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione)
1. Il Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul lavoro come strategia di prevenzione “Sono 790.000 gli infortuni sul lavoro avvenuti nel 2009, per un calo del 9,7% rispetto al 2008 (85mila in meno). I casi mortali sono stati 1.050, per una flessione del 6,3% (70 decessi in meno). Questi, in estrema sintesi, i numeri più significativi che si ricavano dal bilancio delle denunce pervenute all'INAIL alla data di rilevazione ufficiale del 30 aprile 2010.” Comincia così il bell’articolo pubblicato sul sito web INAIL verso la fine di luglio del 2010. I dati sono molto positivi e confermano il trend di diminuzione in atto da alcuni anni. Certo il calo è almeno in parte sostenuto dalla riduzione della quantità di lavoro causata dalla crisi economica, ma comunque è, per fortuna, in atto una fase regressiva del fenomeno infortunistico. Eppure nonostante la positività del trend non ci si può considerare soddisfatti. Infatti, non si può dimenticare come l’opinione pubblica venga periodicamente turbata da eventi infortunistici gravissimi e di elevata drammaticità, talora fatali ed a carico di più persone contemporaneamente, che hanno fatto avvertire come ancora lontano il raggiungimento dell’obiettivo di luoghi di lavoro protetti e sicuri. Infatti, con una semplice divisione, si può calcolare come ancora oggi le denunce di infortunio che l’INAIL riceve sono poco meno di 2200 al giorno di cui ca. 3 rappresentano casi mortali. Dalla banca dati statistica pubblicata su Internet dall’INAIL si rileva che la frequenza relativa di infortunio calcolata per tutti i settori produttivi esclusa l’agricoltura, come media del triennio 2005 2007, sia stata pari a oltre 28 casi ogni 1000 addetti. Inoltre, sempre per citare il sito Internet dell’INAIL: “Il 2009 è stato un anno record per le malattie professionali. Le denunce complessive sono state 34.646: il valore più alto degli ultimi 15 anni, per un aumento del 15,7% rispetto ai 30mila casi del 2008 e di circa il 30% in 5 anni (8mila denunce in più rispetto alle quasi 27mila del 2005).” Si tratta di un fenomeno di emersione delle tecnopatie rilevante e forse con ulteriori margini di aumento che sta anche ampliando, non solo il numero, ma anche il tipo di patologie che si vanno 4
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manifestando come conseguenza delle condizioni di lavoro. Spesso si dimentica che anche le malattie professionali mietono la loro messe di decessi, soprattutto dovuti a forme tumorali, e generano un gran numero di invalidi talora anche molto gravi. Inoltre, la malattia professionale si evolve in modo progressivo e subdolo per esposizioni continuate, pluriennali, ad agenti di rischio rispetto ai quali non si opera, anche per ignoranza e sottovalutazione del problema, una corretta prevenzione e protezione e che manifestano i loro effetti nocivi sui lavoratori anche dopo molti anni quando magari questi hanno cambiato attività e lavoro. La non immediata corrispondenza temporale tra causa ed effetto, propria delle malattie professionali, è un problema da non sottovalutare nelle strategie di prevenzione anche considerando che il mondo del lavoro è sempre meno legato alla stabilità dell’impiego. Dunque, nonostante le notizie positive che finalmente iniziano ad arrivare, non si può e non si deve abbassare la guardia ma bisogna continuare con impegno e perseveranza per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Ma per rendere efficace ed efficiente questo impegno, quale strategia si può seguire per arrivare ad agire fattivamente la prevenzione dai rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro? Una risposta assoluta non è facile da trovare e forse nemmeno esiste, però qualche ragionamento può essere affrontato. Si può iniziare dal grafico in figura 1 estratto da un interessante libricino pubblicato nel 2001 da INAIL e dal Centro Europeo di Ricerche dal titolo “Modernizzazione dei processi produttivi ed emersione dei costi sociali”. Come si può osservare, per i comparti industria e servizi, sembra esserci una relazione tra la linea tratteggiata, che rappresenta la crescita del tasso di innovazione tecnologica, (investimenti in ricerca e sviluppo per addetto) e la riduzione degli indici di frequenza degli infortuni (linea continua). La prima considerazione che si può fare è che l’innovazione tecnologica ha giocato negli anni un ruolo fondamentale per abbattere il fenomeno infortunistico. Tuttavia questo ruolo è diventato man mano meno determinante. Infatti, mentre il tasso di innovazione tecnologica ha continuato, con una eccezione per gli anni tra il 1993 ed il 1996, a salire, la riduzione della frequenza infortunistica non è stata costante nel periodo osservato, visto che verso la metà degli anni ’80 il trend si è ridotto considerevolmente sino a che, a partire dalla metà degli anni ’90, si può vedere addirittura una lieve controtendenza con indici di frequenza in, se pur lieve, aumento. Il grafico si ferma alla fine del XX secolo. Abbiamo già detto che gli ultimi dati stanno confermando un trend di diminuzione degli infortuni iniziato qualche hanno fa, ma comunque il trend è ancora lento e ci si mantiene sopra i 20 casi per 1000 lavoratori. Inoltre, nell’insieme la tendenza storica mostrata dalla figura 1 ci indica che l’approccio basato sull’innovazione tecnologica, che ha giocato sino agli anni ’80 un ruolo determinante, non può garantire ancora, da sola, la forza 5
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per spingere con decisione, ulteriormente, verso il basso le frequenze di infortunio.
Figura 1: andamento degli indici di frequenza e degli investimenti in ricerca e sviluppo nei comparti dell’industria e dei servizi tra il 1976 ed il 19991
Queste considerazioni sono in linea con quanto indicato in alcuni studi internazionali, i quali affermano che l’approccio alla prevenzione di tipo tecnico e tecnologico può portare le frequenze sino a 20 casi per 1000 lavoratori2. Per scendere sotto questo valore di frequenza infortunistica occorre agire con approccio manageriale alla materia e adottare i Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro (figura 2)3. Comunque, lo sviluppo tecnico e tecnologico resta importante e fondamentale, guai ad abbandonarlo, ma è opportuno che sia affiancato dall’introduzione di modelli organizzativi e gestionali, da sistemi di gestione della sicurezza, in grado di connettere gli investimenti in impianti, macchine e strutture più moderni in un quadro di obiettivi e risultati condivisi tra management e lavoratori, utile a sostenere un percorso di miglioramento consapevole e continuo e, in quanto tale, duraturo della performance prevenzionale4. Attuare un SGSL significa agire sulla parte “biologica” delle organizzazioni, cioè quella afferente alla componente umana e alle sue relazioni, alla struttura 1
Quaderni CER, “Modernizzazione dei processi produttivi ed emersione dei costi sociali” – INAIL 2001. 2 Alain Proust, “Experience feedback on tools leading to significant improvements” – Atti del 2° International Forum of Industrial Safety – Milano, luglio 2009. 3 Con ca. 28 casi di infortunio ogni 1000 lavoratori, la situazione attuale in Italia può essere considerata di transizione tra le due strategie di approccio (www.inail.it – statistiche – Banca dati statistica – 26 agosto 2010). 4 F. Benedetti, “C'è una via che porta a "infortunio zero"” – Nuovi lavori - Newsletter n. 50 del 20/07/2010 – ripubblicato da ILO ROMA Newsletter – Aprile 2010 dedicata al tema, proposto dall’ILO per il 2010, Rischi emergenti e nuovi modelli di prevenzione in un mondo del lavoro che cambia.
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organizzativa che le governa, alla gestione del capitale umano, in termini di sviluppo di competenze e capacità, attraverso la partecipazione ed il coinvolgimento delle strutture e funzioni aziendali verso i modelli e le scelte definiti dai vertici dell’organizzazione stessa, estendendo l’area di attenzione e responsabilità lungo la catena di fornitura.
Figura 2: approcci, strategie ed interventi alla prevenzione degli infortuni in relazione alle frequenze di infortunio nel tempo (Proust – 2009 modificato)
Quindi per ridurre gli infortuni e le malattie professionali i Sistemi di Gestione sono, nell’attuale situazione del contesto prevenzionale italiano ed europeo, uno strumento appropriato da spingere e rafforzare. Conferme in questo senso vengono da uno studio INAIL pubblicato nel 2008 i cui risultati sono sintetizzati in figura 35. Infatti, come si può vedere, nelle aziende che hanno adottato un SGSL gli indici di frequenza e di gravità degli infortuni risultano mediamente inferiori a quelli riscontrati nell’insieme delle imprese dello stesso settore produttivo. Ci sono riduzioni medie del 15%, con punte di abbattimento anche del 45%.
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M. I. Barra, P. Fioretti, G. Morinelli, A. Terracina “OH&S economic analysis: an evaluation tool and the results on OHSAS 18001 certified company”, XVIII World Congress-KOSHA, 29 giugno-2 luglio 2008, Korea e in F. Benedetti, “The certification of the health and safety management systems” 8th International Workcongress “On work injury prevention, rehabilitation and compensation” Durban, South Africa, 31 March – 02 April 2008.
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Figura 3: confronto indici di gravitĂ e frequenza infortuni nelle aziende con SGSL rispetto al totale delle aziende italiane
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Certamente sono risultati incoraggianti che confermano le ipotesi e le teorie di base che ci si augura possano essere confermati e rafforzati in futuro. 2. Il Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro come contributo alla produttività ed all’efficienza Dunque i SGSL sono in grado di fornire alle aziende che li adottano performance di prevenzione superiori a quelle delle altre e, quindi, possono favorire il trend di riduzione degli infortuni ed incrementarlo. Si potrebbe aggiungere che, visto il sostanziale cambiamento culturale alla salute e sicurezza sul lavoro connesso con l’adozione della filosofia gestionale e del miglioramento continuo, i SGSL possono stabilmente portare a performance prevenzionali in continuo incremento. Questa condizione può offrire grandi vantaggi in termini di competitività aziendale e di sistema, confermando e rafforzando la necessità di un approccio manageriale al tema della tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Il ritorno economico degli investimenti nella sicurezza è un concetto noto già da diversi anni a livello internazionale. A livello mondiale, secondo i dati dell’International Labour Organization – ILO – ogni anno nel Mondo infortuni e malattie professionale determinano una perdita economica di oltre il 4% del PIL6 mondiale. Anche in Europa stime di qualche tempo fa indicavano un costo sociale complessivo, legato al fenomeno infortunistico e tecnopatico, stimato tra il 2,6 ed il 3,8% del prodotto interno lordo della Comunità Europea7. Già in precedenza, uno studio effettuato nel 1996 dall’Health and Safety Executive – HSE – stimava un costo totale di infortuni ed incidenti nel Regno Unito compreso tra il 5 ed il 10 % del PIL. Negli Stati Uniti nel 1999 il National Safety Council indicava in 125 miliardi di dollari il costo annuale degli infortuni, pari al 45% dei dividendi distribuiti agli azionisti8. Un programma sperimentale, tuttora in corso, condotto dall’Occupational Safety and Health Administration (OSHA), di adesione volontaria9 agli standard di sicurezza sul lavoro dell’OSHA, sta dimostrando che le 178 aziende che hanno aderito hanno ridotto gli infortuni del 45% rispetto ai valori attesi e del 55% rispetto alle aziende dello stesso settore produttivo, con una riduzione dei giorni lavorativi persi del 49%. Alcune aziende aderenti al programma hanno registrato anche un incremento 6
Prodotto Interno Lordo. F. Benedetti, “Approcci manageriali alla salute e sicurezza sul lavoro” – atti del Convegno Nazionale del Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR: SGSL: Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro – Trieste 22-24 settembre 2005. 8 A. Calabrese, E. Cagno, P.Trucco, “Costi e pianificazione della sicurezza” . Il Sole 24 ore – 2003. 9 VPP (Voluntary Protection Programm). 7
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della produttività aziendale (+13% in tre anni) ed una diminuzione negli scarti di produzione (-16% in tre anni)10. In Italia l’INAIL ha più volte stimato il costo economico sociale complessivo degli infortuni e delle malattie professionale, arrivando nel 2007, su base dati del 2005, ad un valore di ca. 45 miliardi di euro, ca. il 3% del PIL del nostro Paese11. Solo una frazione di questo enorme importo è costituita dai costi assicurativi mentre ca. il 40% è a carico del sistema produttivo ed ammonterebbe, ogni anno, a ca. 19 miliardi di euro. D’altronde, già nel 1996, nel Regno Unito, sempre l’HSE stimava che i costi non coperti da assicurazione fossero tra 8 e 36 volte superiori a quelli coperti da assicurazione12. La stessa Commissione Europea, nel 2004, parlava di “effetto iceberg” dei costi della salute e sicurezza sul lavoro, in quanto quelli sommersi erano calcolabili in 11 volte quelli palesi13. Semplificando il ragionamento, che moltissimi studiosi hanno affrontato da diversi decenni a questa parte, possiamo dire che la gran parte dei costi palesi attiene ai costi assicurativi per la copertura della responsabilità civile nei confronti del lavoratore infortunato, mentre la maggior parte dei costi nascosti li sostengono le stesse organizzazioni nelle quali gli infortuni si verificano, i loro clienti e altre organizzazioni come, ad esempio, quelle dei fornitori14. Uno studio effettuato in ambito INAIL, di recente pubblicazione, indica come mediamente ogni infortunio determini un costo medio di ca. 23.000 euro di cui ca. 13.000 sono a carico dell’azienda nel quale l’evento si è verificato15. Si tratta di costi diretti, dovuti a: • perdita di produzione; • danni alle strutture ed ai macchinari; • formazione del personale sostitutivo; • ore di straordinario per recuperare la perdita di produzione; • aumento del premio di assicurazione; • spese legali; • franchigia assicurativa. Ma anche di costi indotti o indiretti, dovuti a problemi di mercato e di produttività e causati da: 10
America Society of Safety Engeneers, White Paper Addressing. Infortuni e morti biance nel 2007 – www.inail.it – 26.03.2008. 12 Linea Guida BS 8800:1996. 13 F. Benedetti et al., “Manuale operativo per la qualifica professionale del responsabile del servizio di prevenzione e protezione” EdiProf AIAS – 2006. 14 J. Mossink, M. De Greef, “Inventory of socioeconomic costs of work accidents” European Agency for Safety and Health at Work, Luxembourg 2002. 15 I.Barra, G. Morinelli, A. Terracina, “Sistemi di gestione contro gli infortuni: dall’INAIL, i primi dati di efficacia” – Ambiente e sicurezza – Sole 24Ore – n. 18, 30 settembre 2008. 11
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• danno di immagine; • insoddisfazione del cliente; • calo di morale e di senso di appartenenza del personale. Questi costi le imprese li sostengono in modo inconsapevole e non si rendono conto che operare per ridurli trasforma i soldi spesi in prevenzione in investimenti competitivi che puntano a recuperare le enormi cifre perse in non sicurezza, legate a grandi dolori e sofferenze umane e che, soprattutto nelle piccole aziende, possono minare la stessa esistenza della azienda16. Questa disamina non è, peraltro, ancora completa, in quanto i fenomeni infortunistico e tecnopatico sono solo un aspetto, certamente il più drammatico, di un problema più vasto di carenze nelle tutele di lavoro. Infatti infortuni e malattie si sovrappongono; a volte sono anche la conseguenza, di una esagerata diffusione del lavoro nero, irregolare che raggiunge nel nostro Paese livelli molto alti. Siamo di fronte ad un PIL nero, invisibile, che non produce vantaggi al sistema che anzi deve sobbarcarsi ingiustificati aggravi sui costi previdenziali, assicurativi, sanitari e sulla resa dei meccanismi fiscali che, tra le altre cose, degenera i rapporti di libera concorrenza tra gli attori del mercato, soprattutto quello interno, a svantaggio di una competitività generale già in difficoltà sui mercati internazionali dove occorre far fronte al fenomeno della globalizzazione17. Non solo, i costi associati agli infortuni ed alle malattie professionali sono, a loro volta, solo una parte delle somme perse dalle aziende a causa di malfunzionamenti, rotture, danneggiamenti, cattiva organizzazione. Infatti, gli infortuni sono solo una frazione degli eventi perniciosi che avvengono nelle aziende. Inoltre, in un contesto produttivo come quello italiano, caratterizzato dall’assoluta prevalenza di imprese piccole e piccolissime, viste le frequenze di infortunio, i tempi medi di ritorno di infortunio, soprattutto se molto grave, sono molto lunghi (ca. 25 anni). Ogni anno in Italia, su poco meno di 4 milioni ca. di aziende, gli infortuni avvengono solo in mediamente 280 mila imprese (ca. 7,6% del totale). Dunque solo queste sono a rischio? Solo su queste si deve agire? Solo su queste gravano i costi e le problematiche sopra discusse? Purtroppo non è così. Infatti, le 280 mila imprese in cui si verificano infortuni non sono sempre le stesse. La ripartizione degli infortuni avviene con criteri puramente statistici in 16
Nelle piccole imprese lo stesso datore di lavoro partecipa al ciclo produttivo e sopporta gli stessi rischi dei suoi collaboratori. Non è affatto raro il caso in cui la vittima dell’infortunio sia lo stesso imprenditore o suoi congiunti. Anche nell’ormai tristemente noto caso della Truk Center di Molfetta tra le cinque persone decedute vi era anche il titolare dell’impresa. 17 F. Benedetti, “Il sistema di gestione della sicurezza: da costo ad opportunità” Ambiente e Sicurezza sul Lavoro – n. 12, dicembre 2006 – Editore EPC Libri.
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un contesto produttivo in cui il livello di rischio, calcolato come funzione della probabilità di accadimento e della gravità dell’evento, è tutto sommato omogeneo. Per dirla con parole forse non del tutto appropriate ma più semplici e più immediate, il fatto che in una azienda, soprattutto se con pochi dipendenti, da diversi anni non si verificano infortuni sul lavoro non è, di per sè, condizione sufficiente per dire che essa è sicura. Sin dal 1931, è nota e più volte sperimentalmente confermata la proporzione dettata dal cosiddetto “Triangolo di Heinrich”, secondo la quale per ogni infortunio grave vi sono 29 infortuni minori e 300 incidenti senza infortunio18. In altre parole solo una frazione degli eventi negativi che si verificano sui luoghi di lavoro si trasformano in danni fisici alle persone. Dunque, vi sono moltissimi eventi che, pur se, fortunatamente, non causano danno ai lavoratori, causano comunque danni materiali, fermi e ritardi nella produzione e, dunque, ulteriori perdite economiche. Non solo, questi eventi hanno una importanza prevenzionale rilevante. In figura 4 è riportata una piramide degli infortuni calcolata dall’INAIL e riportata nel “Programma Leonardo”19 per la formazione Figura 4: piramide degli infortuni in materia di prevenzione, esplicativa di come gli eventi più gravi siano solo la punta di un iceberg formato da un gran numero di eventi minori. Ulteriori elaborazioni indicano che per ogni infortunio vi sono 25 incidenti, 200 quasi incidenti e 1000 comportamenti a rischio20. Dunque, si può stimare che per ogni infortunio mortale si verificano alcuni 18 G. Rota, “Statistica applicata al sisteema di gestione della sicurezza – Storia di una esperienza professionale & aziendale” – www.unindustria.bg.it/restyling/servizi/ambiente/pubblicazioni/pubblicazioni.jsp 19 In CD Rom allegato a P. Favarano e Soriani Bellavista, “Manuale per la formazione alla salute e alla sicurezza”” , Ambiente & Sicurezza - Il Sole 24 ore, 2003. 20 C. Saccani, “L’impatto tecnico-economico della sicurezza sul lavoro nei sistemi produttivi” – DIEM (presentazione al Convegno “La sicurezza del lavoro in ambito industriale” – 16 marzo 2009 Bologna).
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milioni di comportamenti a rischio21. Si può concludere che non è impossibile che il primo evento negativo ad accadere sia proprio un infortunio grave o mortale, ma ciò è altamente improbabile. È più logico che esso, invece, avvenga in un contesto dove si sono già verificati eventi di gravità minore, anche senza conseguenze. I comportamenti pericolosi ed i mancati incidenti non necessariamente, per fortuna, determinano danni a cose o persone ma sono la manifestazione della possibilità che essi potrebbero prodursi. Il ripetersi di comportamenti a rischio ne aumenta la probabilità di accadimento. Ad esempio un martello che cade da un’impalcatura può non procurare danni, ma il ripersi di questo evento aumenta la probabilità del verificarsi di un infortunio anche mortale. Trascurare gli eventi di bassa gravità significa formare il substrato per accadimenti di gravità elevata. Viceversa, rilevare incidenti, quasi incidenti e comportamenti a rischio, catalogarli, analizzarli, individuarne e rimuoverne le cause riduce moltissimo la probabilità di accadimento di infortuni, in particolare quelli di elevata gravità. Inoltre, rimuovere le cause di comportamenti errati, mancati incidenti ed incidenti22 aumenta l’efficienza dei cicli produttivi, riducendo malfunzionamenti e rotture e le connessa perdita di produttività e redditività dei processi aziendali. La raccolta e l’analisi di questo tipo di dati è una questione gestionale ed è propria dei SGSL. Possiamo, dunque, confermare la tesi che il problema della salvaguardia della salute e della sicurezza sul lavoro rappresenta un fattore che ha una importanza strategica per un’organizzazione in quanto può avere influenza sui risultati di business, sia per l’impatto dell’insieme delle inefficienze interne (i costi diretti), sia per gli influssi sulle componenti di mercato e, più in generale sui propri portatori di interesse ed in particolare clienti e lavoratori (costi indotti) con riflessi possibili anche su finanziatori, istituzioni, ecc.. D’altra parte si potrà convenire che il livello di sicurezza è influenzato dagli stessi fattori che determinano la “competitività” di una organizzazione quali il: • modello organizzativo adottato; • livello di preparazione delle persone; • motivazione e partecipazione del personale; 21 Nel lavoro appena citato nella nota precedente si calcola che per ogni infortunio vi sono 1.225 comportamenti rilevanti, mentre sono 3.700.000 quelli per ogni infortunio mortale. 22 La rilevazione ed il trattamento degli infortuni, anche con un solo giorno di prognosi, dovrebbe essere cosa scontata ed acquisita visto che la legge prevedeva già da lungo tempo la loro registrazione sul registro infortuni. Purtroppo l’osservazione diretta ci dice che non è così. I libri infortuni non sono tenuti, o non con le giuste modalità, oppure non vengono utilizzati per analizzarne le cause ed operare le azioni correttive atte a prevenirne il ripetersi dell’infortunio. Auguriamoci che l’invio di questi dati all’INAIL e la loro confluenza nel SINP, come indicato nel D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i., possa fornire questa possibilità.
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• livello tecnologico ed efficienza di impianti, macchine, attrezzature, metodi di lavoro; • monitoraggio continuo dell’organizzazione e verifica dei risultati raggiunti. Pertanto agire su tali fattori per ridurre i rischi per la salute e sicurezza sul lavoro significa migliorare la capacità dell’impresa di stare sul mercato. Per tutti questi motivi le organizzazioni devono operare contemperando le esigenze produttive e competitive e quelle prevenzionali, strutturando ed organizzando la salvaguardia della sicurezza e della salute sul lavoro in modo integrato con la struttura ed il modello organizzativo generale. In tal modo l’organizzazione finirà per sfruttare al meglio le proprie risorse e potrà trarre una serie di benefici, che si possono brevemente elencare in: • miglioramento della efficacia ed efficienza dei processi produttivi; • miglioramento della “qualità” dei prodotti/servizi realizzati; • riduzione dell’impatto ambientale della produzione (minori quantità di rifiuti e scarti, diminuzione delle emissioni, ecc.) • ottimizzazione delle risorse necessarie per “mettersi a norma”; • diminuzione delle ore lavorative perse per infortuni e malattie; • diminuzione dei danni alle strutture, ai macchinari o alla produzione a seguito di incidenti; • maggiore attaccamento dei dipendenti all’azienda; • autorealizzazione legata all’alto contenuto etico delle attività di prevenzione degli infortuni; • diminuzione dei problemi in presenza di controlli delle autorità di vigilanza; • creazione di una immagine “responsabile” dell’organizzazione.
3. Storia ed evoluzione dei Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro e dei principali standard di riferimento Ogni impresa può cercare la sua via per realizzare questa integrazione ed ottenere i risultati migliori di una corretta gestione aziendale integrata con gli aspetti di salute e sicurezza sul lavoro. Questa possibilità operativa è praticabile da grandi aziende dotate di risorse in grado di poter autonomamente formulare modelli culturali e gestionali importanti23. 23
Alcune grandi imprese del settore chimico, o del settore petrolifero o energetico hanno prodotto modelli gestionali di grande efficacia. Alcuni come Du Pont sono addirittura in grado di esportarlo in altre aziende e offrono consulenza sul tema della salute e sicurezza. Recentemente diverse grandi aziende in Italia hanno avviato programmi di miglioramento della salute e sicurezza, normalmente
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Inoltre, creare autonomamente regole e modalità applicative di gestione della sicurezza può offrire il fianco a critiche di autoreferenzialità e risultare poco credibile per alcune tra le parti interessate. Per questa ragione il ricorso a standard gestionali che forniscano le regole ed i requisiti di base viene richiesto dal mondo produttivo. In materia di salute e sicurezza sul lavoro sono disponibili da tempo degli standard gestionali che indicano quali sono gli elementi essenziali, i cosiddetti “requisiti”, che un SGSL aziendale deve avere e rispettare per essere considerato correttamente realizzato. Gli standard più noti ed affermati nel nostro Paese sono le Linee Guida per un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro – SGSL, meglio note come Linee guida UNI – INAIL – Parti sociali, e le BS OHSAS 18001. Non sono gli unici standard disponibili, non sono norme del sistema ufficiale di normazione, fanno parte di una storia evolutiva che, a mio avviso, vale la pena riassumere. Il punto di partenza è certamente quello dei sistemi di gestione più noti e più applicati dalle organizzazioni che sono quelli per la gestione della qualità, in primis, e poi quelli per la gestione ambientale. Per regolare l’implementazione di questi sistemi gli enti di normazione, in primo luogo l’ISO24, hanno pubblicato specifiche e notissime famiglie di norme, quelle della serie UNI EN ISO25 9000 per la qualità e UNI EN ISO 1400026 per la gestione ambientale, che offrono riferimenti a 360° sui requisiti e le caratteristiche utili a rendere tali sistemi funzionali per le organizzazioni in modo che diano buoni risultati27. I Sistemi di Gestione della Qualità costituiscono, dal punto di vista culturale e concettuale la madre, il riferimento, la base di ogni altro modello gestionale, sia in materia ambientale, sia in materia di salute e sicurezza. Per quanto riguarda la gestione della sicurezza, si è già detto ma è bene spinte dalla necessità di ridurre alti tassi incidentali. Anche se non sempre, questi programmi si possono identificare come veri e propri SGSL, ne hanno le caratteristiche di base. Nonostante abbiano spesso portato ad ottimi risultati, hanno però grandi difficoltà ad essere esportati tal quali in altre imprese anche dello stesso comparto. Vengono spesso citati come buone prassi ma la loro applicabilità è condizionata dal contesto produttivo dell’azienda in cui sono nati e dal management che li ha pianificati ed attuati e non ne risulta agevole estrarne un metodo applicativo generalizzabile. 24 International Organization for Standardization. 25 La sigla UNI EN ISO indica che il documento è una norma tecnica approvata dall’UNI (ente di normazione italiano), dal CEN (Comitato Europeo di Normazione) e dall’ISO. 26 Le UNI EN ISO 9001 e le UNI EN ISO 14001 sono solo due delle norme della serie 9000 e 14000. Sono le più note, tanto da diventare sinonimi dei sistemi di gestione qualità e dei sistemi di gestione ambientale, perché sono le norme che fissano i requisiti rispetto ai quali i sistemi di gestione delle aziende vengono certificati da organismi, detti appunto di certificazione. Sul processo di certificazione si tornerà più avanti nel testo. 27 F. Benedetti et al., “I sistemi di gestione per la sicurezza, la salute e l’ambiente”, EdiProfAIAS, 2004.
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ribadirlo, non esistono norme ufficiali a livello internazionale. Vi è stato però un progressivo fiorire di documenti guida, di standard gestionali, emessi da vari enti ed istituzioni, spesso aggregati in gruppi di lavoro, che hanno cercato di mutuare i principi logici delle norme ufficiali di gestione, 9000 e 14000, alla salute e sicurezza sul lavoro. Il primo importante documento compiuto di guida e riferimento per l’implementazione di un SGSL nelle aziende nasce nel 1996 con la BS 880028. Si tratta di una linea guida pubblicata dall’ente di normazione britannico, il BSI, con lo scopo di fornire uno standard gestionale di adozione volontaria che consentisse alle aziende di facilitare la gestione dei rischi, migliorare le condizioni di salute e sicurezza connesse con le loro attività ottenendone un ritorno economico e che sviluppasse un’immagine responsabile dell’azienda nel mercato. La BS 8800 ha avviato una discussione presso l’ISO per la creazione di una norma valida a livello mondiale per i sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro. Tale discussione non ha trovato conclusione positiva e, fino ad oggi, non esiste, come detto, una norma internazionale in materia di SGSL figlia del sistema ufficiale di normazione. Nel 1999, sempre il BSI, insieme ad un gruppo di organismi di certificazione e di enti di normazione di vari paesi, quasi tutti di area di influenza britannica, hanno elaborato uno standard, la OHSAS29 18001, scritta in modo da fornire i requisiti utili a poter verificare e quindi certificare i sistemi di gestione di salute e sicurezza sul lavoro. Questo documento non è una vera norma in quanto nasce fuori dal sistema di normazione ufficiale. Ma poiché si integra con i sistemi di gestione descritti nella ISO 9001, e nella ISO 14001, ed ha come scopo la dimostrazione di conformità a fini certificativi, diverse imprese, nel Mondo e anche in Italia, la hanno adottata e si sono fatte certificare contribuendo così ad affermare le 18001 come lo standard più diffuso in materia. Visto il successo di diffusione ed al termine di un lunga raccolta di dati ed informazioni in tutti i paesi del Mondo (OHSAS 18001 survey) la 18001:1999 è stata aggiornata ed innalzata al rango di norma inglese dal BSI nel 2007, ma ne riparleremo fra poco perché c’è in mezzo un’altra storia da raccontare. Infatti, nel 2001, l’International Labour Organization – ILO30 ha pubblicato, nell’ambito di un più vasto progetto denominato “Safework”, delle linee guida (ILO/OSH 2001 - Guidelines on occupational safety and health system) in
28 Norme analoghe furono sviluppate nello stesso periodo dall’UNE, l’ente di normazione spagnolo, le UNE 81900, 81901 e 81902 EX. Esse però non hanno avuto lo stesso successo delle BS 8800 e negli anni successive mi risulta siano state ritirate. 29 Occupational Health and Safety Assessment Series. 30 L’ILO è l’agenzia dell’ONU in materia di lavoro e sicurezza sociale ed ha sede a Ginevra.
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materia di gestione della salute e sicurezza sul lavoro31. Si tratta di un documento molto importante sia politicamente, perché emesso da una grande agenzia internazionale ufficialmente riconosciuta, sebbene non operante nel campo della normazione tecnica, sia per i contenuti proposti che, da un lato, confermano la necessità di disporre di modelli gestionali relativi alla salute e sicurezza sul lavoro e, dall’altro, indicano una strada non in linea con il modo di procedere dell’ISO. Infatti, non si propone uno standard unico e vincolante a livello internazionale e valido in ogni parte del mondo, come ad es. la ISO 9001. L’ILO, invece, propone delle Linee guida generali e di impostazione che indicano la struttura del SGSL ed i requisiti di massima rispetto ai quali invitano i sistemi locali ad elaborare modelli di maggior dettaglio che definiscano requisiti più calzanti per le singole realtà nazionali e/o di comparto rendendo quindi più facile il compito delle imprese di implementare efficacemente i propri sistemi interni di gestione32 (figura 5).
Figura 5: ILO/OSH 2001 - Guidelines on occupational safety and health system
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Nel 1999 l’Unione Europea aveva predisposto un documento (Doc. 0135/4/99 EN – European guideline on the Organisation of Occupational Safety and Health) rimasto però allo stato di draft e mai pubblicato ufficialmente. È stato comunque reso noto e presenta un testo di grande interesse. 32 Questa impostazione è contraria alla globalizzazione delle regolamentazioni volontarie in materia di sicurezza visto che nel Mondo le situazioni legislative, sia della sicurezza che di regolamentazione dei rapporti di lavoro, sono estremamente diversificate in termini di contenuto e importanza (basti pensare che in molti paesi in via di sviluppo quello che in Italia chiamiamo lavoro nero si chiama “lavoro informale” ed è del tutto legale, mentre in altri gli obblighi di sicurezza sono meno stringenti che in Europa. Ad es. in Brasile l’utilizzo dell’amianto non è vietato). Di conseguenza l’applicazione di un SGSL non parte dallo stesso punto di origine ed i requisiti non hanno lo stesso valore ovunque.
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In considerazione di questa indicazione dell’ILO, così come dell’assenza di un riferimento normativo ISO o UNI e dell’importanza di disporre di un modello gestionale condiviso dalle parti interessate, L’INAIL, l’UNI, l’ISPESL33 con tutte le principali associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori hanno predisposto e pubblicato, a cura dell’UNI, nel settembre 2001, le “Linee Guida per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL)”. Queste linee guida non sono una norma e non è possibile utilizzarle a fini di certificazione, tuttavia sono un modello gestionale condiviso da istituzioni e parti sociali ed hanno spinto l’intero sistema prevenzionale del nostro Paese a ragionare concretamente su questo importante argomento. Infatti, un paio di anni dopo la pubblicazione delle Linee Guida SGSL, l’UNI ha tentato la strada della norma ufficiale italiana in materia di SGSL. È stato creato un gruppo di lavoro che ha redatto una bozza di norma andata due volte in inchiesta pubblica, ma poi, l’opposizione di una sola, ma politicamente importante, componente sociale non ha fornito la condivisione ritenuta necessaria alla emanazione definitiva34. Nel frattempo in Europa molti paesi, tra cui la Germania35, l’Austria, l’Irlanda, hanno seguito l’esempio italiano ed hanno pubblicato delle Linee Guida nazionali in materia di SGSL. Nel 2004 anche le BS 8800 sono state aggiornate attraverso la pubblicazione di una nuova versione di questa famosissima linea guida ma in Italia la cosa non ha avuto alcuna risonanza. Come già accennato, nell’estate del 2007 sono state aggiornate e modificate le OHSAS 18001 il cui rinnovamento, combinato con la promozione a rango di norma ufficiale inglese, è avvenuto in Italia senza particolari clamori, essendo il dibattito sulla sicurezza monopolizzato dalla gestazione del cosiddetto “Testo Unico”. Eppure è stato un evento di grande importanza che potrebbe far rinascere la discussione presso l’ISO sulla nascita di una norma internazionale sulla salute e sicurezza sul lavoro. Nel 2008 sono state ripubblicate le OHSAS 1800236, linee guida per l’applicazione delle 18001. Le 18002 non sono molto semplici da applicarsi, ma, una volta assimilata la chiave interpretativa, forniscono indicazioni di progettazione del sistema 33
Da maggio 2010 l’ISPESL è confluito nell’INAIL. Si ritiene che la mancata emissione della norma UNI in materia di SGSL sia stato una grande occasione persa dal sistema Paese. La prima bozza di norma era già pronta nel 2003 e se fosse uscita tempestivamente avrebbe di fatto superato le OHSAS 18001 nate da un sistema esterno per ampliare il mercato della certificazione. La bozza di norma non è ancora ufficialmente ritirata ed il processo di emissione non è definitivamente chiuso, ma, dopo la pubblicazione del D. Lgs. n. 81/2008 ed in particolare dell’art. 30, le condizioni per una sua pubblicazione sembrano ormai non essere più attuali. 35 “Leitfaden fur Arbeitsschutzmanagementsysteme - Version 2002”. 36 Occupationale Health and Safety Management Systems – Guidelines for the implementation of OHSAS 18001. 34
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interessanti e utili. Le 18002 hanno, per il momento, completato il quadro evolutivo degli standard in materia di SGSL. Abbiamo però sorvolato sui contenuti delle Linee Guida SGSL e delle OHSAS 18001, nonché sui disposti dell’art. 3037 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. sui quali andiamo a spendere qualche riga nei prossimi paragrafi. 4. Le “Linee guida per un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro – SGSL” UNI 2001 e le OHSAS 18001:2007 Come già accennato nel precedente paragrafo, le Linee Guida SGSL non sono una norma ufficiale, tuttavia hanno raggiunto l’unanime consenso tra le parti sociali. Questo consenso ha reso questo documento estremamente importante, oltre che sul piano applicativo, su quello culturale e politico ed ha creato le basi per diffondere ed iniziare ad applicare i SGSL. Il modello gestionale delle Linee Guida SGSL (figura 6) si fonda sui seguenti aspetti principali: − il cerchio di Deming, PDCA38; − gestione sistemica e per processi delle organizzazioni39; − approccio al miglioramento continuo40; 37
Su questo punto vedere anche il contributo riportato nel capitolo a cura del Prof. Alibrandi. Il cerchio di Deming, noto anche come cerchio della qualità, o PDCA (Plan, Do, Check, Act) è la rappresentazione del cosiddetto “paradigma di Deming, secondo il quale ogni attività deve essere pianificata, attuata secondo quanto pianificato, si deve controllare che quanto fatto sia risultato coerente con quanto pianificato e consenta di raggiungere i risultati voluti; dopo le eventuali necessarie correzioni, questa attività deve essere riportata in una proceduta la cui applicazione consente il mantenimento nel tempo dei risultati pianificati. 39 Ogni organizzazione aziendale è considerata come un insieme di processi (insieme di attività che trasformano elementi in ingresso in elementi in uscita; ad esempio materie prime che vengono trasformate nei prodotti e servizi dell’azienda). I processi aziendali possono essere classificati in processi principali e secondari o di supporto. Il processi principali sono quelli caratteristici dell’azienda, in sintesi sono quelli che producono i beni ed i servizi che l’azienda fornisce ai propri clienti. Attraverso i processi principali l’organizzazione produce valore. I processi di supporto, non producono valore di per se e non sono in diretto contatto con il cliente, ma il loro funzionamento serve a facilitare e favorire l’operatività dei processi principali e, quindi, contribuiscono a che essi producano con maggior efficienza ed efficacia (sono ad es. i processi di direzione, di acquisti, di gestione delle risorse umane, di gestione finanziaria, di gestione delle infrastrutture, di gestione del know how, ecc.). La visione sistemica è data proprio dal riconoscere la profonda interazione e sinergia tra i diversi processi e di come le performance di un processo possano influenzare quelle degli altri e, di conseguenza, la competitività dell’organizzazione. 40 Il Miglioramento Continuo può essere definito come il “processo di accrescimento del sistema di gestione per ottenere miglioramenti complessivi dei livelli di prestazione del sistema stesso in accordo con la politica dell’organizzazione”. Questo concetto è stato ripreso anche negli standard relativi alla gestione della salute e sicurezza sul lavoro come la BS 8800, la OHSAS 18001, le Linee Guida SGSL ed altri. Con l’esplicitazione del miglioramento continuo il paradigma di Deming evolve in una spirale aperta (figura 6) in cui, a seguito della verifica e della correzione (Act), si devono introdurre nuovi ed 38
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− integrazione con la gestione complessiva delle organizzazioni e, ove siano presenti, con i sistemi di gestione per la qualità (serie ISO 9000) e per l’ambiente (serie ISO 14000); − adozione volontaria; − non assoggettabilità del SGSL e dei suoi contenuti applicativi all’azione degli enti di vigilanza; − impossibilità dell’utilizzo delle Linee guida SGSL per la certificazione di parte terza41. A parte l’ultimo punto, l’intero elenco è applicabile anche alla 18001. Il sistema tracciato dalle Linee guida SGSL presta attenzione alle necessità applicative e cerca di fornire indicazioni utili per l’adozione, anche da parte delle organizzazioni più piccole come le piccole e medie imprese42.
ACT PLAN
CH EC K
DO Figura 6: l’evoluzione a spirale del ciclo di Deming nelle Linee Guida SGSL (UNI 2001)14
La pubblicazione delle Linee guida SGSL ha realizzato una svolta essenziale nell’evoluzione culturale dell’approccio alle problematiche di salute e sicurezza ulteriori obiettivi per il miglioramento del sistema ed a seguito di ciò la nuova fase di pianificazione parte da una posizione più elevata. 41 Vedere più avanti nel testo e soprattutto il contributo di G. Spada proprio sull’argomento della certificazione dei SGSL. 42 Nonostante ciò permangono difficoltà per le piccolissime imprese nell’implementare un SGSL. Per tale ragione sono in corso diversi tentativi di redigere Linee di indirizzo che possano offrire maggiori dettagli applicativi e semplificare il percorso di implementazione per le imprese di minori dimensioni interessate a farlo. Al comma 5 bis dell’art. 30 del D. Lgs. 81/2008, come modificato dal D. Lgs. 106/2009, il compito di individuare procedure semplificate per l’adozione di modelli di organizzazione e gestione della sicurezza per le piccole imprese è affidato alla Commissione consultiva permanente.
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sul lavoro. Attraverso questo documento, associazioni datoriali e sindacali, tradizionalmente contrapposte, hanno condiviso, sostenute in ciò da una componente pubblica attiva e propositiva, non solo i principi, ma anche le modalità per gestire la salute e la sicurezza sul lavoro nelle imprese andando oltre gli obblighi di legge, basando tutto sulla libera volontà degli imprenditori di attivare un circolo virtuoso attraverso il quale migliorare continuamente le proprie prestazioni prevenzionali e di competitività. Proprio la libertà e la volontarietà di scelta da parte del management risulta elemento cruciale per condurre alla reale integrazione del SGSL nella gestione complessiva delle organizzazioni. Questo passa attraverso la formalizzazione degli impegni che ci si assume, l’esplicitazione degli obiettivi che si intende raggiungere, ed i risultati a cui tendere, accettando le responsabilità, facendo proprio un modello basato sulla prevenzione e sul miglioramento continuo. Il modello gestionale definito nelle Linee Guida SGSL non è in contrasto con le OHSAS 18001. I punti di fondo sono analoghi; però le prime sono scritte avendo come focus l’organizzazione e l’implementazione del sistema di gestione, le seconde sono focalizzate all’audit ed alla verifica per la certificazione e, quindi sulle necessità di chi deve farla e condurla. Un confronto schematico tra questi due standard è riportato in figura 7. OHSAS 18001
LINEE GUIDA SGSL non sono norme ufficiali integrabili con ISO 14001 e ISO 9001 adozione volontaria non soggette all’attività di vigilanza applicabilità generale in ogni organizzazione NON È CONDIVISO DALLE PARTI È CONDIVISO DALLE PARTI SOCIALI INTERESSATE SONO CERTIFICABILI NON SONO CERTIFICABILI FOCUS SULLA IMPLEMENTAZIONE DEL SGSL ENFASI SU − partecipazione FOCUS SULLA VERIFICA DEL SGSL − coinvolgimento − integrazione con la gestione complessiva Figura 7: OHSAS 18001 e Linee Guida SGSL a confronto
Dal punto di vista dei contenuti i due documenti hanno aree piuttosto ampie di sovrapposizione, che però risultano non sempre immediate da cogliere, data la diversa impostazione di scrittura dei due testi che danno anche un diverso 21
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rilievo ad alcuni argomenti. In particolare le Linee Guida danno uno spazio molto maggiore alle tematiche di condivisione, cooperazione, comunicazione, formazione e modalità di integrazione del SGSL nella gestione complessiva. Le 18001 forniscono invece requisiti più accurati sulla valutazione dei rischi, la gestione delle non conformità, degli incidenti e degli infortuni, così come sulla gestione delle emergenze, su cui le Linee Guida insistono poco in quanto ritenuti temi già definiti dalle leggi cogenti. Le OHSAS 18001:1999 definiscono il Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro come “quella parte del sistema di gestione complessivo che facilita la gestione dei rischi per la salute e la sicurezza sul lavoro associati al business dell’organizzazione. Include la struttura organizzativa, le attività di pianificazione, le responsabilità, le pratiche, le procedure, i processi e le risorse necessarie per sviluppare, implementare, raggiungere, riesaminare e mantenere la politica dell’organizzazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro43”. Secondo tale definizione, la gestione dei rischi per la salute e la sicurezza non solo è un elemento connaturato nella gestione complessiva dell’organizzazione ma è influenzata ed in grado di condizionarne i risultati di business. Nella seconda parte della definizione sono riassunti in poche righe gli elementi costitutivi di un SGSL. Le Linee Guida SGSL non forniscono una definizione sintetica ma indicano in premessa cosa si intende per Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro, nel seguente modo: “La gestione della salute e della sicurezza sul lavoro costituisce parte integrante della gestione generale dell’azienda. La realizzazione degli obiettivi di salute e sicurezza nelle aziende non comporta l’obbligo né la necessità di adozione di sistemi di gestione della sicurezza. Le presenti linee guida costituiscono pertanto un valido aiuto per le imprese che intendono volontariamente adottare un sistema di gestione della sicurezza. Un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (in seguito denominato SGSL) integra obiettivi e politiche per la salute e sicurezza nella progettazione e gestione di sistemi di lavoro e di produzione di beni o servizi. Il SGSL definisce le modalità per individuare, all’interno della struttura organizzativa aziendale, le responsabilità, le procedure, i processi e le risorse per la realizzazione della politica aziendale di prevenzione, nel rispetto delle norme di salute e sicurezza vigenti”. Si tratta di definizioni diverse ma analoghe nei concetti esposti, sebbene con forma e dettagli peculiari, che in sintesi affermano che: 43 L’edizione 2007 delle 18001 riporta una definizione più semplice che elimina il concetto dei rischi associati al business. Questa definizione del 1999 rimane però, ad avviso di chi scrive, estremamente interessante ed illuminata e concettualmente preferibile a quella più aggiornata.
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• salute sicurezza sul lavoro sono in collegamento con la competitività della azienda e ne deve essere fatta una gestione integrata con la gestione complessiva dell’organizzazione; • un SGSL: o è utile per facilitare la prevenzione dei rischi quando integra la gestione della salute e sicurezza sul lavoro nei processi aziendali; o comprende una serie di elementi (responsabilità, pianificazione, processi, prassi e procedure, risorse) che l’impresa deve mettere in azione per realizzare la propria politica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza sul lavoro; o ha come presupposto il rispetto della legislazione vigente ed è utile per mantenere nel tempo la conformità e facilitare la capacità di adattamento all’evoluzione di leggi. 5. Il Sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro: contenuti, requisiti, elementi di implementazione In modo schematico la sequenza di attività utile a realizzare un SGSL può essere così sintetizzata: a) esame iniziale44; b) redazione, emanazione e diffusione della politica della salute e sicurezza sul lavoro; c) pianificazione; d) definizione della struttura organizzativa del SGSL; e) realizzazione ed attuazione di quanto pianificato; f) sensibilizzazione del personale attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutti i componenti dell’organizzazione; g) controllo operativo e monitoraggio; h) riesame e miglioramento. Dunque il primo passo è l’esame iniziale attraverso il quale raccogliere tutte le informazioni utili per capire il punto di partenza dal quale pianificare il rispetto dei requisiti gestionali richiesti dallo standard di riferimento. In questa fase si deve capire quale struttura organizzativa esiste e se questa è congrua o deve essere modificata, se i processi, le procedure e le prassi già in 44
Le OHSAS 18001 non comprendono l’esame iniziale.
