ZEMECKIS TONI D’ANGELO ANNA PESCHKE TONI SERVILLO ALICE SOCAL GARDNER MIRÒ E I COBRA ANATOMIA DEL TURNISTA ELVIS PERKINS BEN FATTO
LA MOSTRA
A Udine per Tina la più grande esposizione mai realizzata
di SILVANA SILVESTRI
Presenza scomoda non solo perché femminile (quindi perlopiù invisibile), ma soprattutto per la sua militanza comunista, la grande fotografa Tina Modotti è stata riscoperta anche in Italia, reticente ad accogliere un personaggio dalla vita fuori dagli schemi, così impegnato politicamente. Udine, sua città natale inaugura proprio oggi la mostra più completa finora mai realizzata dal titolo «Tina Modotti, La nuova rosa. Arte storia, muova umanità» a cura di Enzo
Collotti, Marì Domini, Paolo Ferrari, Claudio Natoli. La mostra si tiene al Museo d'Arte Moderna e Contemporanea Casa Cavazzini che ha prodotto un ricco catalogo con interventi approfonditi dei curatori e di studiosi, di cui riportiamo nell’apertura alcuni stralci. La mostra è stata resa possibile soprattutto grazie al lavoro trentennale del fotografo Riccardo Toffoletti, artista che si è battuto per riportare a Udine il nome della Modotti di cui aveva realizzato la prima mostra nel ’73 e presenta la raccolta più vasta delle
foto di Tina Modotti tratte dai negativi originali arricchita da una nuova documentazione inedita come il lascito della sorella Jolanda e la documentazione proveniente da Città del Messico. Ripercorrere la sua vita è come rileggere la storia del secolo, la vita di un’artista e la storia del movimento operaio. Tina era nata a Udine nel 1896 da famiglia operaia, emigra a San Francisco, quindi a Hollywood dove sperimenta il cinema, poi in Messico sperimenta e mette a punto la sua personale visione fotografica e aderisce al
comunismo. Dopo Berlino e Mosca abbandona la fotografia per dedicarsi a tempo pieno alla militanza del Soccorso operaio e del Soccorso rosso internazionale. La mostra offre a questo punto una numerosissima documentazione del lavoro e dei viaggi che compie a Parigi, in Austria e in Spagna alla fine del ’34 dove partecipa alla campagna di solidarietà verso i detenuti politici e durante gli anni della guerra civile negli ospedali militari e nell’accoglienza dei bambini. Capa Hemingway, Machado, Ibarruri, Rafael Alberti
sono tra i suoi nuovi compagni delle Brigate internazionali. E poi ancora Usa e Messico, dove muore di infarto in taxi. La stampa reazionaria parla di delitto politico, ma Neruda mette tutti a tacere con una poesia- orazione funebre che inizia così: Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:/ forse il tuo cuore sente crescere la rosa/ di ieri, l'ultima rosa di ieri, la nuova rosa...(Tina Modotti, Hermana, no duermes, no, no duermes: /tal vez tu corazón oye crecer la rosa/de ayer. La última rosa de ayer, la nueva rosa).
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LA MOSTRA: ARTE STORIA NUOVA UMANITÀ
pag. 2: Tina Modotti a San Francisco 1919, al centro: tre fotografie di Tina Modotti: Piccolo contadino, Messico 1927, Prospetiva con fili elettrici, messico 1925, Calle, Messico 1924 a destra: Arnold Schroeder: Posa di Tina, Los Angeles 1921 e Edward Weston, Tina sulla porta di casa, Messico 1923
Alla scoperta degli inediti di ENZO COLLOTTI, MARÌ DOMINI, PAOLO FERRARI, CLAUDIO NATOLI*
Dopo una lunga assenza espositiva, la città natale di Tina Modotti le rende un nuovo omaggio, con la mostra allestita presso Casa Cavazzini Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Udine, parte integrante di un programma di ampio respiro che ha al centro la figura di Riccardo Toffoletti, prematuramente scomparso nel 2011 L’esposizione «La nuova rosa. Arte, storia, nuova umanità» intende essere anzitutto un riconoscimento per la preziosa azione che Riccardo Toffoletti ha dispiegato nel corso di più di un trentennio per la riscoperta e la valorizzazione, non solo da parte della sua città ma anche a livello internazionale, della figura e dell’opera di Tina Modotti, della sua straordinaria arte fotografica non meno che delle sue ‘scelte di vita’ e del suo impegno per una ‘nuova umanità’ e per un mondo più libero e più giusto. L’iniziativa intende anche costituire una grande opportunità affinché la città di Udine attribuisca il giusto rilievo alla figura di Tina come parte integrante del proprio patrimonio e della propria storia. Nel contempo, si propone di promuovere presso il pubblico più ampio una conoscenza storica diffusa del suo contributo artistico e del suo ricco e multiforme itinerario umano, politico e