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atto sono idonei rispetto agli scopi dell’organizzazione ed ai problemi da fronteggiare. Queste informazioni si cumulano con quelle indispensabili che derivano dalla valutazione dei rischi e consentono quindi una concreta definizione degli obiettivi da raggiungere con immediatezza e di quelli, invece, raggiungibili in un lasso di tempo più lungo, in funzione delle risorse disponibili o attivabili, consentendo una realistica previsione del livello di sicurezza realizzabile e della sua progressiva evoluzione nel tempo. Partendo dalle informazioni raccolte, per attuare un SGSL l’Alta Direzione45 dell’organizzazione deve stabilire una linea d’azione, una strategia, la politica aziendale46 in materia di salute e sicurezza sul lavoro, da seguire e da realizzare in un determinato arco di tempo, attraverso un’accurata pianificazione, mettendo in piedi una struttura organizzativa adeguata allo scopo, definendo accuratamente responsabilità, specifiche procedure, pratiche e processi e assegnando congrue risorse. Il processo di gestione della sicurezza è un processo direzionale, cioè la responsabilità su di esso è dell’alta direzione dell’organizzazione, cui spetta l’emanazione della politica, la definizione degli obiettivi, l’attribuzione delle risorse per raggiungerli, l’assegnazione delle responsabilità e delle autorità in azienda47. Il ruolo della direzione rende effettiva la sua “leadership” se la fonda sul confronto, la partecipazione, la condivisione con il personale della propria
45 L’Alta Direzione è costituta da coloro che sono al vertice dell’organizzazione e la governano. L’alta direzione ed il Datore di Lavoro, figura identificata dal D. Lgs. n. 81 come massimo responsabile aziendale in materia di sicurezza, a volte, specialmente nelle organizzazioni grandi e strutturate, non sono coincidenti (in molte grandi aziende il datore di lavoro è un dirigente nemmeno molto vicino al vertice aziendale). Occorre comunque che l’organizzazione identifichi l’alta direzione alla quale ricondurre le responsabilità gestionali richieste dal SGSL. L’alta direzione, o le stesso datore di lavoro che non possa o non intenda occuparsi direttamente del SGSL, deve incaricare una persona per rappresentarlo in questa attività. Questo “rappresentante della direzione”, deve essere in grado di svolgere i suoi compiti autonomamente e, pertanto, deve essere qualcuno in possesso di capacità adeguate e disporre di sufficiente autorità all’interno dell’azienda. 46 La “politica aziendale di salute e sicurezza sul lavoro” può essere definita come l’insieme degli obiettivi, degli indirizzi e dei principi d’azione dell’azienda riguardo alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro. La sua formulazione, in modo documentato, cioè in forma scritta, spetta all’alta direzione che deve dimostrare, particolarmente all’interno dell’organizzazione, di credere nell’importanza della sicurezza. La politica viene emessa per dare gli indirizzi attraverso cui guidare l’organizzazione e stabilisce il quadro di riferimento all’interno del quale vengono stabiliti gli obiettivi di sicurezza da raggiungere. In altre parole gli obiettivi di miglioramento che verranno man mano pianificati dovranno essere coerenti con la politica di salute e sicurezza emanata dall’organizzazione. L’insieme di politica e obiettivi individuano i risultati da raggiungere e, quindi, tracciano la strada verso il miglioramento continuo. La politica è funzione del modo in cui il top management vede e gestisce la propria organizzazione e ne indica lo sviluppo nel tempo; essa deve esprimere consapevolezza e assunzione di responsabilità14. 47 In proposito vedere il capitolo a cura di Alberto Andreani.
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organizzazione48. Secondo le Linee Guida SGSL l’impegno ed il coinvolgimento di tutte le funzioni aziendali, ed in particolare dei livelli principali dell’organizzazione, sono determinanti per raggiungere gli obiettivi pianificati49. Occorre anche considerare che il personale opera all’interno del SGSL, e più in generale nell’organizzazione, per il positivo raggiungimento degli obiettivi gestionali che hanno come scopo principale la loro stessa tutela. Nella fattispecie il coinvolgimento e la partecipazione si giovano anche della presenza di un figura di rappresentanza e di mediazione, il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza – RLS che può offrire un contributo propositivo ed attivo ben oltre la semplice “consultazione”. Personale coinvolto, informato e formato è attivo e partecipe nell’ottenimento degli obiettivi di salute e sicurezza aziendali. Il SGSL individua coinvolgimento, informazione e formazione come attività prevenzionali da identificare nei contenuti e nelle modalità attuative e di verifica della loro efficacia50. Il SGSL opera sotto i vincoli di tipo: cogente, che vengono dalla legislazione; volontario, cioè lo standard di gestione che si ritiene di adottare e seguire. Il rispetto della legge è fondamentale. Solo assicurando il mantenimento della conformità legislativa il sistema potrà virtuosamente agire, altrimenti i metodi e le modalità gestionali saranno utilizzati in modo distorto per gestire la non conformità alle leggi senza ridurre concretamente i rischi per la sicurezza e per il business dell’organizzazione. Il SGSL è centrato sulla valutazione dei rischi51 e sulla loro continua e progressiva riduzione. Per fare questo si focalizza sui processi gestiti dall’organizzazione sulle loro modalità operative e sugli influssi e le relazione reciproche tra essi e pianifica ed attua specifici controlli operativi52 ed un sistema di monitoraggio e misurazioni utili a tenerne sotto controllo l’adeguatezza e la pertinenza alla realtà delle singola organizzazione in modo 48
Vedere nel seguito del testo il capitolo a cura di Cinzia Frascheri. Linee Guida per un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro – SGSL – UNI 2001 50 Vedere in proposito nel seguito il capitolo a cura di Francesco Naviglio. 51 Vedere nel seguito il capitolo a cura di Riccardo Bianconi. 52 Per Controllo operativo di intende quell’insieme di attività con le quali si definiscono, pianificano e verificano le modalità di lavoro perché queste si svolgano in modo da assicurare il raggiungimento dei risultati desiderati e, pertanto, pianificati. In termini pratici ciò significa che avendo identificato le esigenze da soddisfare come fine delle attività, lo svolgimento di queste viene pianificato e descritto in specifiche procedure di lavoro di cui viene tenuta sotto controllo l’applicazione attraverso un adeguato sistema di monitoraggio in modo che le esigenze suddette vengano soddisfatte. Nel caso della sicurezza le esigenze da soddisfare sono quelle di evitare incidenti ed infortuni, e, soprattutto, visto che si adotta un approccio preventivo, l’eliminazione/riduzione dei rischi. Per maggiori dettagli vedere nel seguito il capitolo a cura di Laura Manfrin. 49
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che risulti sempre quanto più efficace ed efficiente rispetto agli scopi di sviluppo della prestazione prevenzionale ed all’impiego delle risorse disponibili53. Al controllo e monitoraggio deve essere agganciato un processo di trattamento delle eventuali non conformità riscontrate da risolvere attraverso adeguate azioni correttive. Il processo di correzione viene attivato anche e soprattutto per quasi incidenti, incidenti ed infortuni. Tutte le informazioni derivanti dal monitoraggio e controllo e sugli eventi negativi eventualmente avvenuti conducono al riesame della direzione. Il riesame è la ripetizione dell’esame iniziale che si svolge con cadenze definite e pianificate con lo scopo di correggere eventuali errori di gestione e di individuare nuovi ulteriori obiettivi di miglioramento delle performance prevenzionali dell’organizzazione. Il SGSL è legato al tempo che collega i passaggi dell’intero sistema tra cicli successivi di riesame14 verso il miglioramento continuo. 6. Il Sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro e la responsabilità amministrativa delle imprese54 L’art. 9 della Legge 123/200755 è la disposizione legislativa con la quale è stata estesa la responsabilità amministrativa delle imprese56, regolata dal D. Lgs. n. 231/2001, ai reati previsti dagli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 terzo comma (lesioni personali colpose gravi o gravissime) del codice penale che siano stati commessi con la violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro. Ulteriori indicazioni sono giunte dall’art. 300 del D. Lgs. n. 81/2008 che va a modificare il D. Lgs. n. 231/2001 nel modo seguente: 1. L’articolo 25-septies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, è 53
L’attività di monitoraggio caratterizzante i sistemi di gestione e che ha maggiore capacità di misurare l’efficienza e l’efficacia del sistema è l’audit interno: “esame sistematico ed indipendente per determinare se le attività ed i risultati sono conformi alle misure pianificate, se queste sono attuate con efficacia e se sono adatte a perseguire la politica e gli obiettivi dell’organizzazione”. L’effettuazione di audit periodici, secondo un programma prestabilito, consente un esame più profondo e più critico di tutti gli elementi del sistema di gestione della sicurezza. Esso deve essere effettuato da soggetti esperti e competenti, indipendenti e non coinvolti nel sistema stesso, attraverso un metodo preciso e codificato. Le organizzazioni devono definire il proprio metodo per pianificare e gestire i propri audit interni. Per fare questo viene in supporto, per chi vorrà attuarla e seguirla, la UNI EN ISO 19011:2003 –“Linee Guida per gli audit dei sistemi di gestione per la qualità e/o di gestione ambientale” applicabile anche ai SGSL. 54 F. Benedetti, “Gestione della sicurezza. Un progetto di norma italiana” Ambiente e Sicurezza sul Lavoro – n. 1, gennaio 2009 – Editore EPC Libri. 55 Questa norma è la “legge delega” dalla quale è poi nato il D. Lgs. n. 81/2008. In realtà i contenuti della “delega” erano solo nell’art. 1; i restanti 11 articoli contenevano disposizioni che erano immediatamente applicabili sin dalla pubblicazione della legge. 56 Vedere nel seguito del testo il capitolo a cura di Alibrandi.
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sostituito dal seguente: «Art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) 1. In relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione dell’articolo 55, comma 2, del decreto legislativo attuativo della delega di cui alla legge 3 agosto 2007, n.123, in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura pari a 1.000 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. 2. Salvo quanto previsto dal comma 1, in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non inferiore a 250 quote e non superiore a 500 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno. 3. In relazione al delitto di cui all’articolo 590, terzo comma, del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si applica una sanzione pecuniaria in misura non superiore a 250 quote. Nel caso di condanna per il delitto di cui al precedente periodo si applicano le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, per una durata non superiore a sei mesi». Per esplicitare meglio il concetto, semplificando al massimo e inviando alla lettura del capitolo dedicato alla responsabilità amministrativa, si può dire che nelle aziende in cui avvengono infortuni con esito mortale o di invalidità permanente, causati da carenze nell’applicazione delle norme di legge, oltre alle sanzioni penali a carico della persona responsabile, si possono aggiungere a carico dell’azienda, intesa come soggetto giuridico, sanzioni economiche comprese tra un minimo di quasi 26 mila euro ed un massimo di ca. 1,5 milioni di euro57. 57 Gli importi da pagare possono essere ridotti (art. 12 del D. Lgs. n. 231/2001) a condizione che l’azienda abbia risarcito i danni causati ed abbia adottato, successivamente all’evento causa del giudizio sulla responsabilità amministrativa, un modello organizzativo idoneo. Le sanzioni sono riferite a quote di capitale aziendale e, pertanto, esse dovranno essere liquidate utilizzando il capitale sociale, che se non sufficientemente capiente dovrà essere integrato con le risorse patrimoniali e/o i contributi dei soci. Qualora ciò non avvenisse e la perdita di capitale superasse il terzo del totale, l’azienda verrà dichiarata fallita ed i libri contabili dovranno essere portati in Tribunale. Oltre a quelle economiche le imprese che contravvengono alle norme sulla responsabilità amministrativa possono subire l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito, il divieto di contrarre con la P.A., la esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e/o revoca di quelli concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi, oltre alla eventuale confisca e pubblicazione della sentenza.
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Le aziende possono però esser esentate da queste sanzioni se (D. Lgs. n. 231/2001): 1. sono stati comunque adottati modelli organizzativi, di gestione e di controllo idonei a prevenire reati della specie poi verificatasi; 2. è stato istituito internamente un organismo di vigilanza; 3. il reato è stato commesso eludendo fraudolentemente i protocolli preventivi; 4. non ci sono state omissioni o negligenze nell’operato dell’organismo di vigilanza. Il D. Lgs. n. 231/01 dava mandato alle associazioni imprenditoriali di redigere linee guida sui modelli organizzativi, di gestione e di controllo sui quali basare l’esimente. Nel 2002, sono state emesse dalla CONFINDUSTRIA linee guida in materia, poi aggiornate nel 2004 ed ancora nel 200858. L’art. 30 del D. Lgs. n. 81 fornisce specifiche indicazioni su quali caratteristiche debbano avere i modelli organizzativi e gestionali da applicare nelle aziende perché vi sia l’esenzione dalla responsabilità amministrativa59: «Articolo 30 - Modelli di organizzazione e di gestione 1. Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure 58
Quest’ultimo aggiornamento è stato utile proprio per inserire indicazioni sui temi della salute e sicurezza sul lavoro seguenti alla pubblicazione della L.123/2007. 59 I contenuti dell’art. 30 si rivolgono esclusivamente alla prevenzione ed all’esimente per i reati previsti dagli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 terzo comma (lesioni personali colpose gravi o gravissime) del codice penale che siano stati commessi con la violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro.
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adottate. 2. Il modello organizzativo e gestionale di cui al comma 1 deve prevedere idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività di cui al comma 1. 3. Il modello organizzativo deve in ogni caso prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dimensioni dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. 4. Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico. 5. In sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione di cui all’articolo 6. 5-bis. La commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro elabora procedure semplificate per la adozione e la efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza nelle piccole e medie imprese. Tali procedure sono recepite con decreto del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (omissis)». Semplificando al massimo si può dire che per essere esentati è necessario per l’azienda aver disposto l’efficace attuazione di : a) un modello di organizzazione, gestione e controllo che abbia i contenuti di cui ai commi da 1 a 4 dell’art. 30. Secondo il comma 5, tale modello è, per le parti corrispondenti, considerato adeguato a quanto richiesto se è conforme alle Linee Guida SGSL (UNI 2001) o alle BS OHSAS 18001:2007. b) un organismo interno all’organizzazione che abbia compiti di iniziativa e di controllo sull’efficacia del modello e che sia dotato di piena autonomia nell’esercizio della supervisione e del potere disciplinare. c) un codice di disciplina ed un sistema sanzionatorio interno 29
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attraverso il quale si possa punire coloro che contravvengono alle disposizioni espresse attraverso il modello di cui al punto a). I punti b) e c) indicano cose fino ad oggi estranee ai contenuti ed alle finalità dei SGSL e, quindi, non comprese negli standard di precedente emanazione come le Linee Guida SGSL e le OHSAS 18001. Infatti, come recita il testo di legge, le Linee Guida SGSL o le BS OHSAS 18001:2007, garantiscono l’esenzione dalla responsabilità amministrativa solo “per le parti corrispondenti”. I punti b) e c) sono le parti non corrispondenti e che devono essere aggiunte rispetto ad un SGSL 18001 o Linee Guida UNI – INAIL – Parti Sociali. In particolare qualche difficoltà applicativa potrebbe essere generata dall’individuazione di un idoneo Organismo di Vigilanza, particolarmente per le imprese piccole e piccolissime. La Commissione Consultiva Permanente istituita presso il Ministero del Lavoro dovrebbe fornire entro breve tempo indicazioni anche su questo tema60. Anche le già citate “Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D. Lgs. n. 231/2001” emesse da CONFINDUSTRIA il 31 marzo 2008 offrono indicazioni molto utili. 7. La certificazione dei SGSL La certificazione di un sistema di gestione è un processo secondo il quale una terza parte indipendente, detto organismo di certificazione61, ne verifica l’implementazione attuata da un’organizzazione, per accertare che il sistema sia conforme allo standard di gestione che si è deciso di seguire e che si sia in grado di raggiungere gli obiettivi ed opera con efficienza ed efficacia. Come detto più volte, per i SGSL lo standard di riferimento è la BS OHSAS 18001:2007. Gli enti di certificazione possono essere o meno accreditati da un ente nazionale deputato a questo scopo. Dal 2003 è operativo in Italia un regolamento ufficiale per l’accreditamento62 degli organismi di certificazione dei sistemi di gestione della 60
Presso la Commissione Consultiva è attivo uno specifico comitato (Comitato 4) che sta operando per rispondere alle richieste dei commi 5 e 5 bis dell’art. 30 del D. 81/2008 e s.m.i.. 61 L'Organismo di Certificazione (spesso abbreviato con OdC) è una organizzazione (legalmente costituita) che certifica la conformità dei sistemi di gestione o dei prodotti/servizi a specifiche norme di riferimento. Le norme di riferimento a fronte delle quali è possibile emettere una certificazione si possono classificare in sistemi di gestione (UNI EN ISO 17021:2006), prodotti/servizi (45011:1999) e personale (UNI EN ISO 17024:2004). 62 Per accreditamento si intende: «Attestazione da parte di un organismo nazionale di accreditamento che certifica che un determinato organismo di valutazione della conformità soddisfa i criteri stabiliti da norme armonizzate e, ove appropriato, ogni altro requisito supplementare, compresi quelli definiti nei rilevanti programmi settoriali, per svolgere una specifica attività di valutazione della conformità» REG (CE) N. 765/2008. L'accreditamento attesta il livello di qualità del lavoro di un Organismo (di certificazione e di ispezione) o di un Laboratorio (di prova e di taratura), verificando la conformità del
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salute e la sicurezza sul lavoro. Questo regolamento emanato dal SINCERT, ente di accreditamento italiano oggi sostituto da ACCREDIA63, e denominato RT 12 SCR, è stato redatto con la collaborazione della gran parte delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, e dei principali enti pubblici come l’INAIL. Nel 2006 è terminata la prima revisione dell’RT 12 SCR che è la versione ancora oggi applicata ed è disponibile sul sito web di ACCREDIA. Il regolamento presenta diversi spunti interessanti ed innovativi, rispetto ai regolamenti di accreditamento per la certificazione dei sistemi di gestione della qualità e dell’ambiente. Questo maggior rilievo regolamentare è volto ad aumentare il rigore nei confronti dell’operato degli organismi che svolgono attività di certificazione. Le regole principali del regolamento RT 12 SCR sono sintetizzate nella tabella in figura 8. Dal momento dell’emissione dell’RT 12 SCR i principali organismi di certificazione hanno avviato le pratiche e ricevuto l’accreditamento. Ad oggi i siti produttivi certificati OHSAS 18001 sotto accreditamento ACCREDIA sono 233064. Regolamento RT 12 SCR – SINCERT Certificazione per sito (unità produttiva) No a certificazione parziale del sito o di singoli processi di lavoro. Se si tratta di organizzazione multi sito deve essere predisposto un programma per certificare nel tempo tutti i siti. Obbligo di conformità alle leggi vigenti. La certificazione avviene verificando la conformità alla OHSAS 18001 interpretata alla luce delle Linee Guida SGSL. La certificazione potrà avvenire solo dopo che l’organizzazione abbia compiuto, e non solo pianificato, almeno un riesame della direzione. Audit di certificazione in due stages: STAGE 1: visione di insieme sul SGSL e applicazione. STAGE 2: valutazione applicazione, verifica conformità alla politica ed allo standard di riferimento. Figura 8: I punti di sintesi del regolamento di accreditamento RT 12 SCR65.
suo sistema di gestione e delle sue competenze a requisiti normativi internazionalmente riconosciuti, nonché alle prescrizioni legislative obbligatorie (estratto da sito web www.accredia.it in data 23 agosto 2010). 63 Da gennaio 2010 ACCREDIA è l’ente unico di accreditamento riconosciuto dallo Stato. ACCREDIA è un’associazione senza scopo di lucro, nata nel 2009 dalla fusione di SINAL e SINCERT - strutture che già operavano per l'accreditamento, rispettivamente, dei laboratori di prova e degli organismi di certificazione e ispezione - in risposta a quanto disposto dal Reg. CE 765/2008 in materia di accreditamento e vigilanza del mercato (sito web ACCREDIA il 23 agosto 2010). 64 Banca Dati Accredia (aggiornamento aprile 2010) – www.accredia.it . 65 F. Benedetti, “The certification of the health and safety management systems” – 8th International
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Come si è già detto, implementare un SGSL è un atto volontario dell’organizzazione, certificarlo è un ulteriore manifestazione di volontarietà. L’obiettivo delle organizzazioni deve essere la ricerca dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione prevenzionale, attraverso il miglioramento continuo, a beneficio della salute e sicurezza sul lavoro e dell’operatività aziendale complessiva. Solo dopo aver maturato tutto ciò la certificazione può offrire una attestazione utile verso il mercato ed i propri portatori di interesse. Attualmente tutti i principali Organismi di certificazione hanno ricevuto l’accreditamento e stanno ampliando i settori produttivi nei quali possono operare66. Consultando la banca dati Accredia, si può vedere che ad aprile 2010 i siti certificati sono 2330. Si tratta di un numero incredibile considerando che al 31 gennaio 2006 essi erano appena 317. 8. SGSL, la legge, la cultura della sicurezza Per concludere bisogna tenere presente e rammentarsi sempre che anche la direttiva comunitaria 89/391 (ieri il D. Lgs. n. 626/94, oggi il D. Lgs. n. 81/2008) chiede che siano le organizzazioni a strutturarsi per gestire in proprio la sicurezza e l’igiene del lavoro5. Con l’introduzione di queste leggi è stato abbandonato l’approccio esclusivo alla prevenzione e protezione oggettiva, su base tecnica e tecnologica legata al “command and control”, per adottarne uno gestionale che impone alle organizzazioni pubbliche e private di organizzarsi e gestirsi assegnando responsabilità e ruoli al datore di lavoro ed ai dirigenti, così come a preposti (capi squadra, capi reparto, capi turno, ecc.) e lavoratori, ciascuno secondo le proprie attribuzioni, competenze e capacità da sviluppare ed accrescere attraverso la partecipazione, la formazione, l’addestramento. In base a queste considerazioni, quando si parla di “cultura della sicurezza” bisognerebbe ricordarsi che le azioni di prevenzione e protezione non sono più indicate a priori per legge indifferentemente dalle condizioni aziendali come avveniva per la legislazione emanata negli anni ‘50, ma devono essere definite attraverso un processo di indagine, analisi e decisione, posto in carico al datore di lavoro, la valutazione dei rischi, al quale devono partecipare attivamente i lavoratori anche attraverso i loro rappresentanti. Workcongress on Work Injury Prevention, Rehabilitation and Compensation - Durban, South Africa 31 March – 02 April 2008. 66 L’accreditamento è rilasciato per i settori produttivi nei quali operano le aziende cui viene rilasciata la certificazione. Questo vuole dire che un ente di certificazione è autorizzato ad operare sotto accreditamento solo nei settori produttivi in cui è stato autorizzato a farlo da Accredia. Man mano che essi estendono la loro attività in aziende di settori produttivi diversi possono chiedere ad Accredia l’estensione dell’accreditamento.
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Tutti questi passaggi organizzativi la legge non li esplicita in modo completo sino ad indicare le modalità con cui essa può essere attuata dalle aziende. Il passaggio tra la richiesta legislativa e l’attuazione pratica sul posto di lavoro spetta all’imprenditore, al datore di lavoro. Tocca a questa figura gestire le sue attività per realizzare la concreta integrazione della salute e sicurezza sul lavoro nella complessiva gestione delle sua organizzazione. Il D. Lgs. n. 81/2008 fissa i punti nodali definendoli come adempimenti da realizzare, ma non dice come questi si connettono con la gestione economica e finanziaria, con la politica degli acquisti, con la gestione delle risorse umane e la rilevazione e la soddisfazione dei clienti8. Questo perché non è e non può essere lo scopo della legge ma è il compito, anzi il dovere, del management aziendale che può compierlo strutturando un SGSL attivo nel migliorare le performance prevenzionali dell’azienda. Questa cultura manageriale della sicurezza è quella basata su obiettivi pianificati e risultati raggiunti in termini di prevenzione ed abbandona quella, ancora oggi dominante, dell’adempimento. Nel tempo dovremmo poter misurare i progressi prevenzionali non solo attraverso gli indici di frequenza e di gravità degli infortuni, ma anche attraverso indicatori proattivi con i quali determinare l’impegno delle organizzazioni nel tempo, passando dalla fase di implementazione tecnica e tecnologica a quella organizzativa e gestionale secondo scelte e decisioni di politica aziendale compiute dal management e sostenute attraverso la partecipazione e la condivisione con i lavoratori, la cui consapevolezza e le cui capacità e competenze sono progressivamente implementate attraverso continua ed appropriata formazione. Questa è la sfida vera che abbiamo di fronte. Un SGSL può essere una potente arma per vincerla, in quanto è la concretizzazione di questa cultura fattiva, tecnica, organizzativa e gestionale in grado di far operare soggetti che vivono nel mondo del lavoro nel modo richiesto dalla legge ricercando un miglioramento continuo delle prestazioni prevenzionali aziendali ed è in grado di cambiare stabilmente l’approccio alla salute ed alla sicurezza sul lavoro nelle imprese in cui viene adottato.
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L’identificazione delle responsabilità di SS in azienda, la delega, l’effettività della funzione dal D. Lgs. n. 81/2008 al SGSL Alberto Andreani ‐ Consulente in igiene e sicurezza sul lavoro. Docente presso la Facoltà di Giurisprudenza di Urbino
“…in Belgio sono sempre esistiti i cosiddetti “accessi alla professione” cioè un requisito sotto forma, sia di esperienza lavorativa, che di titolo di studio. All’inizio, per l’edilizia erano abbastanza flessibili e poi con l’esperienza degli abusi commessi e dei casi sempre più numerosi di denunce sono aumentate le esigenze. Siamo dunque arrivati al punto che per una semplice attività di imbianchino, l’artigiano deve dimostrare di essere in possesso di un titolo di studi o di un’esperienza abilitativa. Nel mio caso, per creare un’impresa generale di costruzione ho dovuto fornire la prova di possedere una laurea di tipo breve in edilizia e lavori pubblici, visto che non avevo un’esperienza lavorativa di almeno 10 anni in diverse attività. Malgrado questo titolo di studi ci sono delle lavorazioni che non posso svolgere. Questa piccola introduzione sugli accessi alla professione è utile per fare capire che grazie a questi accessi alla professione, s’incontrano sempre di più sui cantieri, delle persone che hanno non solo un’esperienza lavorativa, ma anche un certo livello di competenze di base. Tali conoscenze permettono di sapere, non solo gestire, un’attività ma soprattutto di prevedere i rischi connessi al lavoro. Come dimostrano le statistiche, le nuove generazioni d’imprenditori sono più coscienti dei rischi della loro attività rispetto alle passate. In Italia l’accesso alla professione, per quanto riguarda l’edilizia è libero di vincoli di titolo di studio o di esperienza. Una delle conseguenze di questo è il fatto di trovarsi a confronto con persone che hanno ricevuto una formazione da altri con anzianità di servizio e quindi un’eccellente formazione dal punto di vista esecutivo e tecnico ma sicuramente scarsa in termini di sicurezza. Per quanto riguarda il lavoro edile stesso, non essendo stabilito nessun tipo di vincolo di studio o di esperienza, una persona qualsiasi potrebbe improvvisarsi imprenditore da un giorno all’altro e quindi fare concorrenza ad un azienda che lavora da 20 anni. Di conseguenza aumenta la concorrenza, si abbassano i prezzi e, ovviamente in questo tipo di mercato c’è sempre meno spazio per la sicurezza. Mettere a confronto due paesi così diversi in una tesina redatta, dopo una stage di pochi mesi non è cosa facile. Sarebbe utile avere il tempo di approfondire e paragonare ogni articolo di legge di entrambi i paesi, per capire qual è l’interpretazione data ad ognuno di loro, mettendoli a confronto con il testo di base della direttiva europea. Per questo motivo, quello che ho cercato di dare è il punto di vista di un coordinatore belga, stabilito da poco in Italia quindi con 34
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un quadro generale poco specifico o forse non troppo obiettivo su quello che è la professione di coordinatore per la sicurezza. Per riassumere le cose, in Belgio si punta molto sulla prevenzione, perché il paese ha iniziato un lavoro in questo senso, una trentina d’anni fa, in tutti i campi sensibili dal punto di vista della sicurezza. Si cerca di responsabilizzare la gente sia sul lavoro che sulla strada o in altri campi. La sanzione viene applicata solo se non c’è altra soluzione. Mi sembra che il fatto di dovere ottenere un accesso alla professione aiuti molto a “scremare” la gente che non è idonea. Questo lavoro fatto a monte evita di ritrovarsi sul cantiere con persone che dovrebbero fare altro. L’Italia invece punta sul controllo e per ottenere ciò si avvale di sanzioni. Il sistema italiano è molto più repressivo e lo si vede in tutti i campi dove si parla di sicurezza. Come già detto prima, a parer mio, il fatto che non ci sia una selezione a monte, fa sì che persone di ogni esperienza lavorativa possano, da un giorno all’altro improvvisarsi imprenditori e fare concorrenza ad imprese che hanno molta esperienza, facendo in quel modo abbassare i prezzi in un modo esagerato. La concorrenza e i costi più elevati mettono il committente nella condizione di dover risparmiare. Questo risparmio spesso è purtroppo a scapito della sicurezza. È difficile in un contesto del genere fare prevenzione…”67. Mi è sembrato opportuno iniziare le riflessioni sull’argomento che mi è stato affidato, inserendo un breve stralcio della tesina che Emmanuel Vanderbeck ha redatto alla fine di uno stage presso il mio studio, perché credo che sintetizzi in modo semplice, ma esaustivo, il contesto nel quale si inseriscono le norme di salute e sicurezza nel nostro paese. Mi sono chiesto perché questo ragazzo belga, in soli tre mesi di stage perviene a così acute considerazioni, mentre in Italia, anche tra gli addetti ai lavori, stenta ancora ad emergere la necessità di un cambio culturale e si continuino ad invocare sanzioni sempre più severe piuttosto che la condivisione della “utilità” di comportamenti sicuri. Purtroppo, nonostante il fatto che fin dagli anni ’90 con il recepimento delle prime direttive sociali europee, sia cambiata profondamente la filosofia della legislazione che riguarda i rischi lavorativi, la pratica attuazione di tali regole, resta tutt’ora ancorata alla struttura della previgente normativa degli anni ’50. Quest’ultima, prevedeva precisi e dettagliati precetti per le varie situazioni di rischio, come ad esempio: • la viabilità e i luoghi di lavoro; • le attrezzature e le macchine; • i ponteggi e le impalcature; • il trasporto dei materiali; 67 Emmanuel Vanderbeck, Tesina finale di una stage effettuato presso il mio studio nei mesi di aprilemaggio e giugno 2010.
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• le caratteristiche dei luoghi di lavoro. Ma gli obblighi che derivavano da queste norme, da un lato, non prendevano in considerazione l’azienda o il cantiere nella loro interezza e dall’altro lasciavano al datore di lavoro completa libertà in merito alla organizzazione della propria impresa. L’art. 4 del d.p.r. n. 547 del 1955 e, in maniera analoga, l’art. 4 del d.p.r. n. 303 del 1956, prevedevano che: “I datori di lavoro, i dirigenti ed i preposti che eserciscono, dirigono o sovraintendono alle attività indicate all'art. 1, devono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze: a) attuare le misure di sicurezza previste dal presente decreto; b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le norme essenziali di prevenzione mediante affissione, negli ambienti di lavoro, di estratti delle presenti norme o, nei casi in cui non sia possibile l'affissione, con altri mezzi; c) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”. Come si evidenzia chiaramente dalla lettera della norma, il datore di lavoro poteva distribuire i compiti tra i propri collaboratori senza essere vincolato a porre in atto una organizzazione predeterminata e veniva chiamato a rispondere solamente se non fosse riuscito a raggiungere gli obiettivi di sicurezza che gli erano richiesti: nessun addebito poteva essergli mosso per una carenza organizzativa. Al contrario le norme di derivazione europea degli anni ‘90 prevedono l’obbligo di dimostrare una “bontà organizzativa” il cui centro è la pianificazione complessiva del lavoro. Mi capita spesso di citare, in senso negativo, una vecchia frase assai usata negli anni ‘50 e troppo in voga anche oggi: “la macchina deve essere a prova di scemo”. Nessuno nega che macchine e impianti sicuri siano un prerequisito indispensabile, ma è un errore imperdonabile ritenere che tale condizione, sicuramente necessaria, sia anche sufficiente per evitare gli infortuni.
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Cerchiamo allora di capire cosa significa dire che la nuova sicurezza pone l’uomo al centro del sistema, senza fare di questa affermazione uno slogan privo di significato concreto, ma, al contrario, facendola diventare il punto di partenza per la predisposizione di comportamenti coerenti e finalizzati alla predisposizione e all’attuazione di procedure applicabili e condivise. Ovviamente quando parliamo di “comportamenti sicuri”, non dobbiamo solo pensare ai lavoratori, ma a tutti gli “uomini” che compongono la filiera lavorativa ed è inevitabile quindi partire proprio da quello che, posizionato al vertice della piramide aziendale, la dirige e la organizza: il datore di lavoro. Il d.lgs. n. 626 del 1994 enfatizza la centralità del datore di lavoro, già presente nel nostro ordinamento, ponendo a suo carico, per la prima volta, alcuni compiti indelegabili e conferendogli in tal modo compiti di regia e di programmazione della sicurezza che possono fare capo solamente a lui. Si tratta, come è noto, della valutazione dei rischi e della nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Il d.lgs. n. 81 del 2008 accentua ancora di più il ruolo del datore di lavoro tanto da farlo diventare il vero e proprio “dominus” della sicurezza aziendale. L’art. 17 di tale decreto prevede che il datore di lavoro non possa delegare le seguenti attività: a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall'articolo 28; b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Ribadita quindi la necessità di provvedere direttamente alla nomina del proprio RSPP, per confermarne il ruolo di staff, finalizzato a supportarlo nel compito di valutare i rischi e progettare la sicurezza, la nuova normativa amplia notevolmente gli obblighi del datore di lavoro, in merito alla valutazione dei rischi. L’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, infatti, dopo aver precisato, al comma 2, lettera a), che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”, prevede, al comma 2, lettera d), che il documento contenga “l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri”. Non c’è dubbio che tali compiti, ferma restando inalterata la possibilità/necessità di farsi aiutare dai propri dirigenti e preposti (ove presenti), per la effettiva attuazione delle misure da attuare, pongano unicamente a capo del datore di lavoro l’onere della progettazione complessiva delle procedure di 37
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sicurezza, con l’indicazione non più solo del “che cosa” deve essere fatto, ma anche del “chi” lo deve fare. A ben guardare, in realtà, la legislazione comunitaria degli anni ’90 pone, per la prima volta, obblighi di coordinamento e di impulso in capo al datore di lavoro anche quando egli rivesta la qualifica di committente, per tutti i rischi dovuti alle interferenze in caso di affidamento di “lavori” ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi. A fronte di una prima previsione nella quale l’onere era limitato ai casi in cui tali lavori fossero eseguiti all’interno della propria azienda e si estrinsecava nell’obbligo di promuovere la cooperazione ed il coordinamento tra i vari datori di lavoro e/o lavoratori autonomi coinvolti nell’appalto, vi è stato, negli anni, un progressivo inasprimento della norma che attualmente prevede che il datore di lavoro in caso di affidamento di “lavori, servizi e forniture” ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi attui la cooperazione ed il coordinamento che gli compete, mediante l’elaborazione di “un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze”.
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Il documento deve essere allegato al contratto di appalto o di opera, va “adeguato in funzione dell'evoluzione dei lavori, servizi e forniture” e nei singoli contratti devono essere specificamente indicati “a pena di nullità” i costi, non soggetti a ribasso, delle misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi in materia di salute e sicurezza sul lavoro derivanti dalle interferenze delle lavorazioni. Non è questa la sede nella quale approfondire la vasta e complessa tematica degli appalti nell’ambito della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma non c’è dubbio che vada sottolineata, nell’ambito di un approfondimento che riguarda la bontà organizzativa dei processi lavorativi, l’inversione di tendenza rispetto al passato: una volta era sufficiente, per il datore di lavoro committente, non interferire nelle attività di competenza delle ditte appaltatrici per non essere coinvolto nell’accadimento di infortuni occorsi ai lavoratori di quest’ultime, oggi al contrario, egli deve dimostrare di avere interagito positivamente, promuovendone concretamente la cooperazione ed il coordinamento. Poco importa, che tale obbligo valutativo non sia stato inserito, come alcuni interpreti lamentano, tra quelli indelegabilmente posti in capo al datore di lavoro: il sempre più frequente ricorso alla “esternalizzazione” e la conseguente necessità di snellire le procedure di affidamento, ha spinto il legislatore ad optare per una scelta diversa. Resta il fatto che il datore di lavoro committente, nel momento in cui decida di affidare ad altri, in possesso di adeguate competenze e poteri, tali compiti, lo deve fare seguendo le regole fissate, per la delega di funzioni, dall’art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2008, che per la prima volta norma un istituto in precedenza studiato solamente da giurisprudenza e dottrina. Anche se la previsione legislativa fa proprie la maggior parte delle indicazioni che quest’ultime avevano dettate, è necessario sottolinearne alcuni aspetti salienti e direttamente collegati alla bontà organizzativa quale condizione, oramai indispensabile, per andare esente da un doppio profilo di responsabilità: quella individuale, legata alle persone fisiche e quella collettiva, legata invece alla responsabilità amministrativa delle imprese. Come è noto, la delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa, fin dalla prima emanazione del d.lgs. n. 81 del 2008, con i seguenti limiti e condizioni: a) che essa risulti da atto scritto recante data certa; b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; d) che essa attribuisca al delegato l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto. 39
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Vale però la pena di analizzare, in questo contesto, due modifiche apportate dal decreto correttivo del 2009: la prima riguarda l’obbligo di vigilanza, mentre la seconda è relativa alla possibilità di ricorre alla sub-delega da parte del soggetto delegato. Relativamente all’obbligo di vigilanza, presente fin dalla stesura originaria del 2008, c’è da sottolineare però che la modifica del 2009 accentua il valore del modello di organizzazione e gestione previsto dall’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 e si attribuisce alla presenza di tale modello, correttamente implementato, il valore di presunzione semplice di ottemperanza all’obbligo di vigilanza. Il nuovo dettato normativo infatti, contrariamente alla vecchia dizione che prevedeva che la vigilanza si potesse esplicare “anche attraverso i sistemi di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4”, sancisce ora che tale obbligo “si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4”. Relativamente invece alla sub-delega, il contenuto del comma 3-bis dell’articolo 16 del d.lgs. n. 81/2008, mette fine ad una serie di pareri, non sempre concordi, della Corte di Cassazione: l’istituto è ora legislativamente ammesso pur se con severi, ma condivisibili, limiti e condizioni. La prima delle condizioni necessarie affinché il soggetto delegato possa farvi ricorso è la “previa intesa” con il datore di lavoro delegante: nessuna subdelega è possibile quindi se il datore di lavoro non concorda sulla opportunità di concederla. La seconda è che non si tratti di una sorta di “sub-appalto” delle cose da fare, assegnabili a cascata ad altri, ma si limiti invece all’attribuzione di “specifiche funzioni”, capaci di inserirsi in maniera organica e coordinata con le attività messe in atto dal primo soggetto delegato e applicate con le medesime regole previste per la delega originaria, compresa quella “dell’obbligo di vigilanza”. La terza infine è il divieto, a carico del soggetto sub-delegato, di fare ricorso a sua volta, ad un’ulteriore delega in capo ad altri soggetti. Partendo dal presupposto che la delega di funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, contrariamente a quella da cui ha origine, quella privatistica, non è attribuita nell’interesse del delegante, bensì dei soggetti che ne beneficiano, vale a dire i lavoratori, sui quali possono ricadere in termini positivi o negativi gli effetti di una buona o di una cattiva organizzazione delle procedure di lavoro, credo che l’attuale previsione dell’istituto contenga tutti gli elementi idonei a raggiungere gli scopi per i quali è stato previsto. Ma anche se non si ricorre alla delega è comunque indispensabile addivenire ad una corretta distribuzione dei compiti, all’interno della gerarchia aziendale, per disegnare, in assoluta coerenza con quello produttivo, un corretto organigramma della sicurezza. 40
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In questa distribuzione di compiti non possiamo prescindere, ovviamente, né dalle definizioni legislative, né dalle interpretazioni giurisprudenziali. Rimanendo al vertice della piramide aziendale al datore di lavoro, individuato ora come tale non più perché è il rappresentante legale, ma perché “…secondo il tipo e l’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa……in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa…”, oltre ai compiti indelegabili sui quali ci siamo già soffermati, spetta anche l’onere di organizzare la distribuzione dei compiti lungo la propria linea produttiva. Per capire fino in fondo il dettato legislativo può essere utile ripercorrere “virtualmente” il cammino di un giovane artigiano che inizi la propria attività lavorativa senza dipendenti: si tratterebbe di un lavoratore autonomo a capo del quale coesisterebbero contemporaneamente le funzioni di datore di lavoro, di dirigente, di preposto e di lavoratore! Senza entrare, in questo lavoro, nell’ambito delle mutate e maggiori misure di tutela previste, ora, anche per tali soggetti, si può prevedere che qualora questo lavoratore autonomo sia bravo ed i clienti siano contenti del suo operato, nel giro di poco tempo egli abbia bisogno di assumere collaboratori per farsi aiutare nella quotidiana attività lavorativa, il che lo farebbe diventare immediatamente un datore di lavoro in capo al quale continuerebbero a coesistere le funzioni di datore di lavoro, di dirigente e di preposto. Qualora poi gli affari continuassero ad aumentare, il nostro artigiano si potrebbe trovare nella necessità di assumere altri lavoratori e di doverli dividere in squadre da mandare, contemporaneamente, da clienti diversi: in tal caso è ovvio che egli, pur rimanendo datore e dirigente della sua ancor piccola impresa, perderebbe la sua qualifica di preposto, almeno nell’ambito di tutte quelle squadre nelle quali egli non fosse presente, e dovrebbe preoccuparsi di affidare tale incarico a qualcun altro. Se le cose poi andassero ancora meglio ed il nostro ex lavoratore autonomo fosse costretto a modificare radicalmente il proprio ruolo all’interno della propria impresa, diventando ormai un soggetto che per gestire l’azienda ha bisogno anche di altri collaboratori per farsi aiutare a preordinare ed organizzare il lavoro di altri, ecco allora che l’intera filiera della piramide aziendale verrebbe costruita completamente e sarebbe indispensabile per il nostro amico, distribuire correttamente i compiti tra tutti i suoi collaboratori, sia a livello di produzione che di sicurezza. Ma come si concilia, in capo al datore di lavoro, l’obbligo di distribuire i compiti tra i propri collaboratori, con il dettato dell’art. 299 del d.lgs. n. 81/2008, che sancisce invece la presenza di posizioni di garanzia in capo ai datori di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, che pur in carenza di regolare investitura, esercitino “in concreto” i poteri giuridici riferiti a ciascuno di tali soggetti, così come definiti dall’art. 2, comma 1, lettere b), d) ed e)? La risposta, come sempre, va ricercata nel dettato legislativo che, che pur in 41
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coerenza con quanto disposto in precedenza dal d.lgs. n. 626/1994, trova nel c.d. Testo Unico del 2008, una più avanzata e convincente soluzione. L’analisi parte dall’art. 15 del Testo Unico sulla sicurezza nel lavoro, che indicando le misure generali di tutela, prevede ora, alla lettera o), anche l’attività di “informazione e formazione adeguate per dirigenti e preposti”. È la prima volta che ciò avviene: in precedenza la normativa prevedeva l’obbligo di informare, formare ed in alcuni casi addestrare, solamente i “lavoratori”. Qualcuno potrebbe sostenere che anche i dirigenti ed i preposti sono lavoratori e come tali anch’essi avrebbero dovuto rientrare tra i soggetti a cui andava elargita l’attività formativa. Premesso che nella maggior parte dei casi ciò non è avvenuto, per una sorta di erronea ma diffusa convinzione che tali soggetti, per la qualifica rivestita, fossero già a conoscenza della normativa di sicurezza, occorre sottolineare che il nuovo obbligo non riguarda la formazione finalizzata ad evitare danni alla propria salute, bensì a rendere in grado dirigenti e preposti, di tutelare quella dei soggetti sui quali esercitano il proprio ruolo di preminenza. Questa finalità è resa ancora più evidente dal dettato dell’articolo 35, comma 2 del d.lgs. n. 81/2008, che pone a carico del datore di lavoro, sanzionandone la violazione, l’obbligo di sottoporre all’esame dei partecipanti “…i programmi di informazione e formazione dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori ai fini della sicurezza e della protezione della loro salute”. Ma la lettura della nuova normativa che non lascia spazio ad altre interpretazione è quella dell’artico 37, comma 7 del d.lgs. n. 81/2000 che per comodità di consultazione, si riporta integralmente: “I dirigenti e i preposti ricevono a cura del datore di lavoro, un'adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico in relazione ai propri compiti in materia di salute e sicurezza del lavoro. I contenuti della formazione di cui al presente comma comprendono: a) principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi; b) definizione e individuazione dei fattori di rischio; c) valutazione dei rischi; d) individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione”. Appare chiaro quindi che in caso di colpevolezza di dirigenti e preposti per violazioni loro direttamente attribuibili in base ai poteri gerarchici concretamente esercitati, può residuare colpa anche in capo al datore di lavoro in caso di inadeguata o carente formazione. Formazione che, peraltro, non potrà essere correttamente elargita se non dopo una prima attenta ricognizione, da parte del datore di lavoro, dei ruoli rivestiti dai suoi collaboratori ed una successiva opera, altrettanto diligente, di un loro coinvolgimento per renderli consapevoli di tali ruoli e delle eventuali conseguenti responsabilità in caso di scostamento dal loro corretto esercizio. 42
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Se tuttavia tale ricostruzione non sembra creare particolari problemi per i preposti i cui obblighi sono indicati, in modo univoco ed esclusivo, nell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2008, non altrettanto immediata appare la distribuzione degli obblighi sanciti dall’art. 18 del medesimo decreto, che a fronte di una serie di doveri, sanzionati a carico sia del datore di lavoro che dei dirigenti, al primo comma espressamente recita che “…il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono...”. In altre parole, in caso di inadempienze di obblighi posti a capo sia del datore di lavoro che del dirigente, chi risponderà di esse davanti al giudice, il primo, il secondo o entrambi? La risposta, ancora una volta, scaturisce dall’analisi sistematica del dettato legislativo, che in modo comparato deve prendere in esame gli articoli 17, 18, 28 e 299 del d.lgs. n. 81/2008. Da una loro attenta lettura emerge, in maniera molto chiaro a parere di chi scrive, che il legislatore italiano, seguendo le indicazioni contenute nella direttiva quadro europea, ha voluto che il datore di lavoro, sia nelle piccole che nelle grandi aziende, fosse il garante della “bontà organizzativa” della propria azienda: non dovrà certo provvedere direttamente a tutte le incombenze di sicurezza, ma risponderà, anche in caso di inadempienza dei suoi collaboratori, sia in carenza di una corretta distribuzione di compiti che di una diligente vigilanza sulla loro attuazione. Ecco allora che l’eventuale imputazione di un dirigente per inadempienze che sono proprie del suo mandato, vedrà andare esente il datore di lavoro se, e solo se, questi potrà dimostrare tale bontà organizzativa, la cui presenza sarà comprovata solo in presenza di un idoneo documento di valutazione dei rischi, di corrette procedure comportamentali sulle quali i lavoratori sono stati adeguatamente formati e, in caso di necessità, di adeguate deleghe di funzioni. In realtà, il cammino interpretativo appena percorso in merito alla responsabilità delle persone fisiche è assolutamente coerente con quello disegnato dal d.lgs. n. 231/2001 per la responsabilità delle persone giuridiche e ripreso, per i reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro, dall’articolo 30 del d.lgs. n. 81/2008: anche in tal caso la colpa addebitabile al vertice aziendale, con ricadute negative, talora addirittura drammatiche, sull’intero ente, è l’insufficienza organizzativa. “Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche……” recita il primo comma dell’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, “deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi relativi: a) al rispetto degli standard tecnico_strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; 43
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b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate.” Il principale interrogativo, nell’interpretazione del primo comma del già citato artico 30 del d.lgs. n. 81/2008, riguarda l’obbligatorietà, o meno, per una azienda, di dotarsi di tale modello di organizzazione e di gestione: la risposata è stata unanime, ma complessa. Non è obbligatorio dotarsi di un simile modello, ma è indispensabile esserne forniti se si vuole godere della presunzione semplice di bontà organizzativa che l’adozione di tale modello accorda. Il secondo interrogativo, riguarda invece la coincidenza o meno delle previsioni legislative con quelle del modello volontario. In altre parole ci si interroga se il rispetto di tutte le norme cogenti sia sufficiente per dimostrare l’impegno dell’azienda e mandarla quindi esente dalla responsabilità prevista dal d.lgs. n. 231/2001. La risposta deve essere negativa, non perché non vi sia una sostanziale coincidenza di intenti e di previsioni tra le due norme, ma perché quella volontaria contiene previsioni ulteriori e più rigide, non presenti in quella cogente. L’elenco di tali differenze inizia dalla lettura della lettera h), del sopra riportato comma 1, dell’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 che prevede un vero e proprio programma di audit per verificare non solo l’applicazione, ma anche l’efficacia delle procedure adottate e continua con il secondo coma del medesimo articolo nel quale si dispone che “il modello organizzativo e gestionale di cui al comma 1 deve prevedere idonei sistemi di registrazione dell’avvenuta effettuazione delle attività di cui al comma 1”. Un’ulteriore e fondamentale differenza emerge poi dall’analisi del comma 3, il quale prevede la necessaria presenza di “un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello”. Come è noto, nel medesimo e più volte citato artico 30 del d.lgs. n. 81/2008, è previsto infine che “…in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI_INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti…”. 44
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La dizione della norma impone quindi di verificare, mediante un controllo incrociato tra il d.lgs. n. 81/2008, i Sistemi di Gestione per la Sicurezza sul Lavoro definiti conformemente alle Linee Guida UNI-INAIL o alle BS-OHSAS 18001:2007 e il d.lgs. n. 231/200, quali siano le parti non corrispondenti per poterle integrare. La prima parte non corrispondente tra l’articolo 30 del d.lgs. n. 81/2008 e la previsione dei Sistemi di Gestione UNI-INAIL e BS-OHSAS 18001:2007 è senza dubbio la mancata previsione, in quest’ultimi, di un “sistema disciplinare” idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. La seconda parte riguarda invece la previsione - contenuta nel d.lgs. n. 231/2001 ed assente invece sia nell’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 che nei Sistemi di Gestione UNI-INAIL e BS-OHSAS 18001:2007 - di un Organismo di Vigilanza, “dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”, con il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curarne il loro aggiornamento. In sintesi si può concludere che il datore di lavoro di un’organizzazione che, dopo aver rispettate tutte le norme cogenti di prevenzione, intenda far sì che la sua azienda possa godere di una presunzione semplice di “adozione ed efficace attuazione” di un modello di gestione idoneo a mandarla esente dalla responsabilità amministrativa delle imprese, prevista dal d.lgs. n. 231/2001, deve implementare ed efficacemente attuare uno dei due Sistemi di Gestione indicati nell’art. 30, comma 5, del d.lgs. n. 81/2008, integrarlo con la previsione di sanzioni a carico degli inadempienti e dotarsi infine di un Organismo di Vigilanza che ne verifichi la continua adeguatezza. L’analisi fino ad ora compiuta porta inevitabilmente a concludere che è impossibile il rispetto degli obblighi posti a capo del datore di lavoro e dei suoi collaboratori senza una chiara ed adeguata ripartizione dei compiti, che se mal adempiuti, potranno portare, in caso di infortuni o malattie professionali, ad una responsabilità personale, anche concorsuale, di ciascun soggetto coinvolto, ma anche ad una responsabilità amministrativa dell’impresa stessa, che non dimentichiamolo, pur se decisa dal medesimo giudice, è indipendente da quella imputabile alle persone fisiche. A tale proposito è esemplificativa la sentenza del Tribunale di Trani, che in data 26.10.2009 decidendo in merito alla tragedia di Molfetta, nella quale persero la vita cinque persone, tra cui il datore di lavoro della ditta presso la quale venivano eseguiti i lavori di pulizia del tank container all’interno del quale erano contenuti residui di zolfo allo stato solido, pur in presenza di una ovvia non procedibilità nei confronti del suo deceduto datore di lavoro, giunge ugualmente, per responsabilità amministrativa, alla condanna della ditta, cui è stata inflitta una sanzione di quattrocentomila euro. Non è questa la sede in cui analizzare, nel dettaglio, i contenuti di questa 45
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nuova e rivoluzionaria tipologia di responsabilità che investe per la prima volta gli enti giuridici, ma non si può fare a meno invece di sottolinearne la finalità, che è la medesima che ispira i sistemi di gestione: la già più volte citata bontà organizzativa. La norma vede la luce, per adeguarsi alla volontà del legislatore europeo, nel 2001 con il d.lgs. n. 231 e in un primo momento, proprio per non essere troppo invasivo, limita la propria applicabilità solo ad alcuni reati specifici: truffa in danno dello Stato, concussione, corruzione e pochi altri. Si tratta di una fattispecie complessa, in cui devono coabitare la commissione di un reato da parte di una persona fisica che abbia con l’ente un rapporto qualificato ed il contemporaneo interesse o vantaggio, dalla commissione per l’ente stesso, di tale reato. Sarà il giudice a dover provare l’esistenza del vantaggio o dell’interesse; sarà invece l’ente a dover dimostrare, accertato il vantaggio o l’interesse, di aver predisposta una rete di protezione idonea a prevenire la commissione di tali reati. Molte aziende, in un primo momento, non hanno ritenuto opportuno investire tempo e danaro nella predisposizione di un sistema finalizzato a prevenire illeciti difficilmente commettibili dai propri uomini, ma con il tempo i “reati presupposto” sono notevolmente aumentati come numero - ora se ne contano circa un centinaio - e soprattutto come tipologia, il che ha, inevitabilmente, aumentata l’attenzione su questa normativa. La vera svolta, tuttavia, avviene nel 2007, quando, la legge delega n. 123, che imponeva al Governo di emanare il nuovo Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, introduce, con valenza immediata e senza ulteriori specifiche, nel numero dei reati presupposto, anche quelli di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazioni delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Questi due reati hanno alcune caratteristiche peculiari che li rendono completamente diversi da tutti gli altri e che non possono non essere sottolineate in questo contesto. La prima tipicità è caratterizzata dal fatto che essi possono essere commessi in tutte le aziende, indipendentemente dall’attività espletata e quindi riguardano, diciamo così, un bacino d’utenza assai più vasto rispetto a quello interessato da ogni altro singolo reato della lista: basti pensare al reato di “abuso di mercato”, a quelli con “finalità di terrorismo” o a quello, impronunciabile senza provarne raccapriccio, di “mutilazione di organi femminili”, che non potranno certo interessare la gran parte delle aziende tradizionali. La seconda tipicità consiste invece nel fatto che sono gli unici, nel novero totale, ad avere quale loro componente psicologica, la colpa piuttosto che il dolo, spesso concorsuale tra più soggetti ed il più delle volte attuata mediante atti omissivi, piuttosto che commissivi. Bastano queste poche e banali riflessioni per giungere a concludere che progettare e mantenere efficiente il sistema idoneo a mandare esente l’ente in 46
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materia di responsabilità amministrativa delle imprese, in caso di lesioni o morte conseguenti alla violazione di norme legate alla prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro, riguarda praticamente tutte le società in cui vi siano lavoratori dipendenti e che tale progettazione non possa prescindere dal coinvolgimento di tutti i soggetti che dentro le aziende abbiano un ruolo che può influenzare la salute e la sicurezza dei lavoratori: il che significa, ancora una volta, dire che è ormai indispensabile stabilire procedure, dove sia ben chiaro “che cosa” deve essere fatto, e “chi” la deve fare. E non va dimenticato, a tale proposito, che tra le “cose” da fare, fin dalla normativa degli anni ’50 è obbligatorio non solo “disporre” ma anche “…..esigere……che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”. L’obbligo è stato riaffermato, prima dal d.lgs. n. 626 del 1994 che all’art. 4, comma 5, lettera f), imponeva al datore di lavoro di “richiede[re] l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale messi a loro disposizione” e poi, in modo del tutto analogo, dal d.lgs. n. 81 del 2008, che anche oggi prevede a carico del datore di lavoro, l’onere di “richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione”. In realtà, affrontando tale argomento, dopo le modifiche apportate dal d.lgs. n. 106/2009 non si può tralasciare la lettura dell’art. 18, comma 3-bis del c.d. Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che testualmente recita: “Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti”.
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Tale disposto è ciò che residua, dopo l’iter assai travagliato che vale la pena di ripercorrere velocemente, della proposta emendativa rubricata come “articolo 15: obbligo di impedimento” che la maggior parte dei lettori ricorderanno tra le più tormentate e discusse di quelle inserite nello schema di decreto correttivo. L’articolo, che per comodità di consultazione si riporta integralmente in una delle sue formulazioni, aveva la dichiarata finalità di limitare, relativamente al dovere di vigilanza, la posizione di garanzia del datore di lavoro e dei dirigenti, troppo spesso imputati, secondo l’opinione prevalente di parte datoriale, per una sorta di responsabilità “oggettiva” dalla quale era impossibile sfuggire in caso lesioni occorse ai lavoratori pur in presenza di loro comportamenti imprudenti o negligenti. Il testo della proposta era la seguente: «Articolo 15-bis (Obbligo di impedimento) 1. Nei reati commessi mediante violazione delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro il non impedire l’evento equivale a cagionarlo alle seguenti condizioni: a) che sia stato violato un obbligo derivante da una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato; b) che il titolare della posizione di garanzia sia in possesso dei poteri giuridici o di fatto idonei ad impedire l’evento; c) che la posizione di garanzia sia tassativamente istituita dalla legge, salvo poter essere, nei limiti da essa determinati, specificata da regolamenti, provvedimenti della pubblica autorità, ordini o atti di autonomia privata; d) che l’evento non sia imputabile ai soggetti di cui agli articoli 56, 57, 58, 59 e 60 del presente decreto legislativo per la violazione delle disposizioni ivi richiamate; 2. Il trasferimento degli obblighi derivanti dalla posizione di garanzia è consentito nei modi e nei limiti previsti dal presente decreto». La proposta emendativa ha trovato, ad ostacolarla, una serie innumerevole ed autorevole di pareri contrari sia in dottrina sia nelle istituzioni, che soprattutto nelle lettere c) e d) di tale articolo leggevano una improponibile ed incostituzionale modifica alla disciplina del concorso di colpa. Tali pareri contrari hanno indotto il legislatore del decreto emendativo a modifiche talmente ampie da ribaltarne il significato, così che oggi si può tranquillamente asserire che con l’inserimento del comma 3-bis, l’articolo 18 del d.lgs. n. 81/2008, titolato “obblighi del datore di lavoro e del dirigente”, lungi dal limitare l’onere di vigilanza da parte di tali soggetti nei confronti dei comportamenti scorretti dei lavoratori, piuttosto, la rafforzi. Ma come conciliare soprattutto nelle imprese più grandi, tale obbligo di vigilanza con l’impossibilità di tenere sotto controllo i comportamenti di tutti i lavoratori? La risposta ci è offerta, ormai da anni, dalla Corte di Cassazione: “I dirigenti devono, altresì, avvalendosi delle conoscenze tecniche per le quali 48
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ricoprono l’incarico, vigilare, per quanto possibile, sulla regolarità dell’antinfortunistica delle lavorazioni, dare istruzioni di ordine tecnico e di normale prudenza, affinché tali lavorazioni possano svolgersi nel migliore dei modi; in ogni caso, quando non sia possibile assistere direttamente a tutti i lavori, devono organizzare la produzione con un’ulteriore distribuzione di compiti tra i dipendenti in misura tale da impedire la violazione della normativa”68. Come si vede la risposta è, ancora una volta, la “bontà organizzativa” che in realtà non vede estraneo in questa rete di vigilanza il preposto, che anzi, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, vi svolge un ruolo fondamentale : “In materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, il preposto condivide con il datore di lavoro, ma con sfumature diverse secondo le sue reali mansioni, oneri e responsabilità soltanto gli obblighi di sorveglianza, per cui egli non è tenuto a predisporre i mezzi antinfortunistici, ma deve invece vigilare affinché gli ordini vengano regolarmente eseguiti. L’omissione di tale vigilanza costituisce colpa se sia derivato un sinistro dal mancato uso di tali cautele”69. Ma il riferimento legislativo effettuato dall’articolo 30, comma 4, del d.lgs. n. 81 del 2008, in realtà amplia questo obbligo di verifica, estendendolo dal piano meramente operativo effettuato dalla linea aziendale a quello della verifica del sistema: “Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull'attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all'igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell'organizzazione e nell'attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico”. Ancora una volta occorre dire che il termine “deve” va interpretato nel senso che se si decide di applicare il modello, che rimane volontario, occorre però prevederne un sistema di controllo al fine di verificare che le procedure adottate non solo siano rispettate, ma continuino a dimostrare la propria capacità di raggiungere le finalità per le quali sono state predisposte. E a ben guardare è proprio questa la carenza del “sistema 81”, la mancata previsione di una puntuale verifica di se stesso, che al contrario, è espressamente prevista sia nelle Linee Guida UNI-INAIL, sia nelle BS-OHSAS 18001:2007, di cui si riporta, integralmente, il punto 4.5.5.: “L’organizzazione deve assicurare che siano condotti audit interni a intervalli pianificati, al fine di: 68 69
Cass. Penale, Sez. IV, 1 luglio 1992, n. 285. Cass. Penale, Sez. IV, 21 giugno 1988.
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a)
determinare se il SGSLL: 1) è conforme alle decisioni pianificate per la gestione SSL, compresi i requisiti del presente standard OHSAS; 2) è stato correttamente attuato ed è mantenuto attivo; 3) è efficace nel soddisfare politica e obiettivi dell’organizzazione; b) fornire alla direzione, informazioni sui risultati degli audit. Uno o più programmi di audit devono essere pianificati, stabiliti, attuati e mantenuti attivi dall’organizzazione, sulla base della valutazione del rischio e dei risultati degli audit precedenti. L’organizzazione deve stabilire, attuare e mantenere attiva(e) una procedura(e) per definire: • Le responsabilità, le competenze e i requisiti per pianificare e condurre gli audit, per riportarne i risultati e per conservarne le relative registrazioni; • La determinazione dei criteri, della frequenza e della metodologia degli audit. La selezione degli auditor e la conduzione degli audit deve assicurare l’obiettività e l’imparzialità del processo di audit”. Credo che queste brevi riflessioni portino a concludere che la nuova configurazione della legislazione di salute e sicurezza sul lavoro, così come disegnata dal d.lgs. n. 81 del 2008, abbia una forte valenza sistemica, ma l’integrazione con un SGSL più strutturato e capace di colmare le sua carenze, oltre che consigliata dalla stessa norma con la previsione dell’art. 30, sia non solo possibile, ma doverosa e quasi naturale per tutti i datori di lavoro, pubblici o privati che, indipendentemente dalla tipologia e dalle dimensioni della propria azienda, siano tesi a dimostrare di avere adottato, nel rispetto dell’articolo 2087 del codice civile: “le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori”. In realtà credo che nessuna azienda possa ormai esimersi dall’implementare un sistema integrato di Qualità, Sicurezza ed Ambiente finalizzato alla soddisfazione dei propri clienti, ma nel rispetto dell’ambiente e della salute e sicurezza dei lavoratori, mediante politiche e procedure coerenti e convergenti tra loro. Ma perché ciò avvenga è indispensabile anche il ruolo delle istituzioni che, prima a livello legislativo, colmino il vuoto che ancora riguarda alcuni istituti fondamentali, come la qualificazione delle imprese, il Sistema Informativo Nazionale per la Prevenzione nei Luoghi di Lavoro ed il Comitato per l’interpello, poi a livello ispettivo, attuino una pianificazione attenta e mirata non solo della programmazione delle visite ispettive, ma anche delle loro metodologie di attuazione, ed infine, a livello giudiziario, istituiscano un 50
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sempre maggior numero di magistrati specializzati in questa materia. Non si può pretendere che datori di lavoro e dirigenti implementino procedure di sicurezza ed attuino, anche attraverso i propri preposti, una sicurezza sistemica se chi li governa, chi li controlla ed eventualmente chi li punisce, non adotta, conosce ed applica le medesime regole. L’obiettivo non è facile, ma vale la pena di tentare.
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La partecipazione dei lavoratori nel “nuovo” modello di tutela della salute e sicurezza sul lavoro Cinzia Frascheri – Giuslavorista – Resp.le nazionale CISL salute e sicurezza sul lavoro
1. La cultura del modello partecipativo Lo stile partecipativo, a qualunque contesto lo si voglia riferire, è senz'altro un atteggiamento complessivo che si richiama più ad un modus operandi che a singoli specifici comportamenti, ancor più se unicamente determinati e indotti da regole coercitive. La partecipazione alla vita dell'azienda, difatti, se richiede senz'altro una regolazione e modalità chiare e puntuali, non può essere intesa e, pertanto, circoscritta a forme che, pur avvicinandosi al concetto di coinvolgimento, prevedono solo lo svolgimento formale e sequenziale di atti obbligatori legislativamente previsti messi in campo da soggetti che rispondono più ad un “dovuto” anziché ad un comportamento “voluto”. In tema di salute e sicurezza sul lavoro, ad esempio, non sfugge a nessuno come negli anni (ed ancora oggi in molte circostanze) la fase della “consultazione” da parte del datore di lavoro nei riguardi del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) sui temi centrali dell'azione di prevenzione e protezione in azienda70 abbia negato, nei fatti e nel modo di concepirla, tutto quello che può essere il vero e profondo concetto di partecipazione dei lavoratori (attraverso il proprio rappresentante) alle scelte fondamentali nel contesto lavorativo, a partire dalle condizioni di tutela e di svolgimento del lavoro. Il modello partecipativo, il valore dell'applicazione di tale modello nella gestione delle relazioni industriali, tanto spesso declamato a diverso titolo, nei consessi più importanti di enunciazione dei principi fondamentali sui quali si deve basare un'azione efficace, sembra spesso svanire nella quotidianità delle relazioni e dei rapporti in azienda, non solo quando finalizzato concretamente alla salvaguardia e tutela dei lavoratori/trici, ma quale più complessivo cammino verso il raggiungimento di condizioni stabili di benessere nei luoghi di 70 In base all'art. 18, c.1, lett. s) e all'art. 50, c.1, lettere b), c) e d), del D. Lgs. n. 81/2008 s.m., è obbligo del datore di lavoro consultare il RLS sui temi della valutazione dei rischi, dell'organizzazione della formazione e la designazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), degli addetti evacuazione incendi e primo soccorso e il medico competente. Tali consultazioni sono gravate da sanzione a carico del datore di lavoro nei casi in un cui viene svolta (art. 55, comma 5, lett. e). Nessuna sanzione invece è prevista nel caso di svolgimento della procedura di consultazione limitandola al mero assolvimento (burocratico) della richiesta di parere da parte del RLS, tenuto conto che le modalità di esercizio delle Attribuzioni vengono stabilite mediante contrattazione tra le parti e non per legge, che ne prevede, difatti, solo l'obbligo di realizzo.
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lavoro. Nel modello partecipativo non si eliminano i ruoli, non si confondono le responsabilità, non si negano le gerarchie. Nel modello partecipativo si riconosce l'importanza dei diversi ruoli, si scopre il valore aggiunto dell'apporto diverso che ciascuno, per il suo ambito di competenza, può apportare, si determinano le condizioni affinché ognuno possa esercitare a pieno il suo ruolo, il suo mandato, la sua funzione. Richiamando l'esempio fatto, a nulla può portare una consultazione svolta solo per assolvere ad un obbligo legislativamente previsto. La consultazione, se si crede fermamente nel modello partecipativo, deve essere quell'occasione in più (a fronte di una modalità di scambio e dialogo continuo e costante) per affrontare i nodi centrali dell'azione di prevenzione e protezione in azienda, da parte delle diverse figure aziendali preposte a questo, al fine di poter raggiungere il migliore dei risultati possibili, non fermandosi alla mera riduzione del rischio, o anche al traguardo più virtuoso dell'eliminazione, ma puntando a porre la persona al centro del lavoro. Tanto è stato fatto negli anni, sul piano normativo, per agevolare il consolidamento del modello partecipativo nelle relazioni tra gli attori della prevenzione aziendale, ma il cammino non è risultato agevole e di facile realizzo. La frattura tra il mondo datoriale e il mondo dei lavoratori, all'interno del contesto lavorativo, ha minato alla base (in Italia) quella rivoluzione culturale che dal livello comunitario, nei primi anni '90, era giunta determinando un vero e proprio taglio con il passato. La visione “circolare” introdotta attraverso la predisposizione di un sistema di gestione della salute e sicurezza71 nel quale si poneva a referente di ogni area di competenza una specifica figura aziendale della prevenzione, mettendo insieme, in forma collaborativa, dalla figura del datore di lavoro, al medico competente, al RLS, per lungo tempo ha stentato a svilupparsi, soffocata da una visione miope e “classista” secondo la quale le Parti dovevano sempre contrapporre, a priori, l’approccio ai problemi, anziché esplicitarli in modo dialettico e collaborativo, senza per questo di certo negare le eventuali diversità 71 Con la direttiva comunitaria 89/391/CEE è stato per la prima volta introdotto il procedimento della valutazione dei rischi nel quale sono coinvolti i quattro attori fondamentali della prevenzione aziendale (Datore di lavoro, RSPP, medico competente e RLS). Il procedimento della valutazione dei rischi, seppur antesignano, è senz'altro complessivamente parificabile ai moderni sistemi di gestione per la salute e sicurezza sul lavoro strutturati sulla base delle tipiche 5 fasi di intervento, previste anche per la valutazione: 1) Esame iniziale (Politica); 2) Pianificazione e organizzazione; 3) Attuazione; 4) Monitoraggio; 5) Riesame e miglioramento. Nel processo di valutazione dei rischi, tracciato per la prima volta dalla direttiva quadro, si ipotizzava un'analisi dei rischi, un successivo coerente piano di intervento e costanti ulteriori ri-esami per un miglioramento continuo, quali passaggi fondamentali della procedura e quali momenti fondamentali della collaborazione di tutti i soggetti della prevenzione aziendale, senza distinzione di “parte”, sia essa datoriale (Datore di lavoro, RSPP e medico competente), che sindacale (RLS/RLST e lavoratori).
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di lettura e di soluzione o, ancor più, di sensibilità ai problemi che si possono determinare. Il cammino intrapreso compie ormai vent'anni. E, tracciando un bilancio, se di certo entusiasmanti risultati non si possono registrare, neanche possono essere negati il percorso svolto e le tappe importanti raggiunte che hanno determinato, senza dubbio, rilevanti risultati. Sul piano, ad esempio, degli infortuni mortali, di certo un progressivo e significativo miglioramento non si può non registrare72, così come sull'esercizio dei diritti da parte degli RLS e dei lavoratori/trici, ma la complessità del fenomeno della tutela della salute e sicurezza sul lavoro, ben sappiamo, va purtroppo molto più in là di questi aspetti di comunque inevitabile positivo risultato, modificandosi ed evolvendo a partire dai cambiamenti del lavoro e dell'occupazione nel corso degli anni, ambiti nei quali anche il ritardo di un'applicazione diffusa del modello partecipativo ha determinato conseguenze di disagio e danno nei lavoratori/trici73. Per poter tuttavia fare un vero bilancio e, al contempo, individuare i progressi realizzati e le vie future da intraprendere, occorre ripercorrere le fasi più importanti del cammino che il modello partecipativo ha svolto in questi anni, veicolato dallo strumento legislativo, quale base essenziale e irrinunciabile per poter avviare processi di cambiamento culturale che, come in questo caso, hanno radici profonde e richiedono tempi e processi evolutivi lunghi e complessi. 2. Le tappe della partecipazione nella legislazione Lasciata74 alle spalle una dimensione di assoluta passività di ruolo da parte del lavoratore nella legislazione nazionale degli anni ‘5075, a prevedere un 72 Non va trascurato che negli anni ‘70 i dati infortunistici riportati dall’INAIL registravano circa 3.500 infortuni mortali annui (circa più del doppio di quelli oggi registrati) e quasi 1.200.000 infortuni gravi. Analizzando anche solo il decennio in corso, si può rilevare che se nel 2001 i casi mortali registrati annui erano 1546, oggi se ne contano 1050 pari ad una diminuzione percentuale del 27,6% e del 6,3% in confronto allo scorso anno (circa 70 casi in meno) e 790.000 infortuni. cfr. Report annuale Inail, 2009 (presentato il 20 luglio u.s.). 73 In questi ultimi anni si è assistito ad un incremento significativo delle malattie professionali (16% in più di denunce solo quest’anno), non solo tradizionali (vd. ipoacusia), ma emergenti, a partire dai disturbi muscolo-scheletrici, quali le tendiniti, le affezioni ai dischi intervertebrali, l’artrosi e la sindrome del tunnel carpale, fino a giungere alle conseguenze dello stress lavoro-correlato. Non accennano inoltre a diminuire neanche le neoplasie, che anzi registrano un’impennata per certi organi bersaglio quali la prostata, i polmoni, il seno e il colon. Alla base di molte di queste problematiche di salute si riscontrano problemi di natura organizzativa interna che coinvolgono lo svolgimento del lavoro come: i ritmi e i carichi di lavoro, l’adeguatezza alla mansione, il lavoro a turni…. cfr. Report annuale Inail, 2009 (presentato il 20 luglio u.s.). 74 Estratto da: C. Frascheri, Consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori, Cap. XII in La nuova sicurezza in azienda. Commentario al Titolo I del D. lgs. n. 81/2008, IPSOA, 2008. 75 Indicativa in questo senso è l’espressione che troviamo, sia all’art. 4, comma 1, lett. b), del D.P.R.
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(primo) diritto di intervento da parte di questi ultimi (non diretto, ma «mediante loro rappresentanze»76) fu la legge 300/1970 – meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori – che prevedendo e declinando una serie di diritti in capo ai lavoratori determinò una loro specifica titolarità, non solo al “controllo” sull’applicazione delle norme in materia di prevenzione in azienda, ma anche alla “promozione” di ricerche, elaborazione ed attuazione di misure adeguate alla tutela specifica in ambiente di lavoro77. Erano gli anni Settanta e alla luce del forte mutamento complessivo che il sistema delle relazioni industriali stava apprestandosi ad affrontare – segnato dalle importanti e pressanti rivendicazioni dei lavoratori, mirate ad un riconoscimento dei propri diritti in ambiente di lavoro – la legislazione tradusse in regole, sia il clima, che le esigenze espresse, ricomprendendo tra le nuove disposizioni anche quelle di tutela antinfortunistica. Un segnale importante si stava dando al ruolo della rappresentanza dei lavoratori sul tema della tutela della salute e sicurezza sul lavoro78 e, in particolare, al richiamo ad un coinvolgimento attivo (mediante l’esercizio di un diritto) da parte dei lavoratori79; ma da questo ad un modello di relazioni aziendali a carattere, almeno consultivo, si era ancora molto lontani. Il cambio di passo giunse dall’Europa che, quasi sorprendendo il lavoro che si stava conducendo in modo egregio sul piano tecnico80, emanò una direttiva 547/1955, che all’art. 4, comma 1, lett. b), del D.P.R. 303/1956, dove, in tema di «obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti», si prevedeva il solo obbligo a carico di queste figure di «rendere edotti» i lavoratori dei rischi specifici. Non va inoltre dimenticato che in entrambi i testi, non si prevedeva alcun obbligo differenziato tra l'informazione e la formazione e la figura del RLS non esisteva. 76 Il riferimento alle “rappresentanze” che il legislatore della legge n. 300/1970 fa, nell’ambito dell’art. 9, deve essere inteso nei riguardi delle Rappresentanze Sindacali Aziendali (RSA) e non certo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), a quel tempo non ancora previsti, neanche dalla legislazione antinfortunistica. 77 Riportando integralmente il testo dell’art. 9 della legge n. 300/1970, si legge: «I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno il diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica». 78 Cfr. supra nota n. 7. 79 Per la prima volta il legislatore, nell’ambito dell’art. 9 della legge n. 300/1970, non considera i lavoratori uti singuli, ma quale collettività titolare di diritto. Cfr. Cass., sez. un., 21 aprile 1989, n. 6168, in Mass. giur. lav. 1989, 254, secondo la quale il titolare dei diritti previsti è la collettività e non i singoli lavoratori. Ancora, Cass. 13 settembre 1982, n. 4874, in Dir. Lav., 1983, I, p. 110. 80 Negli anni ‘80, forte fu la produzione di direttive tecniche. Ricordando solo quelle più significative, richiamiamo: la direttiva n. 77/576/CEE in tema di segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro; la direttiva n. 78/610/CEE in tema di protezione dei lavoratori esposti al cloruro di vinile manomero; la direttiva n. 80/1170 /CEE in tema di protezione dei lavoratori contro gli agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro; la direttiva n. 82/501/CEE in tema di rischi di incidenti rilevanti connessi a particolari attività industriali; la direttiva n. 83/477/CEE in tema di protezione dei lavoratori contro i rischi connessi ad esposizione all’amianto durante il lavoro; la direttiva n. 86/188/CEE in tema di materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti dall’esposizione al rumore durante il lavoro, ecc. . Dopo l’emanazione della direttiva quadro n. 89/391/CEE, seguirono altre direttive particolari per settori
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quadro (89/391/CEE)81 che, non tanto (o non solo) andava a declinare delle regole «concernenti l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro»82, ma consegnava a tutti i paesi europei un diverso modo di concepire la tutela antinfortunistica in ambiente di lavoro, partendo dai soggetti aziendali (prevedendo specifiche nuove figure sia di parte datoriale che da parte dei lavoratori)83, dai rispettivi ruoli (prevedendo funzioni e responsabilità precise e specifiche) e dalle loro necessarie interazioni ed integrazioni (disponendo procedure di scambio e dialogo legislativamente regolati). L’intento del legislatore europeo, come emerge dalle prime parole del testo della direttiva, affermava con chiarezza e risoluta volontà – già nei “Considerando” del testo comunitario, mediante un triplice richiamo84– l’importanza (l’estensore utilizza il termine «indispensabile») di una «partecipazione equilibrata» da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti, sui temi della tutela dai rischi in ambiente di lavoro. Un concetto85 questo che già nella volontà espressa a livello europeo86, pur non determinando una sua ed aspetti di rischio specifico che andarono a costituire i Titoli dal II al X del D. Lgs. n. 626/1994, attraverso l’azione di recepimento complessivo (che collocò il testo della direttiva quadro nel Titolo I del D. Lgs. n. 626/94). 81 Direttiva del Consiglio CEE del 12 Giugno 1989, n. 391 in GUCE n. L. 183 del 29 Giugno 1989, dal titolo: Direttiva del Consiglio concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. 82 Si riporta per esteso il titolo della direttiva del Consiglio del 12 giugno 1989 (89/391/CEE). Cfr. supra nota 12. 83 Non va dimenticato che attraverso la direttiva n. 89/391/CEE si andranno a costituire, per la prima volta nel sistema aziendale, delle specifiche figure dedicate ai temi della salute e sicurezza. Parliamo del RSPP, del RLS e del Medico competente (ruolo, quest’ultimo, che fino a quel momento non era stato previsto, in forma specifica, dalla legislazione, ma sempre svolto da “un” medico, non dedicato ad un'unica azienda, ma con le competenze ancora oggi richieste – v. art. 33, comma 1, del D.P.R. 303/1956). Vd. anche supra nota 2. 84 Nel testo del Considerando n. 11, riferito ai lavoratori e ai loro rappresentanti, troviamo scritto: «(...) è inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali all’adozione delle necessarie misure di protezione». Così, nel Considerando n. 12, dove si legge: «è necessario sviluppare l’informazione, il dialogo e la partecipazione equilibrata in materia di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro tra i datori di lavoro ed i lavoratori e/o loro rappresentanti grazie a procedure e strumenti adeguati, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali». Infine, nel Considerando n. 14, nel quale si legge: «i datori di lavoro sono tenuti a informarsi circa i progressi tecnici e le conoscenze scientifiche in materia di concezione dei posti di lavoro, tenendo conto dei rischi inerenti alla loro impresa, ed ad informare i rappresentanti dei lavoratori i quali esercitano funzioni di partecipazione nel quadro della presente direttiva, in modo da garantire un migliore livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori». 85 Cfr. C. Frascheri, La partecipazione aziendale. Precetto normativo e/o cardine culturale, in Ambiente & Sicurezza, n. 5, 2008. 86 Dal documento del Consiglio europeo n. 9869/88 si legge, in merito al concetto di «partecipazione equilibrata» che «la nozione di partecipazione equilibrata comprende una vasta gamma di forme partecipative dei lavoratori, che variano considerevolmente da uno Stato membro ad un altro. La presente direttiva non comporta alcun obbligo per gli Stati membri di prevedere una forma determinata
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specifica e univoca interpretazione applicativa, esplicava nell’articolato della direttiva la sua rilevante ampiezza e innegabile novità. Indicando nell’articolato oltre al concetto della “consultazione”, anche quello della “partecipazione”87, il legislatore europeo poneva per la prima volta in evidenza, non solo la differenza profonda tra i due termini, ma apriva a un concetto certamente di più ampio coinvolgimento, passando da un mero diritto di controllo (o proposta)88 da parte dei lavoratori, a una pratica partecipativa89. Si introduceva pertanto non solo una novità, ma si approdava a una dimensione di tutt’altro modello di relazioni aziendali (non più frontali e rivendicative, ma circolari90 e collaborative). Il legislatore comunitario, in questo modo, giungeva pertanto a sovvertire profondamente le basi di una condizione che, se fino a quel momento aveva visto la collettività dei lavoratori91 titolare di un diritto da esercitare (e rivendicare) nei confronti dell’azienda, ora poneva in evidenza – al fine di “richiamarla” al rispetto delle norme e ai propri doveri di tutela – l’irrinunciabile “necessità” per l’azienda di ricevere il contributo da parte dei lavoratori, per raggiungere un costante e migliore livello di prevenzione e protezione in ambiente di lavoro. Si innescava così, un processo culturale ben più ampio delle specifiche disposizioni previste. La piena consacrazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze, quali figure del nuovo sistema di prevenzione aziendale – nel rispetto dei propri ruoli, delle specificità e delle responsabilità – era definitivamente affermata. Si avviava così un più lungo percorso, non solo per il reale svolgimento del ruolo in azienda, ma per il raggiungimento del riconoscimento del valore fattivo e irrinunciabile di questo, abbandonando quel sistema basato sui meri rapporti di forza tra le parti. La fedeltà ai valori espressi dal legislatore europeo, perseguiti nel recepimento della direttiva, all’atto dell’elaborazione del D. Lgs. n. 626/1994, di partecipazione equilibrata». 87 All’art. 11, comma 1, della direttiva n. 89/391/CEE il legislatore comunitario, ponendo in chiaro i termini della consultazione e partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentati scrive: «i datori di lavoro consultano i lavoratori e/o i loro rappresentati e permettono la partecipazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentati in tutte le questioni che riguardano la sicurezza e la protezione della salute durante il lavoro. Ciò comporta: la consultazione dei lavoratori; il diritto dei lavoratori e/o dei loro rappresentati di fare proposte; la partecipazione equilibrata conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali». 88 Cfr. supra nota n.8. 89 Cfr. M. Biagi, Dalla nocività conflittuale alla sicurezza partecipata: relazioni industriali e ambiente di lavoro in Europa verso il 1992, in M. Biagi (a cura di), Tutela dell’ambiente di lavoro e direttive Cee, Rimini, Maggioli, 1991, p. 123; cfr. C. Ogriseg, Rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza e recepimento della direttiva comunitaria, in Riv. Giur. Lav., 2002, I, p. 537 ss. 90 Cfr. supra nota n.2. 91 In più occasioni la Cassazione fa riferimento al diritto collettivo dei lavoratori intesi come «collettività dei lavoratori di ciascuna azienda» o «comunità di rischio». In questo senso, cfr. Cass.13 settembre 1982, n. 4874, in Riv. giur. lav., 1982, II p.525; Cass. 5 dicembre 1980, n. 6339, in Foro it., 1980, I, c. 3001.
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se di certo non fece mancare alcun richiamo specifico alle pratiche di consultazione e al principio partecipativo dei lavoratori e delle loro rappresentanze, di contro, negli anni, non mancò di dimostrare una non trascurabile debolezza: quella cioè di essere un testo normativo eccessivamente “tiepido” nel prevedere disposizioni che determinassero la concretizzazione dei principi enunciati e, nel complesso, poco garante del fattivo cambiamento delineato, non prevedendo difatti forme di accompagnamento e sostegno reale alle imprese92, spingendo queste ultime ad affrontare, nella realizzazione dei precetti legislativi, più che un ostacolo applicativo, un profondo ostacolo culturale. Con la disciplina attuale introdotta dal nuovo D. Lgs. n. 81/2008 s.m., portando a sistema l’esperienza, il legislatore, cambiando atteggiamento, pone le condizioni per un concreto nuovo passaggio culturale (provandoci concretamente dopo quattordici anni dal D. Lgs. n. 626/94), andando ad intervenire sulle mancanze e incertezze del passato. Richiamando tutti i principi partecipativi comunitari93 e confermando, in questo senso, tutte le disposizioni del D. Lgs. n. 626/199494, forte di una scelta di valore complessiva mirata alla chiarezza e alla completezza, il legislatore della riforma, mediante il D. Lgs. n. 81/2008 s.m., giunge ad integrare, consolidare e sviluppare i precetti legislativi tratteggiati nel passato, recuperando un concetto di fondo alla base del modello partecipativo, affermando cioè fattivamente – mediante modalità diverse – il principio dell’«essere in grado di contribuire»95, già presente nella direttiva quadro 92 Ricordiamo che al varo del D. Lgs. n. 626/1994 non si prevedeva, ad esempio, alcuna formazione specifica né per la figura del RSPP, né per i dirigenti e i preposti, tutti ruoli cardine del collegamento, nel sistema aziendale, tra la produzione e le misure di prevenzione e protezione. Così per la formazione del datore di lavoro, prevista solo nel caso di svolgimento in prima persona del ruolo di RSPP (obbligo, comunque, pari a solo 16 ore di formazione). Non diverso anche il caso dell'analisi dei rischi da interferenza a seguito di contratti di appalto, per i quali la legislazione pre-vigente prevedeva un mero obbligo di collaborazione e cooperazione tra datori di lavoro (art.7, del D. Lgs. n. 626/94) senza disporre alcuna modalità operativa specifica per attuare l'obbligo e senza alcuna previsione di obbligo documentale riferito a tale procedura. 93 Puntuale, in questo senso, la dichiarazione prevista all’art. 1 del nuovo D. Lgs. n. 81/2008 s.m. nella quale si afferma che: «Il presente decreto legislativo persegue le finalità di cui al presente comma nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia». 94 Molte sono le disposizioni presenti nel D. Lgs. n. 626/1994 che il nuovo D. Lgs. n. 81/2008 s.m. conferma in merito alla partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze in tema di gestione della prevenzione in ambiente di lavoro. Richiamando i disposti principali presenti fuori dalla Sezione VII, qui in parola, ricordiamo, tra i più rilevanti: le Misure generali di tutela (art. 15, comma 1, lett. l) e s); gli Obblighi del datore, dirigente (art. 18, comma 1, lett. s); gli Obblighi del medico (art. 25, comma 1, lett. g) e i); l’Oggetto della valutazione dei rischi (art. 28, comma 2, lett. e); le Modalità di effettuazione della valutazione dei rischi (art. 29, comma 2); la Riunione periodica (art. 35, comma 1, lett. d); la Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti (art. 37, cc.2 e 12). 95 Nel testo del Considerando n. 11, riferito ai lavoratori e ai loro rappresentanti, troviamo scritto: «(...) è inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali all’adozione delle necessarie misure di
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89/391/CEE. La pratica partecipativa, come detto, ancor più della consultazione, è un modello di relazione, è uno stile di confronto e rapporto costante. Tradurla, riducendola, a meri obblighi e doveri legislativi, slegati e fini a se stessi, perde la sua più profonda ragione d'essere. Il D.Lgs. 81/2008 s.m., in questo senso, si può ritenere che non solo consolidi la rete di relazioni (interna ed esterna aziendale96), ma anche gli strumenti operativi per farla concretamente ed efficacemente operare. Difatti il legislatore agendo prima attraverso le disposizioni della legge delega 123/200797, e poi con l'attuazione – mediante il nuovo decreto 81/2008 s.m. – interviene, in primo luogo, in maniera puntuale e concreta su uno degli aspetti principali che sta alla base di qualsiasi modello a carattere partecipativo: la conoscenza98. Risolvendo (anche) una questione che da tempo si trascinava, impegnando non solo la dottrina e la giurisprudenza99, ma anche le istituzioni100, il legislatore della riforma, dando un preciso segnale, giunge a disporre, quale nuovo diritto in capo al RLS101, quello di ricevere, per l’espletamento della sua funzione102, protezione». 96 Nel pieno rispetto del mandato di delega, il D. Lgs. n. 81/2008 s.m. interviene significativamente sia sulle principali figure della prevenzione aziendale e istituzionali, sia creando nuove forme di sinergia tra i sistemi aziendali e i sistemi territoriali e all’interno di ciascuno di questi. Proliferano nel decreto in commento, i coordinamenti: dei medici, degli RLS, dei soggetti della vigilanza, degli RSPP, degli attori politici della prevenzione. 97 Legge del 3 agosto 2007, n.123, Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia, recante non solo la delega al Governo per il riassetto e riforma della normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro (art.1), ma anche specifiche misure immediatamente prescrittive e precettive (dall’art.2 all’art.12). Dalla legge delega 123/07 è scaturito il D.Lgs. 81/2008 s.m. 98 Cfr. Circolare del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale del 3 ottobre 2000, n. 68, nella quale si legge che la consegna del documento di valutazione dei rischi al RLS è «la migliore espressione del principio di collaborazione tra le parti, cui è impostato il nuovo sistema di gestione della sicurezza sul lavoro». Essendo le circolari ministeriali atti non vincolanti, tale affermazione non ha mai trovato, negli anni scorsi, un’adeguata attenzione. 99 Sul punto, cfr. P.G. Soprani, Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro, Milano, 2001, p. 110; ma anche il pronunciamento della Procura della Repubblica di Milano del 28 gennaio 1998, quale risposta al quesito posto dall’ASL 40 di Milano, sulla questione della consegna del documento al RLS. 100 Cfr. Circolare del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 16 giugno 2000, n. 40 e cfr., dello stesso ministero, la circolare cit. in nota 29. In entrambe il ministero ribadisce l’importanza della consegna del documento di valutazione dei rischi al RLS, ma, come detto, non le circolari ministeriali atti coercitivi a valore vincolante, le disposizioni previste hanno sempre assunto, negli anni passati, un mero valore di “buona prassi”. 101 Cfr. art. 50, commi 4 e 5 e, in corrispettivo, tra gli obblighi del datore di lavoro, art. 18, comma 1, lett. o) e p). 102 A chiarezza dei termini dell’esercizio della funzione e del segreto in ordine ai processi lavorativi, già richiamati dall’art. 9 del D. Lgs. n. 626/1994, si è pronunciata la circolare del Ministero del lavoro e della previdenza sociale del 24 novembre 2007, n. 14 (circolare di parziale rettifica della circolare, dello stesso ministero, del 22 Agosto 2007, n. 10797). Ulteriore precisazione sul punto la troviamo richiamata nel nuovo D. Lgs. n. 81/2008 s.m., all’art.50, comma 6, nel quale, oltre al rispetto del
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copia del documento di valutazione dei rischi e del documento unico di valutazione dei rischi da interferenza103. Rafforzando lo scopo e il fine di tale nuovo diritto, volto alla conoscenza piena da parte del Rappresentate delle condizioni di (rischio e) tutela di salute e sicurezza dell’ambito lavorativo (approdando così concretamente al diritto dell'essere messo in «grado di contribuire» al sistema di prevenzione aziendale), il legislatore prevede, quale nuova specifica procedura per l’attivazione del diritto, la forma della «richiesta», da parte del RLS nei riguardi del datore di lavoro, della consegna della copia dei documenti di valutazione dei rischi; si conferma così l’importanza, all’interno di un vero sistema a carattere partecipativo, del “necessario” ruolo attivo di tutti i diversi attori in campo, richiedendo a ciascuno di svolgere il proprio ruolo in modo determinato, consapevole e responsabile104. La richiesta dei documenti105 (sia quello relativo alla valutazione dei rischi che quello relativo alla valutazione dei rischi da interferenza), si pone nel modo di determinare nel RLS la costruzione di una volontà espressa di “credere” nello svolgimento del ruolo, intendendo esercitarlo in modo pro-attivo, quale titolare di diritti e nella piena conoscenza delle informazioni relative al proprio ambiente di lavoro. Le basi per la concretizzazione di nuova stagione di relazioni “partecipate” tra le parti, a distanza di vent'anni dal primo segnale comunitario, vengono oggi così significativamente poste.
3. La partecipazione e l'attuale sistema di rappresentanza previsto dal D. Lgs. n. 81/2008 s.m. Il legislatore del D. Lgs. n. 81/2008 s.m., lanciando un chiaro messaggio a partire dall’inizio della Sezione dedicata alla rappresentanza, indica puntualmente la precisa scelta di un'affermazione forte della figura del RLS segreto industriale relativamente alle informazioni contenute nel documento di valutazione dei rischi, si fa riferimento alle disposizioni previste dal D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196. 103 In merito al DUVRI (acronimo di: documento unico di valutazione dei rischi da interferenza), è il legislatore della Legge 123/2007 (a modifica dell’art. 7, comma 3, del D. Lgs. n. 626/1994) ad introdurlo quale specifico obbligo a carico del datore di lavoro committente in presenza di contratti di appalto o d’opera (recepito poi nell’art.26, comma 3, del D. Lgs. n. 81/2008 s.m.). Sul tema, per una miglior approfondimento, cfr. Linee guida per la stima dei costi della sicurezza nei contratti pubblici di forniture e servizi, Conferenza delle Regioni e Province autonome, Roma, 20 marzo 2008. 104 Non va trascurato che nel nostro Paese si associa costantemente il concetto di responsabilità con quello di colpevolezza, commettendo però un grande errore visto che tali termini non hanno necessariamente un legame inscindibile. Si può essere responsabili di una posizione e di un ruolo, senza per questo finire colpevoli di mancanze realizzatesi senza averle volontariamente o colposamente poste in essere. 105 Tale disposizione ha ricevuto da alcune parti sindacali numerose critiche sostenendo che l'obbligo di richiesta rappresentava una diminutio nel ruolo del RLS e che lo poneva ancora una volta “sotto” al datore di lavoro e non invece quale figura di diretta interlocuzione.