intellettuale, coniugando il rigore scientifico con l’impegno civile rivolto anche al nostro presente e al nostro futuro. La figura e l’opera di Tina Modotti (donna, friulana, artista, impegnata e coinvolta in prima persona nelle vicende politiche e sociali del suo tempo) rappresentano, infatti, una straordinaria risorsa per la città di Udine e il suo territorio, e un punto di riferimento di grande fascino e rilievo per le giovani generazioni (...) La mostra non solo presenta al pubblico la raccolta più vasta del patrimonio già conosciuto delle foto di Tina Modotti tratte dai negativi originali, ricostruito al meglio delle possibilità qualitative e filologiche, ma è pure considerevolmente arricchita da una nuova documentazione, in parte del tutto inedita, derivante dalle più recenti acquisizioni riferibili sia alla storia familiare, sia all’arte fotografica, sia all’impegno politico e sociale di Tina Modotti. Riguardo al primo di questi ambiti, è importante
segnalare i nuovi documenti e materiali fotografici inediti provenienti dal lascito di Jolanda Modotti, sorella di Tina. Si tratta di fotografie originali di Tina e dei suoi familiari scattate da lei stessa o da altri soggetti in riferimento al contesto udinese della famiglia Saltarini Modotti, al soggiorno e alla cerchia delle amicizie e dei nuovi legami familiari negli Stati Uniti e nel Messico degli anni ’20, nonché di carteggi tra Jolanda, Vittorio Vidali e Sylvia Thompson relativi alla vita e all’opera di Tina. Riguardo al secondo ambito, viene esposta per la prima volta in Italia e in Europa la nuova documentazione fotografica di cui l’INAH di Città del Messico è entrato recentemente in possesso grazie alla donazione della dottoressa Savitri Sawhney, figlia dell’esule indiano Pandurang Khankhoje (...) Tale documentazione comprende una scelta di quattordici fotografie, scattate da Tina Modotti, rimaste in gran parte sconosciute fino a tempi recentissimi. Esse si
all’apprendistato con Edward Weston all’impegno politico sociale a partire dal 1926-27. Il progetto della mostra elaborato dal Comitato scientifico ha inteso inoltre arricchire l’esposizione delle fotografie e dei materiali relativi alla vita e all’attività artistica di Tina Modotti con un vasto repertorio iconografico e documentale in riferimento ai contesti storicamente determinati in cui si svolse la sua vita artistica e si determinarono le sue ‘scelte di vita’, agli eventi e ai luoghi che la videro testimone e protagonista. Da questo punto di
vista, sono state allestite tre diverse sezioni storiche, composte di materiale fotografico e documentale dedicate al Messico degli anni ’20, all’antifascismo internazionale e alla guerra di Spagna. È importante rilevare che le sezioni storiche non costituiscono una mera giustapposizione rispetto alla documentazione fotografica di Tina e su Tina, ma costituiscono una parte essenziale e un tratto caratterizzante di questa mostra. Si è qui in presenza di una dettagliata ricostruzione degli scenari storici e delle
riferiscono al movimento delle Scuole libere di educazione agraria e della Lega delle comunità agrarie fondate in Messico nel 1927 con il concorso determinate di esponenti del Partito Comunista Messicano, tra cui Diego Rivera e Xavier Guerrero. Queste fotografie ritraggono gli incontri e le attività delle Scuole nei villaggi di Chiconcuac, Tocuila, Ocopulco e Chipiltepec, ubicati nel distretto di Texcoco, e sono molto importanti non soltanto per la loro qualità, ma anche perché documentano la fase di passaggio dell’arte fotografica di Tina dal rigore formale legato
Si presenta a Udine non solo la raccolta più vasta del patrimonio più conosciuto delle sue foto, ma anche l’«album» di famiglia e la nuova documentazione sul suo impegno politico e sociale
TINA MODOTT
TI