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all’interno del sistema di prevenzione aziendale, abbandonando la “storica” dicitura prevista al Capo II del D. Lgs. n. 626/1994106, «Consultazione e partecipazione dei lavoratori» (già presente all’art.11 della direttiva quadro 89/391/CEE), intitolandola invece «Consultazione e partecipazione dei rappresentati dei lavoratori» (Sezione VII). In questo senso, il mandato delineato nella delega (che avrebbe portato al D. Lgs. n. 81/2008 s.m.), già anticipava in maniera molto evidente – in relazione all’intervento di “revisione”107 previsto nei riguardi delle figure della prevenzione aziendale – l’esigenza che una delle prioritarie azioni dovesse riguardare il ruolo degli attori aziendali della tutela antinfortunistica e, in specifico, quello del Rappresentate. Oltre, infatti, al preciso richiamo di un necessario «particolare riferimento al rafforzamento del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale»108, il legislatore della delega operò un preciso intervento introducendo, tra gli elementi di revisione nei riguardi delle diverse figure – oltre ai requisiti e alle tutele – anche le «attribuzioni», facendo così un puntuale, seppur non espresso, riferimento alla complessiva figura del RLS (essendo queste le prerogative previste in capo al suo ruolo)109, al di là delle diverse caratterizzazioni poi previste (aziendale, territoriale o, di natura assolutamente innovativa, di sito). A totale coerenza e conferma degli impegni espressi dal legislatore della delega, chiara e non dubitativa è apparsa poi anche l’espressione «è istituito»110, riferita al ruolo del RLS che il legislatore utilizza (in apertura dell’art.47, del D. Lgs. n. 81/2008 s.m.) quale significativa novità per indicare la presenza irrinunciabile del rappresentate dei lavoratori nel sistema aziendale111, 106
Il Capo II del D.Lgs. 626/1994 è il Capo comprensivo degli articoli relativi alla figura del RLS, nelle sue diverse forme e delle Attribuzioni a lui previste (artt. 18 e 19). Stessa dicitura presente nel Titolo del Capo II, la troviamo nel Titolo dell’art.11 della direttiva quadro 89/391/CEE, riferito alla figura del rappresentate. Il testo recita: «Consultazione e partecipazione dei lavoratori». 107 Cfr. il testo dell’art. 1, comma 2, lett. g), della Legge del 3 agosto 2007, n. 123, nel quale il legislatore delega il Governo a prevedere interventi di «revisione dei requisiti, delle tutele, delle attribuzioni e delle funzioni dei soggetti del sistema di prevenzione aziendale, compreso il medico competente, anche attraverso idonei percorsi formativi, con particolare riferimento al rafforzamento del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale; introduzione della figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito produttivo». 108 Cfr. supra nota n. 37. 109 Il termine «Attribuzioni» era già presente quale titolo dell’art. 19 del D. Lgs. 626/1994. Tale termine, riferito alle prerogative previste in capo al RLS, determina una possibilità per quest’ultimo di porre in essere una determinata azione che, se esercitata, prevede l’attivazione di un obbligo (in capo alle diverse figure di responsabilità aziendale) nei suoi confronti e, al contempo, un'impossibilità da parte delle diverse figure aziendali di porre alcun ostacolo al suo pieno esercizio. 110 La prima frase del comma 1, dell’art.47 del D. Lgs. n. 81/2008 s.m. recita: «Il rappresentate dei lavoratori per la sicurezza è istituito a livello territoriale o di comparto, aziendale e di sito produttivo». 111 A fine conoscitivo si registra che in Europa sono diverse le soglie previste, in base al numero dei lavoratori relativi all’azienda, dalle quali parte il diritto alla rappresentanza a favore di quest’ultimi. Così per la Francia, la Bulgaria e il Belgio, previsto il diritto al di sopra dei 50 lavoratori; per la Danimarca, Ungheria e Finlandia, previsto al di sopra dei 10 lavoratori; per la Spagna, previsto al di
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giungendo a confermare – a coerenza di una scelta trasversalmente percepibile in tutto il nuovo testo del D. Lgs. n. 81/2008 s.m. – la piena e concreta adesione a un modello di prevenzione e protezione a carattere partecipativo. La valenza di una tale precisazione così limpida e diretta – che volutamente non crea alcuna parentela terminologica con disposti di natura obbligatoria, né a carico dei lavoratori, né ancor meno a carico del datore di lavoro – pone ad affermare la condizione di avere, in ogni contesto lavorativo, un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, riportando a centralità il principio comunitario della «indispensabile» «partecipazione equilibrata»112, quale possibilità di contribuire al sistema prevenzionale aziendale da parte dei lavoratori, determinando al contempo, una condizione di presenza (quasi un “dovere di rappresentanza”113) senza declinarne coercitivamente alcuna modalità di attuazione, mirando ad affermare prioritariamente il principio e, di riflesso, la conferma del modello partecipativo. Un principio immutato, invece, che permane e che trova conferma e certezza nel dettato dell’art. 47, è il carattere di volontarietà che pervade la figura del RLS nei riguardi della collettività dei lavoratori e, al contempo, la rinnovata esplicita conferma del suo ruolo principale di rappresentanza (specialistica) delle istanze dei lavoratori, fugando qualsiasi ipotesi di potenziale carattere pubblicistico della figura. Sulla stessa linea, ulteriore certezza giunge, dal consolidamento previsto all’art. 47, comma 4, del D. Lgs. n. 81/2008 s.m.114 delle due forme di individuazione (elezione o designazione) del rappresentante da parte dei lavoratori – nelle aziende con più di 15 lavoratori – «nell’ambito delle rappresentanze sindacali» e, comunque, di elezione da parte dei lavoratori «al loro interno», in caso di assenza delle rappresentanze; entrambe formule sopra dei 6 lavoratori; per la Svezia e la Germania, previsto al di sopra dei 5 lavoratori. In base a questa regolazione si giunge ad un panorama di rappresentanza dei lavoratori non molto esteso. A colpire, sono le realtà: del Portogallo dove sono solo poche centinaia di imprese ad avere il rappresentante dei lavoratori; della Lettonia e dell’Austria con il solo 20%; dell’Irlanda con il solo 16%. Di opposta tendenza: la Francia con il 77% delle aziende (certo sopra i 50 lavoratori) e il Regno Unito con il 45%. Per ulteriori approfondimenti, cfr. gli Atti della Conferenza Etui Hesa sui Rappresentanti dei lavoratori per la salute e la sicurezza in Europa, Bruxelles 11-12 febbraio 2008. 112 Cfr. supra nota n.15. 113 Il legislatore in questo caso sembra operare per il bene dei lavoratori prevedendo, al di là di una loro specifica volontà (comunque preservata e favorita), la presenza necessaria del RLS/RLST, al fine di garantire sempre una rappresentanza dei lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e sicurezza durante il lavoro (art. 2, comma 1, lett. i). Tale diritto/dovere sembra richiamare l’incipit previsto a carico del lavoratore, all’art. 20, comma 1, del D. Lgs. n. 81/2008 (già art.5, comma 1, del D. Lgs. n. 626/1994) nel quale si prevede che il lavoratore «deve prendersi cura della propria salute e sicurezza», richiamando ad un dovere di tutela, riferito al disposto costituzionale della tutela della salute del singolo, determinante anche sulla sua volontà, a fine di un “suo bene” (art. 32 Cost.). 114 Riportando per esteso il testo del comma 4, dell’art. 47, si legge «Nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è eletto o designato dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda. In assenza di tali rappresentanze, il rappresentante è eletto dai lavoratori della azienda al loro interno».
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attraverso le quali si consolida il principio che il RLS, pur essendo una figura indispensabile nel sistema aziendale della prevenzione, è comunque sempre espressione immutabile di libera e autonoma volontà proveniente dalla collettività lavorativa, chiamata a esprimere una sua scelta di rappresentanza specifica in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Il modello partecipativo, difatti, deve sempre risultare quale pratica “voluta” dalle parti e mai “subìta”. Ulteriore conferma della linea tracciata, la offre il legislatore della riforma nella prima parte del dettato dell’art. 47, comma 3, nel quale, riferendosi alle aziende che occupano fino a 15 lavoratori, prevede quale prima istanza, l’elezione del rappresentante direttamente da parte dei lavoratori «al loro interno», sottolineando, mediante la nuova espressione «di norma» una prassi di più consueto ricorso, tenuto conto sia della non prevista presenza della rappresentanza sindacale, nelle realtà di tale dimensioni, sia del numero spesso esiguo di lavoratori. Rispettando sempre il mandato di delega, e al contempo non contravvenendo al principio della volontarietà della figura – confermandone il carattere di ruolo determinante nel sistema di prevenzione aziendale – il legislatore del D. Lgs. n. 81/2008 s.m. in forma originale indica, come seconda istanza, per le aziende fino a 15 lavoratori (quale soluzione di “chiusura”115), la via della rappresentanza per la sicurezza «nell’ambito territoriale o di comparto produttivo», a valle di una non elezione interna da parte dei lavoratori del RLS. Tale via solutiva, sulla linea di un preciso rafforzamento del RLST, richiesto a partire già dalla legge delega, in ottica di svolgimento certo del ruolo di rappresentanza in azienda a carattere specialistico sui temi della prevenzione (e confermato dalla «incompatibilità con l’esercizio di altre funzioni sindacali operative»116), il legislatore del D. Lgs. n. 81/2008 s.m., la estende, in questo caso innovativamente, ad ogni situazione nelle quali non si sia proceduto a una delle diverse modalità di elezione previste per ciascuna delle due fasce dimensionali (sopra e sotto i 15 lavoratori), facendo salve le diverse intese tra le parti sociali, più rappresentative sul livello nazionale. È in questo senso che il legislatore della riforma ponendo la precisazione «qualora non si procede alle elezioni» proprio ad incipit, nell’ultimo comma 115
In questo senso sembrano delinearsi i contorni di una abrogazione tacita del disposto dell’art. 9 dello Statuto dei lavoratori, non ipotizzandosi più alcuna situazione aziendale senza presenza di almeno un RLS/RLST/RLS di sito. 116 Tale forma di incompatibilità è oggi già prevista in specifico dall’Accordo del settore edile e dall’Accordo del settore commercio, entrambi accordi applicativi del D.Lgs. 626/1994. In entrambi si legge che RLST deve svolgere esclusivamente attività inerente la prevenzione e la sicurezza del lavoro e garantire la non interferenza con l’attività sindacale. Controllo quest’ultimo che deve essere svolto dall’OPP (Organismo paritetico provinciale). L’incompatibilità prevista dal D.Lgs. 81/2008 s.m., specificando «funzioni sindacali operative», si deve intendere relativa all’attività attiva sindacale. Di certo non costituirà interferenza l’essere componente dell’organismo paritetico, pur essendo questa una struttura bilaterale di natura sindacale, così come l’essere dipendenti di una struttura sindacale.
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dell’art. 47 del decreto, mira a fugare ogni dubbio sulla natura del nuovo disposto, tornando ad affermare il carattere di soluzione di “chiusura”, finalizzata a realizzare concretamente una condizione di perfetta partecipazione, vedendo istituite tutte le diverse figure aziendali della prevenzione. Una situazione questa fino ad oggi mai diffusamente realizzata nelle realtà lavorative, a causa della frequente mancata individuazione della figura del rappresentante, a partire dalle piccole realtà aziendali. Non residuale, ma confermata a ruolo centrale è la scelta di un totale rimando alla contrattazione collettiva della funzione regolativa sul tema, prevista da parte legislatore della riforma, tale da rendere esplicita la strada intrapresa di una ulteriore conferma dell'importanza delle relazioni nella regolazione dello svolgimento del ruolo di una figura così determinante nel dialogo aziendale. La contrattazione collettiva, e pertanto la possibilità di una propria e specifica regolazione, è evocata anche dal legislatore nei riguardi delle precise ed elencate Attribuzioni del RLS/RLST, previste all’art. 50 del decreto in commento, a conferma ulteriore della piena volontà di un totale equilibrio e rispetto degli ambiti di intervento da parte della regolazione erga omnes, nei confronti degli spazi propri della contrattazione, delineando e armonizzando perfettamente le due caratteristiche della rappresentanza specialistica in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Un modello partecipativo, difatti, voluto dalle parti deve anche poter essere declinato dalle parti stesse, affinché ne incardini tutte le finalità proprie e risponda alle esigenze condivise. Una particolarità sul punto, il legislatore la inserisce nei confronti dell’«accesso ai luoghi di lavoro» da parte degli RLS che trova, nei riguardi specifici delle Attribuzioni previste anche per lo svolgimento del ruolo di RLST, una nuova puntualizzazione dai contorni determinati e precisi (art. 48, comma 4, decreto in commento). Si dispone infatti che «ove l’azienda impedisca l’accesso», svolto nel rispetto delle modalità previste, il RLST debba comunicarlo all’organismo paritetico o, in sua mancanza, all’organo di vigilanza competente sul territorio. Tale disposizione, frutto certamente dell’esperienza maturata negli anni e per questo dalle esigenze emerse, pone una nota “distonica” (ma senz’altro necessaria), allo spirito del decreto, spostando l'attenzione e il ruolo anche su soggetti esterni, rompendo l'integra linea del rafforzare una dimensione partecipativa e dialogante mirata alla maggior tutela e miglioramento continuo delle condizioni di lavoro, attraverso l’apporto specifico (ed unico) delle diverse componenti aziendali. Significativo, ma di opposta tendenza, l’ampliamento di alcune attribuzioni. Registrato il grande valore relativo alla novità della consegna al RLS della copia del documento di valutazione dei rischi e della copia del (dei) documento unico di valutazione dei rischi da interferenza, determinante risulta l'innovativa disposizione relativa all’inserimento del medico competente tra le figure nei 64
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riguardi delle quali è prevista (per le altre già previsto dal D. Lgs. n. 626/1994)117 la consultazione (obbligatoria)118 del RLS da parte del datore di lavoro, sulla relativa nomina al ruolo. Una disposizione quest’ultima di certo significativa che, se non gestita in maniera semplicemente rituale, crea nel nuovo impianto legislativo, un’ulteriore occasione di confronto tra le figure della prevenzione aziendale ed una rinnovata conferma al modello partecipativo, mettendo in relazione due figure (medico e RLS) non così “allenate” al rapporto e confronto paritario. Sulla stessa linea e, senz’altro, sulle stesse motivazioni di fondo relative al nuovo diritto di consultazione nei riguardi della nomina del medico competente, anche la consultazione del RLS «in merito all’organizzazione della formazione» (art. 50, c.1, lett. d). Difatti, ripercorrendo la via, seppur minima, già tracciata dal D. Lgs.n. 626/94, all’art. 19, comma 1, lett. d), nel quale si prevedeva la sola consultazione per la formazione delle figure previste all’art. 22, comma 5 (in sintesi, i lavoratori addetti alle emergenze), il legislatore della riforma ricomprende, quale oggetto di consultazione del RLS, tutte le figure soggette ad obbligo formativo, sia quelle già previste, che quelle innovativamente introdotte. Così, giungono ad essere oggetto di consultazione: la formazione per i lavoratori, per gli stessi RLS, per i preposti e per i dirigenti (figure quest’ultime nuove nel panorama dei ruoli soggetti a formazione aziendale obbligatoria, in tema di salute e sicurezza sul lavoro). Una linea di azione questa coerente con l'intero assetto legislativo nel quale, avendo optato per una via di totale partecipazione, non rinnega mai, in ogni circostanza, il modello, ponendo costantemente le basi per realizzarlo e confermarlo. Da registrare, quale ulteriore significativo intervento di riforma ad obiettivo concreto, la previsione non solo dei mezzi a disposizione per lo svolgimento della funzione di RLS, ma anche gli «spazi necessari per l’esercizio»119 e per le facoltà riconosciutegli, rafforzandone ulteriormente in questo modo il senso 117
Il D. Lgs. n. 626/1994, all’art. 19, comma 1, lett. c), disponeva che il RLS dovesse essere consultato sulla designazione degli addetti al servizio di prevenzione, sulla designazione degli addetti alla attività di prevenzione incendi, primo soccorso ed evacuazione dei luoghi di lavoro. 118 Per quanto riguarda l’obbligo a carico del datore di lavoro, cfr. l’art. 18 comma 1, lett. s), e la relativa sanzione prevista all’art. 55, comma 5, lett. e), del D. Lgs. n. 81/2008 s.m.i.. 119 Il richiamo agli “spazi” apre in questo punto ad una più ampia considerazione sulla possibilità per il RLS di poter svolgere concretamente il suo ruolo potendo avere a disposizione la strumentazione necessaria e la facile accessibilità a questa. Il problema di poter disporre di un computer e di una stampante ha rappresentato fino ad oggi una reale limitazione al pieno svolgimento del ruolo del RLS essendo “isolato” dalla principale via di comunicazione, quella informatica. Dovendo oggi accedere ai dati sugli infortuni aziendali, essendo prevista l’eliminazione del registro degli infortuni a favore di un sistema di comunicazione obbligatoria di tali dati da parte del datore di lavoro all’INAIL o all’IPSEMA, in relazione agli infortuni che comportano una assenza dal lavoro di almeno un giorno, a fini statistico-informativi e superiore a tre giorni, a fini assicurativi (art. 18, comma 1, lett. r), del decreto in commento), il “diritto” all’accesso ad un computer in azienda da parte del RSL sembra oramai pertanto da considerarsi un fattore acquisito.
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dell'importanza del ruolo che il rappresentante è chiamato a svolgere e della necessità pertanto inevitabile di essere messo «in grado di contribuire», precetto, come detto, di comunitaria origine e promozione. Il rafforzamento della figura del rappresentante e con lui del più ampio modello partecipativo in tema di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, il legislatore lo completa superando i confini delle figure già previste del RLS e del RSLT, dandone concreta dimostrazione attraverso l'introduzione della nuova figura del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza di sito produttivo. Pur (giustamente) demandando interamente alla contrattazione collettiva l’intera regolazione relativa al RLS di sito produttivo, il legislatore pone due punti fermi. Il Rappresentante di sito opera non solo quale coordinatore degli altri RLS operanti nel «sito produttivo»120 – funzione introdotta in modo indiretto, che emerge dalla lettura del comma 3, dell’art. 49, del decreto in commento – ma «esercita le attribuzioni» previste a carico del RLS (art. 50), nelle realtà lavorative «in cui non vi siano» i RLS interni aziendali. Non agendo in controtendenza con lo spirito generale del decreto, il legislatore del D. Lgs. n. 81/2008 s.m. mira ancora una volta, in questo caso, ad assicurare non solo una presenza certa di rappresentanza in ogni realtà lavorativa (colmando l'eventuale mancanza di un RLS interno), ma fa in modo di prevedere anche una figura di coordinamento e di azione a rete, garantendo così un livello di presidio maggiore e più alto, tenuto conto della complessità dell'ambito lavorativo nel quale se ne prevede l’“introduzione”121. Favorendo il dialogo tra RLS interni aziendali che agiscono, con la loro azione, su contesti lavorativi comuni, interferenziali e complessi, di certo si promuovono non solo pratiche collaborative e di scambio, ma si favorisce la nascita di coordinamenti anche tra le fila degli RSPP, dei datori di lavoro e delle autorità di controllo e vigilanza, apportando un valore aggiunto all'intero sistema di prevenzione e protezione.
120 Il testo normativo, all'art.49 del D. Lgs. n 81/2008 s.m.,, prevede l'istituzione del RLS di sito produttivo (almeno) nelle seguenti realtà lavorative a condizione di lavoro complessa, in presenza di più aziende o cantieri: «- a) i porti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere b), c) e d), della legge 28 gennaio 1994, n. 84, sedi di autorità portuale nonché quelli sede di autorità marittima da individuare con decreto dei Ministri del lavoro e della previdenza sociale e dei trasporti, da adottare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto; - b) centri intermodali di trasporto di cui alla direttiva del Ministro dei trasporti del 18 ottobre 2006, n. 3858; - c) impianti siderurgici; - d) cantieri con almeno 30.000 uomini-giorno, intesa quale entità presunta dei cantieri, rappresentata dalla somma delle giornate lavorative prestate dai lavoratori, anche autonomi, previste per la realizzazione di tutte le opere; - e) contesti produttivi con complesse problematiche legate alla interferenza delle lavorazioni e da un numero complessivo di addetti mediamente operanti nell’area superiore a 500». 121 Cfr. art.1, comma 2, lett. g), della Legge delega 123/2007.
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4. Le conferme in tema di partecipazione nelle linee per un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro Nel 2001 il gruppo più significativo degli attori della prevenzione a livello nazionale122, rappresentativo delle aziende italiane e dei lavoratori/trici in esse impegnati, coadiuvati dall'INAIL e dell'UNI, quale portatori di competenza specifica sul tema, ritenne fondamentale mettere insieme gli sforzi e gli obiettivi comuni e condivisi per giungere ad elaborare delle linee guida per supportare le imprese nella scelta ed, in particolare, nella realizzazione di un proprio Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro (SGSL). A circa sette anni dall'emanazione del D. Lgs.n. 626/94, lontani dalla previsione di una riforma consistente e complessiva dell'impianto legislativo in vigore (l'ipotesi concreta del D. Lgs. n. 81/2008 s.m. sarebbe giunta solo dopo sei anni con la legge delega del 2007), in modo condiviso venne riconosciuta l'opportunità per le realtà lavorative di dotarle di una serie di indicazioni strutturate e organiche che avrebbero colmato quelle carenze procedurali di cui il D. Lgs. n. 626/94, per motivi diversi, non si era fatto carico, introducendo esclusivamente i principi innovativi alla base del sistema di gestione della salute e sicurezza (che nel testo legislativo, come detto123, si traduceva negli obblighi relativi a tutte le procedure riferite e collegate alla valutazione dei rischi e alla sua documentazione). È, pertanto, di grande importanza ed utilità oggi tornare a rileggere i passaggi più significativi di tali Linee Guida tenuto conto che, forse influenzati positivamente dall'effetto ciclone che ebbe la direttiva comunitaria 89/391/CEE e dal suo recepimento con il D. Lgs. n. 626/94, affermano con assoluta determinazione, non solo sul piano teorico, ma concreto (visto il contesto di guida operativa), il valore centrale dell'adozione del modello di partecipazione, quale strada fondamentale per la realizzazione di obiettivi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Pur considerando l'elemento della volontarietà di adozione di un SGSL, concetto ampiamente ripetuto nelle pagine delle Linee Guida, non si può trascurare che il testo venne elaborato ed approvato definitivamente (consentendo così la pubblicazione e diffusione) da parte di tutte le principali associazioni datoriali (di piccola, media e grande impresa), come da parte di tutte le principali organizzazioni sindacali, del nostro Paese. Se tutti sui grandi proclami di principio, di solito, sono sempre concordi, nella pratica tale ampia condivisione spesso stenta a riprodursi. In questo senso, le pagine della linea guida per un SGSL, danno forza e concretezza operativa a 122
Ricordiamo che i soggetti firmatari delle Linee Guida per un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro (SGSL), oltre all'INAIL e all'UNI, nel 2001, sono stati: CGIL, CISL, CNA, CONFAGRICOLTURA, CONFAPI, CONFARTIGIANATO, CONFCOMMENCIO, CONFINDUSTRIA, ISPESL, UIL. 123 Cfr. supra nota n.2 e nota n.23.
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quei principi di partecipazione condivisa che si ritrovano solo nelle grandi dichiarazioni d'intenti. Richiamando, senza enfasi, l'affermazione posta in «Premessa», secondo la quale un buon SGSL per avere successo non può fare a meno (anche) del «coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti», i punti più significativi li troviamo all'interno delle fasi centrali del sistema. Meno irrilevante, in questo senso, risulta infatti la precisazione che troviamo già nella fase della «Politica per la sicurezza e salute sul lavoro». Collocata nella prima parte delle azioni da intraprendere (insieme all'esame iniziale), la Politica prevede l'identificazione della visione, dei valori, delle convinzioni che l'azienda adotta sul tema della salute e sicurezza sul lavoro. In questa fase fondamentale nella quale l'azienda pone in chiaro le sue scelte e i suoi principi essenziali, i suoi obiettivi e i risultati attesi, gli estensori della Linea Guida hanno previsto che tra i punti della «Politica» debba includersi anche (in forma espressa, quale dichiarazione) «l'impegno al coinvolgimento ed alla consultazione dei lavoratori, anche attraverso i loro rappresentanti per la sicurezza». L'interesse verso questo punto non può essere secondario, tenuto conto che in questo caso si torna a confermare la differenza sostanziale tra il «coinvolgimento» e la «consultazione»124 evidenziando l'integrazione fra i due concetti, ma non certo la sovrapposizione e l'elusione dell'uno a favore dell'altro. Altro passaggio importante lo troviamo nella più naturale collocazione del paragrafo dedicato al «Coinvolgimento del personale». Oltre alla conferma della distinzione netta tra la modalità di relazione basata sul «coinvolgimento» (attinente complessivamente al modello partecipativo) e l'azione specifica della «consultazione» (quale esempio di una pratica operativa di realizzo), dal paragrafo giunge un'ulteriore precisazione di rilievo. Considerando il «coinvolgimento» una modalità di relazione costante e continua, anziché un mero obbligo da assolvere e soddisfare attraverso un'unica azione, il testo si prodiga nel suggerire modalità diverse di svolgimento del coinvolgimento (dei lavoratori/trici e/o dei loro rappresentati) declinando le tipologie, in base alle esigenze ed obiettivi da perseguire125. Le indicazioni che emergono acquistano un valore di grande rilievo, non tanto per l'originalità dei suggerimenti (visto il richiamo a pratiche ordinarie di coinvolgimento), ma per l'affermazione che 124
Cfr. supra pagina 6, con relativa nota n.18. Nel paragrafo E.3 Coinvolgimento del personale, previsto nelle Linee Guida per un Sistema di Gestione per la Salute e Sicurezza sul Lavoro (2001), si legge : «Può essere opportuno, in relazione alle esigenze ed alla struttura aziendale, realizzare forme di coinvolgimento utilizzando prioritariamente le riunioni previste per la gestione aziendale o anche attraverso gruppi o comitati di analisi e discussioni su particolari temi di SSL. Altro ulteriore possibile mezzo di coinvolgimento può essere la raccolta di osservazioni e commenti sulle misure preventive adottate, sulla organizzazione del SGSL, sulle procedure ed i metodi di lavoro.» 125
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attraverso questi viene posta nei riguardi della fondamentale «risorsa necessaria allo sviluppo di un SGSL» che è rappresentata dalle «conoscenze e l'esperienza dei lavoratori». Dal quadro complessivo che emerge della normativa sviluppatasi nel tempo, dagli inizi degli anni '90 ad oggi, si può affermare, pertanto, che solo conferme e ri-affermazioni forti sono state espresse nei riguardi dell'importanza (e dell'ineludibilità) dell'affermare il modello partecipativo nell'ambito della gestione della tutela della salute e sicurezza sul lavoro al fine di garantire un reale ed efficace perseguimento degli obiettivi di prevenzione, protezione e miglioramento nel tempo delle condizioni di lavoro. Negli anni molte realtà lavorative sono passate dalle parole ai fatti, ricevendone ritorni concreti in termini non solo di benessere sul lavoro, ma di tangibili risultati in ambito di produttività e sviluppo. La sfida che oggi, quindi, si apre è quella di rendere le eccezioni, i casi, gli esempi di molti, in pratica diffusa e perseguita. Le basi non mancano e i supporti operativi ci sono (per tutte le diverse tipologie di azienda126), quello che serve è la determinazione da parte di tutti nel non abbassare l'attenzione e la tensione verso la realizzazione di una gestione di impresa che non rinneghi la sua forza centrale determinata dai lavoratori/trici, ma che la sappia orientare, cogliendone tutto il suo valore propositivo, esperienziale e di piena responsabilizzazione (se costruita mediante il coinvolgimento pieno, informato e adeguato al ruolo svolto).
126 È in elaborazione una Guida per un SGSL mirato specificatamente alle imprese artigiane. Alle imprese cioè, di ridotte dimensioni e dall'organizzazione del lavoro di minima e semplice struttura.
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Il processo di valutazione dei rischi nel SGSL Riccardo Bianconi – Com. te. ‐ ACCREDIA Le modalità tecniche per lo svolgimento della valutazione dei rischi sono già state descritte in diverse linee guida, sia generali, sia settoriali127 di elevatissimo valore scientifico. In questo documento non si intende ripercorrere gli aspetti tecnici specifici per la diversa natura dei pericoli che possono rappresentare dei fattori di rischio, bensì fornire una lettura metodologica per inquadrare il più ampio processo che dapprima indirizza lo svolgimento della valutazione dei rischi e quindi si avvantaggia della stessa – sia durante il suo svolgimento, sia del risultato finale128 – per impostare il miglioramento organizzativo necessario a rispondere al dettato dell’art. 2087 del Codice Civile129 ed a quello del Testo Unico per la salute e sicurezza sul lavoro (D. Lgs. n. 81/08 e s.m.i.). 1. Primi cenni sulla valutazione dei rischi La valutazione dei rischi è un processo che fornisce come “output” le informazioni che costituiscono uno degli “input” del processo decisionale della direzione delle organizzazioni ed in particolare dei datori di lavoro per il miglioramento necessario e possibile delle condizioni di lavoro, per come richiesto dal citato art. 2087 del Cod. Civ.. Molto spesso, sia per abitudine, sia per eccessiva leggerezza nell’approccio tecnico, viene fatta confusione tra la valutazione dei rischi e la formalizzazione dei risultati di questo processo, che avviene tramite il cosiddetto DVR [Documento di Valutazione dei Rischi]. Ancor più spesso, viene commesso l’errore gravissimo di confondere la valutazione dei rischi con l’analisi degli stessi, arrivando ad una stesura dello stesso DVR che risulta monca della parte maggiormente critica: la valutazione medesima. Il processo di valutazione dei rischi, per come descritto nelle Norme tecniche
127
Vedi, ad esempio, le LLGG per “La valutazione per il controllo dei rischi” elaborate dalla Regione Lombardia, nell' ambito del Coordinamento Tecnico per la Prevenzione degli Assessorati alla Sanità delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, oppure, il ricchissimo sito www.ispesl.it, nella sezione dedicata all' analisi dei rischi specifici per i differenti settori merceologici. 128 Qualunque valutazione dei rischi ha una validità riferibile allo stato nel quale si trova, in un determinato momento, l' organizzazione ed i fattori di rischio specifici. Si può affermare che, dal momento della formalizzazione dei risultati della valutazione dei rischi [nel DVR], inizia già a modificarsi la situazione contingente. 129 Art. 2087 Cod. Civ. “L'imprenditore e tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
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applicabili130 prevede due fasi preliminari: l’individuazione dei rischi e la loro analisi. Spesso, il processo descritto nei DVR [che debbono indicare le modalità di esecuzione della valutazione], si ferma qui. Manca l’elemento più importante: la valutazione stessa. Indicare la dimensione [misura] del rischio131, magari rappresentandola in una tabella cartesiana, non esaurisce il problema. Occorre che venga data una priorità ai rischi, sulla base della gravità delle possibili conseguenze132, dando loro, possibilmente, una dimensione non solo numerica in valore assoluto, ma anche descrittiva e riportata all'’esperienza, in modo che risulti intelligibile da ogni lettore: quali conseguenze possono realisticamente verificarsi, quale l’impatto per le persone e quale per l’organizzazione, in termini di costi e di operatività (l’interruzione o il rallentamento dell’operatività rappresenta comunque una sommatoria di costi). La valutazione deve fornire a chi ha il potere di decidere, gli elementi per individuare delle priorità di intervento, diversamente, serve a ben poco. La legge impone di prendere in esame tutte le categorie di rischi (in tutti i processi, gli ambienti di lavoro interessati e le mansioni): nessuno escluso. Esistono molteplici rischi specifici, che debbono essere valutati con metodologie scientificamente validate e richiamate dal cosiddetto Testo Unico per la salute e sicurezza sul lavoro133 e per i quali il solo metodo di analisi a fronte dei parametri di probabilità e gravità risulterebbe poco efficace. Si tratta dei rischi collegati all’insorgenza di malattie professionali, per i quali occorre eseguire delle misure specifiche di microclima, di parametri chimico-fisici piuttosto che biologici. Nelle banche dati messe a disposizione sia da INAIL, sia da ISPESL vi sono ampie spiegazioni in merito alle metodologie per le analisi di questi rischi specifici. Si tratta ad esempio: • di conformità delle macchine, a fronte delle Norme Tecniche CEI ed UNI applicabili; • della valutazione del carico d' incendio e del rischio incendio; • dell’esposizione al rumore; • della valutazione specifica del rischio legata alla possibile presenza di amianto; 130
Vedi, per gli aspetti tecnico gestionali, le Norme ISO/IEC 31000:09 e ISO/IEC 31010:09, nonché la Norma UNI 11230:2007. Per la valutazione dei rischi specifici delle macchine, la Norma UNI EN ISO 14121-1:2007 e, ad esempio, la Norma UNI CEI EN ISO 14971:2004 per i dispositivi medici. 131 Norma UNI 11230:2007 - “La dimensione del rischio è la combinazione della probabilità di un evento (es. l' incidente) e della entità delle sue conseguenze”. 132 Il parametro probabilistico è un ausilio cognitivo per inquadrare la dimensione vera e propria del rischio, che è misurato su due parametri, proprio quello probabilistico e quello della gravità delle conseguenze del possibile evento chiamato “incidente”, cui può corrispondere un infortunio. Il parametro della gravità dovrebbe avere la precedenza nella valutazione finale. 133 Es.: valutazione del rischio rumore, come indicato al Titolo VIII, Capo II (Articoli 187-198).
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della valutazione dell’esposizione a sostanze pericolose o ad agenti biologici; della valutazione della circolazione nelle aree interne al sito produttivo; della valutazione del rischio legato all’esercizio di recipienti in pressione (PED); della valutazione della presenza di atmosfere esplosive (ATEX); della valutazione della movimentazione manuale dei carichi (es. Indici NIOSH, MAPO, SNOOK e CIRIELLO, lista di riscontro OCRA); della valutazione dell’esposizione a vibrazioni (nelle molteplici combinazioni); della valutazione del rischio correlato con situazioni di stress; della valutazione del rischio correlato con l’assunzione di sostanze psicotrope; della valutazione del rischio per la caduta (dall' alto – a livello); dei rischi di interferenza tra i processi e mansioni di soggetti diversi; dei rischi legati alle attività lavorative condotte in stato di gravidanza; dei rischi legati all' appartenenza a gruppi culturali diversi, legati alla possibile mancata comprensione e dimestichezza con la lingua italiana ed ai diversi approcci culturali alla gestione della attività lavorative; delle possibili situazioni con rischio di elettrocuzione; dell' esposizione a campi elettromagnetici; dell' esposizione a possibili scariche atmosferiche; degli effetti della modifica dei ritmi circadiani per i turni in orari di riposo, etc.
2. Introduzione storica al concetto di valutazione dei rischi Prima del 1942 non vi era un impianto giuridico che indicasse modi e responsabilità per il mantenimento sotto controllo dei pericoli immediati o più o meno latenti134, che incombono sulle diverse mansioni e nell' ambito dei diversi processi produttivi, sia di beni, sia di servizi. Infatti, le leggi ed in primis il Codice Civile in vigore prima della promulgazione dell' attuale versione erano di derivazione ottocentesca, in parte di ispirazione napoleonica, e non trattavano direttamente i temi del lavoro come argomento a sé stante. Lo stesso Codice Pisanelli [il primo Codice Civile del nostro Paese, ancora in epoca risorgimentale, del 1865], relegava il tema del lavoro ad un ruolo minore. Sicuramente non c'era alcun accenno al tema dei pericoli e relativi rischi. Anche la disciplina assicurativa obbligatoria che fu introdotta nel 1898, 134
Come noto, alcune malattie professionali, possono avere effetti patologici di diversa intensità in periodi anche di molto successivi rispetto allo svolgimento delle specifiche attività ed alla conseguente esposizione al fattore eziologico.
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prima di tale evento aveva carattere di episodicità ed era spesso di natura mutualistica e locale. D'altronde, il Paese era divenuto politicamente uno stato sovrano solo da pochi anni. Tale disciplina trattava solo dei risarcimenti e non della prevenzione. La caratterizzazione locale135 della mutualità per la copertura degli infortuni rimase anche successivamente, in un mondo ove le distanze fisiche rappresentavano ancora barriere socio-culturali e fisiche significative. Come accennato, l’assicurazione obbligatoria di allora non era propriamente uno strumento finalizzato a creare condizioni per il governo del fenomeno infortunistico e, cosa ancor più critica, non copriva la maggior parte dei lavoratori esposti. A seguito del citato Regio Decreto n. 80 del 1898 in merito all’assicurazione obbligatoria, vennero emanati altri tre decreti, definiti Regolamenti, dei quali il primo fu il n. 230 del 1899 “Regolamento generale sulla prevenzione degli infortuni”, che considerava l' evento dannoso come un fatto ineluttabile e da controllare a livello statistico, risarcibile ma non prevedibile136, limitandosi a richiedere al datore di lavoro di fornire le più elementari misure di sicurezza137 e lasciando al lavoratore l' arbitrio sulle proprie condizioni (di fatto limitando le responsabilità del datore di lavoro)138. Quindi, pur trovandosi dinnanzi ad un progresso epocale nel panorama legislativo, ci si trovava ancora di fronte ad un vuoto completo sul fronte della valutazione dei rischi. Il regime fascista, nel 1927 promulgò la “Carta del Lavoro”, che fu più uno strumento politico per la conversione corporativistica del Paese, piuttosto che uno strumento giuridico utile per introdurre dei veri diritti dei lavoratori ovvero per gestire il fenomeno infortunistico. Anche in tale documento non si trova traccia di indicazioni per la salvaguardia della salute e sicurezza sul lavoro. Con il R. Decreto del 14 Aprile 1927 vengono introdotte nel nostro ordinamento le prime regole di igiene del lavoro: molto elementari, come ad esempio il divieto di far utilizzare agli operai degli asciugamani in comune e l’obbligo della pulizia dei pavimenti. Dalla lettura di alcuni documenti dell’epoca139 il tema della sicurezza e dell’igiene sul lavoro venivano propagandati come una conquista del regime fascista fornendo un criterio di gestione della “antinfortunistica” che oggi sarebbe considerato aberrante, 135
Vedi: “Contributo alla storia dell' assicurazione contro gli infortuni sul lavoro a Vercelli” – Flavio Quaranta – Edizioni INAIL – Roma 2002. 136 Giovanni Claudio Zuffo (CGIL Verona) - Tesi conclusiva del percorso formativo del progetto sperimentale ISF/CGIL per l’alta formazione dei quadri e dirigenti sindacali del Veneto – 2004. 137 Vedi, ad esempio, la regolamentazione per la produzione degli esplosivi – R.D. 232 del 1899 138 Seguirono i Regolamenti 231 per gli infortuni nelle miniere e nelle cave ed il n° 232 per il settore delle costruzioni, ma non fu mai emanato uno specifico regolamento per il settore dell' agricoltura e pesca. 139 Ad esempio: “La politica sociale del fascismo” - autore istituzionale – Ed. “Testi per i Corsi di preparazione politica” - Anno XIV E.F. (1935).
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nonostante la significativa introduzione del concetto di prevenzione (tramite deboli ed elementari prescrizioni, ma destinate solo ad alcuni settori produttivi e non per tutti gli operatori di tali settori e senza alcuna sanzione per le eventuali inadempienze dell’imprenditore140). Gli infortuni erano considerati eventi fortuiti, quindi la prevenzione era un concetto astratto e poco, se non per nulla efficace. Al verificarsi di infortuni intervenivano le strutture corporative, per la valutazione della proposta di indennizzo dell’infortunato141 ed il tutto finiva senza un vero accumulo di esperienza operativa delle aziende. Ciò nonostante, nello stesso documento viene espresso il concetto della analisi delle cause degli infortuni, ma solo come strumento dedicato alle Associazioni mutualistiche, atto a studiare le soluzioni per evitare il ripetersi delle condizioni del danno, ove l’obiettivo non è il benessere del lavoratore, bensì la riduzione progressiva dei costi di istruttoria infortunistica e di indennizzo!!). Il lavoratore era considerato un fattore produttivo, gestito con paternalismo e senza reali diritti142. 3.
A proposito di responsabilità Con il Codice Civile attualmente in vigore [1942], il panorama cambia in modo sostanziale: viene introdotto il libro quinto, che è espressamente dedicato al tema del lavoro. Finalmente si trova una previsione giuridica che introduce per uno dei soggetti critici della vita d' impresa l’onere di progettare correttamente il lavoro. Si tratta dell’art. 2087143, che individua una specifica responsabilità per l’imprenditore144, a fronte della salvaguardia dell’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Secondo tele articolo, l’imprenditore è tenuto a valutare costantemente l’evoluzione della esperienza e della tecnica per adottare criteri di adeguatezza in funzione della particolarità dei processi lavorativi. Si tratta, in buona sostanza, delle definizione del dovere di una valutazione primaria del rischio a fronte della evoluzione tecnica ed organizzativa, da effettuare costantemente nel tempo, che troverà in un successivo momento, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, l’esplicita corrispondenza di analogo dovere, ma nel dettaglio, a carico del Datore di Lavoro145. Subito dopo la pubblicazione del nuovo Codice Civile (e dell’art. 2087, in 140
All’epoca non veniva fatta esplicita distinzione tra l’imprenditore ed il datore di lavoro, stante l’identificazione quasi automatica, all’epoca comprensibile, delle due figure. 141 R.D. 17 Agosto 1935 n. 1765, l' infortunato risultava essere vittima di una “sventura sul lavoro”. 142 Un suddito destinato a produrre, non un essere umano, non un cittadino con diritti naturali da rispettare. 143 Per lo specifico testo, vedi la precedente nota (3). 144 La ragione della individuazione dell' imprenditore per questa specifica responsabilità, si evince dalla lettura dell' Art. 2086, sempre del Codice Civile. 145 Tale processo si compie con la Direttiva Europea 89/391, declinata nel corpo giuridico nazionale con il D. Lgs. n. 626/94 e smi e, successivamente, con il D. Lgs. n. 81/08, per come integrato dal D. Lgs. n. 106/09.
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particolare), si aprirono dei terrificanti scenari socio economici di devastazione ed immiserimento. Si trattava dello stato di prostrazione del Paese dopo la seconda guerra mondiale. I bombardamenti non solo dei siti industriali, ma praticamente di tutti i centri abitati, crearono una situazione di tale povertà e miseria che, per quasi un decennio, resero poco applicabile qualunque previsione prevenzionistica: la guerra aveva attraversato tutto il Paese e, dopo la guerra, erano rimaste solo la miseria, la fame e la necessità di creare lavoro e ricostruire “a tutti i costi”. La scelta repubblicana aprì la strada alla stesura della nostra Costituzione. Tra gli articoli del dettato costituzionale, ai fini della salute e sicurezza sul lavoro, si individuano quello relativo alla tutela della salute del cittadino [art. 32], dalla lettura del quale si evince che la salute è un bene “indisponibile” al singolo o a terzi; e quello relativo alla libertà di iniziativa economica [art. 41], salvo che la stessa non sia in contrasto all’utilità sociale o tale da recare danno alla sicurezza, alla libertà e dignità umana. Questi due articoli, se letti in modo combinato all’art. 2087 del Codice Civile, pongono le basi per inquadrare in colui che ha la disponibilità di organizzare il lavoro sulla base della “iniziativa economica” la responsabilità per l’individuazione dei potenziali fattori che possono creare pregiudizio alla salute e sicurezza medesima e con questa alla libertà ed alla dignità del lavoratore. Sull’onda dei primi venti di ripresa e del consolidamento delle attività industriali, si mise nuovamente in moto l’apparato legislativo per la salute e sicurezza sul lavoro e comparvero i Decreti146 547/55 e 313/56. Questi Decreti Presidenziali degli anni ‘50, e quelli promulgati immediatamente a ridosso, rappresentarono una pietra miliare per lo sviluppo del corpo giuridico nazionale per la salute e sicurezza sul lavoro, andando ad aggiornare non solo a livello tecnico e metodologico, ma soprattutto a livello morale, l’approccio della Legge verso il Lavoratore, adesso cittadino e non più suddito; adesso avente dei diritti e non più mero fattore produttivo, verso il quale la prevenzione veniva vista come un beneficio paternalistico. Con l’art. 1 del D.P.R. n. 547/55 appare subito chiaro che la sicurezza sul lavoro147 è un fattore di democrazia, che riguarda tutti i cittadini lavoratori, con delle eccezioni per categorie specifiche. Queste, comunque, erano destinate ad essere ricomprese in ulteriori, specifici dispositivi giuridici di prevenzione, predisposti “ad hoc”, vista la particolarità di tali settori [es. il settore delle costruzioni o quello dei lavori in miniera o quello portuale e marittimo]. Con gli articoli 4 e 5 del Decreto n. 547/55, vengono finalmente individuate le responsabilità in ordine all’applicazione delle misure di sicurezza, in primo 146
Venendo, almeno in parte, trascurati i settori marittimo e portuale. La Salute, sarà oggetto di analogo trattamento l' anno successivo, con la promulgazione del D.P.R. n. 303/56. 147
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luogo quella di “rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a conoscenza degli stessi lavoratori delle norme essenziali di prevenzione (...)” e, aspetto di primaria importanza, “disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione”. Infine, con l’art. 6 vengono individuati i doveri degli stessi lavoratori a proposito dell' applicazione pratica di quanto disposto dai Datori di Lavoro, dai dirigenti ed i preposti. Ai fini del presente documento ciò che importa è che finalmente, nel 1955, viene introdotto il concetto di conoscenza dei rischi e di addestramento dei lavoratori [rendere edotti148] per la conoscenza di dettaglio dei pericoli, rischi e buone pratiche per ridurne la possibilità di accadimento e/o l’impatto sull’integrità fisica e psichica. Ciò nonostante, la modalità per la valutazione di tali rischi, così come la chiara individuazione delle relative responsabilità, ad alcuni operatori non apparivano ancora del tutto chiare149. Di fatto, tali Decreti non davano chiare indicazioni di dettaglio sulla modalità da adottare per ricercare i pericoli a fronte dei processi lavorativi e non citavano esplicitamente in modo chiaro neanche l’esigenza della esecuzione e documentazione della valutazione dei rischi medesima. Queste leggi, che sino al 2008 sono state il riferimento per i temi della cosiddetta antinfortunistica e dell’igiene del lavoro, non avevano ancora un respiro organizzativo vero e proprio150, concentrandosi maggiormente sulle modalità tecniche da adottare per limitare l’esposizione ai fattori di rischio e la gravità degli eventuali danni. È certo che le stesse rappresentarono una guida tematica ai diversi fattori sui quali il Datore di Lavoro doveva porre attenzione nel “progettare i processi produttivi”. Gli articoli dedicati agli aspetti organizzativi, ospitati nella apertura dei Decreti n. 547/55 e n. 303/36, non individuavano con esplicita e formale chiarezza il flusso operativo151 delle responsabilità in merito alla individuazione dei rischi, lasciando alla giurisprudenza il compito, nei decenni successivi, di esplicitare in modo sempre più inequivocabile i principi di responsabilità, come è avvenuto a partire dalla stesura del D. Lgs. n. 277 del 1991152 e con sempre maggiore chiarezza con i Decreti Lgs. n. 626/94 ed n. 81/08 per arrivare ad una 148 149 150
Identico concetto, presente sia nel DPR n. 547/55, sia nel DPR n. 303/56. I dubbi di taluni sono stati esplicitamente chiariti dalla giurisprudenza.
Vedi, a questo proposito, l' interpretazione allora data nel testo “Servizi di Sicurezza Aziendale e Sicurezza nell' Impresa” – Ottavio Colato – Centro Editoriale Giuridico (VE) – 1987, edito prima della pubblicazione della Direttiva 89/391 e che riflette appieno le logiche del tempo, pur lasciando trasparire quelle istanze organizzative, che sono state alla base dello sviluppo della Direttiva citata. 151 Chi deve fare che cosa.
152 Attuazione delle direttive n. 80/1107/CEE, n. 82/605/CEE, n. 83/477/CEE, n. 86/188/CEE e n. 88/642/CEE, in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro, a norma dell'art. 7 della legge 30 luglio 1990, n. 212.
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esplicitazione inequivocabile con il D. Lgs. n. 106/09153. Riflettendo sulla ragione che ha portato già il legislatore dei primi anni ‘40 del secolo scorso a formulare l’art. 2087 così come oggi lo leggiamo, troviamo un solido fondamento nel fatto che la responsabilità ultima della corretta “progettazione” dei processi produttivi sia riferibile all’imprenditore, che normalmente opera per il tramite del datore di lavoro154, in quanto tenutario dei contratti di assunzione e responsabile dell' assegnazione dei lavoratori agli specifici processi produttivi e/o amministrativi dell' azienda155. Lo stesso datore di lavoro, per l’esercizio del potere direttivo che caratterizza il proprio ruolo, non può essere avulso, ma è necessariamente responsabile dell’organizzazione e dello svolgimento delle attività lavorative, a fronte della necessità di raggiungere gli obiettivi aziendali, come, ad esempio la garanzia della consegna di un bene entro un tempo stabilito, oppure il conseguimento delle caratteristiche del bene o del servizio prodotto, quale risultato di una serie di operazioni fisiche o gestionali o di concetto, che permettono non solo di definire tali caratteristiche, ma anche di stabilire le modalità operative per conseguirle: cicli, fasi, attrezzature, modalità di esecuzione etc. Quest’ultimo è un processo che può essere svolto solo dalla direzione di un’organizzazione, non è certo riconducibile alla specifica iniziativa delle singole maestranze; queste, come noto, sono addette a fare ciò che viene loro richiesto. Anche il concetto di produttività è collegato alla misura nella quale tali procedure ed istruzioni vengono rispettate156, per quanto fisicamente fattibile. Nelle logiche organizzative che coinvolgono maggiormente la competenza delle Risorse Umane per la definizione dei cicli di lavoro157 e per la ricerca di soluzioni innovative di processo, ovvero, in certi casi anche di prodotto, alla fine la responsabilità per la decisione delle modalità operative da adottare risale solo ed esclusivamente alla direzione: l’unica entità organizzativa che può 153 Vedi Articoli 17 e 16 del D. Lgs. 106/09 in merito, rispettivamente, all' obbligo non delegabile della valutazione dei rischi da parte del Datore di Lavoro ed in merito alla delega delle responsabilità. Questi principi poggiano su quelli precedentemente richiamati e definiti dall' Art. 2087 del Cod. Civ., e dagli articoli 32 e 41 della Costituzione. 154 Specialmente per le piccole organizzazioni, le due figure spesso coincidono; ma non necessariamente. Si può essere imprenditori, pur non operando direttamente le scelte operative aziendali, ma solo quelle strategiche, delegando ad altri la traduzione di tali orientamenti in scelte operative e la loro gestione, ovviamente mettendo loro a disposizione le necessarie risorse. 155 Il datore di lavoro esercita il cosiddetto “potere direttivo” ed il “potere disciplinare” nei confronti delle Risorse Umane, come previsto dagli art. 2104 e 2106 del Cod. Civ. 156 Dato che il cosiddetto “output” dei processi produttivi è frutto del rispetto dei tempi di lavorazione (il cosiddetto “takt time”) e del livello di conformità alle specifiche, ambedue parametri dell' efficienza. 157 È il caso delle tecniche note come “Lean Production”, “Total Quality Management”, “Six Sigma”, “Kaizen”, oppure il “Total Productivity Maintenance” o il metodo cosiddetto delle “5S” etc..
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disporre delle risorse necessarie per abilitare tali cambiamenti o miglioramenti organizzativi ed autorizzarli alla luce delle proprie analisi di tempi e metodi e di esigenze di competenze tecniche. Tra queste, appare chiaro che debbano essere comprese anche quelle inerenti la salute e sicurezza sul lavoro. Se volessimo addentrarci sul significato di organizzazione, per meglio corroborare questa visione delle cose, potremmo fare appello ai molteplici testi di “management” ovvero ai molteplici studi o documenti, che prodotti da illustri e titolati docenti universitari, o dirigenti d' azienda, o consulenti aziendalisti, vedono nell' organizzazione uno strumento tipicamente progettato dalla direzione per il raggiungimento degli obiettivi aziendali158. Quindi, la definizione dei processi lavorativi è una responsabilità riconducibile alla direzione delle organizzazioni. Pensare il contrario, appare come un moderno ossimoro della cultura gestionale. Quale altra entità aziendale potrà mai sostituirsi alla direzione allorquando deve essere formata la volontà di raggiungere un obiettivo e debbono essere decise le strategie di mercato ed i processi, le conseguenti esigenze di risorse produttive ed i relativi costi? Così come è un processo tipico della direzione aziendale la definizione e valutazione dei rischi operativi e le scelte di copertura assicurativa o di altri mezzi di mitigazione, altrettanto anche la valutazione dei rischi per la salute e sicurezza sul lavoro è una specifica responsabilità direzionale. Ovviamente, in assenza di competenze specifiche, la direzione può scegliere di farsi affiancare da specialisti per i singoli passaggi tecnici di tale valutazione. Anche questa è una scelta che racchiude in sé il processo decisionale in merito alla qualificazione di tali tecnici e delle modalità operative con le quali opereranno, nonché i relativi costi. Pertanto, non potrà essere individuato altro responsabile finale, per operare tale scelta, della direzione medesima. Tuttavia, parlare di direzione può apparire vago: vi è differenza tra la “direzione” intesa come consesso allargato di un comitato di gestione, vuoi che sia un consiglio d’amministrazione o il cosiddetto “staff” dell’eventuale amministratore unico, oppure il socio in affari che non ha potere decisionale sugli aspetti operativi e colui, infine, che opera le scelte operative a livello contrattuale, nell’assunzione delle Risorse Umane e nel loro impiego nei processi produttivi o di servizio interno. Evidentemente, chi detiene il potere di scegliere le Risorse Umane in base alla competenze necessarie e di allocarle alle diverse mansioni, cioè la figura del Datore di Lavoro, è in definitiva quella che il legislatore ha individuato come responsabile della valutazione dei rischi. Infatti, consapevole e partecipe delle scelte progettuali operate per la 158
Solo per citarne alcuni: Jack Welch in “Winning” - ETAS Libri del 2005; Paolo Preti e Marina Puricelli in “Gestione delle PMI – Il Sole24Ore del 2008; James Collins e Jerry Porras in “Built To Last” - Harper Business del 1994; Gianni Fava in “L' efficienza è Qualità” Franco Angeli del 1989. Inoltre, quale riferimento di primissimo piano Robert N. Anthony “Sistemi di Pianificazione e Controllo”, pubblicato in Italia da ETASLIBRI, nel 1967, dal quale si evince in modo estremamente chiaro di chi sia la responsabilità del processo direzionale e cosa, questo, interessi.
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definizione dei processi, è il Datore di Lavoro che assume la responsabilità di qualificare le Risorse Umane ed avviarle all’espletamento delle mansioni afferenti i diversi processi, nell’ambiente più ampio di lavoro che vede l’interazione tra tutti i fattori produttivi, sia a livello fisico, sia organizzativo, sia procedurale. Fugati i dubbi sull’allocazione della responsabilità ultima della valutazione dei rischi, si apre uno scenario sul quale occorre effettuare una riflessione metodologica ed organizzativa. 4. Il vantaggio tecnico‐organizzativo Il processo di valutazione dei rischi viene ancora oggi concepito da molti datori di lavoro in modo riduttivo. Molti operatori vedono nella valutazione dei rischi un espletamento più burocratico, quindi una specie di tassa, piuttosto che uno strumento gestionale di primaria importanza per l’azienda. In realtà, un processo ben strutturato di valutazione dei rischi offre una serie di vantaggi che dovrebbero portare il datore di lavoro a vedervi uno degli strumenti più importanti per la corretta gestione d’impresa159. Si pensi all’importanza di conoscere per tempo i fattori di rischio per la salute e sicurezza sul lavoro ed avere la possibilità di programmarne in modo economicamente sostenibile la loro mitigazione. Alle organizzazioni non è richiesto da nessuna parte ed in nessuna legge dello stato di dover lavorare in condizioni di “risorse infinite”; pertanto chi vede nella valutazione dei rischi un elemento di disturbo, perché vengono messe in luce le possibili aree di intervento e perché in tal modo la stessa diviene un elemento per aggravare la situazione dei costi interni, commette un banale e grossolano errore. Qualunque affermazione merita di essere fatta e letta alla luce del buon senso. Evidentemente, se vi è una situazione di pericolo cosiddetto “grave ed immediato”160 è ovvio che non possano essere accampate giustificazioni di alcun tipo, di fronte all’esigenza di intervenire immediatamente ed in modo radicale, per eliminare o ridurre significativamente tale pericolo. Però, nella più ampia maggioranza dei casi, si osservano situazioni ove i pericoli possono essere “gestibili”. Il problema esiste ed è estremamente critico, quando tali pericoli non si conoscono161 e non se ne ha una mappatura per ambienti di lavoro, processi e mansioni. 159
Questo tipo di approccio gestionale si sta diffondendo lentamente anche nel nostro Paese, in particolare attraverso la crescita culturale delle organizzazioni sanitarie e finanziarie, seppur con strumenti diversi. 160 Anche l' assenza di un carter di una macchina, se può esporre al rischio di infortunio con lesioni permanenti e/o comunque con inabilità per oltre 40 giorni, rappresenta un fattore di rischio grave ed immediato: grave per il tipo di lesioni alle quali espone il lavoratore, immediato perché immanente nelle attività di chi opera con la macchina o nelle sue vicinanze. 161
Proprio a questo serve la ricerca degli stessi pericoli, la loro analisi e valutazione.
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Avendo, invece, consapevolezza di un pericolo, il datore di lavoro può decidere quale sia il miglior metodo per la sua gestione, definendo le misure da adottare162 ed, in via residuale, quali dispositivi di protezione individuale far utilizzare ai lavoratori che operano alle proprie dipendenze. In una situazione ove un pericolo sia presente e conosciuto, lo stesso datore di lavoro può decidere di procurarsi, se non già disponibili, le risorse economiche e finanziarie163 per rimuovere o ridurre il potenziale impatto del pericolo e/o la sua probabilità di manifestarsi al fine di non arrecare danno ai lavoratori164. Intervenire su un fattore di pericolo per ridurne la potenziale severità o la probabilità di accadimento è esattamente quello che richiede la legge165; ove possibile, sempre la legge richiede di eliminare i fattori di rischio166. Occorre prendere atto che non sempre nelle organizzazioni tali interventi radicali sono possibili, anche e soprattutto alla luce dello stato di avanzamento del progresso e dell' esperienza per gli specifici processi e settori tecnologici e della fattibilità economica immediata. Rimanendo in essere dei pericoli (fattori di rischio), solamente una valutazione del singolo pericolo può portare alla conoscenza approfondita delle modalità di interazione dello stesso con l' ambiente di lavoro e la dinamica dei processi e degli ulteriori rischi esistenti. Sulla base di queste informazioni, avendo svolto le attività di protezione possibili, ivi compresa la definizione dei dispositivi di protezione individuale da utilizzare nelle singole mansioni, processi ed ambienti a rischio, il datore di lavoro potrà prevedere degli adeguati interventi di formazione di specifiche Risorse Umane167 e di procedurizzazione delle attività lavorative, in modo da ridurre il più possibile l’esposizione al rischio residuo, sempre che il rischio 162
Ad es.: misure tecniche di protezione collettiva, misure organizzative quali la formazione e la vigilanza specifica. 163 Mezzi ed ore uomo interne, piuttosto che liquidità di cassa o indebitamento per l' acquisto di beni o servizi. 164 Nella cultura anglosassone, in particolare in Australia e Nuova Zelanda, il concetto di rischio viene esteso anche ai beni dell' organizzazione, giacché il danno derivante da un potenziale pericolo che genera un evento sfavorevole può essere di pregiudizio alla continuità del “business” con o senza infortunati. Si tratta di una logica diversa, che meriterebbe uno specifico approfondimento e da non liquidare come cinica, dato che la continuità del “business” rappresenta anche la continuità nel pagamento degli stipendi. 165 Art. 15 del D. Lgs. n. 81/08 (Misure generali di tutela) “1. Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza; b) la programmazione della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente nella prevenzione le condizioni tecniche produttive dell’azienda nonché l’influenza dei fattori dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro; c) l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico”. 166 Ancora l’art. 15, ulteriori sottocomma e), f), g) ed h). 167 Che saranno le uniche a poter accedere all’area e/o alla macchina e/o alla sostanza fonte di pericolo.
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medesimo, così gestito, possa essere considerato “ridotto al minimo, in relazione alle conoscenze acquisite, in base al progresso tecnico”. Questa specifica possibilità, che è prevista dall' Art. 18 (obblighi del datore di lavoro e del dirigente) del D. Lgs.n. 81/08168, per i pericoli gravi e specifici, a maggior ragione lo potrà essere per quei fattori di rischio ove sia stata operata una mitigazione e per i quali, attraverso la designazione di Risorse Umane appositamente addestrate e sottoposte ad opportuna vigilanza, sia stata ridotta in modo sostanziale la probabilità di accadimento di un evento accidentale con possibili conseguenze per gli stessi lavoratori o per terzi eventualmente interessati dall' incidente. Proprio la valutazione del rischio potrà permettere di prendere conoscenza e consapevolezza di quali lavoratori, ovvero ospiti, ovvero altro personale non addetto alla specifica mansione, possano essere coinvolti in possibili interazioni169 con il fattore di rischio citato (comprendendo anche i rischi derivanti dalle diverse mansioni svolte nell'area da parte di chi è stato abilitato ad operare), permettendo di definire anche le opportune procedure di accesso (o meno) all' area di lavoro e/o processo e/o impianto e/o macchina in parola. 5. Il vantaggio organizzativo‐comportamentale In definitiva, la valutazione dei rischi è un processo che permette di avere non solo un vantaggio di tipo tecnico-organizzativo, ma anche un grandissimo vantaggio di tipo comportamentale. Il D. Lgs. n. 81/08, per come integrato dal D. Lgs. n. 106/09, ricollegandosi all’eredità normativa già presente nelle leggi precedenti170, prevede l’effettuazione di un’attività di addestramento171 dei lavoratori, dei preposti e dei dirigenti. Questa è intesa a far comprendere ai lavoratori i concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali; i rischi riferiti alle diverse 168 Testualmente: “e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico.” 169 Il riferimento è ai rischi interferenziali, ma non solo, dato che “interferenze” o “interazioni” possono esserci anche a prescindere dalla previsione giuridica dell’art. 26 del D. Lgs. n.81/08, tra le mansioni e processi interni alla medesima organizzazione, a prescindere dalla presenza di fornitori. 170 Vedi il Capo VI del D. Lgs. n. 626/94 e prima ancora l’art. 4 del D. Lgs. n. 277/91, e precedentemente gli artt. 4.b) e 5 del D.P.R. n. 547/55. 171 Nel linguaggio giuridico del nostro Paese, i termini “formazione” ed “addestramento” vengono utilizzati in modo improprio, considerando la prima come attività d’aula ed il secondo come attività pratica. Al contrario, ambedue i processi possono prevedere sia momenti d’aula (trasferimento teorico), sia pratici (acquisizione di capacità pratiche), ma se l’addestramento è un processo specificamente dedicato alla acquisizione di competenze specifiche (saper fare), la formazione (in lingua inglese “education”), dovrebbe basarsi prima di tutto sul trasferimento di valori comportamentali e di condivisione di una visione del lavoro e degli obiettivi aziendali (saper essere). Solo così, il lavoratore potrà adottare i comportamenti corretti, cioè prudenti, avendone compreso la ragione.
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mansioni ed i possibili danni e le conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione, caratteristiche del settore o comparto di appartenenza dell’azienda. Per i dirigenti e preposti deve essere effettuata una formazione sui principali soggetti coinvolti ed i relativi obblighi; sulla definizione ed individuazione dei fattori di rischio; sulla valutazione dei rischi; sull’individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione. Come si potrà mai ottenere efficienza ed efficacia in questo processo, se i lavoratori, i preposti ed i relativi dirigenti non saranno stati coinvolti nel processo di analisi dei rischi? Non coinvolgere le Risorse Umane – a qualunque livello – è il primo e più grave errore che possa essere commesso nel processo organizzativo di valutazione dei rischi. Proprio per la natura estremamente soggettiva di tale processo, occorre che lo stesso venga allargato il più possibile a tutti gli interessati, per mediare le considerazioni, per integrare le informazioni disponibili e per diffondere la conoscenza in modo diretto e non con strumenti “ex post” come la formazione d’aula, che sono poco consigliati con il lavoratore adulto. La teoria ci insegna che prima di tutto “debbono” essere individuati i fattori di pericolo, che “se ne deve stimare” la probabilità di accadimento e la possibile gravità, per poi “effettuare” la valutazione172 di tali rischi173. La Legge (il cosiddetto testo unico per la salute e sicurezza sul lavoro) obbliga il datore di lavoro a farsi carico di questo processo ed a ragion veduta, per come è emerso dalla precedenti considerazioni. Nasce la domanda: come esaltare l' utilità di questo processo direzionale? Ipotizzando che il processo di valutazione dei rischi venga eseguito dal solo RSPP, o da questi con l’ausilio di uno o più consulenti (compresi i tecnici per la valutazione dei rischi specifici), come tale processo potrà considerarsi esaustivo e, quindi, realmente utile all’organizzazione, se non saranno stati ascoltati e coinvolti, direttamente ed attraverso i propri rappresentanti174 proprio i lavoratori, che sono i diretti interessati? Chi conosce le macchine, i processi, il reale flusso delle operazioni, tra le quali, ad esempio le modalità effettivamente adottate per gli spostamenti interni? Quelle per i trasferimenti dei materiali da lavorare? Quelle per il mantenimento sotto controllo degli impianti e delle attrezzature? Basandoci su quanto affermato poco sopra, il processo lavorativo e le singole mansioni dovrebbero essere state definite in modo preciso dalla direzione. Sappiamo 172 Vedi la Norma UNI 11230:2007 – Gestione del Rischio (vocabolario) – con la quale si stabilisce che la valutazione dei rischi è il “Processo di identificazione, misurazione e ponderazione dei rischi”. 173 Ancora la Norma UNI 11230:2007 indica che il rischio è “L' insieme della possibilità di un evento (es. infortunio) e delle sue conseguenze sugli obiettivi; inoltre, che la dimensione del rischio è la combinazione della probabilità di un evento (es. l' incidente) e della entità delle sue conseguenze. 174 Gli RLS, come stabilito dalla Legge e gli operatori che svolgono le specifiche mansioni e vivono negli ambienti di lavoro.
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benissimo che spesso le cose vanno diversamente. Vengono prese delle abitudini non correttamente mappate, ad esempio proprio per i percorsi interni o per le modalità di ingresso in specifiche aree con presenza di rischi specifici. Nella realtà i processi evolvono, più o meno rapidamente, a seconda del livello di controllo interno sull' organizzazione e, pertanto, si perde la tracciabilità delle regole, se mai sono state fissate. Appare naturale che in un’organizzazione che opera processi che prevedano dei rischi rilevanti175 il livello controllo operativo sarà molto elevato. Però, nella maggior parte delle organizzazioni, ciò che fa fede sono delle prassi interne che tendono a modificarsi nei mesi e negli anni con la rotazione delle Risorse Umane, con le piccole modifiche non tracciate, come la sostituzione di macchine o di sostanze o di materie prime, o con la modifica degli impianti e della disposizione del flusso di tali fattori produttivi. Molte mansioni vengono svolte secondo prassi che variano, magari di poco, con il variare degli operatori. Figuriamoci se entriamo nell’ambito della valutazione dei rischi per le emergenze, ove spesso le possibili situazioni non sono state neanche mappate in modo esaustivo, prendendo in esame – in modo teorico – solo l’emergenza incendio. Ove il processo di valutazione dei rischi venga svolto, come sopra indicato, dall’RSPP eventualmente con l’ausilio di qualche tecnico, alcuni di questi elementi organizzativi “fuori controllo” possono sfuggire. Il processo di valutazione dei rischi è l’occasione per approfondire lo stato dell’arte del chi fa cosa, con quali mezzi, secondo quali prassi, rispondendo a quali “input” ed attendendosi “quali comportamenti” nello svolgimento della mansione. Banalmente, è facile scoprire che anche in organizzazioni abbastanza piccole, non vi è la consapevolezza di chi sia il Medico Competente, di chi sia l’RSPP176 e, cosa ancor più grave, di chi sia l’RLS o chi siano gli incaricati per le emergenze. Ben venga che qualcuno si strappi le vesti ritenendo che questo non sia vero. Vorrà dire che in quella specifica organizzazione le cose vanno meglio di quanto sopra illustrato. Nella media delle organizzazioni, però, le situazioni descritte possono essere considerate verosimili. Come mai, altrimenti, ci dovremmo lamentare con noi stessi per il fatto che non abbiamo una adeguata cultura dell’efficienza interna delle organizzazioni? Le tecniche di efficientamento come la “Lean Production”177 risultano quasi sconosciute, se non per sentito dire. Eppure riteniamo di conoscere i processi e le mansioni, che risultano però mappati in modo approssimativi e dei quali non sono quasi mai 175
Cfr. D. Lgs. n. 334/99 e successive modificazioni. Non è raro che l' RSPP sia esterno e con contratti molto poveri, che inducono una sua presenza limitata. 177 Una delle tecniche di ottimizzazione dei processi produttivi, di matrice giapponese, che permette di approfondire in modo concreto e consistente l' effettiva modalità di svolgimento dei processi produttivi e di migliorarne il flusso, semplificando le operazioni, anche con l' ausilio di ulteriori tecniche come il “Total Productivity Maintenance e 5S” o con il “6 sigma”. 176
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note le interazioni! Forse, ne conosciamo la “teoria”, ma la conoscenza vera la si ottiene solo osservando e parlando con le persone, che sono la vera “miniera di Deming”178 delle organizzazioni. Se consideriamo l' analisi delle mansioni, al di là delle analisi che possono essere svolte con l' aiuto di qualche “software” dedicato, la vera conoscenza delle modalità operative può essere ottenuta solo con l' osservazione diretta (modalità di impiego delle sostanze, modalità di impiego delle attrezzature, posture etc.). Osservare lo svolgimento delle mansioni e verificare quale siano, nella realtà le condizioni di lavoro, è parente stretto di intervistare le Risorse Umane. Proprio nell' intervista avviene l' interazione che permette di conoscere quale sia la preparazione media del lavoratore (ma anche del preposto) sui rischi presenti nei luoghi di lavoro. Quale ausilio per le interviste, possono essere adottati dei questionari standardizzati, in modo da rilevare alcune informazioni di base179. Sarà l' esperienza e la sensibilità dell' RSPP e/o dei suoi collaboratori a permettere un approfondimento sulle modalità operative di svolgimento delle mansioni specifiche. In questo processo, il ruolo dei dirigenti (ove presenti) e dei preposti è sostanziale, per comprendere quali siano i fattori che indirizzano il loro modo di effettuare una vigilanza attiva sull' applicazione delle regole e dei conseguenti comportamenti, oggetto della formazione ed addestramento aziendali. In buona sostanza, la valutazione dei rischi deve essere svolta a diversi livelli. Il primo è quello prettamente tecnico delle indagini strumentali (es. rumore, vibrazioni, microclima) o metodologiche (es. valutazione della movimentazione manuale dei carichi, valutazione sulla corretta esecuzione delle manutenzioni alle diverse attrezzature). Il secondo è quello dell' interazione con le Risorse Umane, l' approccio partecipativo: in questo caso serve andare nei reparti, serve l' osservazione e serve l' intervista. Nella ricerca dei fattori di pericolo e nella loro analisi, l' interazione con le Risorse Umane è necessaria per comprendere la realtà dello svolgimento delle mansioni e della configurazione dei processi. In questo caso, l' intervista può divenire uno strumento per “rinfrescare” le conoscenze acquisite dai lavoratori sui comportamenti corretti, oltre che lo strumento per prendere atto dei comportamenti reali e della loro conformità alle regole date. Il ruolo del preposto, in tale fase, è quello di supportare l’operato di chi esegue l’analisi dei rischi, contribuendo alla sintesi dei risultati per 178
Per “miniera di Deming” si deve intendere tutto il bagaglio di conoscenze che è stato accumulato dalle Risorse Umane e che è – volendo – a disposizione della direzione per approfondire le possibili aree di miglioramento interne alle organizzazioni medesime. 179 Un questionario standardizzato permette di effettuare, successivamente, delle correlazioni utili per programmare la vigilanza e l’addestramento sui temi della salute e sicurezza sul lavoro. La registrazione dei comportamenti osservati, permette di indirizzare l’addestramento sui comportamenti a rischio.
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l’effettuazione della relativa valutazione e prioritizzazione degli interventi. Ne guadagna una presa di consapevolezza della competenza per la gestione dei rischi per la salute e sicurezza sul lavoro delle proprie Risorse Umane. Queste informazioni gli permetteranno di programmare gli argomenti da trattare nelle brevi riunioni periodiche per la prevenzione e protezione e che gli permetteranno di programmare e meglio indirizzare le attività di vigilanza sulla corretta adozione dei comportamenti sicuri e prudenti che servono a ridurre la probabilità di accadimento degli eventi incidentali e dei relativi infortuni. 6. Il vantaggio produttivo Una analisi dei rischi che coinvolga, con le modalità più sopra tracciate, le Risorse Umane aziendali, ha il doppio vantaggio di far porre l’attenzione alle Risorse Umane sulle migliori modalità per l’esecuzione delle proprie mansioni e di rinfrescare loro i concetti di prevenzione e protezione, soprattutto la conoscenza dei pericoli, rischi e, quindi, delle possibili conseguenze alle quali possono essere esposti nel caso di infortunio. Però, se la direzione è avveduta ed ha sufficiente competenza sui temi e sulle tecniche di gestione delle organizzazioni, non tarderà a rendersi conto che il processo di valutazione dei rischi, svolto in modo partecipato, come sopra descritto, può essere l’occasione per analizzare anche il flusso dei processi produttivi, per effettuare una analisi di dettaglio degli aspetti di miglioramento non solo per la salute e sicurezza sul lavoro, ma per l’efficienza e l’efficacia della produzione180. Infatti, lo studio dei comportamenti delle Risorse Umane, alla luce delle esigenze di prevenzione e protezione, dovrebbe essere svolto con le medesime tecniche che vengono utilizzate per lo studio del cosiddetto “fattore umano”, cioè per lo studio degli aspetti di ergonomia generale del lavoro che possono indurre i comportamenti poco prudenti, ma anche gli errori operativi che conducono alle non conformità di prodotto, oppure di sicurezza delle informazioni, oppure ambientali181. Non si può negare che considerare la valutazione dei rischi in questo modo, significa spingersi nell’ambito dell’organizzazione del lavoro svolta con metodi scientifici. Lo studio del “fattore umano” dovrebbe prevedere – ed è qui la sua vera forza – anche lo studio del clima interno per la salute e sicurezza sul lavoro. Il clima interno ed in particolare gli specifici aspetti sociologici afferenti i comportamenti prudenti e le manovre corrette delle attrezzature ed impianti sono l’elemento abilitante per la formazione della cultura per la salute e
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Vedi “Guidelines for Integrating Process Safety Management, Environment, Safety, Health and Qulity, edito dal CCPs (Center for Chemical Process Safety) del 1996 e la PAS 99:2006 edita da BSI. 181 A questo proposito si veda il modello “SHELL” di Edwards – 1972 come modificato da Hawkins nel 1975.
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sicurezza sul lavoro182. Ne discendono conoscenze specifiche sullo stato dell' arte dei fattori motivazionali; si potrà partire da queste informazioni per la progettazione di interventi di motivazione e fidelizzazione delle stesse Risorse Umane. Senza l’intervento su tali aspetti, abilitanti della condivisione dei valori organizzativi, non potrà mai esserci il vero cambiamento verso i comportamenti sicuri. Per contro, all’ottenimento di un miglioramento del clima interno per la salute e sicurezza sul lavoro, corrisponde, necessariamente, un comportamento reciprocamente più responsabile tra direzione e Risorse Umane. Questo cambiamento si può riflettere, ove la direzione abbia la competenza per gestire il processo di cambiamento in parola, in una collaborazione continua per il miglioramento dei processi sotto tutti i punti di vista, con beneficio diretto sulla produttività, sulla drastica riduzione degli errori di produzione, grazie alla migliore conoscenza dei processi, ed alla creazione delle condizioni per garantire il mantenimento negli anni della continuità degli affari, con beneficio per tutte le parti interessate. 7. Conclusioni La valutazione dei rischi è un processo che consta di tre momenti sostanziali: l’individuazione dei fattori di pericolo, la loro analisi e definizione della misura del rischio relativo, con particolare importanza alla dimensione del danno per i lavoratori che possono essere interessati dagli infortuni correlati. Infine la valutazione comparata di tali rischi, analizzati per ambiente, processo e mansione, al fine di creare una priorità di intervento. Tale priorità dovrà prevedere delle azioni di eliminazione, il più possibile, dei fattori di pericolo, anche attraverso la sostituzione di tecnologie e/o materie prime. Ove ciò non sia immediatamente possibile, la Legge consente di intervenire con misure organizzative e procedurali ed in ultima istanza con misure di protezione collettive ed individuali. Per indicazione cogente del D. Lgs. n. 81/08, il datore di lavoro dovrà indicare quali interventi siano già stati fatti e quali ancora da fare183, quali misure di mitigazione (prevenzione e protezione), ivi compresi formazione ed addestramento e quali specifici dispositivi di protezione individuale intenda adottare per mettere al riparo le Risorse Umane che operano a contatto con tali rischi. Tra le indicazioni richieste al datore di lavoro vi è anche quella di specificare i responsabili di tali interventi e le risorse messe a 182
Vedi l’articolo “Quali le implicazioni del Fattore Umano (HF) nella Certificazione dei SGSL” R. Bianconi - SINCERT 2006.
183
Su questo aspetto vige la “spada di Damocle” della possibile utilizzazione di queste informazioni come “autodenuncia” dell' organizzazione in caso di infortunio o di ispezione di un' Organo di Controllo. Questa appare come una vera e propria aberrazione del sistema, che però non può e non deve spingere a fare delle analisi e delle valutazioni “povere”, in quanto attaccabili a livello metodologico e, fondamentalmente, inutili al progresso delle organizzazioni di lavoro.
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disposizione ed anche i tempi di attuazione. Quest’ultima è una indicazione critica, senza la quale perderebbe di valore ogni precedente valutazione. La valutazione dei rischi dovrà prendere in esame i rischi residui, per valutare se siano il frutto di una mitigazione che li abbia ridotti al minimo possibile. Gli interventi sulle tecnologie e le materie prime, ove l’eliminazione dei rischi non sia completamente fattibile184, dovranno essere accompagnati da interventi di selezione di Risorse Umane nel ruolo di lavoratori che siano giudicate idonee e che siano tassativamente avviate a percorsi di specifica formazione ed addestramento185, che unite alla vigilanza dei preposti e dirigenti, potranno scongiurare l’accadimento di incidenti e dei possibili infortuni conseguenti. Il processo di valutazione dei rischi è una responsabilità specifica del datore di lavoro, che si avvale della collaborazione dell’RSPP ed, eventualmente, dei tecnici di sua fiducia. Per gli aspetti di carattere sanitario (marcatamente i rischi per la salute) dovrà essere coinvolto il medico competente. Per le valutazioni tecniche specifiche, dovranno essere effettuate delle analisi strumentali da tecnici con specifiche competenze ed autorizzazioni. Tali valutazioni specifiche sono quelle obbligatoriamente richiamate dai vari titoli del cosiddetto Testo Unico e dei suoi successivi aggiornamenti. La valutazione del parametro probabilistico del rischio dovrà essere svolta non solo sulla base delle registrazioni pregresse di eventi incidentali avvenuti presso la specifica organizzazione, ma sicuramente – tanto più l’unità produttiva risulti piccola – tanto più il datore di lavoro dovrà avvalendosi dei risultati delle statistiche dell’associazione di categoria e dell’INAIL ed, ove possibile, di fonti di dati internazionali, atteso che la probabilità insiste su tutta la popolazione dei lavoratori di un certo tipo di processo e non sui soli lavoratori della specifica organizzazione. Un’altra fonte preziosa di informazioni per analizzare i possibili rischi deriva dalla registrazione degli incidenti che non hanno dato luogo ad infortuni186. La raccolta delle relative informazioni è la sfida che, a livello organizzativo, si rivela più difficile, data l’esigenza di una elevata sensibilizzazione delle Risorse Umane interessate e la necessità di creare un ambiente di lavoro non punitivo a fronte del verificarsi di tali situazioni nei quali si siano concretizzati degli eventi rischiosi. La valutazione finale, che avrà per esito la prioritizzazione dei rischi e degli interventi di mitigazione, dovrà essere formalizzata – “ex lege” – in un documento che sia caratterizzato da una data certa, cioè approvato dal datore di lavoro, ma con l’evidenza della firma del medico competente, dell’RSPP e 184
Cioè nella quasi totalità dei casi. Con verifica finale dell' apprendimento dei “saperi teorici”, del “saper fare” e dei comportamenti più adeguati per prudenza: il cosiddetto “saper essere” sul posto di lavoro. 186 Definiti nella letteratura tecnica come “Near Miss”. 185
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dell’RLS. Come più sopra accennato, la valutazione dei rischi ha valore sino a quando non vengono modificate le condizioni di lavoro, gli impianti, le macchine, ma anche sino a quando non vi sia una sostanziale modifica del livello di competenza e consapevolezza delle Risorse Umane. Un’altra ragione di modifica dei fattori produttivi e della loro organizzazione sarà l’adozione, da parte della direzione, di quei provvedimenti che discendano dall’evoluzione della tecnica e dell’esperienza negli specifici settori di operatività dell’organizzazione. In questi casi, come nel malaugurato caso di occorrenza di gravi infortuni (ma anche mancati infortuni) non solo presso l’azienda ma anche presso le altre organizzazioni di settore, la stessa valutazione dovrà essere aggiornata immediatamente, per gli aspetti che sono stati oggetto di variazione, tenendo accuratamente conto degli impatti di tali modifiche o dei fattori di esperienza acquisiti, su tutti gli ambienti interessati, sui processi specifici e sulle loro possibili interazioni e sulle mansioni correlate. Un altro fattore che può e deve portare per legge all’aggiornamento della valutazione dei rischi è l’insorgenza di patologie correlate a specifici rischi, delle quali il medico competente dia notizia al datore di lavoro, vuoi perché l’organizzazione ne è direttamente interessata, vuoi perché tali informazioni derivino da osservazioni e studi di igiene e medicina del lavoro dei quali lo stesso medico competente sia venuto a conoscenza nell’ambito del suo percorso di aggiornamento professionale. L’organizzazione che riesce ad organizzarsi per l’utilizzo pro-attivo delle fasi di individuazione dei fattori di pericolo e di analisi dei potenziali rischi, con il coinvolgimento di tutte le Risorse Umane, crea le condizioni per la propria crescita culturale per la salute e sicurezza sul lavoro. In tale organizzazione, il datore di lavoro avrà a disposizione non solo le informazioni per compilare il documento di valutazione quale obbligo di legge, ma avrà uno strumento organizzativo efficace e potente, per perseguire un miglioramento partecipato della propria organizzazione, con il coinvolgimento attivo dei lavoratori. Maggiore la partecipazione, più sentite saranno le regole e maggiore la probabilità di avere comportamenti sicuri e prudenti. 8. Alcune avvertenze pratiche Diversi studi condotti negli anni passati187, anche in occasione dei monitoraggi sullo stato di applicazione dell' allora D. Lgs. n. 626/94, hanno evidenziato delle lacune e debolezze tipiche del processo di valutazione dei rischi: • considerare la valutazione dei rischi un semplice atto dovuto e solo di 187 Vedi la ricerca “Le criticità del DVR evidenziate dall' Organo di Controllo” del Servizio Sanitario della Regione Toscana – 2005.
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tipo burocratico, senza collegamento con la realtà aziendale; mancata comprensione che la salute e sicurezza sul lavoro sono un bene ed un interesse di tutti: tutti i dirigenti, tutti i preposti e tutti i lavoratori. Non sono un “incombenza” del solo RSPP; la carenza sostanziale della programmazione degli interventi tecnici ed organizzativi: la valutazione dei rischi viene eseguita (individuazione dei pericoli, analisi degli stessi a fronte degli ambienti, processi e mansioni) per valutarne l' impatto e decidere le misure organizzative e tecniche di mitigazione. Se viene trascurato quest' ultimo passaggio, tutto quanto fatto in precedenza – ammesso che sia stato fatto in modo corretto e come più sopra descritto – a che serve? l’errore gravissimo del datore di lavoro di credere che i compiti affidatigli dall’art.17 del cosiddetto Testo Unico e che non sono delegabili, possano essere di fatto delegati all’RSPP, magari esterno, magari presente in modo sporadico in azienda; l’errore altrettanto grave del datore di lavoro di credere che la valutazione dei rischi sia il DVR e che, una volta fatta non serva mai più ripeterla: una vera e propria tassa impropria; Alcuni errori tipici del processo di valutazione dei rischi sono: l’esecuzione di una analisi e valutazione parziale, distratta e non documentata; la confusione tra analisi e valutazione (non sono la stessa cosa, evidentemente); la mancanza della definizione delle misure e del programma attuativo; la mancata definizione dei criteri utilizzati a livello metodologico; gli errori materiali di analisi, derivanti da carenti conoscenze scientifiche per i rischi specifici (fisici, chimico, biologico etc.) o mancata conoscenza dei valori limite di esposizione o da carenze nelle specifiche misurazioni (es.: errori nella valutazione dei tempi di esposizione dei lavoratori ai fattori di rischio); il mancato utilizzo della valutazione dei rischi come strumento di formazione ed informazione delle Risorse Umane (mancata socializzazione dei risultati), che porta, come abbiamo visto più sopra, alla perdita dei vantaggi organizzativi, in primo luogo quello di modifica e miglioramento dei comportamenti delle Risorse Umane.
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Ruolo, modalità e strumenti per l’efficacia dell’addestramento e della formazione come elemento effettivo di prevenzione degli infortuni sul lavoro Francesco Naviglio ‐ Sociologo dell’organizzazione e Segretario Generale di AiFOS, ex direttore del Servizio Formazione dell’INAIL 1. Introduzione Nell’affrontare il tema della formazione nel campo della salute e sicurezza dei lavoratori non possiamo non partire da una consapevolezza: di solito i lavoratori chiamati a frequentare corsi di formazione sulla sicurezza sul lavoro sono persone esperte nel loro lavoro, che accettano controvoglia di tornare in aula per apprendere e confrontarsi su argomenti ritenuti aprioristicamente superflui, se non addirittura inutili. Probabilmente anche tale considerazione ha indotto il legislatore a dare ampio spazio alle tematiche formative nell’ambito della rivisitazione complessiva della legislazione sulla sicurezza sul lavoro, che si è concretizzata nella stesura definitiva del D. Lgs. n. 81/08 e s.m.i., arrivando a dettagliare tutte le fasi che dovranno essere attraversate nel processo formativo dei lavoratori. Il modello che il legislatore ha voluto introdurre è quello della formazione continua rivolta a tutte le figure che sono coinvolte nell’azienda alla gestione della salute e sicurezza dei lavoratori. Già dall’articolo 2, dedicato alla illustrazione delle definizioni utilizzate nel decreto legislativo, il legislatore indica tre punti specifici per chiarire cosa intende quando parla di informazione (complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro), formazione (processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi) e, addirittura, di addestramento (complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro). L’utilizzo, nell’ambito dell’articolato del decreto legislativo, delle tre nozioni di informazione, formazione e addestramento denota la volontà di introdurre nel sistema produttivo italiano un approccio alla formazione sulla salute e sicurezza dei lavoratori che vada oltre il mero obbligo da assolvere una tantum, ma inteso come un percorso formativo lifelong rivolto ai lavoratori e a tutti i soggetti che in azienda sono chiamati a garantire l’effettività della sicurezza sul lavoro. 90
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La portata innovativa del decreto sotto questo profilo è rafforzata ancora di più da quanto previsto in merito alle competenze e qualificazioni che devono vantare i formatori coinvolti nei percorsi formativi188 e, ulteriore novità, l’obbligo per tutte le figure professionali che concorrono a realizzare il sistema gestionale della salute e sicurezza sul lavoro delle singole aziende di registrare le competenze acquisite durante i corsi di formazione specifici nel “Libretto Formativo del Cittadino” istituito nel 2003189, ma mai realizzato. Lo strumento dovrà assolvere a due diversi compiti: rendere edotto il datore di lavoro delle competenze e conoscenze acquisite dai soggetti della sicurezza nel corso della loro esperienza lavorativa e permettere agli organi di vigilanza di monitorare e verificare costantemente l’assolvimento degli obblighi formativi da pare dei datori di lavoro. 2. Apprendimento degli adulti e longlife learning nella sicurezza sul lavoro Sul tema dell’apprendimento degli adulti si è incentrato il focus di For190 di gennaio/marzo 2010 e in particolare Pier Sergio Caltabiano191 nel suo editoriale ha analizzato le modalità e l’efficacia dell’apprendimento degli adulti “…in una epoca in cui l’importanza di sviluppare il lifelong learning rappresenta un giudizio diffuso e condiviso, diviene rilevante non solo analizzare ed integrare le differenti modalità con cui l’apprendimento è attivabile (…omissis…), ma anche con quali strumenti, metodologie, modelli e logiche sia possibile facilitarlo, sedimentarlo ed implementarlo, valorizzando il ruolo delle emozioni che lo caratterizzano e capitalizzandone l’esperienza generativa.”192 Dall’analisi di Caltabiano appare evidente la necessità di valutare ed approfondire con attenzione gli stimoli che portano un adulto ad apprendere in un contesto sociale dove il lifelong learning appare uno strumento fondamentale di crescita sociale oltre che di integrazione culturale. Anche se non si possono disconoscere casi di apprendimento “autoreferenziale”, fine a se stesso di “sapere per sapere”, Caltabiano evidenzia la modalità del learning by doing (Schank, 2004) in base alla quale si impara per fare qualcosa, non solo per conoscere. Nella formazione alla sicurezza sul lavoro diviene quindi importante stimolare adeguatamente i lavoratori a condividere il progetto formativo per renderli parte attiva del processo stesso. Solo mediante un reale e significativo 188
L’art. 6, comma 8 del D. Lgs. n. 81/08 e s.m.i. indica tra i compiti della Commissione Consultiva permanente “..l’elaborazione dei criteri di qualificazione della figura del formatore per la salute e sicurezza sul lavoro, …”. 189 Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30. 190 For – Rivista per la formazione, n. 82, edito da Franco Angeli. 191 Presidente AIF e Presidente della Società Italiana di Programmazione neuroLinguistica. 192 Pier Sergio Caltabiano, “Gli orizzonti di Giano”, in For, n. 82 - pagg. 5 – 8.
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coinvolgimento dei lavoratori si potrà ottenere quella che Caltabiano chiama la sedimentazione e implementazione dell’apprendimento per renderlo “generativo” di comportamenti e atteggiamenti utili alla prevenzione contro i rischi lavorativi. Ciò è ancora più vero quando si parla della trasmissione dei saperi legati alla sicurezza del lavoro in cui è centrale la figura del formatore. Domenico Lipari193, scrivendo dell’identità del formatore nella prospettiva lifelong learning194, evidenzia il “..fenomeno secondo il quale il sapere sociale disponibile è in continua riproduzione con la conseguenza che la stabilità temporale dei saperi, i quali hanno perso la solidità di un tempo, attraversati come sono da incessanti processi di trasformazione;…”195. Trattando di formazione sulla salute e sicurezza dei lavoratori non si può che condividere quest’affermazione in quanto il contesto di riferimento, prettamente industriale, subisce continuamente modificazioni tecnologiche e produttive tali da imporre ai propri operatori un continuo aggiornamento professionale e, contemporaneamente, tenersi aggiornati sull’evoluzione dei pericoli insiti nel variare naturale delle fonti di rischio. Da qui la necessità che il formatore, impegnato nello specifico campo della sicurezza sul lavoro, consideri il proprio aggiornamento continuo come un fattore imprescindibile di successo e di adeguatezza alle finalità del proprio mestiere che ha riflessi direttamente sulla salute e integrità psico-fisica dei lavoratori a lui affidati. Egli, per primo, dovrà appropriarsi della capacità di apprendere ad apprendere che Lipari, riprendendo un concetto già espresso da Aureliana Alberici196, individua come cruciale in una società contraddistinta da processi incessanti di cambiamento. “Si tratta – scrive Lipari – di una competenza da intendere anche come capacità di dis-apprendere, ovvero come la capacità di sapersi “allontanare” da conoscenze superate allo scopo di rinnovare il bagaglio del proprio sapere”. Come può non aderire a questa visione del proprio ruolo il formatore che, giornalmente, si confronta con lavoratori spesso “costretti” a partecipare a corsi di formazione considerati inutili in quanto si ritengono già in possesso di tutte le possibili conoscenze e competenze adeguate al loro lavoro? È evidente che la capacità di dis-apprendere dovrà divenire patrimonio in primo luogo del formatore in modo che lui stesso possa trasferirla, come abito mentale e metodologia di apprendimento, ai partecipanti ai corsi di formazione 193
Sociologo, ricercatore indipendente, docente a contratto presso la Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza di Roma e presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre. 194 Cfr. in For, n. 82 - pagg. 19 -25. 195 Cit. in For, n. 82 – pag. 20. 196 Professore ordinario e presidente del corso di laurea Formazione e sviluppo delle risorse umane, presso l’Università di Roma Tre.
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sulla sicurezza sul lavoro, dove l’obiettivo principale dovrà essere, sempre e comunque, educare i partecipanti a modificare e adeguare i propri comportamenti verso i rischi derivanti dal lavoro in continua mutazione. Nei corsi di formazione sulla salute e sicurezza degli ambienti di lavoro si potrà dire di avere raggiunto uno degli obiettivi didattici se i partecipanti condivideranno e faranno propri i principi e le metodologie alla base delle teorie sul lifelong learning. Il condividere i principi e le metodologie della formazione continua, nella consapevolezza che i propri saperi e le proprie competenze sono mutevoli nel tempo e che hanno bisogno di continui aggiornamenti, aiuterà i lavoratori ad affrontare i rischi collegati alla loro attività con la certezza e la serenità di essere adeguatamente pronti ad affrontare i pericoli connessi. 3. La modifica dei comportamenti come prerequisito di una politica della prevenzione Sul numero di luglio 2010 di Focus197 è apparso un interessante articolo di Amelia Beltramini dal titolo “Improvvisamente so!” in cui l’autrice evidenzia come la vita della mente è fatta in gran parte di intuizioni per lo più inspiegabili. Gli studi condotti hanno evidenziato, in particolare, come certi tipi di percezioni incoscienti restano a disposizione della “banca dati” del cervello. Come sottolineato nell’articolo, spesso il “Fermi Tutti!” del pompiere nel corso di una operazione di salvataggio è dettata da percezioni così lievi da non essere coscienti ma derivanti da esperienze precedenti. In situazioni di emergenza e di pericolo le risposte comportamentali degli individui sono spesso automatiche in quanto dettate dall’esperienza vissuta in modo inconscio. Nell’articolo viene sottolineato come negli ambienti di lavoro la distinzione tra veterani e pivelli si fondi sull’esperienza. Infatti quello che viene identificata come “intuizione” è per lo più frutto dell’esperienza e dell’esercizio che nel corso del tempo viene vissuto in modo inconscio ma automatico. Le varie figure lavorative (il pompiere, il caporale, il capo reparto o cantiere, etc.) nel corso della loro attività hanno accumulato una serie di esperienze di pericolo ed emergenza, memorizzate nella loro banca dati, che, all’occorrenza e a volte inconsciamente, guida i comportamenti ad evitare il pericolo e il rischio spesso in modo automatico. I lavoratori giovani o meno esperti, anche se in possesso di tutte le informazioni, istruzioni e i manuali, di fronte a situazioni di rischio non sono in grado di prevedere o di evitare il pericolo in quanto non in possesso delle informazioni necessarie e sufficienti dettate dall’esperienza. Martin Seligman e Michael Kahana198, psicologi dell’University of 197
Amelia Beltramini “Improvvisamente so!” Focus di luglio 2010 - pagg. 92 – 100.
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M.E.P. Seligman, M.Kahara, Unpacking intuition: a conjecture – Perspect Psychol Sci.2009 Jul.
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Pennsylvania a Filadelfia, hanno rilevato che l’intuizione possa essere insegnata sia mediante esperienze dirette sia tramite sistemi virtuali199. Appare evidente come questi studi aprono scenari interessanti per coloro che si occupano di formazione nel campo della sicurezza sul lavoro, che scopre nuove metodologie per preservare la salute e sicurezza dei lavoratori. Se si assumono come efficaci questi studi sull’apprendimento, risulterà necessario ripensare completamente le metodologie utilizzate nei percorsi formativi alla sicurezza sul lavoro, riducendo al minimo il tempo dedicato alle lezioni frontali per privilegiare tecniche esperienziali fondate sul partecipare in concreto ad esperienze che di volta in volta potranno essere reali o virtuali. Da qui la necessità di ripensare anche i luoghi della formazione che, oltre all’aula, potrà e forse dovrà svolgersi in laboratori ove sperimentare, in concreto o virtualmente, l’esposizione al pericolo e al rischio. Ad integrazione della formazione fatta in aula sarà quindi utile allestire laboratori di ricerca e sviluppo ove prefigurare situazioni di pericolo mediante la costruzione di ambienti di lavoro ad alto rischio in cui far allenare e addestrare personale che sarà in futuro adibito a mansioni ad alto rischio. Come sottolineato dai due psicologi, anche la realtà virtuale ha la capacità di “allenare” l’individuo a tipi di apprendimento che potranno essere funzionali a fronteggiare il pericolo. Si potranno progettare e realizzare programmi che possano, mediante appositi simulatori, somministrare situazioni di pericolo di tutti i tipi e in tutte le varianti. Saranno queste modalità di formazione che potranno aiutare i lavoratori a realizzare una propria e tutta personale banca dati del pericolo che, al momento opportuno, li aiuterà a fronteggiare in modo probabilmente inconscio e automatico eventuali situazioni di rischio che dovessero trovarsi a fronteggiare. Da quanto illustrato nell’articolo citato sembra giunto il momento, più volte evocato, di dare ampio spazio alla modifica dei comportamenti come strumento principe di prevenzione nei luoghi di lavoro.
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Cfr Focus luglio 2010 – art. citato pag. 98.
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Modifica dei comportamenti da realizzare contestualmente all’avvio dell’individuo all’attività lavorativa utilizzando, all’occorrenza, anche le esperienze e le professionalità dei lavoratori anziani tramite quegli strumenti di realtà virtuale ricordati nell’articolo della Beltramini. In tale contesto sarà utile adottare una strategia mista che preveda la collaborazione di lavoratori che potremmo definire “esperti”, quali fonte di testimonianza e di validazione delle attività esperienziali da fare in campo, e di lavoratori “giovani” e quindi meno esperti. L’obiettivo sarà quello di creare delle sinergie tra le due categorie di lavoratori al fine di favorire, da un lato, la trasmissione delle esperienze vissute e, contemporaneamente, l’assimilazione e la oggettivazione delle stesse da parte di tutti i partecipanti, esperti e giovani, passando da azioni frutto di percezioni istintive a comportamenti coscienti e attuati volutamente. Maurizio Castagna200 nel suo libro “Progettare la formazione”201 affronta il tema della modifica dei comportamenti in una specifica sezione all’interno della parte dedicata al processo di progettazione della formazione. Riconosce l’estrema complessità e difficoltà nel voler realizzare tale obiettivo, in quanto nella formazione degli adulti ci si scontra con la naturale resistenza al cambiamento specialmente se questo inerisce il vissuto stesso delle persone. Altro motivo di difficoltà deriva dal tempo che richiede tale tipo di intervento formativo che non può ridursi a sole due/tre giornate d’aula e che necessita di successive sessioni di follow-up per verificare l’efficacia dell’intervento. Risulta quindi evidente che nella formazione alla sicurezza sul lavoro la progettazione degli interventi sulla modifica dei comportamenti dovrà prevedere un arco temporale consistente se si vorrà realmente incidere e ottenere una riduzione degli infortuni sul lavoro. Tale esigenza, naturalmente, dovrà contemperarsi con la necessità di garantire alle aziende l’efficienza produttiva e, quindi, si dovranno realizzare soluzioni che possano essere gestite direttamente in azienda, magari all’interno di un sistema di gestione che preveda, per la parte formativa, l’utilizzo del “learning on the job”. Tenendo presente l’obiettivo di realizzare corsi di formazione sulla sicurezza del lavoro che modifichino i comportamenti interpersonali dei lavoratori, possiamo condividere l’analisi proposta dal Castagna202 che individua due differenti metodologie didattiche che si rifanno alle teorie behavioriste (di tipo deduttivo o espositivo) e gestaltiste (di tipo induttivo o esperienziale). Senza volere approfondire le due metodologie, per lo specifico settore e per 200
Consulente di formazione manageriale e Presidente di Mida. Maurizio Castagna, Progettare la Formazione, guida metodologica per la progettazione del lavoro in aula – Franco Angeli Editore, 2002. 202 Op. Cit.. 201
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la tipologia di partecipanti si ritiene che, nei corsi finalizzati all’analisi, individuazione e prevenzione del rischio, la strategia gestaltista, di tipo esperienziale, possa considerarsi consigliabile in quanto adatta ad esaminare comportamenti complessi ed articolati tipici di gran parte dei lavoratori quando si trovano ad affrontare rischi particolarmente elevati. L’approccio esperienziale, infatti, consente di utilizzare il role-playing non solo per verificare il corretto comportamento dei partecipanti in situazioni create ad hoc dal docente quanto, e soprattutto, per verificare le modalità con cui si instaurano le relazioni e le dinamiche interpersonali tra i vari “attori” in situazioni di pericolo e/o emergenza. Appare evidente che tale aspetto riveste una notevole importanza in specifici settori lavorativi ove spesso si deve registrare l’accadimento di incidenti lavorativi causati da incauti comportamenti di singoli lavoratori che hanno sciagurate ricadute sul gruppo. Tale scelta, tuttavia, non deve disconoscere la validità della formazione cosiddetta “tradizionale” da alternare ai momenti esperienziali quale integrazione del processo formativo complessivo. 4. Formazione e addestramento nei sistemi di gestione. Finalità e differenze Altro aspetto importante da analizzare, parlando di sicurezza sul lavoro e dell’efficacia della formazione, è quello relativo alla differenziazione tra i concetti di addestramento e formazione. Troppo spesso questi due termini vengono posti sullo stesso piano generando confusione anche sulla progettazione e gestione delle strategie didattiche. Così come declinato nel decreto legislativo n. 81/08, per addestramento si intende l’acquisizione di conoscenze, abilità e capacità come risultato di un insegnamento o della pratica ad una certa disciplina. L’addestramento, infatti, è il centro dell’apprendimento nell’ambito della formazione professionale come viene sviluppata negli istituti tecnici italiani.
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L’erogazione di tale tipo di apprendimento è sistematico e mirata allo sviluppo delle conoscenze, competenze e capacità degli individui in ambito lavorativo o professionale. L’addestramento si traduce in termini di apprendimento pratico, per lo più manuale, e prevede un’articolazione dei tempi di somministrazione dei contenuti e delle pratiche in relazione alle caratteristiche e potenzialità dell’individuo. Il significato di formazione deriva da formare, dare una forma, ed ha molteplici significati che vengono usati in diverse discipline. In ambito pedagogico, con particolare riferimento alla formazione degli adulti, è un processo complesso di trasferimento di contenuti e metodi per fare acquisire alle persone livelli intellettuali, culturali, emotivi e spirituali sempre più complessi e adeguati ai cambiamenti sociali e organizzativi. Il processo formativo elaborato in ambito educativo cerca di definire contenuti e metodi di insegnamento propri per ciascun livello di età e di maturità culturale in cui il processo formativo si esplica. Si può parlare di qualsiasi argomento ad ogni età, ma il linguaggio, l’approfondimento, la durata e il metodo educativo cambia per ogni fascia di età e per ogni tipologia di partecipanti al corso formativo specifico. Tenendo presente tale differenziazione appare evidente la necessità di definire con esattezza tutte quelle attività connesse con l’implementazione delle abilità del “fare” e del “sapere” dei lavoratori e quelle relative al “saper essere” che ineriscono ai comportamenti e agli atteggiamenti a volte inconsci. Troppo spesso la formazione alla sicurezza sul lavoro ha utilizzato metodologie didattiche pensate per le attività di addestramento che hanno ostacolato la creazione e la “sedimentazione” di una cultura della sicurezza sul lavoro ottenibile esclusivamente operando direttamente sull’individuo a livello interiore. Evidentemente il risultato sperato potrà essere raggiunto solo con una sapiente alchimia che integri le due modalità di apprendimento in modo che diventino funzionali alla creazione di una cultura e di una coscienza della sicurezza sul lavoro. L’obiettivo diventa più facile da raggiungere se ricercato all’interno di un sistema di gestione, sia esso della qualità, dell’ambiente o della salute e sicurezza dei lavoratori. Gli schemi di certificazione e i principi organizzativi alla base di tutti i sistemi di gestione, infatti, pongono i processi di addestramento e formazione del personale al centro dell’attenzione del management quale strumento e fattore di successo. L’opportunità di utilizzare i principi e le metodologie dei sistemi di gestione quale strumenti di contrasto al fenomeno infortunistico sul lavoro è stata recepita dal legislatore, allorché ha inserito nel Decreto Legislativo n. 81/08 l’art. 30, che assegna un valore esimente dalla responsabilità amministrativa, di 97
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cui al D. Lgs. n.231/01, nel caso di reati accertati in ambito infortunistico. La responsabilità della persona giuridica (organizzazione, ente, associazione) è sanzionata con misure di tipo amministrativo ma il procedimento è gestito, con approccio penalistico, dal giudice penale. Per i reati inerenti la sicurezza del lavoro, in ambito di D. Lgs. n. 231/01, sono previste a carico delle imprese sanzioni pecuniarie e misure interdittive. L’Azienda, tuttavia, può esimersi dalla responsabilità per i suddetti reati se dimostra di avere implementato un modello organizzativo e gestionale rispondente a quanto indicato all’art. 30 del D. Lgs. n. 81/2008, idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Tale circostanza ha letteralmente fatto esplodere l’interesse delle aziende verso i sistemi di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori che, allo stato attuale, possono ricondursi a quelli previsti dalle linee guida UNI-INAIL e dalla norma volontaria BS-OHSAS 18001, quest’ultima certificabile da un ente di terza parte. L’emanazione del D. Lgs. n. 81/08 ed in particolare l’art. 30 hanno permesso di dare un imponente impulso all’introduzione dei sistemi di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori e, con essi, a tutte quelle attività di formazione che, pur previste dal decreto legislativo stesso, hanno assunto un valore maggiormente strategico nell’ambito della implementazione e conduzione dei sistemi di gestione, i quali per essere realmente esimenti la responsabilità penale “….devono essere adottati ed efficacemente attuati….”203. La realizzazione di un sistema di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori, al pari degli altri sistemi, deve prevedere in fase di avvio periodi distinti di sensibilizzazione dei lavoratori che, partendo da un livello “informativo” sulla necessità e opportunità di introdurre un sistema di gestione della salute e sicurezza, passa ad una seconda fase in cui l’attività di formazione si incentra sulla definizione e illustrazione del modello di gestione e dei vantaggi che tale scelta comporta per l’azienda e per i lavoratori stessi. Nella terza fase si entra nel vivo e nello specifico delle procedure organizzative e dei processi inerenti la valutazione dei rischi, le modalità di contrasto dei pericoli, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e le procedure da osservare in caso di incidente. È questa la fase tipica dell’addestramento, mentre le prime due sono proprie dei processi di formazione che, se ben progettati e gestiti, portano nel tempo alla modifica dei comportamenti e degli atteggiamenti dei lavoratori. Tito Conti204, parlando di qualità205, sostiene che “…nella formazione si annida infatti un’altra delle ambiguità connesse con lo sviluppo turbolento della 203
Cfr. art. 30, comma 1, D. Lgs. n 81/08. Fino al 1991 Direttore della Qualità dell’Olivetti, professore a contratto presso l’Università di Padova, autore di numerose pubblicazioni nel campo della qualità e del management. 205 Tito Conti, Come costruire la Qualità Totale – Sperling & Kupfer Editori, 1992. 204
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qualità oggi. Se la formazione è vista come informazione/sensibilizzazione seguita da un addestramento nelle metodologie e nelle tecniche, allora i programmi vengono concepiti in modo da ottenere la copertura (“giuridica” nda) desiderata. Avendo in mente che la Qualità Totale deve coinvolgere tutti, l’obiettivo diviene spesso prevalentemente quantitativo: il maggior numero di persone nel minor tempo possibile…”. Quanti di noi che operiamo nel settore della formazione della salute e sicurezza dei lavoratori si riconoscono in quanto scritto da Tito Conti in relazione alla Qualità Totale? Ancora “..Si assiste così all’esibizione dei grandi numeri, assunti come indicatori di progresso verso la Qualità Totale (“Infortuni Zero”? – nda). Si contano le persone che hanno frequentato i corsi e si calcolano le percentuali di copertura per categoria, per area geografica, ecc.. Poi le persone in questione ritornano al proprio lavoro, dove ritrovano le stesse organizzazioni, gli stessi stili di management, le stesse priorità, gli stessi criteri di valutazione e in breve tempo tutto ritorna come prima, con qualche frustrazione in più. In tal modo il programma di Qualità Totale conduce a maggiori costi certi, ma valore aggiunto incerto e talvolta negativo”206. Sottolineo che i brani riportati sono stati scritti nel 1992 in relazione a delle riflessioni dell’autore sui sistemi di gestione della qualità; non ho trovato alcuna difficoltà a calarlo all’interno di una analisi sui sistemi di gestione della salute e sicurezza dei lavoratori e di come realizzare al loro interno una formazione efficace. Senza sottovalutare la necessità di processi di formazione/ addestramento in merito alle tecniche e metodologie connesse alla sicurezza sul lavoro, l’aspetto di gran lunga più importante per la realizzazione di un progetto “Infortuni Zero” è quello di dare un valore aggiunto alla formazione sui comportamenti e gli atteggiamenti dei lavoratori. Sotto questo aspetto, l’importanza per le aziende di adottare sistemi di gestione della salute e sicurezza è intuitiva in quanto tali modelli organizzativi sono in grado di sistematizzare e pianificare nel tempo le attività formative realizzando programmi di formazione continua (lifelong learning) in grado di assicurare una persistenza nel tempo delle competenze e conoscenze acquisite durante i corsi frequentati. Le modalità di funzionamento dei sistemi di gestione sono orientate notoriamente al miglioramento continuo come obiettivo primario dell’azienda che li adotta. Nel campo della salute e sicurezza sul lavoro l’obiettivo si concretizza nella riduzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Il processo educativo, insito nell’applicazione di un sistema gestionale, 206
Tito Conti, Op. Cit. pag. 250.
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risulta essenziale per la costante ricerca di miglioramento della qualità e salubrità del lavoro, che nel caso specifico prevede una riduzione continua dei rischi derivanti dalle attività svolte. La formazione realizzata in azienda deve allora necessariamente sviluppare la cultura del cambiamento, stimolando la curiosità intellettuale del nuovo ed atteggiamenti pro-attivi. Lo strumento della formazione va considerato un processo, di tipo educativo permanente, alla stregua di tutti gli altri processi lavorativi presenti in azienda: non deve esaurirsi nel ciclo di corsi previsti dalla normativa, spesso realizzati in economia e frequentati controvoglia. Come auspicato da Tito Conti, l’azienda virtuosa e oculata deve creare, mediante un sistema di gestione, qualcosa di più complesso ma nel tempo meno oneroso ed effimero: deve realizzare una “organizzazione che apprende”207. Naturalmente tale obiettivo sarà facilmente raggiungibile per quelle aziende che hanno implementato sistemi di gestione di altri schemi (qualità, ambiente, SA8000) dimostrando già una sensibilità nei confronti di approcci sistemici nell’organizzazione del lavoro in cui, come detto, la formazione del personale svolge un ruolo centrale ed effettivo. Le sentenze dei giudici di Trani (ottobre 2009) sul mancato rispetto della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. n. 81/2008) sono costate care a tre imprese che si sono viste infliggere sanzioni pecuniarie per complessivi duemilioni e trecentomila euro. Sono stati i primi esempi dell’applicazione coordinata del contenuto dell’art. 25-septies del D. Lgs. n. 231/2001, riguardante la responsabilità amministrativa delle società e degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio da soggetti in posizione apicale o da dipendenti, articolo che è stato inserito nel suddetto decreto dall’art. 9 della L. 123/2007, successivamente sostituito dall’art. 300 del D. Lgs. n. 81/2008. Appare evidente che l’introduzione di sistemi di gestione, in particolare della salute e sicurezza dei lavoratori, dovrà essere considerata con molta attenzione dagli imprenditori italiani e vissuta come elemento di tutela complessiva dell’azienda e di vantaggio competitivo. Da tale scelta scaturirà una naturale propensione ad attuare in tutte le aree di produzione una politica della formazione del personale continua, efficiente e attenta ai cambiamenti culturali e organizzativi, non più vissuta come orpello inutile ed imposto dalle norme. 5. L’efficacia della formazione alla sicurezza sul lavoro Erroneamente si è ritenuto, e si ritiene ancora oggi da più parti, che la formazione nel campo della salute e sicurezza dei lavoratori debba essere riservata a docenti di estrazione specialistica (giuristi, medici, ingegneri, 207
Tito Conti, Op. Cit. pag. 251.
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geometri, tecnici della sicurezza, etc.) in quanto direttamente coinvolti nella conduzione di tutte quelle attività codificate nelle normative che regolano la materia. C’è inoltre la sensazione, tra coloro che si occupano di formazione con “F” maiuscola, che il settore della sicurezza sul lavoro sia “altro” rispetto a quello tradizionale, ovvero quello che nasce e si sviluppa nelle università e negli ambienti aziendalistici, rivolto soprattutto a dirigenti, quadri e risorse “ad alto potenziale”. Tale orientamento ha fatto sorgere nei formatori, che potremmo definire “tradizionali”, la convinzione che questo ramo della formazione sia loro precluso in quanto riservato, per l’appunto, a figure professionali caratterizzate da una specializzazione ed un conoscenza tecnica. La conseguenza è stata una quasi totale assenza dei formatori tradizionali nella progettazione e gestione dei percorsi di formazione previsti dalla legge n. 195 e dal Decreto Legislativo n. 81/2008. Verificando l’andamento infortunistico degli ultimi anni, ci si accorge che, anche se in lento miglioramento, i risultati sono ancora insufficienti e inadeguati rispetto alle aspettative dell’Unione Europea, soprattutto se rapportati agli investimenti, legislativi, finanziari e tecnologici, realizzati dagli attori coinvolti (organi legislativi, datori di lavoro, sindacati, lavoratori stessi). “… utile non è la formazione placebo, quella che, di per sé, non fa niente ma che da l’impressione di fare, che comunque piacerà. Purtroppo molto spesso questa strada è la più percorsa (…omissis…)” 208. È questo un breve passo estratto dagli Atti della Tavola Rotonda su “Cosa si intende per qualità della formazione e come si garantisce” tenutosi nel corso del Convegno “La Formazione Utile” il 20 settembre del 2000 a Modena. A distanza di oltre 10 anni può essere confutato? Appare doveroso chiedersi dove si annidi il problema: probabilmente nella progettazione e gestione di percorsi formativi, pensati esclusivamente per rispondere ai requisiti e alle imposizioni dettate dalle norme. Percorsi formativi che, ideati per “…essere in regola con le leggi”, hanno lasciato in secondo piano l’esigenza di concorrere realmente a ridurre il numero degli incidenti sul lavoro ed il tributo che giornalmente pagano i lavoratori. Di ciò non possono essere considerati responsabili coloro che, pur esperti di processi lavorativi, vengono chiamati a svolgere una attività di formazione di cui spesso ignorano i fondamenti e le tecniche. Dobbiamo chiederci quanti di coloro che vanno in aula a tenere corsi di formazione alla salute e sicurezza dei lavoratori ritengono sufficiente essere in possesso di mere conoscenze specialistiche e competenze tecniche, senza aver 208 Atti della Tavola Rotonda su “Cosa si intende per qualità della formazione e come si garantisce” Convegno “La Formazione Utile”, 20 settembre del 2000 – Modena.
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mai frequentato un corso per formatori e senza avere competenze sulle metodologie e tecniche formative dedicate agli adulti. È altrettanto vero che la responsabilità non può essere addossata nemmeno agli stessi lavoratori che subiscono, spesso inconsapevolmente, processi di formazione di cui non capiscono e non condividono le finalità. Gran parte degli incidenti sul lavoro (oltre l’80%) sono determinati dal fattore umano. La realtà è che da sempre l’approccio formativo verso la salute e sicurezza dei lavoratori è stato finalizzato al mero rispetto delle norme senza una reale volontà e/o possibilità di intervenire sui comportamenti e atteggiamenti dei lavoratori, unica modalità formativa in grado di incidere sugli andamenti infortunistici. Anche se sollecitato da più parti poco si è fatto per affrontare il fenomeno dal punto di vista culturale, poco si è progettato per realizzare interventi nei confronti dei lavoratori per far crescere in loro una consapevolezza dei pericoli che hanno di fronte e una percezione del rischio infortunistico. Da sempre la formazione in tema di salute e sicurezza dei lavoratori si ferma sulla porta dell’azienda, della fabbrica, dell’ufficio. Ci si limita a formare quello che potremmo definire il “front-office” della salute e sicurezza dei lavoratori: l’RSPP, gli ASPP, il datore di lavoro, il medico competente, i dirigenti, i preposti e gli RLS. La formazione è solitamente gestita dagli RSPP o dagli stessi datori di lavoro e dirigenti che, spesso, non sono in possesso di adeguate competenze e conoscenze tali da garantire una formazione efficace oltre ad essere spesso pressati da esigenze di bilancio.
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Tutti aspetti questi che, se analizzati a fondo, possono aiutare a prendere coscienza del problema e individuare metodologie e strumenti idonei a fronteggiare e combattere il fenomeno degli infortuni e delle morti sul lavoro. In primo luogo è necessario che esperti formatori, senza delegare figure intermedie, entrino in contatto direttamente con i lavoratori in azienda, sul posto di lavoro, analizzando con i diretti interessati le modalità lavorative, valutando insieme a loro i bisogni formativi derivanti dalle specificità aziendali. Anche la formazione rivolta ai responsabili della realizzazione delle misure di prevenzione (datori di lavoro, dirigenti, preposti, RSPP, ASPP ed RLS) dovrà essere integrata dando maggiore spazio ed enfasi nei programmi a tematiche quali i processi comunicativi, le tecniche formative, la gestione delle risorse umane e delle dinamiche di gruppo, le tecniche di integrazione e sviluppo delle competenze. Evidentemente tali contenuti formativi non sono facilmente trasferibili e, cosa importante, non tutti sono in grado di farlo efficacemente. In primo luogo si deve superare l’idea che la formazione alla salute e sicurezza dei lavoratori sia “sporca di polvere, unta d’olio, impregnata di sudore” in quanto destinata agli operai, una platea a basso potenziale, e quindi con scarsi contenuti culturali. Certo non è una formazione a cui si addicono le aule accademiche, gli hotel di lusso, le dotte disquisizioni, le citazioni ad effetto. È una formazione concreta, finalizzata ad obiettivi reali, dalla cui efficacia spesso dipende l’integrità psico-fisica dei partecipanti stessi. È fondamentale, dunque, disporre di un corpo docente qualificato e preparato a condurre percorsi formativi dedicati al mondo del lavoro e finalizzati a rafforzare e diffondere una cultura della sicurezza comportamentale e motivazionale, non solo tecnica, nella convinzione che ciò si ottiene, al di là degli investimenti in tecnologia e ricerca e di una formazione il cui unico risultato è un “effetto placebo”. Predisporre un progetto formativo volto a diffondere una cultura della sicurezza sul lavoro, modificando comportamenti e atteggiamenti sedimentati nel tempo, comporta naturalmente l’esigenza di valutare attentamente l’opportunità di utilizzare innovative tecniche di formazione: il teatro d’impresa, il PCM (Process Comunication Management), l’analisi transazionale, i roleplaying, l’e-learning appaiono come alcuni degli strumenti idonei ad innovare le metodologie ed i programmi formativi innovativi nel campo della salute e sicurezza del lavoro. Tale prospettiva comporterà un innalzamento del livello medio e dell’efficacia dei percorsi formativi sulla salute e sicurezza dei lavoratori, in quanto le competenze richieste ai formatori andranno oltre, e a prescindere, dalle conoscenze tecnico-specialistiche che dovranno essere integrate da quelle 103
Francesco Naviglio
proprie della formazione tradizionale. Solo così si potrà effettuare quel salto di qualità che permetterà alla formazione dedicata alla salute e sicurezza dei lavoratori di essere considerata e valutata non solo come una formazione “tecnica” e di nicchia, ma alla stessa stregua delle altre tipologie di formazione degli adulti, acquistandone pari dignità. 6. Conclusioni Ormai possiamo dire che la formazione sui temi della salute e sicurezza degli ambienti di lavoro, dopo anni di impegno sociale e civile, è divenuta un punto fermo che viene riconosciuto come fattore di civiltà e sviluppo competitivo dal mondo produttivo e dalle forze sociali e politiche dei paesi occidentali. Anche se non sempre adottate e condivise del tutto, le normative sulla salute e sicurezza dei lavoratori vengono rispettate e adottate dagli imprenditori e dai produttori delle macchine ed attrezzature da lavoro. Anche la formazione degli attori della produzione, datori di lavoro e lavoratori, talvolta ancora vissuta come orpello e “perdita di tempo produttivo”, sta entrando sempre più nella cultura imprenditoriale italiana come fattore di sviluppo e di competitività aziendale. Si sta inoltre facendo strada tra tutte le parti in causa, imprenditoriali, lavorative e sociali, la convinzione che la formazione su queste tematiche non debba e non possa ridursi ad una mera erogazione di notizie e informazioni “una tantum”, solo per soddisfare un dettato normativo. La formazione alla salute e sicurezza degli ambienti di lavoro è, e deve essere sempre più, considerata come parte integrante dell’attività lavorativa in quanto costituisce presupposto e condizione di competitività di qualsiasi attività imprenditoriale. Deve divenire patrimonio culturale di tutti i cittadini oltre che di ciascun lavoratore che entra nei processi produttivi. Da qui deriva la consapevolezza e l’esigenza che la cultura della salute e sicurezza degli ambienti di lavoro, i cui principi e contenuti sono in costante evoluzione a seguito della continua modifica dei processi produttivi e tecnologici, sia sempre e ininterrottamente sottoposta ad un processo di adeguamento e attualizzazione; ciò comporterà la necessità di ricorrenti e costanti azioni formative nei confronti degli attori. È questo un caso tipico di lifelong learning che, ormai, sta divenendo un sistema metodologico usuale nei processi formativi degli adulti. I mutamenti degli scenari sociali, produttivi e culturali del mondo, la ormai consolidata strutturazione in social network delle nostre relazioni derivante dalla diffusione sempre più capillare degli strumenti di comunicazione di massa, rende impossibile sottrarsi per chiunque a processi di formazione continua, a volte inconsapevole, che ci accompagna e ci accompagnerà per tutto il corso 104
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della nostra vita. La necessità di diffondere e consolidare negli ambienti di lavoro una cultura della salute e sicurezza dei lavoratori ha reso possibile l’affermazione in questo ambito di normative che prevedono programmi e metodologie di formazione che seguano il lavoratore e l’imprenditore dal loro ingresso nel mondo della produzione sino a quando decideranno di uscirne. Metodologie e programmi di formazione che dovranno essere adeguati ed aggiornati continuamente in relazione a tutte le modifiche organizzative, strutturali e di processo che avverranno negli ambienti di lavoro, che dovranno essere predisposti secondo modalità idonee a verificarne l’efficienza ed efficacia in quanto le azioni formative dovranno dimostrare la capacità di assicurare la salute e sicurezza degli ambienti di lavoro.
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Laura Manfrin
Gestione Operativa Laura Manfrin – Necsi S.r.l. “L’integrazione nei processi aziendali della tutela della salute e sicurezza rappresenta il cuore di un sistema di gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro” (Linee Guida Uni Inail per un sistema di gestione della sicurezza e salute ed. 2001). In tutti gli standard di riferimento per l’implementazione di un sistema di gestione della sicurezza viene posto l’accento sulla necessità di integrare la sicurezza sul lavoro nei processi aziendali e far sì che, non solo la valutazione dei rischi sia considerata essenziale in ogni processo, ma che anche sia valutato come ogni processo può influenzare l’andamento del SGSL e il raggiungimento degli obiettivi prefissati con la Politica. L’individuazione delle aree di intervento per garantire il rispetto degli obiettivi e traguardi inerenti gli aspetti di sicurezza sul lavoro presenti in ogni processo aiuta la realtà aziendale a raggiungere questo obiettivo di integrazione. Questa attività richiede l’identificazione delle risorse necessarie per gestire gli aspetti di sicurezza sul lavoro contenuti in ogni processo, le misure di prevenzione e protezione, le situazioni difformi dagli obiettivi prefissati. È poi necessario procedere alla individuazione e stesura delle procedure e delle istruzioni operative necessarie per lo svolgimento ed il controllo operativo dei processi aziendali in modo che tutti agiscano sinergicamente nel raggiungimento degli obiettivi prefissati per la salute e la sicurezza sul lavoro. Non dobbiamo confondere il controllo operativo con la sorveglianza: benché in italiano i due vocaboli si sovrappongono, tanto da essere sinonimi, in realtà hanno due significati ben diversi (aspetto evidente anche per la presenza di due punti diversi della norma OHSAS 18001:2007 che li definiscono). Al punto 4.4.6 “Controllo operativo” la norma richiede di mettere in atto tutte quelle operazioni e attività in assenza delle quali si concreterebbero i rischi identificati: procedure di lavoro ad esempio che devono definire in dettaglio le modalità di esecuzione delle attività e i criteri operativi. La guida OHSAS 18002 fornisce alcuni esempi: Acquisto o trasferimento (vendita, alienazione) di beni e servizi e utilizzo di risorse esterne; Compiti pericolosi; Materiali pericolosi; Gestione e manutenzione di installazioni e impianti sicuri. A ciascuno di questi esempi, la guida associa poi delle utili indicazioni gestionali. L’output delle analisi di queste voci, conclude la guida OHSAS 18002, consiste 106
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in procedure e istruzioni operative. Tali procedure riguarderanno sia i processi aziendali primari (erogazione del servizio/produzione) che i processi di supporto (es. gestione acquisti, gestione del personale, inclusa formazione, informazione, addestramento, la valutazione dei rischi, la gestione della documentazione , controlli, etc.). Gli aspetti legati alla gestione operativa della sicurezza sul lavoro che in ogni realtà aziendale ci si trova ad affrontare riguardano prevalentemente: appalti e subappalti, gestione della manutenzione, corretto uso di macchine, impianti e attrezzature critiche, dpi, segnaletica di sicurezza, gestione dell’emergenza, sorveglianza sanitaria. Con alcuni esempi di procedure evidenziamo gli aspetti di maggior rilievo da considerare nella loro elaborazione. In ognuna delle procedure che si andranno ad elaborare occorrerà tenere presente l’origine dell’attività ed affiancarne la sua gestione a risorse chiaramente identificate. Quando tratteremo la gestione della manutenzione ordinaria andremo a definire almeno: Modalità di pianificazione della manutenzione (esiste un software, un programma su un foglio di carta, un piano dei lavori, ecc.) Modalità di messa in sicurezza dell’area destinata a manutenzione; Modalità di effettuazione della manutenzione; Modalità di registrazione della manutenzione; Modalità di rientro/rimessa in funzione nei reparti/aree interessati della macchina, attrezzatura, impianti Eventuali istruzioni specifiche per le squadre di manutenzione. Per ognuna di queste fasi andranno identificate le risorse coinvolte e, naturalmente, dovrà essere a disposizione in azienda un elenco di tutte le macchine, attrezzature ed impianti in uso con relativi libretti di istruzione a disposizione dei lavoratori. Procediamo con un altro esempio. La gestione dei dispositivi di protezione individuale. In questo caso dovremmo esplicitare nella procedura di riferimento: modalità di scelta dei DPI (fare riferimento alla valutazione dei rischi che, sempre, costituisce input alla gestione operativa della sicurezza sul lavoro); modalità di acquisto degli stessi e coinvolgimento dei lavoratori e loro rappresentanti; modalità di consegna; necessità di formazione specifica in base ai DPI in uso; modalità di sostituzione; modalità di verifica dell’efficacia e relativo collegamento alla procedura di monitoraggio continuo. A questa procedura potranno essere affiancati moduli di registrazione quali: 107
Laura Manfrin
- elenco dei DPI in uso presso l’organizzazione; - modulo di consegna dei DPI con registrazione della firma; - istruzioni per l’uso e la sostituzione. Un ultimo esempio riguarda la gestione della sicurezza dei lavori in appalto, un aspetto molto delicato della gestione operativa. La corretta gestione di questo aspetto dovrà tenere conto prima di tutto della tipologia di organizzazione in cui si inserisce e poi definire le modalità di coordinamento tra i diversi soggetti coinvolti. Una procedura pensata per un’azienda produttiva in sede fissa e, quindi, che descriva le modalità di gestione dei contratti di appalto esistenti, per esempio di manutenzione, pulizie o lavorazioni particolari svolte da aziende terze, dovrà prevedere almeno: l’indicazione sulle diverse tipologie di attività svolte da terzi presso la sede aziendale; modalità di affidamento dei lavori in appalto e verifiche dei requisiti (ad esempio la verifica dell’idoneità professionale può essere prevista in procedura e, la stessa, può prevedere un fac-simile/modulo contenente l’elenco di tutti i documenti da fornire a cura della ditta appaltatrice contestualmente alla firma del contratto) coordinamento tra datori di lavoro: modalità di gestione dello scambio di informazioni (DUVRI, contratto, capitolato di sicurezza,ecc.) modalità di ingresso delle ditte terze presso la sede aziendale; controlli previsti durante le attività. Di seguito un esempio di capitolato di sicurezza utile per l’integrazione dei contratti d’appalto, tratto dalla guida operativa per un SGSL “lavorosicuro” ed.2007: Logo azienda
MODULO OPERATIVO SICUREZZA XXXX
MOS 01.04
CAPITOLATO DI SICUREZZA
Ditta appaltatrice:______________________ rif. contratto n°________ del___________ rif. lettera d’incarico n°_____ del________ rif. accettazione vostra offerta del________ rif. accordi verbali e/o telefonici del _______ La sottoscrizione del presente capitolato, impegna l’assuntore al rispetto delle seguenti clausole relative alla sicurezza e alla tutela della salute sia dei propri dipendenti che del personale XXX nonché alla tutela dell’integrità degli ambienti di lavoro in cui sono effettuati i lavori.
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Sono stabilite le seguenti regole: 1.
L’assuntore si impegna ad utilizzare per l’esecuzione dei lavori affidategli attrezzi, utensili e macchine rispondenti ai requisiti generali di sicurezza.
2.
L’assuntore si impegna a realizzare le opere provvisionali eventualmente di sua competenza a regola d’arte, rispettando in particolare le norme tecniche specifiche applicabili (ad es. trabattelli, ponti mobili,…);
3.
I mezzi meccanici eventualmente utilizzati per il sollevamento di materiali di sua proprietà o dei quali egli abbia comunque l’uso, dovranno possedere i necessari requisiti di affidabilità e sicurezza, anche tenendo conto dell’impiego cui saranno destinati;
4.
L’assuntore si impegna a non costituire depositi di prodotti infiammabili all’interno dello spazio datogli in uso per le necessità dell’appalto; le modalità di eventuali depositi ritenuti necessari saranno concordate anche mediante il MOS XXX Informazioni e Coordinamento;
5.
L’assuntore si impegna a fornire ai propri lavoratori i DPI necessari ed idonei per la loro protezione contro i rischi specifici della loro attività lavorativa;
6.
L’assuntore dichiara che i lavoratori di cui al precedente punto 5) sono stati informati sui rischi ambientali e sono stati addestrati e formati all’uso dei DPI di loro interesse;
7.
L’assuntore si impegna a vigilare affinché i DPI vengano correttamente impiegati quando necessario e ad esigerne l’impiego nelle aree ad alto rischio dove l’uso e’ tassativo;
8.
L’assuntore si impegna a segnalare al Datore di lavoro/RSPP di XXX tutti gli infortuni dei propri dipendenti impegnati all’interno degli ambienti di lavoro XXX;
9.
L’assuntore si impegna a comunicare, contestualmente alla firma del contratto o successivamente, ma prima dell’apertura del cantiere, il nominativo del Responsabile operativo, qualora non sia l’assuntore stesso (rif. MOS XXXX Informazioni e Coordinamento);
10. L’assuntore si impegna a non utilizzare reti di servizi di XXX se non allacciandosi nei punti concessi; le apparecchiature derivate dovranno essere tali, o dotate di protezioni tali, da non perturbare, neppure in caso di loro mal funzionamento, le condizioni di esercizio della rete a servizio degli ambienti XXX. Gli impianti elettrici, in particolare, dovranno essere conformi alle norme CEI applicabili, con protezioni collegabili a quelle presenti a monte;
11. L’assuntore si impegna allo smaltimento in proprio dei rifiuti e scarti prodotti dalla sua attività, salvo appositi accordi diversi.
FIRMA COMMITTENTE
APPALTATORE / LAV.AUTONOMO
Altre procedure che si consiglia di redigere al fine di garantire una corretta gestione operativa nell’ambito del SGSL possono riguardare: la segnaletica di sicurezza, la sorveglianza sanitaria, le modalità di redazione e gestione del 109
Laura Manfrin
documento di valutazione dei rischi, la gestione delle sostanze pericolose, la gestione delle emergenze ed eventualmente sarebbe utile prevedere una specifica procedura che descriva la “gestione del cambiamento” in caso di introduzione di nuovi rischi o di modifiche del ciclo produttivo, nuove macchine, impianti,materiali ecc.. 1. Monitoraggio e audit interno In un sistema di gestione della sicurezza è necessario prevedere momenti di verifica sul funzionamento del sistema stesso e sul raggiungimento degli obiettivi oltreché sulla corretta gestione della sicurezza “operativa” ovvero di tutte quelle attività che sono state oggetto di analisi e che hanno originato procedure, istruzioni operative, moduli di registrazione. Forme di monitoraggio specifiche sono anche le attività previste dalla valutazione dei rischi in termini di verifica dell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione e del rispetto delle procedure nate a supporto dell’attuazione delle misure e della gestione del rischio. Le misure previste dalla valutazione dei rischi sono soggette a monitoraggio continuo da parte di risorse opportunamente incaricate, che potranno utilizzare lo stesso piano delle misure di prevenzione e protezione come modulo di registrazione, prevedendo la possibilità di indicare lì l’attuazione dell’adempimento. Altra forma di monitoraggio imprescindibile è rappresentata dal controllo sugli aggiornamenti normativi e le relative leggi applicabili alla organizzazione. Qui l’evidenza sarà data dalla presenza di uno “scadenziario normativo” e da un “elenco delle normative cogenti applicabili” che verranno continuamente aggiornati da risorsa incaricata e che prevederanno di dare evidenza dell’aggiornamento effettuato. Le attività di monitoraggio continuo possono essere svolte per mezzo di check list o attraverso l’utilizzo dei moduli di registrazione previsti dalle singole procedure. Ad esempio nella procedura per la gestione dell’emergenza si farà riferimento al registro dei controlli antincendio e in azienda vi sarà un riferimento per la sua compilazione, come nella stessa procedura vi sarà la previsione di controlli sulla completezza dei presidi sanitari (ad esempio: contenuti delle cassette di primo soccorso) e anche qui ci saranno uno o più incaricati alla verifica che registreranno periodicamente la adeguatezza ed efficienza degli stessi. Altri controlli saranno previsti dalla procedura sulla corretta gestione di macchine ed attrezzature per ciò che concerne le protezioni di sicurezza delle macchine o dalla procedura sulla gestione dei dispositivi di protezione individuale per ciò che concerne il corretto uso dei DPI nei reparti/aree delle aziende e via dicendo. 110
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Si riporta, solo a titolo esemplificativo, una check list che comprende una serie di controlli effettuati da una piccola azienda metalmeccanica.
Check list del monitoraggio continuo GESTIONE MACCHINE ED ATTREZZATURE Disponibilità documentazione a servizio macchine:
SÌ
NO
Libretti / manuali di uso e manutenzione Istruzioni di sicurezza Modalità operative di reparto
□ □ □ SÌ □ □ □ SÌ □
□ □ □ NO □ □ □ NO □
□
□
SÌ
NO
□
□
□
□
□ SÌ □
□ NO □
□
□
□ □ □ □ SÌ □
□ □ □ □ NO □
GESTIONE DEI DISPOSITIVI DI PROTEZIONE INDIVIDUALE
SÌ
NO
I lavoratori utilizzano correttamente i DPI obbligatori per lo svolgimento della loro mansione?
□
□
Corretto uso di macchine ed attrezzature Segnaletica affissa correttamente Protezioni attivate (micro, fotocellule, ecc.) Dispositivo di arresto di emergenza presente e funzionante
GESTIONE SOSTANZE PERICOLOSE Disponibilità documentazione schede di sicurezza delle sostanze Le sostanze in uso sono correttamente immagazzinate?
SEGNALETICA DI SICUREZZA NEI REPARTI Utilizzo della segnaletica di sicurezza conformemente al Titolo V del D.Lgs. 81/08 La segnaletica di sicurezza è correttamente affissa su macchine ed attrezzature? La segnaletica di emergenza è visibile da tutte le postazioni? C’è la necessità di segnalare la sostituzione di cartelli o segnali usurati o danneggiati?
GESTIONE SICUREZZA ANTINCENDIO Le vie di fuga sono sgombre di materiali che possono impedire l’uscita in caso di emergenza? La segnaletica di emergenza è visibile da tutte le postazioni? La manutenzione degli estintori è aggiornata (controllo cartellino estintore)? L’accesso ai mezzi antincendio è sempre tenuto libero? L’area di lavoro è pulita e priva di rifiuti? Le planimetrie di reparto sono affisse e visibili?
GESTIONE PRESIDI PRIMO SOCCORSO Le cassette di primo soccorso sono dotate di tutti i materiali indicati al loro interno ?
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Laura Manfrin
I controlli oggetto della check list sopra descritta sono stati identificati dall’RSPP e, non necessariamente sono da ritenersi completi. Rappresentano piuttosto i controlli che la realtà aziendale ritiene opportuno verificare. L’organizzazione deve definire in sede di pianificazione le modalità ed i tempi delle attività di monitoraggio oltreché le risorse coinvolte nell’effettuazione delle stesse. Questo primo livello di controllo è svolto normalmente da personale interno all’azienda opportunamente formato ed istruito. Gli esiti dei monitoraggi potranno generare non conformità o azioni correttive e preventive ed i risultati del trattamento saranno affrontati durante il Riesame del Sistema (vedere più avanti nei prossimi paragrafi). L’attività di Audit interno è importantissima per la verifica del funzionamento del sistema. Questa attività è uno dei cardini di qualsiasi sistema di gestione in quanto mira a valutare l’efficacia del sistema e la sua effettiva attuazione. La verifica dell’efficacia del sistema ci da una misura del miglioramento continuo. Attraverso le verifiche si valutano le prestazioni del sistema rispetto a quanto pianificato e si forniscono alla Direzione informazioni importanti sull’adeguatezza del sistema per conseguire i risultati attesi. I risultati degli audit sono comunicati all’alta direzione che deve utilizzarli nella definizione delle decisioni strategiche di propria competenza, quali la politica di SSL e relativi obiettivi, affrontati durante il riesame del sistema. Le attività di audit devono essere programmate (di solito si prevedono almeno due audit all’anno) ed il programma dovrebbe contenere almeno: le aree e attività soggette a verifica, il periodo in cui si svolgerà la verifica, il verificatore. Naturalmente se il SGSL è certificato agli audit interni si aggiungeranno quelli svolti da un ente esterno di certificazione che comunicherà il programma degli audit all’azienda. In caso, invece, l’azienda adotti un sistema non certificato (es. Linee Guida Uni Inail per un SGSL) gestirà solo internamente, con proprio personale o con il supporto di professionisti esterni, le attività di audit. Naturalmente, nel caso in cui l’organizzazione gestisca gli audit con personale interno, questo dovrà essere indipendente dall’area/processo verificato. Al momento dell’effettuazione dell’audit interno, il verificatore identificato comunicherà il piano dell’audit ai soggetti che saranno oggetto di verifica.
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Esempio Modulo per la redazione di un Piano di Audit MOS 05.03 PIANO DI AUDIT Responsabile attuazione: DATA PROGRAMMATA
Documenti di riferimento:
Linee Guida UNI INAIL per un Sistema di Gestione per la Sicurezza - edizione 2001
Aree Aziendali da Sottoporre a Audit
Personale da contattare
Documenti di Sistema di Riferimento
Indice e Data di Revisione
Responsabile audit
Altri auditor
NOTE Firma auditor
Firma Resp. SGSL
Le verifiche potranno essere effettuate, anche in questo caso, tramite l’uso di schede di verifica strutturate per ciascun aspetto/procedura del sistema soggetta ad analisi e, sempre, prevederanno un controllo accurato su: • incidenti, infortuni occorsi e loro gestione (non conformità, azioni correttive e preventive); • valutazione dei rischi e tenuta sotto controllo dei pericoli, individuazione e gestione, cambiamenti avvenuti rispetto al rischio stesso, rispetto delle misure di prevenzione e protezione adottate ed attuazione di quelle da effettuare; • gestione e valutazione delle attività formative. I risultati degli audit potranno evidenziare elementi di miglioramento o, anche, la necessità di aprire non conformità da gestire. In tutti i casi è bene prevedere un verbale di audit che evidenzi le azioni da intraprendere, le figure coinvolte e, naturalmente, l’approvazione della Direzione aziendale. 113
Laura Manfrin
Esempio di un possibile modulo per la stesura del verbale di audit RAPPORTO DI AUDIT
N°
PROCESSO/ATTIVITA’ VERIFICATI Processo/attività verificati: Personale intervistato: Gruppo di verifica: Scopo della verifica: Documenti di riferimento:
RISULTATI DELLA VERIFICA Esito della verifica:
Non conformità / Raccomandazioni:
N°
Tipo
Descrizione
NCG: non conformità grave; NCL: non conformità lieve; R: Raccomandazione Trattamenti correttivi proposti: Firma Team Leader:
Firma Responsabile di Funzione:
Data
AZIONI A SEGUIRE Richiesta Azione Correttiva: SI N°: Firma RQ:
6 NO Copia a:
Data DG DT
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UA UT
CUA _____
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Anche i risultati degli Audit saranno discussi e valutati nell’ambito del Riesame del Sistema 2. Incidenti, infortuni, non conformità La gestione di incidenti, infortuni, non conformità è l’attività che più di altre ci dà una misura del funzionamento del sistema di gestione e di tutte le attività di prevenzione messe in atto dall’Organizzazione. Possono essere gestiti separatamente Incidenti/infortuni/ comportamenti pericolosi e non conformità vere e proprie. O tutti questi aspetti possono essere parte di un’unica procedura. Introdurre nell’organizzazione l’analisi e l’osservazione non solo degli infortuni ma anche dei “mancati infortuni” e/o dei comportamenti pericolosi (ad esempio mancato uso dei DPI previsti o non rispetto delle istruzioni su macchine ed attrezzature, ecc.), ascrivibili a non conformità alle disposizioni aziendali di controllo operativo, rappresenta uno dei momenti più complessi nella fase di implementazione del sistema. Spesso vengono coinvolti direttamente i preposti (capi linea, capi reparto o, nelle realtà più piccole responsabili di produzione) nella registrazione e nella segnalazione di questi casi e, questo processo, necessità di un’attività formativa specifica per i soggetti che dovranno tenere sotto controllo questi fenomeni. Normalmente si prevedono (con descrizione in apposita procedura) due o più fasi di gestione di questi eventi: • una fase di registrazione, per l’appunto a cura dei preposti e/o dell’RSPP; • una fase di analisi degli eventi con il coinvolgimento dei lavoratori eventualmente presenti al momento dell’accadimento a cura dell’RSPP; • una momento di approfondimento ed identificazione delle soluzioni/ misure proposte da descrivere in opportune azioni correttive.
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Laura Manfrin
Esempio di registrazione applicato in azienda DOCUMENTO DI REGISTRAZIONE
Rilevazione infortuni, incidenti, comportamenti pericolosi Rev.
Data
Questo documento è di proprietà della XXXXX che se ne riserva tutti i diritti.
MOS 02 06 Pagina 116 di 162
□ INFORTUNIO, □ INCIDENTE, □ COMPORTAMENTO PERICOLOSO Data
Ora
Cliente
Reparto
Macchina/Attrezzatura/Impianto Operatore: Nome
Cognome Firma
Indossava i DPI:
SI
NO
NON PREVISTI
Altri comportamenti pericolosi: Altre persone presenti: Nome
Cognome
Descrizione dell’accaduto:
Possibili Cause: n.b. se si ritiene che la causa possa essere collegata ad una scarsa efficacia dell’attività formativa si prega di evidenziarlo.
Firma RLS
Firma Firma PREPOSTO
presenti
Trattamento (a cura RSPP+ Preposto) AZIONI INTRAPRESE
Responsabile attuazione___________________________________________________________________ Chiusura prevista (data):___________________________________________________________________
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Sigla Preposto/Rspp______________________________________________________________________ Firma APPROVAZIONE
Datore di lavoro
N.C. AC N°:
sì
no AP N°
Firma APPROVAZIONE
Datore di lavoro
2.1 Trattamento delle non conformità Alcuni degli eventi sopradescritti (infortuni, incidenti, comportamenti pericolosi) possono generarsi da non conformità. Possiamo definire le non conformità così come stabilito nella BS OHSAS 18001:2007 ovvero “non completo soddisfacimento di un requisito”( Una NC può essere qualunque deviazione da: rilevanti standard o pratiche di lavoro, da procedure, da requisiti legali, etc.) È importante definire le modalità di registrazione e gestione delle non conformità e, anche in questo caso, trattandosi di “non conformità di sicurezza” occorre, oltreché definire le modalità di registrazione, definire chi può segnalare (di solito tutto il personale dell’organizzazione) e chi poi gestisce la non conformità fino all’individuazione delle soluzioni e delle eventuali azioni correttive e preventive. La 18001:2007 definisce le azioni correttive “le azioni per eliminare una non conformità rilevata (o di altra indesiderabile situazione)” mentre le azioni preventive “le azioni per eliminare una non conformità potenziale”209 . L’individuazione e la gestione delle azioni correttive e preventive fino alla soluzione della non conformità rilevata richiede all’azienda uno sforzo sia di Da Bs ohsas 18001:2007 :Per un NC possono esservi più cause. L’AC si intraprende per evitare il ripetersi di una NC (cfr.3.4), mentre l’AP (cfr. 3.18) si intraprende per evitarne il verificarsi.
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analisi che di capacità decisionale e la proietta verso l’obiettivo di miglioramento continuo della sicurezza e salute dei lavoratori. Naturalmente le azioni correttive o preventive proposte dovranno essere approvate dalla Direzione aziendale. Anche gli esiti della gestione delle non conformità, come anche i risultati dei monitoraggi continui e degli audit di sistema saranno trattati nel momento del Riesame del Sistema. 2.2 Riesame del sistema A conclusione del ciclo di monitoraggio interno, il vertice aziendale deve sottoporre a “riesame” le attività del sistema di gestione della sicurezza per valutare se il sistema sia adeguatamente attuato e si mantenga idoneo al conseguimento degli obiettivi e della politica della sicurezza stabilita dall’azienda. Per tale valutazione dovranno essere raccolte tutte le informazioni necessarie. Il riesame deve essere documentato. Argomenti tipici del riesame possono essere:
statistiche infortuni e malattie professionali; risultati dei monitoraggi interni, compresi infortuni, incidenti e malattie professionali; relazioni periodiche del medico competente; azioni correttive intraprese; rapporti sulle emergenze (reali o simulate); cambiamenti dell’organizzazione o della situazione al contorno (per esempio modifiche di processi, nuovi contratti di lavoro, modifiche legislative, ecc.); rapporti dal responsabile designato dalla direzione sulle prestazioni complessive del sistema; informazioni risultanti dalle attività di consultazione del personale; rapporti sulla efficacia del sistema di gestione; rapporti sulla identificazione dei pericoli e sulla valutazione e controllo dei rischi210.
Il momento del Riesame della Direzione chiude il processo di gestione e nello stesso tempo lo ricomincia: infatti riesaminando lo stato del sistema e i risultati della gestione della salute e sicurezza in un dato periodo si possono riformulare la politica e gli obiettivi per il periodo successivo. È possibile far coincidere il Riesame del sistema con la riunione periodica di prevenzione prevista dall’art. 35 del T.U. in materia di Sicurezza sul lavoro? 210
Tratto da linee guida Uni Inail per un SGSL – ed.2001.
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Molte organizzazioni optano per questa scelta e, nella procedura in cui descrivono le modalità di effettuazione del Riesame della Direzione fanno riferimento anche alla coincidenza con la riunione periodica di prevenzione. Questo avviene soprattutto nelle piccole realtà e, spesso dipende dai rapporti che intercorrono con l’RLS. Nella riunione periodica l’azienda affronta alcuni argomenti vincolati dalla normativa cogente applicabile (analisi degli infortuni, documento di valutazione dei rischi, adeguatezza dei DPI, esiti della sorveglianza sanitaria, ecc.) mentre nel Riesame oltre a questi aspetti la verifica è estesa agli argomenti tipici sopra esposti, ed i risultati sono inerenti le strategie e le politiche aziendali che impattano sull’organizzazione, sulle risorse umane, sui budget. La disponibilità di affrontare questi aspetti nel contesto della riunione periodica di prevenzione dipende dalla volontà della Direzione aziendale anche se nulla osta a far coincidere i due momenti.
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Giuseppe Spada
La certificazione dei Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro Giuseppe Spada – Ingegnere, esperto di prevenzione e di certificazione di SGSL, ex Coordinatore Generale CONTARP – INAIL Certificare un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro non è necessario o indispensabile; è opportuno ed utile. La certificazione non può costituire un obiettivo strategico dell’azienda, ma solo un opportuno strumento per evidenziare il proprio impegno etico, un’avanzata organizzazione aziendale in continuo miglioramento anche nel campo della sicurezza, il possesso degli elementi qualificanti il modello organizzativo, di cui all’art. 30 del D. Lgs n. 81/2008, ed i requisiti per essere considerata un’azienda competitiva ed all’avanguardia. Certo, a questo è pure necessario aggiungere innovazione tecnologica, capacità di approccio al mercato sempre più complesso e globale e capacità finanziarie adeguate alle ambizioni. Insomma tutti mezzi per concorrere alla crescita dell’azienda che, questo sì, è un obiettivo strategico. Se le motivazioni che spingono un’azienda ad adottare un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro (SGSL) sono quelle di affrontare in modo razionalizzato e coerente con la normativa di legge, con la realtà industriale e, soprattutto, con l’esigenza primaria di salvaguardare nel miglior modo possibile il capitale umano e professionale dell’azienda, sono soddisfatte attraverso questa strada tipicamente manageriale che l’esperienza dimostra essere la migliore per raggiungere l’obiettivo211, è anche vero che il conseguimento di questo sia opportunamente ed utilmente riconosciuto al di fuori dell’azienda, al fine di ottenerne dei ritorni di vario tipo. L’adozione di un SGSL non costituisce la panacea di ogni problematica in tema di salute e sicurezza sul lavoro (SSL), come alcuni cercano di far credere, ma certamente è uno strumento formidabile nelle mani dell’imprenditore e dei vertici aziendali per affrontare nel migliore dei modi possibili quelle problematiche, tanto più che le statistiche sulle cause degli infortuni nel nostro Paese, ma anche in quelle degli altri paesi dell’Unione, dimostrano che circa il 40% di essi avrebbero potuto essere evitati con una corretta pianificazione e programmazione delle attività prevenzionali e cioè con un’adeguata organizzazione del lavoro. In altre parole, un approccio sistematico, razionale, strutturato e coerente con la realtà della specifica impresa porta al rispetto della legislazione, alla distribuzione logica dei compiti e delle responsabilità in tema di SSL ed ad un esame critico del proprio approccio alla gestione del rischio presente in azienda, consentendo gli aggiustamenti migliorativi continui, 211
Vedi articolo pubblicato sul numero 18 del 2008 di Ambiente & Sicurezza di Sole 24 Ore.
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opportuni per il perseguimento di livelli di eccellenza. Ciò in un quadro coerente con le risorse economiche e le potenzialità dell’azienda ed il contesto circostante la stessa azienda. Insomma, un approccio manageriale, appunto, di queste problematiche. L’adozione di un SGSL è tanto più necessaria ed opportuna nel nostro Paese dove il sistema produttivo è costituito per oltre il 98% da PMI, spesso nate dalla crescita a volte tumultuosa di aziende artigianali dove i principi di organizzazione manageriale sono per tanti motivi, storici, culturali, economici, poco seguiti. Va da sé che da tale adozione le aziende trarrebbero benefici certi. Ma se è ormai definitivamente accertato che una corretta adozione del sistema (“adottato ed efficacemente attuato”; v. art. 30, 1° comma del D. Lgs n. 81/2008) porta a dei sicuri vantaggi aziendali, in particolare in termini di riduzione del fenomeno infortunistico, perché affrontare altre spese per ottenere una certificazione di conformità alla norma inglese OHSAS 18001212? Non esiste, infatti, una norma italiana ed ancor meno una norma europea, riconosciuta da tutti ed allo stato auspicabile ed opportuna, così che bisogna fare riferimento a quella più autorevole esistente, anche se non esattamente adatta al tessuto produttivo del nostro Paese. Un primo motivo risiede nella necessità di non essere autoreferenziali rispetto all’attuazione del sistema, effettuata all’interno dell’azienda, ancorché supportata da consulenti esterni, che, ahimè, non sempre sono adeguatamente qualificati professionalmente. Se l’azienda crede nei valori liberamente perseguiti con tale adozione, sottoponendo l’organizzazione aziendale a modifiche e ristrutturazioni, affrontandone anche i costi relativi, non può accontentarsi del giudizio positivo, lo si ripete autoreferenziale, di chi ha progettato il sistema per quella azienda o ne è stato l’artefice primario. È necessario rivolgersi ad una parte terza che garantisca l’indipendenza e l’obiettività di giudizio. La certificazione assolve questo compito. In secondo luogo perché l’adozione di un SGSL sta alla base di quel modello organizzativo che ha efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni di cui al già citato art. 30 del D. Lgs n. 81/2008. Per ottenere il modello organizzativo voluto del Decreto è sufficiente istituire, in aggiunta all’adozione di un SGSL, un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello organizzativo stesso. Ma se tutto ciò è possibile fare senza il bisogno della certificazione, è pur vero che è decisamente arduo dimostrarne l’efficace
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Sostanzialmente, la OHSAS 18001 (Occupational Health and Safety Assessment Series) è l’unica norma esistente in materia in Europa; l’UNI, Ente Nazionale di Normazione ha nel cassetto da circa otto anni una bozza di norma che non trova la luce per via di una forte e solitaria opposizione; dobbiamo quindi fare riferimento ad una norma straniera nella speranza che presto l’incapacità nazionale sia rimediata da una norma europea.
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attuazione a terzi ed in particolare alla Magistratura che deve eventualmente decidere in merito. In caso di infortunio grave, infatti, la Magistratura dovrà decidere se dare credito alla dichiarazione dell’azienda che sostiene, al fine di non subire le pesantissime sanzioni amministrative previste dal D. Lgs. n. 231/2001, di aver adottato tale modello organizzativo; verosimilmente dovrà verificarne l’efficacia affidando il compito ad un CTU, probabilmente appartenente all’Organo di Vigilanza. Quale migliore garanzia per l’azienda avere la certezza che il modello adottato sia stato dichiarato da terzi, non interessati, efficace e valido? Certezza che può ottenersi, in tempi non sospetti, da un Organismo di Certificazione (OdC), veramente competente in materia, acquisendo a proprio favore una prova certa, la certificazione appunto, della volontà di perseguire una concreta politica di prevenzione contro gli infortuni. Peraltro, l’OdC avrebbe tutto l’interesse a schierarsi a fianco dell’azienda per difendere il proprio operato (magari come CTP) e la validità concreta del certificato emesso. Corollario di questa affermazione è che l’azienda affidi il compito di certificazione ad un OdC riconosciuto, competente ed accreditato che rispetti regole severe di audit in tema di SSL (di seguito si tornerà su questo argomento), perché, altrimenti, che credibilità avrebbe il certificato agli occhi della Magistratura? A tale proposito c’è da prendere nota che, su proposta dell’AREL213, il Ministro della Giustizia sembra (fonte Sole 24 Ore) abbia intenzione di presentare all’approvazione del Consiglio dei Ministri un ddl di modifica del D. Lgs. n. 231/2001, secondo il quale viene riconosciuto valore esimente dell’adozione di un modello organizzativo aziendale, che rispetti certi parametri, all’atto della redazione di questo scritto, non noti, e che sia stato certificato da un’entità riconosciuta in modo autorevole. Sembrerebbe che ci si avvii verso un più incisivo ruolo degli OdC, accreditati ACCREDIA, e di entità pubbliche autorevoli. In terzo luogo la certificazione apre le strade del finanziamento sia in termini di riduzione del premio assicurativo INAIL, ex art. 24 delle Modalità di applicazione della Tariffa dei Premi, sia in termini di finanziamento diretto ex art. 11 del D. Lgs n. 81/2008, commi 3-bis e 5 e sia in termini di facilitazione di accesso alle gare pubbliche grazie all’ottenimento della qualificazione di cui all’art. 27 dello stesso D. Lgs. n. 81/2008. Anche in questo caso il possesso della certificazione non costituisce una conditio sine qua non per ottenere tali vantaggi, ma certamente appare fondamentale in un contesto in cui la carenza di personale e di risorse logistiche della P.A. costringe la stessa a limitare ai casi più delicati i controlli diretti, delegando quindi gli altri a privati qualificati.
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AREL è un’autorevole organizzazione di emanazione del Ministero della Giustizia.
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Lo sconto sul premio assicurativo è oggi del 5% per le aziende con oltre 500 dipendenti e del 10% per le altre aziende214; percentuale che l’INAIL da tempo intende aumentare considerevolmente non prima però di ricevere il necessario benestare dal Governo. Tale sconto sul premio assicurativo è ottenuto sia da quelle aziende che adottano il SGSL, meglio se certificato perché in questo caso la concessione di tale sconto non comporta alcuna verifica ispettiva da parte dell’Istituto assicuratore, e sia da quelle che limitano la scelta dei fornitori solo tra quelle aziende che applicano la normativa nazionale in materia di SSL (tra le sei possibilità previste dall’INAIL, c’è l’adozione da parte delle aziende fornitrici di un SGSL che può essere solo dimostrato con una certificazione). In sostanza, non solo è possibile ottenere tale sconto per la diretta applicazione del SGSL ma anche, altrimenti, per la scelta, da parte dell’azienda beneficiaria dello sconto, di utilizzare i soli fornitori che adottano il sistema, spingendo così questi ad utilizzarlo al fine di facilitare l’ottenimento delle commesse. In quanto poi ai finanziamenti di cui all’art. 11 del D. Lgs. n. 81/2008, non si hanno nel momento in cui si scrive notizie certe nel merito dei contenuti degli assi di finanziamento, ma è presumibile che sarà ripetuta l’esperienza positiva maturata con la precedente campagna di finanziamento che prevedeva la copertura completa dei costi di certificazione. Ciò nella consapevolezza che la certificazione presupponga l’adozione di un SGSL e che l’imprimatur di parte terza garantisca da autocertificazioni non sempre aderenti alla reale situazione organizzativa d’azienda. Ci sono poi gli aspetti riguardanti la qualificazione ed i vantaggi attenuti dalle aziende certificate rispetto a quelle non certificate. Non si ritiene il caso qui sottolineare che la certificazione costituisce un attestato quasi indispensabile per ottenere questi obiettivi che stanno alla base di ritorni economici spesso non indifferenti. Non sembra infatti adottabile, sempre per i limiti di personale e di risorse economiche, un meccanismo che veda negli esclusivi controlli e valutazioni della P.A. la base per il rilascio degli attestati di qualificazione. Ferma restando, tuttavia, l’affidabilità delle verifiche affidate ai privati (non si dimentichino le gravi anomalie presenti in altri campi, per esempio nel settore automobilistico o impiantistico, dove è stata adottata una simile delega senza il riferimento obbligatorio ad un’entità super partes, indipendente, ancorché pure privata, che vigili su tali attività). Purtroppo però il sistema di certificazione del nostro Paese soffre di problematiche complesse molto simili, per la verità, a quelle presenti negli altri paesi dell’Unione, ma con una particolarità che riguarda la certificazione dei SGSL.
214
Vedere le specificità nel sito dell’INAIL, (www.inail.it) ed in particolare nella sezione “datori di lavoro/modulistica”.
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Ancora oggi qualsiasi persona può fondare un OdC anche senza essere in possesso di competenze, professionalità, esperienza e presentarsi alle aziende offrendo certificazioni a basso prezzo (a volte bassissimo), prive di un solido retroterra culturale, di capacità di audit e di rispetto di regole di audit. Esse finisco troppo spesso per produrre “carta”, documenti cartacei, inducendo le aziende coinvolte a produrre anche loro carta, che poi rimane del tutto lettera morta, burocratizzando il sistema che, in queste condizioni, non è più di gestione ma di sclerotizzazione ed, infine, diffondendo la sensazione che il SGSL si riduca solo a questo. È il fenomeno parafrasato da alcuni dispregiativamente “cartificazione”. Certo queste certificazioni hanno ben poco valore intrinseco e lasciano il tempo che trovano, ma purtroppo sono spesso “acquistate” da diversi imprenditori che non conoscono le problematiche del settore, mirano a spendere meno e si rendono conto della situazione solo dopo quando non ottengono i vantaggi sperati ed in definitiva capiscono di aver buttato dei soldi. D’altra parte, se la scelta di certificare il proprio SGSL deve essere una scelta libera e meditata, tesa ad un vero e concreto riconoscimento di quanto si è attuato, che senso ha affidarsi a chi credibilità non ha? C’è poi un’altra categoria di OdC, italiani con sede in Italia o stranieri con sede nel loro paese, che opera in Italia sotto accreditamento di Enti di Accreditamento stranieri, i quali, anche se seri e responsabili, finiscono per trascurare, data la distanza, i controlli nei confronti di questi OdC, parte dei quali operano con molta liberalità al di fuori di regole severe, poco consona alla particolare legislazione del nostro Paese in tema di SSL, praticando prezzi decisamente concorrenziali rispetto agli OdC accreditati presso l’ente italiano di accreditamento, ACCREDIA215 . A questi si aggiungono poi anche OdC da nessuno accreditati. Tutto ciò ha comportato ed ancora comporta un’evidente squilibrio del mercato delle certificazioni che provoca non pochi danni alle imprese e, soprattutto, abbatte la credibilità delle certificazioni nel loro complesso, anche quelle che invece sono emesse con rigore e responsabilità e di cui ha tanto bisogno l’impresa. Ciò è tanto più delicato nel campo della salute e sicurezza sul lavoro in considerazione che nel nostro paese abbiamo una legislazione ampia e complessa nel settore della SSL, assolutamente non paragonabile a quella degli altri paesi europei. È quindi cosa ben diversa fare un audit per la conformità alla OHSAS 18001 in Italia che farlo altrove.
215
ACCREDIA è l’Ente Unico italiano per l’accreditamento, riconosciuto formalmente dal Governo Italiano nel dicembre 2009, nato dall’unione di SINCERT e SINAL nel quadro del Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 765 del 9 luglio 2008, entrato nella fase attuativa il 1 gennaio 2010.
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Non ci sono quindi, allo stato, le basi per impostare una politica comunitaria che possa sfociare, in tema di certificazione sui SGSL, ad accordi di mutuo riconoscimento in ambito MLA216, attualmente esclusi. Coerentemente, infatti, la certificazione dei SGSL non compare tra quelle previste nel recente accordo MLA del 21 maggio 2010, sottoscritto da ACCREDIA. La politica di ACCREDIA è coerente con l’evoluzione della trattazione di questa materia da parte della stessa ACCREDIA (ex SINCERT) nell’ultimo decennio; dalle prime certificazioni che seguivano le stesse regole adottate per la certificazione qualità per arrivare alla svolta cruciale dell’adozione del regolamento di certificazione RT12 del 2006. È questo un regolamento particolarmente stringente e puntuale che impone agli OdC accreditati ACCREDIA regole molto severe e restrittive, sicuramente le più restrittive esistenti in Europa e forse nel mondo, che comportano a questi OdC costi di produzione elevati, sicuramente non concorrenziali rispetto a quelli sopportati dagli altri OdC ma che solo possono garantire il rigore necessario in una materia così delicata quale la salute e la sicurezza dei lavoratori. Questo regolamento ha sollevato proteste e lamentele di vario tipo, soprattutto da parte di coloro che vedono la certificazione esclusivamente come un business e non come un servizio alle imprese per rafforzare il loro ruolo nel Paese, nel mercato, nella società assegnandogli l’immagine responsabile ed eticamente lodevole che si meritano a fronte dell’impegno prevenzionale assunto. Del RT12 sembra opportuno ricordare due aspetti che sembrano particolarmente significativi: a) in proporzione alla rischiosità del settore produttivo ed alle dimensioni aziendali il numero delle giornate/uomo dedicate alle visite di audit è maggiore che in qualsiasi altro regolamento del genere (e forse bisognerebbe ulteriormente aumentarlo se si vogliono ridurre i margini d’incertezza che derivano da accertamenti in loco svolti inevitabilmente con criteri di campionamento); b) è l’unico regolamento che impone auditor certificati specificatamente in materia e quindi professionalmente preparati a svolgere questo delicato compito. Sono questi punti di forza che fanno accettare le certificazioni emesse da OdC accreditati ACCREDIA con maggiore tranquillità, dando al sistema quella credibilità che si merita, soprattutto agli occhi degli Organi di Vigilanza e della Magistratura. Tanto più si presentano al cospetto della Magistratura aziende certificate in modo “epidermico” e tanto più si discredita il SGSL e tanto meno saranno le aziende che sentiranno il bisogno 216
MLA, Multilateral Agreement, costituiscono gli accordi di mutuo riconoscimento in ambito EA, European Cooperation for Accreditation, che è la struttura europea di accreditamento riconosciuta in seguito alla firma delle Linee Guida della cooperazione con la Commissione Europea, l’EFTA e le Autorità Nazionali.
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di certificarsi. È un circolo vizioso che danneggia tutti, le aziende, ma anche quegli stessi OdC che aspirano a fare business. È per questo che ACCREDIA ha davanti a sé un compito arduo e difficile da svolgere nei prossimi anni, confortata oggi dal Regolamento Comunitario 765/2008 che ha costituito il fondamento essenziale alla fusione degli organismi italiani di accreditamento del passato, SINCERT e SINAL (manca ancora all’appello il SIT, che si spera confluisca al più presto, anche se ACCREDIA ha, a questo punto, formale competenza in tema di certificazione di taratura) e ne ha permesso la nascita, assegnandogli un ruolo autorevole quasi da Ente Pubblico di Stato o da Agenzia. La speranza di coloro che credono nella notevole potenzialità che i sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro hanno nel facilitare e stimolare le aziende ad un comportamento virtuoso, è quella di una sua sempre maggiore diffusione a cui la certificazione può dare un contributo tutt’altro che trascurabile. Ma per ottenere ciò è necessario che gli OdC rilascino certificati in modo assolutamente rigoroso e coerente con la legislazione nazionale e che tutti, indistintamente, coloro che operano sul territorio nazionale siano controllati, visitati, ispezionati da un solo unico ente nazionale e rispettino le sole regole emanate da questo. Il mercato delle certificazioni a livello nazionale deve essere unico, rispettare le stesse regole ed essere governato dalla stessa entità. Non possono convivere nello stesso mercato nazionale regole diverse nate in altri paesi dell’Unione in un contesto di sicurezza sociale e di cultura diversi, sacrificando sull’altare comunitario la peculiarità di un sistema di sicurezza sociale nazionale, quale il nostro. Questo sarà possibile quando la legislazione sulla SSL sarà (se lo vorrà il potere politico) unica a livello europeo, non adesso e forse nemmeno nei prossimi anni. Per la verità sembra che nel Regolamento Comunitario fondante gli enti unici nazionali di accreditamento ci siano le premesse per far convergere tutti gli OdC operanti in un paese verso l’ente di quel paese. C’è poi un altro problema, peculiare per il nostro paese, che sembra necessario qui richiamare e che è connesso sia con la diffusione dei SGSL in Italia e delle relative certificazioni che con le modalità di certificazione. Nel nostro paese sono operanti circa 3.868.000 aziende, oltre il 98% delle quali sono PMI e la stragrande parte di queste ultime sono microimprese. Imprese cioè che hanno un’organizzazione semplice e limitata, che hanno poche risorse specialistiche e professionali, che hanno limitate risorse economiche e quindi con difficoltà possono agevolmente adottare un SGSL normato secondo l’OHSAS 18001, nato in Inghilterra dove vi è una preponderanza di grandi aziende che pure possono sopportare facilmente i costi di consulenti e metabolizzare certe metodiche burocratizzabili. È questo un punto di criticità che deve essere tenuto nella massima evidenza se non si vuole decadere nel burocratismo sterile, creando lacci ed orpelli anche costosi alle piccolissime 126
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imprese che, nel nostro paese, costituiscono una ricchezza incontestabile. Ciò spinge molte PMI, pur desiderose di adottare un SGSL, e magari certificarlo, a tenersi lontane da esso perché i costi di adozione travalicano le loro possibilità. In generale i Governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia hanno spinto fortemente nella direzione della semplificazione: non si vede perché non si debba seguire questa strada anche in questo settore particolare, emanando una norma tutta italiana specificatamente adatta alla realtà delle microimprese italiane, certificabile con specifico regolamento ACCREDIA ad hoc, fermo restando i principi ispiratori che stanno alla base di un monitoraggio e controllo delle aziende basato sul rigore e sulla responsabilità nel rilascio della certificazione. Dunque una diversa e più semplice diversa metodologia di approccio sia in termini di audit che, naturalmente, in termini di adozione del SGSL. Certo sarebbe necessaria una norma tecnica emanata da UNI, ente competente in materia; ma questa ipotesi sembra lontana dalla realtà visto che questo Ente non ha ancora pubblicato la norma generale dopo molti anni da quando una bozza di norma italiana su questo tema è stata depositata dal gruppo di lavoro ad hoc costituito. A maggior ragione appare improbabile che sia in grado di produrre una norma specifica ad uso e consumo delle microimprese. L’unica speranza di risolvere il problema va riposta nella Commissione Consultiva Permanente di cui all’art. 6 del D. Lgs. n. 81/2008, in forza del comma 5-bis dell’art. 30 dello stesso D. Lgs. . Certo questa strada solleva preoccupazioni per il fatto che la Commissione, per come è stata trasformata dal D. Lgs. n. 81/2008, è divenuta sostanzialmente un organo di governo, pseudo politico o per lo meno che ha una particolare attenzione agli aspetti politici che mal si conciliano con un documento a carattere squisitamente tecnico, quale dovrebbe essere quello qui ipotizzato. Il recente accorpamento dell’ISPESL nell’INAIL, ambedue enti riconosciuti dal D. Lgs. n. 81/2008 organi tecnici della Commissione, potrebbe favorire la redazione di una proposta tecnica univoca in tal senso. Peraltro il comma 5-bis, più sopra citato, parla più esattamente di modello organizzativo e non di sistema di gestione che ne costituisce l’essenza. Questo fa sperare che la Commissione possa proporre, collateralmente ad un SGSL semplificato e coerentemente con questo, un sistema sanzionatorio adatto alla realtà delle microimprese, non facile da configurare: problematica che si aggiunge a quella già non facile di un SGSL adatto a queste aziende di così piccole dimensioni. Vedremo cosa emergerà dal preannunciato disegno di legge sulla modifica del D. Lgs. n. 231/2001 di iniziativa del Governo. Dopo questa breve panoramica sulla certificazione dei SGSL, preme qui, a conclusione di quanto detto, ribadire un concetto importante presente nelle Linee guida UNI-INAIL, comunemente poco evidenziato e non riscontrabile né nella OHSAS 18001 né nel D. Lgs. n. 81/2008: il legame stretto, intrinseco ed 127
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indissolubile richiesto al sistema di gestione della SSL con gli altri sistemi di gestione aziendale. L’indicazione e l’auspicio è che il sistema di gestione aziendale sia veramente unico, costituendo un’entità unica, seppure nelle sue varie sfaccettature. L’intento era quello di togliere dall’emarginazione aziendale le problematiche di SSL, come accadeva nei decenni passati e come purtroppo si riscontra ancora oggi troppo spesso. Oggi si sente parlare di sistema integrato intendendo con questo termine una certa coerenza tra il sistema di gestione della qualità (SGQ) con quello dell’ambiente (SGA) e con quello sulla sicurezza sul lavoro (SGSL): si tratta di un inizio di limitata integrazione tra tre sistemi di gestione che così mettono in comune il manuale di sistema, la pianificazione e programmazione delle azioni connesse con la qualità, ambiente e sicurezza sul lavoro, gli audit interni ecc. . Ma è un’integrazione che in realtà unisce gestioni secondarie aziendali che si affiancano alla gestione primaria aziendale dove l’organizzazione del lavoro è asservita all’ottica del profitto, dove la gestione finanziaria ha un’importanza spesso determinante e dove la gestione del marketing costituisce un elemento trainante dell’intera politica aziendale. Quello che invece è opportuna è l’integrazione globale delle gestioni varie in un’unica gestione aziendale, razionale, coerente, certamente mirata al profitto, ma in un’ottica di ampio respiro che tenga conto di tutte le componenti aziendali che concorrono all’essenza dell’azienda stessa, ognuna con il loro peso determinato dal loro ruolo nell’economia globale dell’azienda e senza le quali l’azienda non avrebbe motivo di esistere e proiettarsi in un futuro di crescita. Insomma è opportuna e forse necessaria per il futuro dell’azienda una visione strategica che travalichi il profitto immediato. Non sembra pensabile redigere una norma tecnica nel senso sopra indicato perché l’autonomia imprenditoriale deve essere assolutamente salvaguardata perché questa costituisce il DNA del successo aziendale, ma piuttosto si potrebbe pensare di dare delle indicazioni su come agganciare fermamente ed indissolubilmente le metodologie proprie dei sistemi di gestione della sicurezza sul lavoro e gli altri sistemi di gestione, ambiente ed anche qualità, al più ampio sistema di gestione aziendale al fine di costituirne un unicum. È l’auspicio dei prossimi anni.
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Responsabilità amministrativa degli enti e controlli interni di Giovanni Alibrandi ‐ Consulente di direzione. Cultore di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Brescia. Presidente dell’Organismo di Vigilanza AiFOS 1. Aspetti generali Con il D. Lgs. n. 231/01 è stata introdotta nell’ordinamento giuridico italiano un nuovo tipo di responsabilità, accanto a quelle civile e penale comunemente conosciute: la responsabilità amministrativa degli enti217, quale conseguenza di alcune fattispecie di reati (i reati-presupposto) commessi, o anche solo tentati, dai soggetti apicali218 e da quelli sottoposti alla loro direzione e vigilanza, a condizione che il reato sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dello stesso ente. Riguardo alla natura giuridica di questa responsabilità, nella relazione al decreto è specificato che: «Tale responsabilità, poiché conseguente da reato e legata (per espressa volontà della legge delega) alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo ormai classicamente desunto dalla legge 689 del 1981. Con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia». Rileva, pertanto, che sebbene definita “amministrativa” di fatto è una responsabilità di natura penale, perché consegue al compimento di un reato, configurando in tal senso un tertium genus che associa le peculiarità del sistema penale e di quello amministrativo219. 217
La locuzione “ente” è una specifica scelta del legislatore per indicare che i soggetti destinatari del provvedimento non sono solo le società di capitali, ma anche le società cooperative, le associazioni dotate e prive di personalità giuridica, gli enti pubblici economici, gli enti privati concessionari di un pubblico servizio. In altri termini, il legislatore ha inteso affermare che la mancanza di personalità giuridica non costituisce motivo di esenzione dalla responsabilità amministrativa; ossia si prescinde dallo schema giuridico-formale adottato dall’organizzazione. 218 L’art. 5, co.1, lett. a), del D. Lgs. n. 231/01 indica chi sono questi soggetti: «..persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, le gestione e il controllo dello stesso...». L’espresso riferimento alle unità organizzative dotate di autonomia finanziaria e funzionale comporta che nella mappatura delle attività si deve tener conto anche di queste, mentre il richiamo alla figura dell’amministratore di fatto implica che anche i suoi comportamenti, se difformi, rientrano nel perimetro della responsabilità amministrativa dell’ente. 219 Si ricorda che nel nostro ordinamento vige il principio “societas delinquere non potest”; l’art. 27, co.1, della Costituzione sancisce che “la responsabilità penale è personale”, diversamente da quanto prevedono gli ordinamenti di altri Paesi, per esempio: nei Paesi anglosassoni sono riconosciute forme di responsabilità penale delle società per i cosiddetti corporate crimes, ossia i reati commessi da un ente
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Questa “nuova” responsabilità non nasce per effetto di orientamenti politici assunti nel Paese - come potrebbe sembrare a prima vista - bensì dalla necessità di recepire nell’ordinamento giuridico italiano i contenuti di alcune convenzioni internazionali alle quali l’Italia già nel 2001 aderiva da tempo, nonché dalla risposta a principi e criteri condivisi in campo internazionale. In ambito europeo paesi come Francia, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Svezia e Finlandia già riconoscevano e disciplinavano la responsabilità delle società220. Mentre tra i paesi extra-europei si devono ricordare le Federal Sentencing Guidelines statunitensi che, vigenti fin dal 1991, sono in quel Paese un riferimento per i giudici quando devono valutare i programmi di conformità (compliance programs) adottate dalle imprese americane221. I contenuti delle linee guida statunitensi222 hanno ispirato il legislatore italiano nella predisposizione della norma: la loro impronta è rintracciabile nella formulazione del co.2, dell’art. 6 del D. Lgs. n. 231/01, che indica gli elementi costitutivi dei modelli di organizzazione. Per evitare d’incorrere in tale responsabilità o per attenuarla, gli enti possono223 dotarsi di modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire la commissione dei reati (caratteristica esimente). Il modello adottato deve essere idoneo a svolgere efficacemente la funzione preventiva; in caso d’illecito, spetta all’ente dimostrare che nonostante la presenza del modello (idoneo a tale funzione) il reato è stato commesso ugualmente (con fraudolenza)224. In relazione a ciò, non è consigliabile adottare soluzioni che divergono da quelle indicate (linee guida) dall’Associazione di collettivo (corporation). 220 Vedi Relazione al decreto legislativo n. 231/2001. 221 Cfr. Astori R. (2009), “Compliance aziendale e responsabilità amministrativa degli enti”, in Salvioni D.M. (a cura di), Corporate governance, controllo e trasparenza, FrancoAngeli, Milano, pag. 409. 222 Nella overview di queste linee guida - curata da Paula Desio, Deputy General Counsel, della United States Sentencing Commission – si legge tra l’altro: «The organizational sentencing guidelines (which apply to corporations, partnerships, labor unions, pension funds, trusts, non-profit entities, and governmental units) became effective November 1, 1991, after several years of public hearings and analyses. These guidelines are designed to further two key purposes of sentencing: “just punishment” and “deterrence”. Under the “just punishment” model, the punishment corresponds to the degree of blameworthiness of the offender, while under the “deterrence” model, incentives are offered for organizations to detect and prevent crime.». 223 La previsione legislativa si esprime in termini di facoltà e non di obbligatorietà relativamente all’adozione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, tuttavia è importante essere consapevoli che la mancata adozione espone l’ente alla responsabilità per i reati commessi dai soggetti apicali e da quelli sottoposti alla loro direzione. Responsabilità che nel primo caso è presunta, mentre nel secondo è connessa all’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza, ossia l’ente deve dimostrare che direzione e vigilanza sono state corrette. 224 Si ricorda la sentenza del GIP del Tribunale di Milano del 17/11/09, riguardante una nota società quotata in borsa, che nell’attribuire l’idoneità, in funzione preventiva, al modello adottato, ha assolto la società e condannato i responsabili (soggetti apicali), riconoscendo che questi hanno agito aggirando fraudolentemente il modello.
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categoria cui l’ente appartiene225. L’esonero dalla responsabilità non è generico; in caso di commissione di reato, la valutazione da parte dell’organo giudicante verterà sul soggetto responsabile del reato (apicale o subordinato), sulle caratteristiche organizzative dell’ente, sull’idoneità preventiva del modello adottato e sulla sua efficace applicazione. In corrispondenza dell’adozione del modello, l’impresa deve provvedere a dotarsi anche di un sistema di controllo interno, le cui finalità sono, da un lato, la costante verifica su processi e procedure affinché siano sempre conformi ai contenuti ed alle misure previste dal modello, dall’altro, il costante monitoraggio della sua adeguatezza per il contrasto ed il governo dei rischi aziendali. Naturalmente i rischi aziendali non sono solo quelli collegati al compimento dei reati-presupposto, altre tipologie di rischio possono influenzare o, peggio, pregiudicare la vita dell’impresa, quindi la presenza al suo interno di un sistema di controllo le consente, in generale, di migliorare la gestione, nello specifico di governare adeguatamente i rischi. Il compito di vigilare sul funzionamento, l’osservanza e l’aggiornamento del modello deve essere affidato ad un organismo interno dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo226. Al riguardo vale ricordare che è dell’organo dirigente dell’ente la responsabilità di adottare ed efficacemente attuare il modello organizzativo, nonché di affidarne la vigilanza ad apposito organismo. L’art. 2392 del c.c. pone a carico degli amministratori obblighi di diligenza nell’espletamento delle loro funzioni, infatti, questi «devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dall’inosservanza di tali doveri…». In base ad una diffusa interpretazione dei contenuti di questo articolo, le scelte degli amministratori devono sempre essere ispirate da “informazione” e “meditazione”, ossia devono essere frutto di conoscenza e calcolo del rischio e non di irresponsabile o negligente impreparazione. È percepibile, a questo punto, che la facoltà di adozione del modello risulta grandemente attenuata, 225
Il comma.3 dell’art. 6 recita testualmente: «I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati». Da tale previsione normativa si percepisce che il legislatore, nel voler sottoporre a preventiva validazione i codici di comportamento (linee guida) redatti dalle associazioni di categoria, ha nel contempo voluto evitare il rischio di adozione di modelli organizzativi “fatti in casa” privi delle caratteristiche richieste, peraltro agevolando le imprese, che in tal senso hanno definiti punti di riferimento da seguire. 226 Art. 6, co. 1, lett. b), D.Lgs. n. 231/01.
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perché in caso di fatti illeciti imputabili all’ente gli amministratori possono essere chiamati a risarcire il danno patrimoniale causato ai soci. La sentenza n. 1774/08 del Tribunale di Milano, Sez. VIII civile, ha condannato il Presidente del CdA e Amministratore Delegato di una società, a sua volta condannata per fatti corruttivi, per responsabilità da «inadeguata attività amministrativa», dalla lettura della sentenza rileva che la condanna è stata inflitta non solo per la mancata adozione del modello organizzativo, ma anche perché tale amministratore, nel corso di adempimento della sua funzione, non aveva mai sollecitato l’organo amministrativo all’adozione di siffatto modello. L’adozione del modello organizzativo prevede espressamente la costituzione di un organo di controllo, l’organo di vigilanza; questo garantisce sia il corretto funzionamento e aggiornamento del modello, sia il monitoraggio dei rischi di commissione di reati. Ogni ente, tenuto conto delle dimensioni, dell’attività svolta e della struttura aziendale, valuta l’opportunità di creare una funzione ad hoc oppure di utilizzare un organo od una funzione già presenti, avendo cura di evitare sovrapposizioni di compiti. In base alla previsione normativa è escluso che tale organo possa identificarsi in un soggetto esterno (es.: società di revisione o team di consulenti) oppure interno privo di autonomia decisionale (es.: ufficio legale, che non è dotato di autonomi poteri d’iniziativa, delibera e controllo). I compiti e gli obblighi dell’organo di vigilanza sono i seguenti: 1. vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello organizzativo, intervenendo, se necessario, per integrarlo o modificarlo, disponendo di un budget adeguato per assumere decisioni di spesa; 2. interloquire alla pari, ossia senza vincoli di subordinazione gerarchica che possano inficiare o condizionare l’autonomia di giudizio, anche con i vertici dell’ente; 3. essere dotato di poteri di richiesta ed acquisizione d’informazioni da e verso ogni livello e segmento dell’ente; 4. costituire un riferimento credibile sia per i soggetti interni che vogliano segnalare condotte illecite sia per quelli esterni227; 5. essere soggetto cui l’ente affida l’accertamento dei comportamenti per proporre le eventuali sanzioni a carico di coloro che non hanno rispettato le prescrizioni contenute nel modello organizzativo228. 227
La possibilità di comunicare riservatamente con l’OdV per segnalare condotte non conformi alle norme è uno degli elementi che classificano un modello organizzativo efficacemente attuato. Al riguardo l’ente deve predisporre meccanismi di comunicazione attraverso i quali i soggetti interni ed esterni possono comunicare, senza il timore di ritorsioni, con l’OdV. 228 Anche il sistema disciplinare è elemento che definisce un modello organizzativo efficacemente attuato, tale sistema va rivolto sia verso l’interno sia verso l’esterno, per i soggetti interni all’organizzazione non deve discostarsi dalle previsioni normative in tema di rapporto di lavoro, mentre per i soggetti esterni (es.: i fornitori) deve prevedere sanzioni adeguate al tipo di rapporto intrattenuto.
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Per quanto attiene la costituzione dell’OdV, per gli enti di piccole dimensioni l’art. 6, co. 4, del decreto prevede che i compiti possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente, mentre per le realtà di dimensioni maggiori si palesano le seguenti alternative: • la creazione di una funzione aggiuntiva, collocata alle dirette dipendenze della direzione; • l’attribuzione del ruolo all’internal audit, sulla base di un’opportuna integrazione dei compiti attribuiti a questa funzione; • la creazione di un comitato di controllo, composto da risorse interne ed esterne (professionisti) all’ente, in tal caso si parla di organo collegiale, e pare che questa sia la soluzione preferita anche dalla Pubblica Amministrazione, per il contemporaneo coinvolgimento nell’attività di controllo di soggetti esterni alla gestione dell’ente. Ciascun ente deve valutare, in relazione alle caratteristiche che lo contraddistinguono, la più adeguata configurazione dell’OdV, a condizione che abbia una reale indipendenza dalla gerarchia aziendale, al fine di realizzare un sistema di controlli preventivi il più possibile efficace, tenuto conto anche del contenimento dei costi. In ogni caso, all’OdV devono essere garantite la continuità d’azione e il regolare svolgimento delle funzioni attribuite, è indispensabile pertanto che, soprattutto se ha una struttura collegiale, adotti le seguenti regole di funzionamento: calendarizzazione delle attività, verbalizzazione delle riunioni, definizione delle modalità di svolgimento delle attività di controllo, adozione di procedure da adottare in caso di disaccordo fra i componenti, definizione di eventuali relazioni periodiche all’organo dirigente. In ordine alle sanzioni, il d.lgs. n. 231/01 prevede un regime piuttosto articolato: sanzioni pecuniarie e interdittive, la confisca del profitto, la pubblicazione della sentenza. Le sanzioni pecuniarie vanno da un minimo di € 25.000 ad un massimo di € 1.500.000; mentre le sanzioni interdittive sono applicate in relazione alla specifica attività svolta dall’ente, e possono riguardare: la sospensione o revoca di autorizzazioni, l’interdizione all’esercizio dell’attività, il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione. Il regime sanzionatorio, inoltre, gradua le stesse sanzioni alla gravità dell’illecito, indicando le tre seguenti categorie: • illeciti di minore gravità, per i quali è prevista la sola sanzione pecuniaria; • illeciti di media gravità, che prevedono la sanzione pecuniaria e quella interdittiva; • illeciti più gravi, per i quali sono previste la sanzione pecuniaria più elevata rispetto alle precedenti ipotesi e la sanzione interdittiva. 133
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2. La Responsabilità Sociale d’Impresa (Corporate Social Responsibility) Quando ci si riferisce alla responsabilità d’impresa non si può trascurare che, di fatto, questa sia più ampia rispetto a quella prevista dal d.lgs. n. 231/01. Le imprese, nello svolgimento delle loro attività, si trovano al centro di una molteplicità d’interessi, diversi sono i soggetti a vario titolo coinvolti dalle e nelle vicende aziendali, molti di questi hanno aspettative che le stesse devono soddisfare. Si tratta degli interlocutori sociali (stakeholder): i prestatori di lavoro, i fornitori, i clienti, i conferenti il capitale di rischio e di credito (banche), gli enti previdenziali, l’amministrazione finanziaria, gli enti locali, la comunità locale di riferimento, ecc.. Nella prospettiva appena indicata la responsabilità d’impresa è più ampia e si configura variamente rispetto a quella prevista dal d.lgs. n. 231/01. Nel Libro Verde della Commissione Europea la Corporate Social Responsibility (Responsabilità Sociale d’Impresa) è così definita229: «…l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più” nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate. L’esperienza acquisita con gli investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente responsabili suggerisce che, andando oltre gli obblighi previsti dalla legislazione, le imprese potevano aumentare la propria competitività. L’applicazione di norme sociali che superano gli obblighi giuridici fondamentali, ad esempio nel settore della formazione, delle condizioni di lavoro o dei rapporti tra la direzione e il personale, può avere dal canto suo un impatto diretto sulla produttività. Si apre in tal modo una strada che consente di gestire il cambiamento e di conciliare lo sviluppo sociale e una maggiore competitività.». Un comportamento socialmente responsabile è quindi caratterizzato: • dalla volontarietà e non dalla obbligatorietà, ossia nessun obbligo di natura giuridica ma solo una volontaria adesione a principi e criteri etici; • congiuntamente, dalla piena soddisfazione degli obblighi giuridici applicabili e da un maggiore investimento nelle risorse umane, nell’ambiente e nei rapporti con gli stakeholder; • dall’acquisizione di un maggiore vantaggio nell’arena competitiva, nei confronti dei concorrenti diretti e del mercato di riferimento; • da un miglioramento della produttività, perché, superando gli obblighi di legge, con l’applicazione di norme sociali nella formazione, nelle 229
Libro Verde della Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, 2001, pag. 7.
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condizioni di lavoro, nella gestione dei rapporti con il personale si limitano le tensioni e si crea un clima favorevole alla crescita aziendale. Non solo, un tale clima è il presupposto ideale per il governo delle diverse variabili organizzative, della massima importanza per i modelli organizzativi ex d.lgs. n. 231/01. È rilevabile una diffusa convergenza nel riconoscere che la responsabilità d’impresa va oltre l’ambito meramente economico-finanziario, riflettendosi anche sul piano sociale; del resto l’impresa opera all’interno di un contesto sociale ed a questo deve rispondere della sua condotta, come chiunque altro facente parte del medesimo contesto, sia che agisca individualmente sia che agisca come gruppo. In relazione al “chi” imputare la responsabilità per la condotta dell’impresa è opportuna una distinzione, considerando i parametri dimensionali della stessa e fermo restando quanto riportato in nota (4): nelle piccole e medie imprese proprietà e controllo fanno capo a pochissime persone, se non a una sola persona, pertanto la condotta dell’impresa è etica se tali sono i comportamenti e le decisioni della proprietà, c’è coincidenza tra l’etica dell’impresa e quella di chi la governa; nelle imprese di maggiori dimensioni è pacificamente accettato che le decisioni sono assunte dagli individui però è il soggetto impresa ad essere valutato, quindi è a questo che va imputata una propria responsabilità etica per l’attività svolta nel complesso. Sui contenuti dell’etica d’impresa il confronto tra i diversi segmenti della nostra società è stato ampio ed articolato, evidenziando che il dibattito è in continua evoluzione è comunque possibile osservare che due sono le accezioni sulle quali c'è concordanza: la prima intende l’etica come rispetto delle leggi, vale a dire quando il comportamento dell’impresa è conforme alle norme ed ai regolamenti vigenti, peraltro in un contesto sovente caratterizzato dalla loro scarsa osservanza, si richiamano al riguardo le notizie di scandali e brogli riportati dai media quasi con regolarità coinvolgenti settore privato e pubblico. Nella seconda accezione, invece, l’etica è intesa come ricerca di legittimazione sociale, ossia quando l’impresa conforma i propri comportamenti ai valori della comunità all’interno della quale agisce; in molti concordano con questa accezione, considerandola la reale essenza della responsabilità sociale d’impresa. 2.1. Le politiche aziendali Ai fini del perseguimento di una condotta socialmente responsabile è fondamentale che le imprese diano visibilità verso l’esterno (trasparenza) delle politiche aziendali adottate, gli strumenti che agevolano tale visibilità sono 135
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diversi: massima diffusione della mission aziendale; i codici etico, deontologico e di comportamento; la carta dei valori. Per essere trasparente con i propri interlocutori sociali (gli stakeholder) l’impresa deve dotarsi di una struttura organizzativa che le consenta, da un lato, di sostenere ed incoraggiare le relazioni verso l’esterno, dall’altro, di recepire le sollecitazioni e le istanze provenienti dall’esterno. Nel confronto con il mercato, oltre a porre attenzione alla massimizzazione del profitto, le imprese devono anche saper governare gli effetti ambientali e sociali delle proprie scelte e decisioni; dimostrando, inoltre, che i principi etici ispiratori dell’attività gestionale sono effettivamente tradotti in comportamenti reali e non sono rimasti solo sulla “carta”230. Ad evidenza, una condotta socialmente responsabile ha riflessi variamente accentuati sull’organizzazione aziendale, considerato che la profondità dei cambiamenti dipende dal “come” tale concetto è assorbito, interpretato ed implementato. Non è concepibile ritenere di poter soddisfare le aspettative degli interlocutori sociali in assenza di adeguati strumenti di governo dell’organizzazione, primo fra tutti il sistema dei controlli interni. Inoltre, dotarsi di strumenti atti a supportare il processo decisionale vuol dire orientare lo stesso verso obiettivi di economicità, di eco-efficienza e di socialità; in altri termini, questi strumenti nel tempo orientano l’impresa verso obiettivi di sostenibilità. La mappatura degli stakeholder è uno degli strumenti in parola, attraverso cui è possibile identificare le aspettative e le esigenze degli stessi, da tradurre in variabili critiche che l’impresa deve conoscere e governare attraverso il suo sistema di controllo interno. Ed ancora, sempre in relazione alle variabili critiche, è opportuno definire parametri-obiettivo da coniugare con la formalizzazione delle responsabilità, ossia ad ogni ruolo chiave all’interno dell’azienda va assegnata una specifica responsabilità di controllo su ciascuna di esse. 3. I Sistemi di gestione Nella pratica operativa, pur nella considerazione dell’unitarietà della gestione aziendale, i sistemi di gestione si configurano variamente; con riferimento sia alla loro collocazione nell’ambito della stessa gestione aziendale, sia alle evoluzioni tecnica e normativa, è dato distinguere quelli concernenti: l’azienda nel suo insieme, per esempio i sistemi di pianificazione, 230
Si rammenta a tal proposito che l'art. 6, co.1, lett. a), del d.lgs. n. 231/01, con riferimento all’esonero dalla responsabilità, per quanto attiene i modelli di organizzazione e di gestione afferma che questi devono essere adottati ed efficacemente attuati, rimarcando che senza un’efficace attuazione del modello (non deve esistere solo sulla “carta”) non è possibile invocare l’esimente. Gli orientamenti giurisprudenziali vanno in questa direzione: le imprese che dimostrano l’effettività del modello sono assolte e quelle che non lo possono dimostrare condannate.
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programmazione e controllo (il controllo di gestione); il prodotto, per quanto attiene le caratteristiche produttive e tecniche; la qualità, intesa come “qualità totale aziendale”; la sicurezza, vedi il d.lgs. n. 81/08; la formazione, finalizzata alla crescita delle capacità e delle competenze professionali del personale; il modello di gestione e controllo ex D. Lgs. n. 231. In parallelo a tale distinzione, nel corso del tempo, si è assistito alla nascita di diverse specializzazioni professionali, ossia di professionisti con competenze specifiche negli ambiti citati. Al riguardo è bene tenere sempre in buona evidenza che il sistema aziendale è unico, e vanno evitate pericolose confusioni o anomale sovrapposizioni di natura organizzativa – soprattutto per il benessere dell’azienda – ciascun sistema di gestione va a collocarsi, idoneamente ed adeguatamente, all’interno di un’unica organizzazione, che ha caratteristiche proprie, quindi è indispensabile, ponendosi in una visione complessiva, valutare nell’immediato e nel continuo quali effetti producono nella gestione aziendale le modifiche organizzative conseguenti all’introduzione di detti sistemi231. In altri termini, le variabili organizzative critiche, cui sono collegati i fattori critici di successo232, devono essere governate con attenzione. L’impresa – intesa come «istituto economico sociale che raggruppa una molteplicità di sistemi complessi di operazioni, accadimenti, valori, decisioni»233 – è un sistema complesso per definizione, ricorrendo all’approccio sistemico è possibile cogliere più approfonditamente la sua complessità. Infatti, «la stessa azienda ci appare come un insieme di parti caratterizzata da certi fattori in entrata (input) e da altri in uscita (output) ed inserita in un contesto ambientale con cui interagisce tanto che si può parlare correttamente di sistema aziendale»234. Nella trattazione che ci occupa, l’approccio sistemico è utile per eseguire la mappatura delle attività, ricordando che l’art. 6, co.2, lett. a), del d.lgs. 231/01, con riferimento alle esigenze cui devono rispondere i modelli, cita testualmente: «individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati». Inoltre, quello che è stato definito il “Decalogo 231”235 a proposito dei modelli si 231
Per chiarire ulteriormente si richiama il principio fisico dei vasi comunicanti: se in un sistema di vasi comunicanti introduciamo del liquido in uno di essi, questo raggiungerà lo stesso livello in tutti i vasi, presentandosi così uniformemente, il liquido introdotto in un vaso influisce sul livello di tutti gli altri. In termini di sistema aziendale, sostituendo ai vasi le diverse aree che lo compongono (produzione, acquisti, vendite, amministrazione, logistica, sicurezza, ecc.) è possibile comprendere che ogni azione compiuta in un’area riverbera i propri effetti anche sulle altre, o su alcune di esse, influenzando e/o condizionando positivamente o negativamente l’intera gestione aziendale. 232 Per fattori critici di successo s’intendono quel numero limitato di aree (variabili interne e/o esterne) i cui risultati, se soddisfacenti, assicurano all’organizzazione un rendimento competitivo positivo. 233 Cfr. C. Masini (1978), Lavoro e risparmio, Utet, Torino, pag. 28, 29. 234 G. Brunetti (1992), Il controllo di gestione in condizioni ambientali perturbate, FrancoAngeli, Milano, pag. 14. 235 Ordinanza del GIP del Tribunale di Milano del 9 novembre 2004.
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esprime in questi termini: «i modelli – in quanto strumenti organizzativi dell’ente – devono qualificarsi per la loro concreta e specifica efficacia e per la loro dinamicità; essi devono scaturire da una visione realistica ed economica dei fenomeni aziendali e non esclusivamente giuridico-formale.». Si evidenzia l’espresso riferimento del GIP del Tribunale di Milano ai modelli come strumenti organizzativi dell’ente, quindi la loro diretta ed immediata collocazione all’interno dell’assetto organizzativo dell’azienda, dopo che questa ha effettuato la mappatura delle sue attività facendo emergere quelle a rischio di commissione di reati; ma di più, tali modelli devono scaturire da una visione realistica ed economica dei fenomeni aziendali, e ciò non può che avvenire osservando ed analizzando il sistema aziendale nel suo insieme. Pertanto, i sistemi di gestione sopra richiamati sono da considerarsi sottosistemi del sistema aziendale, compreso quello riguardante il modello ex D. Lgs. n. 231. Al termine sistema sono stati attribuiti diversi significati, quello più convincente e che meglio si attaglia all’argomento in esame definisce un sistema come «una unità complessa formata da molte parti, spesso diverse, soggette ad un piano comune o che perseguono un unico scopo»236. Due elementi caratterizzano questa definizione: il primo riguarda la diversità delle singole parti che compongono il sistema, tali parti sono evocative delle diverse aree di cui si compone la gestione aziendale; l’altro elemento evidenzia che l’insieme delle parti forma un’unità, perché le stesse sono preordinate al perseguimento di uno scopo unico, vale a dire che i sottosistemi di gestione della qualità, della sicurezza, del 231, ecc., quali sottoparti dell’unico sistema aziendale e ciascuno con le peculiarità che lo distinguono, devono indirizzarsi verso un identico scopo: l’efficacia e l’efficienza nel perseguire gli obiettivi prestabiliti dell’organizzazione237. 3.1. Sistemi e Processi Ai fini della costruzione del modello di organizzazione, gestione e controllo ex d.lgs. n. 231/01 è importante distinguere sistema e processo, il primo agevola il secondo. In tal senso, dovendo intervenire sulla struttura organizzativa, questa può essere meglio compresa osservando il suo modo di operare nei diversi 236
Cfr. R.N. Anthony (1989), Sistemi di pianificazione e controllo, ETASLIBRI, Milano, pag. 4. I due termini efficacia ed efficienza sono spesso utilizzati come sinonimi ma designano aspetti diversi della gestione: l’efficacia esprime il grado con cui gli obiettivi prestabiliti vengono raggiunti ed è rappresentata dal rapporto effetto conseguito/effetto atteso, per esempio: pur avendo adottato tutte le misure preventive si verifica lo stesso un infortunio, in questo caso l’efficacia delle misure non è stata sufficiente a prevenire l’evento, perché l’effetto conseguito non è quello atteso; l’efficacia attiene per lo più agli aspetti qualitativi della gestione. L’efficienza, invece, riguarda gli aspetti quantitativi (economici) della gestione, infatti è connessa all’impiego delle risorse, si esprime con il rapporto risultato conseguito/risorse impiegate, per esempio: a parità d’impiego delle risorse da un anno all’altro si verifica un incremento del risultato conseguito, ciò significa che c’è stato un impiego più efficiente delle stesse. Cfr. anche G. Brunetti, op. cit., pag. 11.
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ambiti delle attività poste in essere; non solo, la struttura di una organizzazione può essere modificata per adattarla a quello che sembra il processo migliore, pertanto, entro determinati limiti, per la costruzione del modello è più importante il processo e non la struttura entro la quale si svolge. Altra distinzione che serve richiamare è tra sistemi formali e sistemi informali, soprattutto perché all’interno delle aziende, specie in quelle di piccole e medie dimensioni, vige sovente il criterio “abbiamo sempre fatto così perché dovremmo cambiare?”, criterio che nella maggior parte dei casi è possibile collegare alla figura del self made man, ossia dell’imprenditore che si è costruito da solo, figura che storicamente è stata importante per lo sviluppo economico del nostro Paese e per nulla criticabile, che lo è tuttora ed anzi, per certi aspetti, se ne avverte la mancanza238. Tuttavia non deve trascurarsi che l’impresa agisce in un contesto soggetto a continue turbolenze di vario genere e specie, da gestire in modo opportuno e che una persona sola non può governare; in determinate situazioni una figura del genere rischia di soccombere, con intuibili conseguenze per l’impresa. La distinzione di cui sopra corrisponde a quella fra organizzazioni formali e informali: sebbene anche nelle seconde il modo di fare consente comunque di ottenere esiti positivi, anche i modi informali possono risultare utili e talvolta sono più immediati, per la costruzione del modello ex d. lgs. n. 231/01 non è bene seguire questa via, in altri termini, si deve operare con un sistema formalizzato ed analoga organizzazione per invocare l’esimente in caso di necessità. 3.2. Le Attività Per attività s’intende un’aggregazione di operazioni elementari, nello svolgimento della quale si combinano persone, materiali, tecnologie, attrezzature, strutture e metodologie, che, rispondendo ad un know-how (insieme di conoscenze ed esperienze tecniche) specifico, trasformano input fisici e/o informativi per ottenere output fisici e/o informativi, vale a dire, è tutto quello che fanno i diversi operatori aziendali. Identificare le attività significa descrivere tutto ciò che viene fatto all’interno dell’azienda, ossia il modo con il quale le risorse sono impiegate e i risultati che producono, lo svolgimento delle diverse attività che caratterizzano il funzionamento dell’azienda permette alla stessa di rapportarsi con l’ambiente esterno (es.: istituzioni, clienti, fornitori, concorrenti, ecc.). 238
Qui ci si riferisce alla sostanziale differenza tra “l’economia di carta”, com’è stata definita già sul finire degli anni ottanta, e che nel recente ha dato origine alla crisi finanziaria mondiale, e “l’economia reale”, quella che produce e vende beni e servizi. Nella prima i meccanismi attivati, come la storia ha dimostrato, prevedono vorticosi “giri” di carte con guadagni enormi per pochi e perdite per moltissimi, mentre nella seconda si attiva un fattore molto importante: il lavoro, componente fondamentale per la redistribuzione della ricchezza.
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Ciascuna attività, sotto il profilo organizzativo, si colloca in un’area funzionale (es.: settore, reparto, ufficio) o nell’ambito di una prestazione, insieme con le altre che vi sono state raggruppate in base alla logica della specializzazione funzionale: la produzione di un bene o l’erogazione di un servizio non comportano lo svolgimento di una sola attività ma di una serie di attività che fanno capo a più soggetti, ognuno dei quali ricopre il ruolo dettato dalla propria specializzazione, si pensi al responsabile ed ai diversi addetti di produzione, al responsabile ed ai diversi addetti dell’amministrazione, e così via. Per eseguire la mappatura delle attività una buona tecnica applicativa, usata nell’ambito del controllo di gestione, potrebbe essere quella dell’Activity-Based Costing, il controllo dei costi per attività; questa tecnica prevede la ricognizione di tutte le attività svolte nelle diverse aree aziendali e la loro classificazione in “a valore aggiunto” e “a non valore aggiunto”. Fermo restando che lo specifico argomento esula dalla trattazione in corso, si sottolinea che la richiamata tecnica può rivelarsi un ottimo ausilio per inventariare le attività aziendali correlandole ai reati-presupposto, facendo emergere quelle a rischio, per determinare, infine, i parametri dei controlli da effettuare. Inoltre, strutturare le attività in processi consente di evidenziare la dimensione orizzontale dell’organizzazione, ossia di comprendere meglio come nelle diverse attività possono essere commessi gli eventuali reati. Per ciò che attiene i rischi, questi possono essere rilevati in termini di: • rischio potenziale, inteso come eventualità che si verifichi un determinato fatto a prescindere dai controlli, o come • rischio residuale, che rappresenta il rischio potenziale valutato applicando i detti controlli, entrambi stimati per significatività e frequenza239. L’obiettivo principale della mappatura delle attività e della identificazione dei rischi correlati è di focalizzare la verifica ed il controllo sui: •
rischi residui, ossia su quella parte di rischi che permangono una volta effettuati i dovuti controlli. A fronte di ogni rischio individuato, il sistema dei controlli deve effettuare una valutazione basata su due parametri: ¾ efficacia, in relazione alla capacità del controllo di fronteggiare le implicazioni dannose del rischio; ¾ efficienza, in base alla tempestività di effettuazione del controllo, alla 239
Per significatività s’intende l’impatto di natura economico/patrimoniale che potrebbe subire l’impresa in conseguenza del verificarsi di un evento rischioso. Per frequenza, invece, s’intende il numero di volte che tale evento può verificarsi nel periodo di riferimento.
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combinazione ottimale delle risorse utilizzate e all’assenza di duplicazioni o sovrapposizioni nell’attività di controllo240. 3.3. Compiti, Procedure e Processi Un’attività è un insieme di compiti elementari. Un compito è definibile come un’azione compiuta in modo naturale congiuntamente ad altre azioni per pervenire alla realizzazione di un elemento o di una situazione. Ad esempio: la realizzazione di un bene, osservando la sola fase produttiva, non è altro che un’attività scomponibile in una serie di azioni, quali il reperimento della materia prima dal magazzino, la predisposizione della/delle macchina/e, l’avvio della/e stessa/e, il controllo delle fasi di avanzamento, ecc.. La procedura, invece, si realizza in un’attività, in tal senso è possibile strutturare i compiti (azioni) in procedure: predisporre la macchina per produrre il pezzo significa compiere una serie coordinata di predefinite azioni, ossia eseguire una procedura. Per quanto riguarda il processo, questo va considerato a livello globale nell’azienda, è trasversale all’organizzazione funzionale e alla struttura di attività. Si distingue dalla procedura per la numerosità di attività inerenti la sequenza di compiti considerati (es.: il processo produttivo), se la sequenza osservata si svolge a livello di una singola attività si tratta di una procedura (es.: predisposizione della macchina). Se la sequenza, invece, riguarda i compiti relativi a più attività si tratta di un processo. All’interno di ciascuna fase del processo (attività) si eseguono diversi compiti, nel caso di una ridefinizione degli obiettivi dell’organizzazione la procedura può trasformarsi in processo. Per esempio: se l’impresa ottiene un finanziamento pubblico a seguito di richiesta, la fase iniziale (presentazione della domanda) è la procedura per ottenere il finanziamento, la successiva gestione del rapporto con l’ente erogatore (ridefinizione degli obiettivi dell’organizzazione per effetto dell’ottenuto finanziamento) è un processo, perché comporta l’esecuzione di più attività con i connessi compiti, in relazione al fatto che i finanziamenti pubblici sono finalizzati ed ogni centesimo di euro ricevuto deve essere adeguatamente rendicontato, per dimostrare il coerente e corretto impiego. Nell’esempio riportato il controllo interno assume una forte valenza, è su questo che incombe l’onere, tra gli altri che gli competono, di verificare e di controllare nel continuo, ossia in costanza di erogazione degli importi, che le risorse finanziarie pubbliche ricevute dall’ente siano impiegate correttamente, in altri termini non deve esserci un impiego difforme dallo scopo. Il processo è altresì definibile come organizzazione razionale di persone, 240
Cfr. Gandini G. (2004), Internal auditing e gestione dei rischi nel governo aziendale, FrancoAngeli, Milano.
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Giovanni Alibrandi
materie, energie, apparecchiature e procedimenti in attività concepite per produrre uno specifico risultato finale. Le sue caratteristiche sono: • è generalmente trasversale all’organizzazione gerarchica e alle divisioni funzionali dell’azienda; • ha un unico output globale; • ha un cliente interno ed uno esterno (es.: l’area produzione ha come cliente interno l’area vendite, questa ha come cliente il compratore). L’analisi dei processi aziendali è utile, da un lato, per avviare la riorganizzazione degli stessi per adeguarli o renderli maggiormente coerenti agli obiettivi aziendali, l’uniforme adozione da parte di tutti i soggetti dell’organizzazione di comportamenti conformi alle norme è un obiettivo, dall’altro, per ottimizzare l’uso ed il consumo delle risorse; vale a dire che tale analisi assolve contemporaneamente ad una duplice funzione: individuare le aree a rischio e definire i comportamenti da adottare ai sensi e per gli effetti del d.lgs. n. 231/01; migliorare la gestione aziendale in termini di efficacia ed efficienza. L’analisi dei processi comporta che per ognuno di essi siano determinati: gli attori da coinvolgere, ossia le risorse umane che devono svolgere un ruolo chiave nel cambiamento che si vuole realizzare e quelle che possono rallentarlo; la missione da perseguire, l’obiettivo ultimo che deve essere perseguito da tutti i soggetti coinvolti nello svolgimento delle attività che costituiscono il processo di riorganizzazione; le attività e le responsabilità da assegnare agli attori coinvolti, con la descrizione delle specifiche responsabilità, nonché delle attività che devono far parte del processo in oggetto. 4. Il Sistema dei controlli interni Nelle pagine precedenti si è più volte fatto riferimento al controllo interno, quale strumento per il monitoraggio dei rischi e l’accertamento della conformità alle norme dei comportamenti dei componenti l’organizzazione, pur considerando che al termine controllo sono comunemente attribuiti significati diversi. In realtà, il controllo interno non si esaurisce nell’ambito del d.lgs. n. 231/01, diversi sono gli aspetti della gestione di cui deve occuparsi, e altrettanto diversi possono essere i soggetti esercitanti i controlli su tali aspetti. Non solo, ciascun aspetto della gestione selezionato richiede modalità di controllo specifiche, quindi, per essere efficace ed efficiente, il controllo va opportunamente articolato sotto il profilo organizzativo. Considerato che il soggetto su cui sono esercitati i detti controlli - caratterizzati da elementi tipici e finalità diverse - è unico, l’azienda, è più corretto concettualmente e praticamente esprimersi in 142
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termini di “sistema dei controlli interni” e non di “controllo interno”. Il sistema dei controlli interni si differenzia da quello dei controlli esterni, il primo si svolge internamente all’organizzazione, secondo criteri direttivi e strutture fissati dagli organi di governo aziendale, mentre il sistema dei controlli esterni si sviluppa esternamente all’impresa, il controllo è svolto da soggetti ed organismi da questa indipendenti e si fonda prevalentemente sul trasferimento d’informazioni attinenti le attività ed i risultati241, per esempio: Ispettorato del lavoro, Azienda sanitaria locale, Agenzia delle entrate, Amministrazione pubblica locale, ecc.. Nell’ambito del sistema dei controlli interni sono coinvolti sia gli organi di governo dell’impresa, sia altri soggetti, interni o esterni all’organizzazione, ai quali è affidata l’attività di controllo. Attività che si esercita mediante l’uso di procedure, la cui pluralità è condizionata: dal tipo d’impresa, inteso come schema giuridico-formale adottato per svolgere l’attività imprenditoriale; dalle caratteristiche e dal numero di rapporti intrattenuti con i diversi interlocutori sociali; dal tipo di approccio imprenditoriale, ossia dalle modalità selezionate per gestire l’impresa; dalla complessità gestionale. Quanto alle diverse componenti che lo costituiscono, nel sistema dei controlli interni è possibile identificare242: • il controllo interno in senso stretto, che è esercitato dal singolo soggetto in funzione delle responsabilità assegnategli; • il controllo di gestione, finalizzato a controllare e verificare l’efficace ed efficiente impiego delle risorse, ed in tal senso orientare i comportamenti, supportando il processo decisionale; • il risk management (controllo dei rischi), la cui funzione è identificare e controllare tutti i possibili rischi aziendali, intervenendo nella gestione degli stessi per migliorare l’operatività in relazione agli obiettivi perseguiti; • l’internal auditing (revisione interna), che valuta costantemente l’efficacia del sistema dei controlli, garantendo nel contempo il suo costante miglioramento. Ad evidenza, l’estensione del sistema dei controlli interni è correlata alle dimensioni ed alle caratteristiche dell’impresa; pertanto le succitate componenti e le corrispondenti funzioni potranno configurarsi come segue: componenti e funzioni distintamente presenti; più componenti facenti capo ad un unico soggetto, presenti solo alcune componenti; totale assenza di sistema dei controlli interni nell’accezione fin qui considerata. 241
Cfr. Salvioni D.M. (2009), “L’attività di controllo e l’efficacia aziendale”, in Salvioni D.M. (a cura di), op. cit., pag. 304. 242 Cfr. Gandini G. (2009), “I sistemi di controllo interno”, in Salvioni D.M. (a cura di), op. cit., pag. 378.
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Carlo Zamponi
La gestione integrata: l’opportunità aziendale Carlo Zamponi – Coordinatore territoriale AiFOS Area Centro Le esigenze di mercato cambiano e per stare al passo, le organizzazioni debbono operare con criteri di efficacia e di efficienza tali da contribuire all’erogazione di servizi e prodotti migliori. Il mondo corre veloce, cambiano i modelli vincenti di business e le organizzazioni spesso si trovano nella situazione di dover fare di più, meglio ed in minor tempo. Il tutto con l’aggravante che non si possono far lievitare i costi di gestione, anzi gli stessi vanno compressi e ridotti all’inverosimile. In tale contesto, la prima risposta che debbono fornire le aziende riguarda l’organizzazione del lavoro il cui obiettivo precipuo, come visto, è quello di rendere migliori e più efficienti i servizi ed i prodotti posti sul mercato. Un obiettivo che può non prescindere dall’aver ben individuato le esigenze dell’utenza a cui si rivolge e i processi aziendali che debbono essere definiti e/o resi più efficienti per poter continuare ad essere competitivi. In tutto ciò un ruolo fondamentale spetta al “management aziendale” che, ora più di prima, deve mettere in campo ogni sua dote di vision e di implementazione delle operazioni in termini di qualità e di tempo; una variabile, quest’ultima, strettamente collegata a quanto definito in ambito strategico da cui dipende gran parte del valore percepito dal mercato poiché difficilmente una pessima strategia, correlata a un’eccellente implementazione, può generare un risultato di successo. Quindi per il manager, il primo tema da affrontare è quello di definire a monte un corretto ed efficace “ambiente collaborativo” in grado di supportare adeguatamente il modello di business pianificato. 1. Imprenditore per un giorno In considerazione della premessa iniziale, ho provato ad immaginare di essere imprenditore e quindi a cercare la giusta alchimia per dover e poter gestire, nel migliore dei modi, la “ mia azienda”. Efficacia, efficienza ed appropriatezza. Pensavo che sarebbe bastato applicare inizialmente questi concetti fondamentali per far sì che la cosa camminasse e quindi si avviasse da sola. In realtà mi sono accorto, sin dalle prime battute, che la questione è molto più complessa di quanto dall’esterno un lavoratore e/o un cliente potrebbe percepire. L’essere imprenditore, verosimilmente, comporta non solo l’immediata disponibilità di denaro ma anche il possesso sia di elevate competenze professionali sia, non ultimo, di ottime capacità gestionali. Purtroppo, queste ultime non possono essere acquistate in quanto solo per alcuni e solo per i più fortunati sono poste a corredo del bagaglio cromosomico 144
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ereditato e permettono con una certa naturalezza e disinvoltura di implementare, in seno all’azienda, sistemi capaci di permeare in tutti i soggetti coinvolti una coscienza prevenzionale che generi salute e sicurezza e quindi conseguentemente, anche profitto. Per gli altri, quelli meno fortunati, non resta altro che costruirsi un percorso “step by step” o più comunemente “work in progress” capace di condurre l’azienda al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Quindi, posto che determinate doti non vengono da tutti ereditate, la soluzione al problema in assenza delle stesse è quella di non voltare le spalle, ma rimboccarsi le maniche e scegliere i percorsi migliori per l’ottenimento dell’obiettivo prefissato ovvero cercare di gestire al meglio e perché no anche con profitto “l’ azienda”. Vediamo quali sono i passi da compiere. 1.1
Analisi di mercato È inevitabile. Se l’imprenditore non conosce la domanda ovvero cosa chiede il mercato e, quindi, cosa vuole il cliente, non può pensare di creare e mettere in commercio l’offerta. L’evoluzione dei mercati e dell’economia ha comportato, in particolar modo negli ultimi decenni, la necessità di gestire le aziende in maniera strutturata, quindi organizzata ed orientata verso: • il cliente; • il senso del mercato appropriato alle proprie capacità e risorse; • l’attitudine a motivare i dipendenti verso il rispetto dei principi fondanti la gestione della qualità. Quindi diventa necessario: - essere competenti e competitivi sul mercato; - raggiungere la “soddisfazione del cliente” che è, senza ombra di dubbio, l’idea motrice di ogni azienda; - motivare i collaboratori fino all’ottenimento, per quanto possibile, del “senso di appartenenza”, volano di successo aziendale. 1.2
L’organizzazione: concetti e fondamenti Per poter ragionare sulle organizzazioni, sui loro fenomeni e sulle loro caratteristiche, occorre considerare in primo luogo quali ne siano i principali elementi costitutivi: ciò serve essenzialmente per fissare alcuni elementi di base a cui riferirsi costantemente in modo da non perdere mai di vista cosa sia una organizzazione, da dove tragga i suoi fondamenti e quindi, quali siano le principali logiche che ispirano il suo funzionamento. 145
Carlo Zamponi
Generalmente una organizzazione viene definita come un “insieme di risorse orientate al perseguimento di una finalità comune in un costante rapporto con l’ambiente di riferimento” (ISMO – 2007) , definizione che pur essendo molto semplice ed essenziale ci aiuta a fissare i fondamentali elementi costitutivi di un qualsiasi tipo di organizzazione: - la finalità primaria (mission aziendale); - l’ambiente di riferimento. Ogni organizzazione per poter sopravvivere e per raggiungere i suoi obiettivi di carattere economico, sociale e morale non può prescindere dal suo ambiente di riferimento. Anzi è fondamentale che essa tenga continuamente sotto controllo la compatibilità della propria “mission” rispetto alle condizioni ambientali in cui essa è inserita per essere pronta, se necessario a modificarla, pena la non sopravvivenza. Se a questo punto volessi applicare i concetti sin ora espressi non dovrei far altro che traslarli nella logica del miglioramento continuo, che se efficacemente trasferita a tutti gli obiettivi e processi aziendali, permetterà alla “mia azienda” di preservare una posizione di leadership all’interno del mercato d’interesse. Ma prima di fare ciò è necessario analizzare altri parametri. 1.3
L’economia aziendale Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
Come abbiamo visto il termine organizzazione ha almeno tre significati: - il processo attraverso il quale l’insieme di persone che, con il loro lavoro, partecipano direttamente allo svolgimento dell’attività dell’azienda la quale viene strutturata secondo i principi di divisione del lavoro e coordinamento, in modo da acquisire una struttura e diventare un sistema; - la funzione aziendale che svolge detto processo; - il risultato di detto processo. In questo senso il termine organizzazione può essere considerato sinonimo di azienda. Ai fini dello studio della sua organizzazione, l’azienda può essere considerata un sistema “socio – tecnico”, costituito da persone (le risorse umane) nonché l’insieme di tecnologie (mezzi strumentali e know how) che la compongono. In funzione delle opportunità fornite dall’ambiente esterno e tenendo conto dei vincoli dal medesimo posti, l’azienda definisce i propri obiettivi. Dall’interazione tra risorse umane e tecnologie deriva il comportamento aziendale, rivolto al raggiungimento degli obiettivi, che produce dei risultati. Pertanto il comportamento aziendale è funzione sia delle variabili ambientali, esterne al sistema organizzativo e relative ad aspetti socio - economici, giuridici e culturali dell’ambiente in cui esso opera, sia delle variabili di contesto, interne 146
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al sistema organizzativo. 2. Come gestire l’Azienda Come sopra accennato, organizzare l’azienda sui principi sopra indicati significa essere competitivi sul mercato riuscendo anche a raggiungere l’obiettivo primario che sarebbe quello di soddisfare il cliente (customer satisfaction). Ma organizzare un’azienda ovvero fornire alla stessa un solido assetto organizzativo non è cosa semplice. Gli ambiti operativi sui quali è necessario confrontarsi sono diversi ed affrontano singole problematiche di interesse aziendale comunque tutte convergenti verso la migliore organizzazione. Quindi il management aziendale cosa deve fare? Cercare professionisti esterni che organizzano l’azienda in modo meccanicistico e/o cercare di creare un’anima alla propria azienda? Considerando che senza un’anima non c’è nessuna forma di vita e quindi di evoluzione, l’ideale è costruirsi un percorso interno condiviso il più possibile con i propri collaboratori. Vediamo, per fasi consequenziali, la strada da percorrere. 2.1 Change Management Il “change management”, o “gestione del cambiamento”, abbraccia tutte quelle attività correlate al cambiamento organizzativo aziendale. Gestire i cambiamenti potrebbe sembrare un compito che qualsiasi manager di esperienza sarebbe in grado assolvere. Non è così, soprattutto se si tratta di un’impresa che, per necessità contingenti, si trova ad affrontare una radicale evoluzione ad esempio tecnologica e/o culturale. Tale transizione, infatti, comporterà da un lato dei rischi, dall’altro un adeguamento sostanziale delle risorse umane alle nuove esigenze. 2.2 Risk Management È quella disciplina che si occupa di classificare le varie tipologie di rischi aziendali, di determinarne la priorità e di decidere sia le strategie che le tecniche con cui affrontarli. Il rischio è una situazione complessa e di incertezza a cui l’imprenditore è costantemente esposto. Vi è però la possibilità di definirlo, qualificarlo e quantizzarlo al fine di controllarlo. Questa è la fase della valutazione dei rischi durante la quale diventa necessario individuare le attività preventive al fine di gestire i rischi prima che questi possano arrecare danni. 147
Carlo Zamponi
2.3 Risorse Umane È la componente che dà anima all’azienda. Così, come per la vita, se l’azienda non possiede una sua anima è inutile fornire alla stessa linfa in termini di risorse (economiche, strumentali, ecc.), se la componente umana che la popola non si sente come se si trovasse a casa propria l’azienda non avrebbe lunga vita. Vegeterebbe ma non vivrebbe. 2.4 Perfomance Improvement La funzione del “performance improvement” è quella di apportare le migliori risorse e le giuste conoscenze che permettano di migliorare le capacità di prestazione individuali e collettive. Per non perdere terreno e mantenere costante o migliorare il proprio posizionamento competitivo, un’azienda ha il dovere morale di prefissare degli obiettivi mirati che stimolino costantemente i propri collaboratori a raggiungere nuovi margini di miglioramento. In questo modo la risorsa umana presente in azienda diventa parte integrante dell’azienda stessa. 2.5 Comunicazione Interna Un’efficace comunicazione interna è necessaria per far conoscere e spiegare ai collaboratori gli obiettivi aziendali. Una buona comunicazione interna, infatti, è importante per: A) l’organizzazione dei processi aziendali; B) le fasi di cambiamento delle strutture organizzative (fusioni, ristrutturazioni, acquisizioni, modifiche di processi, ecc.); C) capire se tra i collaboratori regna l’armonia e l'affiatamento. 2.6 Marketing Management È la disciplina che si occupa di strategie, analisi di mercato e concorrenza, ma anche di relazioni pubbliche, eventi e comunicazione interattiva definibile come la finestra aziendale aperta sul mondo che permette all’imprenditore di verificare ed anticipare i tempi per futuri cambiamenti di strategia aziendale. 2.7 Gestione della Sicurezza L’adeguamento aziendale alle normative cogenti sulla sicurezza e tutela dei lavoratori viene vissuto dall’imprenditore poco lungimirante ancora in modo “obbligato”. Per tale atteggiamento sempre più, da parte del Legislatore, assistiamo all’emanazione di norme che incidono in modo repressivo sui comportamenti, in quanto si è visto che, in assenza della sanzione, la prevenzione stenta a decollare. 148
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È questo purtroppo un problema di “cultura”, di mancata cultura, dovuta al fatto che la gestione della sicurezza aziendale viene ancora percepita dall’imprenditore come un costo e non come un investimento. Colpa verosimile da attribuire, a mio avviso, sia alla mancata crescita culturale dei lavoratori (che andrebbe coltivata a partire dalle scuole primarie) sia dall’esercito di consulenti miopi che, chiamati in causa dall’imprenditore per apportare un valore aggiunto in azienda, spesso si sostituiscono allo stesso nella gestione aziendale facendo transitare l’idea che tutto sommato gestire un’azienda è cosa semplice. Tutelare la sicurezza e la salute dei collaboratori oltre ad essere un dovere morale che l’imprenditore possiede, come abbiamo visto è anche un ritorno economico (investimento aziendale). Infatti, il costo di un incidente sul lavoro non si esaurisce nel semplice pagamento di un indennizzo, ma prevede dei costi aggiuntivi per l’azienda, definibili quali “costi diretti e costi indiretti” e in particolare questi ultimi sono molto più difficili da quantizzare nel breve periodo ma verosimilmente più importanti e gravosi da sostenere nel medio – lungo periodo. 2.8 Qualità Aziendale La qualità è l’insieme di tutte quelle caratteristiche che danno ad un prodotto o ad un servizio la capacità di soddisfare le esigenze espresse dal cliente. È considerata dunque un elemento competitivo che le aziende debbono necessariamente sviluppare se vogliono restare nel mercato in modo serio e professionale. Sebbene nella fase iniziale di implementazione del Sistema Qualità in Azienda vi è, da parte dei collaboratori, una certa diffidenza dovuta alla necessità di operare e quindi favorire una diversa impostazione mentale, dall’altra vi è certamente, durante la fase di mantenimento, un vantaggio dovuto al fatto che tutti i processi lavorativi vengono costantemente monitorati e quindi tenuti sotto controllo. Ciò facilita la ricerca di spunti di miglioramento nonché la compartecipazione e la condivisione della “mission aziendale”. 2.9 Tutela dell’Ambiente Lo sviluppo che soddisfa i fabbisogni del presente senza comprometterne quelli delle generazioni future: questo è, o meglio, dovrebbe essere il senso della gestione ambientale. Purtroppo noi poveri comuni mortali poche volte ci soffermiamo a pensare a tutto questo. Poche volte riflettiamo sul fatto che la terra non è nostra ma l’abbiamo avuta in prestito e quindi dobbiamo preservarla e restituirla intatta alle generazioni future. Anche qui, come del resto per similitudine alla gestione della sicurezza in azienda, dopo che l’evento si è verificato corriamo ai ripari: pur sempre dopo e molte volte senza prenderne coscienza, ma ubbidienti alla legge degli uomini e 149
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non ai doveri morali. 2.10 L’organigramma Aziendale L’Azienda non è una identità astratta, ma una entità formata da persone organizzate fra loro che hanno un obiettivo comune verso il quale si dirigono. È compito dell’imprenditore saper amalgamare e far colloquiare fra loro gli individui tenendo in debita considerazione sia le capacità e le competenze di ciascuno sia, non ultimo, le differenze caratteriali. L’azienda ove al vertice siede un “capo autoritario” che non si preoccupa dei suoi collaboratori e si limita ad esercitare sugli stessi unicamente la propria autorità non ha vita lunga. È destinata al fallimento. Diversamente, se al vertice siede una figura manageriale capace di creare un “modello partecipato e condiviso”, l’Azienda in modo pressoché automatico vive di propria energia. Per fare questo è ovvio che il “manager”, oltre al possesso delle competenze sopra evidenziate, deve possedere altresì “capacità interpersonali” tali da consentirgli sia di coinvolgere i propri collaboratori nel prendere decisioni sia di conoscere le aspirazioni degli stessi al fine di svilupparne gli interessi. La chiave del successo di un “manager – leader”, quindi, è denominata “motivazione” la quale comporta il riconoscimento, il contatto umano, nonché l’assunzione di un comportamento che motivi ed ispiri i propri collaboratori e crei un ambiente di lavoro sereno, produttivo ed accogliente senza peraltro dimenticare di trattare gli stessi con rispetto e dignità. Per ottenere tutto questo si rende necessario: • Incoraggiare le idee - ovvero stimolare i collaboratori in quanto dagli stessi il manager si aspetta che arrivino contributi e proposte innovative capaci di generare nuova linfa alla produttività aziendale. Cercare il più possibile il consenso dei collaboratori attraverso la condivisione di obiettivi, modalità e tempi di realizzazione della mission aziendale; • Delegare funzioni - è certamente il modo migliore per responsabilizzare i propri collaboratori. Delegare loro dei compiti e fornire le risorse per adempierli senza essere punitivi nei loro confronti qualora commettano un errore, ma cercare insieme di trovare la soluzione all’errore stesso è il modo migliore per farli sentire parte attiva di un intero sistema; • Elogiare i collaboratori - quando i collaboratori svolgono un buon lavoro la prima cosa che necessita fare da parte del manager è quella di elogiarli e complimentarsi con loro per i risultati ottenuti: è un modo per farli sentire gratificati per l’attività svolta; • Fornire opportunità di carriera - è importante premiare i propri collaboratori mediante delle incentivazioni non solo economiche. Ad esempio rendere possibili gli avanzamenti di carriera è una opportunità 150
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che li spronerà a fare sempre di più; • Ascoltare e comunicare - dedicarsi ai propri collaboratori e ascoltarli migliora le relazioni e le performances degli stessi nonché incoraggia lo spirito di gruppo e mantiene alto il morale; tutto ciò crea fiducia, elemento che distingue il “management autocratico” da quello “motivazionale”. Vediamo ora di ottimizzare gli sforzi organizzativi sin ora profusi in modo tale si possa concretamente realizzare il sogno iniziale, ovvero trovare il modo di rendere la gestione della “azienda” quanto più efficiente, efficace ed appropriata possibile. 3. La Gestione Integrata Aziendale Come visto, la Qualità o meglio la Gestione Integrata Aziendale è oramai diventata uno dei fattori chiave capaci di generare competitività con altre aziende concorrenti: non è più possibile trascurare l’implementazione del sistema aziendale, in quanto la “Qualità Totale” rappresenta il modello di riferimento per quelle aziende che, in tutto il mondo, hanno intrapreso la strada dell’eccellenza. Il termine “Qualità” acquista dunque un significato per certi versi diverso e molto più ampio del comune sapere in quanto abbraccia, come visto, tutte le funzioni e le risorse aziendali, ovvero: qualità del prodotto e dei sistemi produttivi; qualità dell’impresa e del sistema permeato nella stessa; qualità del sistema industriale che deve interagire con la qualità degli altri settori, delle infrastrutture, dei servizi delle persone coinvolte e, “finanche” con la pubblica amministrazione. Pertanto, preso atto che vi è la necessità di transitare attraverso percorsi qualitativi in quanto, come abbiamo visto, generano benefici su molti fronti, vediamo quali sono le filosofie sottese che governano i Sistemi Qualità. 3.1 Il ciclo di Deming Deming ha enfatizzato il concetto del miglioramento continuo fino a credere che il suo perseguimento sia un dovere per il management. Una delle definizioni da lui date al termine qualità è “soddisfare i bisogni presenti e futuri del cliente”. Il miglioramento del prodotto/servizio offerto si ottiene: mediante l’analisi dei processi; esercitando su di essi il controllo; aumentandone l’uniformità e la prevedibilità; riducendone la varianza. Per migliorare in modo continuo si può applicare una metodologia 151
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sistematica di “problem solving” che è passata alla storia della qualità con il nome di ciclo PDCA o di ruota di Deming. Questa metodologia è al centro della UNI EN ISO 9001:2008 e prende il nome dalle iniziali delle 4 fasi e, più precisamente delle fasi di: P = PLAN: in cui si cerca di capire quali sono i desideri e le necessità dei clienti. Questa è anche la fase in cui si pianificano i miglioramenti da apportare ai propri processi. Si definiscono obiettivi, iniziative e risorse; D = DO: in cui si costruisce il prodotto che si pensa possa incontrare le necessità del cliente o si applica il piano di miglioramento programmato. È la fase di realizzazione; C = CHECK: in cui si fanno le opportune misure e le verifiche del caso per vedere se il miglioramento atteso si è manifestato o meno; A = ACT: in cui si consolida e si standardizza il risultato ottenuto e si fanno piani di miglioramento per il futuro. Per migliorare la qualità e soddisfare il cliente, le 4 fasi devono ruotare costantemente, ricordando l’ultimo dei 14 punti per il miglioramento di Crosby che ci chiede di “fare tutto da capo” (Fig. 1). Dott. Carlo Zamponi – Coordinatore Area Centro areacentro@alice.it
www.aifos.it info@aifos.it
MIGLIORAMENTO MIGLIORAMENTOCONTINUO CONTINUO
RIESAME RIESAMEDELLA DELLA GESTIONE GESTIONE
ESAME DELLO STATO ESAME DELLO STATO INIZIALE INIZIALE
A P
MONITORAGGIO MONITORAGGIO
C
D
POLITICA DELLA POLITICA DELLA SICUREZZA SICUREZZA
PIANIFICAZIONE PIANIFICAZIONE
IMPLEMENTAZIONE IMPLEMENTAZIONE EESENSIBILIZZAZIONE SENSIBILIZZAZIONE
Fig. 1 - La filosofia sottesa del “ miglioramento continuo” Il ciclo di Deming
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3.2 La gestione aziendale “opportunistica” Fin ora quanto sopra rappresentato non è stato fatto per gestire unicamente la Sicurezza Aziendale, la Qualità Aziendale e/o la Gestione Ambientale dell’Azienda. Spesso si associa la gestione della qualità in azienda ad un benefit fatto solo di immagine e quindi fine a se stesso e “che non interagisce e permea altri interessi aziendali” cui l’azienda quotidianamente è chiamata a confrontarsi. Il successo della “gestione della qualità totale” in azienda riguarda tutti i campi di interesse. Chi è alla guida di un’azienda o un’istituzione ha oggi un compito fondamentale che è quello di trovare soluzioni nuove per rendere la propria organizzazione più snella, flessibile e reattiva. Questo è vero in ogni settore dell’economia, così come nella pubblica amministrazione, in campo educativo, nella sanità o se vogliamo, nel Governo. In ogni campo, diventa sempre più determinante la capacità di rispondere velocemente al cambiamento, qualunque esso sia: la capacità di operare in modo flessibile è essenziale e determinante. In questo scenario, il vantaggio competitivo andrà a quelle organizzazioni che saranno capaci di capire i cambiamenti prima e meglio delle altre e di rispondere rapidamente ed anticipatamente, in “modo opportunistico”, a qualunque nuova situazione. Per ottenere un ritorno in termini di business aziendale il management, come visto, deve investire in particolar modo sui propri collaboratori nonché sulle competenze degli stessi (in quanto sono i beni più preziosi di un’azienda) trasformando i dati in conoscenza, la conoscenza in azione e l’azione in valore: in breve, un’azienda efficiente è quella in grado di sfruttare al massimo la conoscenza e le capacità dei propri collaboratori. 4.Conclusioni Il ciclo attuato (pianificazione, attuazione, controllo e riesame) pone il costante accento sul “miglioramento continuo” che per poter permeare necessita, da parte del management aziendale, di avere ben chiaro cosa è necessario fare, enunciarlo nella politica aziendale e renderlo operativo declinandolo in obiettivi dell’organizzazione. Il tutto secondo la logica della “gestione dei processi aziendali” considerando gli stessi un insieme strutturato di attività e di informazioni correlate o interagenti e dipendenti l’uno dall’altro, nei quali profili professionali diversi condividono esperienze e conoscenze che aiutano a descrivere come realizzare ciò che vogliamo fare. “Gestire” i processi significa utilizzare conoscenze, competenze, strumenti, tecniche e sistemi per pianificare, definire, visualizzare, misurare, controllare e raccogliere dati con l’obiettivo di soddisfare tutti i requisiti posti a monte (requisiti cogenti, requisiti del cliente, requisiti volontari, requisiti dell’organizzazione, ecc). 153
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Le attività che compongono un processo hanno in comune uno scopo, declinato in obiettivi, che per il singolo processo si identifica nella creazione di valore per i propri clienti mentre, per l’intero sistema, coincide con i valori e con i macro obiettivi dell’organizzazione. Ragionando in termini di “costi” viene da pensare che il percorso verso la certificazione di qualità sia una spesa fine a se stessa e come tale possa essere sostenuta solo da quelle organizzazioni che hanno una struttura in grado di farsi carico di questo onere finanziario. In realtà, come abbiamo visto, la gestione aziendale effettuata in termini di “gestione della qualità totale” può essere considerata senza ombra di dubbio e di smentita, una sorta di investimento per il futuro, poiché permette di evitare una serie di costi che spesso le organizzazioni non sono in grado di quantificare perché occulti. Il costo di un errore riscontrato dal cliente è 5 volte maggiore dello stesso individuato da parte del management aziendale nella fase di progettazione o da quello individuato da parte dei collaboratori durante la fase di realizzazione: in poche parole, prima in azienda troviamo l’errore e meno ci costa. I costi della qualità sono i costi che un’organizzazione sopporta per produrre un prodotto/servizio conforme. Gli errori non sono scontati, si possono evitare, basta tener presente che: ogni errore ha una causa; le cause si possono prevedere; gestire le attività preventive rispetto alle attività correttive è sempre più economico. Per implementare all’interno di un’organizzazione un cambiamento così forte, occorre conoscere profondamente la cultura di base dell’azienda cioè i suoi “ elementi caratterizzanti ”. Cultura deriva dal latino “colere”, coltivare. La cultura, dunque, altro non è se non la “coltivazione dell’uomo”. La cultura di un’organizzazione spesso si compone di regole non scritte, di atteggiamenti e di abitudini, di conoscenze e di responsabilità, del modo di guidare le persone e di come viene sviluppato il senso di appartenenza, dei modi formali ed informali di fare le cose, nonché sui valori e, non ultimo, sulla storia dei successi e degli insuccessi aziendali. Dopo l’abbandono del concetto di produttività associata all’uomo macchina, c’è un interesse sempre più crescente nei confronti della cultura aziendale come mezzo per rendere le realtà delle organizzazioni più competitiva e più vivibile per chi vi lavora. L’approccio culturale poi è fondamentale per il successo dell’azienda dato che influisce anche sul clima interno. È fondamentale dunque, monitorare di continuo quanto la cultura aziendale della nostra organizzazione sia coerente con le strategie di business che abbiamo deciso di fare nostre, compresa quella di implementare un Sistema di Gestione. 154
Quaderni della Sicurezza Aifos n.3, 2010
In tal senso, la Legislazione di derivazione europea ha permesso che gli adempimenti richiesti dalle normative cogenti siano meno formali e più integrati alle organizzazioni aziendali comprendendo in maniera sistematica non solo la pianificazione delle attività tecniche di adeguamento e miglioramento ma anche e soprattutto di quelle gestionali. In un contesto ormai consolidato di sviluppo della produzione incentrato sulla certificazione di qualità dove la promozione della sicurezza rappresenta un elemento cardine dell’organizzazione del lavoro, appare evidente come anche la formazione di qualità delle figure del sistema di prevenzione possa e debba costituire l’elemento primario nelle scelte e nella programmazione aziendale. Quindi l’obiettivo primario di un’azienda che voglia implementare una gestione che tende alla “efficienza, efficacia ed alla appropriatezza” di quello che fa e che produce non è quello di redigere un manuale e delle procedure per ottenere l’ambito “logo” da inserire sulla carta intestata o sulle fiancate dei mezzi aziendali, ma quello della valorizzazione dei propri collaboratori. Questo cammino deve articolarsi sia attraverso la ricerca dei processi motivanti in grado di catalizzare i fattori di coinvolgimento degli individui per la condivisione degli obiettivi sia, in particolare, nella conseguente modifica dell’organizzazione finalizzata alla realizzazione di un punto d’incontro tra gli obiettivi individuati e quelli dell’organizzazione stessa. Conviene quindi prepararsi da subito a gestire l’azienda attraverso un sistema integrato progettato in modo da ottimizzare i processi, razionalizzare la relativa documentazione ed avere altresì una visione unitaria, piuttosto che impegnarsi solo e soltanto al rispetto della forma ed alla cogenza normativa. Ed è proprio questa l’Azienda che mi piacerebbe “gestire”.
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Quaderni della Sicurezza Aifos n.2, 2010
QUADERNI DELLA SICUREZZA AiFOS Rivista trimestrale dell’Associazione Italiana Formatori della Sicurezza sul Lavoro Direttore Responsabile: Rocco Vitale Direzione e Redazione: via Branze, 45 - 25123 Brescia tel. 030.6595031 - fax. 030.6595040 Sito web: www.aifos.it - mail quaderni@aifos.it AiFOS è partner dell’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro (OSHA) di Bilbao. AiFOS figura nell’Albo regionale “Lombardia Eccellente”, costituito con Decreto n. 10678 di Regione Lombardia, per la realizzazione del progetto “Sicurezza sul lavoro e ricerca di nuove tecnologie per la prevenzione”. Registrazione e iscrizione Registrazione al n.10 del registro periodici della cancelleria del Tribunale di Brescia in data 18 febbraio 2010. Progetto grafico: Silvia Toselli Stampa: Tipolitotas, via Ponte Gandovere, 3/5 Gussago (Bs) Prezzo di questo numero: € 15,00 (spese di spedizione comprese) Versamento sul conto corrente postale n. 74894502 intestato a: AiFOS, via Branze, 45 - 25123 Brescia (Bs) Condizioni di abbonamento La rivista viene inviata gratuitamente a tutti i soci AiFOS che risultino in regola con il versamento della quota sociale annuale. Le iscrizioni ad AiFOS si effettuano esclusivamente online dal sito www.aifos.it con il versamento della quota annuale di € 100,00. Hanno collaborato: Giovanni Alibrandi, Alberto Andreani, Chiara Ballarini, Fabrizio Benedetti, Riccardo Bianconi, Elena Bonfiglio, Silvana Bresciani, Ettore Bussi, Marina Calabrese, Alberto Cerquaglia, Giuseppe Ciarcelluto, Diego de Merich, Lorenzo Fantini, Stefano Farina, Giulia Forte, Cinzia Frascheri, Maria Frassine, Rosita Garcia, Angelo Giuliani, Fabiola Leuzzi, Alessandra Ligi, Laura Manfrin, Francesca Morselli, Francesco Naviglio, Aldo Preiti, Federico Ruspolini, Stefano Sangiovanni, Nirvana Salvi, Giuseppe Spada, Silvia Toselli, Rocco Vitale, Carlo Zamponi, Paola Zanola. Precisazioni E’ vietata la riproduzione o la memorizzazione dei “QUADERNI DELLA SICUREZZA AiFOS” anche parziale e su qualsiasi supporto. La Direzione della rivista e l’Associazione Italiana Formatori della Sicurezza sul Lavoro declinano ogni responsabilità per i possibili errori o imprecisioni, nonché per eventuali danni risultanti dall’uso delle informazioni contenute nella presente pubblicazione.
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