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organizzazioni internazionali in cui Tina Modotti conobbe il suo apprendistato politico e poi esplicò la sua ‘scelta di vita’ della militanza a tempo pieno nel movimento comunista: il Soccorso Operaio e il Soccorso Rosso internazionali nel Messico e le grandi campagne internazionali contro il fascismo e la guerra negli anni ’30, e poi lo scenario della guerra civile spagnola, in cui ella ricoprì incarichi di alta responsabilità nel Soccorso Rosso fino al crollo finale della Repubblica. Attraverso le immagini selezionate si possono seguire in sequenza gli organismi, i luoghi, le attività, gli eventi che videro Tina presente fisicamente e attivamente partecipe. In particolare, una parte della documentazione fotografica è tratta da rare pubblicazioni dell’epoca, come le riviste «Arbeiter-Illustrierte-Zeitung», «Arbeiter-Fotograf», «New Masses», o come il celebre Braunbuch sull’incendio del Reichstag (1933) o anche l’opuscolo Avec les familles des combattents viennois de Février (1934), espo- Introduzione IX ste in originale nella mostra, in cui è ravvisabile non solo il suo contributo, ma anche, e in forma diretta, la sua impronta personale. Il catalogo è articolato in otto sezioni fotografiche, precedute da una serie di saggi storici che forniscono una ricostruzione dettagliata e aggiornata rispetto alle più recenti acquisizioni della storiografia sulla figura artistica e umana di Tina, sulla sua vita e sulle sue opere. Al fine di conferire ulteriore spessore scientifico al progetto, in stretto collegamento con l’esposizione, è stato organizzato anche un altro importante evento culturale. Promosso dall’Università degli studi di Udine, dal Comitato Tina Modotti e dai Civici Musei, in concomitanza con la mostra, si svolgerà un convegno scientifico internazionale su ‘Tina Modotti e la storia del Novecento’. Esso vedrà la partecipazione di studiosi tra i più qualificati a livello nazionale e internazionale, di storici e storiche della fotografia, nonché delle più accreditate biografe di Tina Modotti negli Stati Uniti, nel Messico, in Spagna e in Italia. * Estratto dall’introduzione al catalogo della mostra. L’esposizione è stata promossa dal Comitato Tina Modotti con il sostegno dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Udine ed è stata realizzata dai Civici Musei, con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia e con la collaborazione di prestigiose istituzioni scientifiche a livello nazionale e internazionale, come la Fondazione Istituto Gramsci di Roma e l’Istituto nazionale di antropologia e storia di Città del Messico (INAH).
INTERVENTI ESTRATTI DAL CATALOGO DELLA MOSTRA
pag 3: Tina Modotti, Diego Rivera e Frida Kahlo alla manifestazione del Primo Maggio 1929 a Città del Messico. in basso: Giovane che legge El Machete, Messico 1927 (foto Modotti)
Miti e leggende, il Messico il Soccorso rosso e il lungo oblio È ben noto come su Tina, già negli anni in cui era in vita e poi nel periodo più recente, sono circolati molti miti e molte leggende. Risale alla fine degli anni ’20 la falsa immagine di Tina come ‘Mata Hari del Comintern’, che le forze della destra messicana agitarono per screditarla di fronte ad un’opinione pubblica ipocritamente moralista e avida di morboso sensazionalismo. Allo stesso modo, non meno fuorviante è l’immagine che ha ispirato il romanzo di Pino Cacucci, Tina, uscito nel 1991, e altre consimili iniziative espositive tanto inclini alle illazioni e alle ‘voci’ diffamatorie, quanto estranee alla deontologia che è tratto irrinunciabile della ricerca storica. In entrambi i casi la figura di Tina è stata presentata come una sorta di comunista suo malgrado, prigioniera e succube, se non complice, del suo compagno Vittorio Vidali, il quale a sua volta viene dipinto come una figura cinica, spietata e tenebrosa, tipica incarnazione di quell’‘Impero del male’ a cui si vorrebbe ridurre, secondo una moda corrente, l’intera storia del movimento comunista. Bisogna allora premettere che l’adesione di Tina al comunismo fu una scelta di vita convinta e appassionata anche se, come si vedrà in seguito, tutt’altro che priva di conflitti, acritica o fideistica, in altre parole fu una scelta sua, autonoma, senza la quale la sua personalità così ricca di umanità risulterebbe del tutto incomprensibile. (...) Il Messico degli anni ’20, un paese in cui non si erano ancora spenti gli echi della rivoluzione di Pancho Villa e di Emiliano Zapata. La Rivoluzione messicana aveva rappresentato un movimento di riaffermazione dell’indipendenza nazionale nei confronti della pesantissima tutela da parte degli Stati Uniti e insieme il risveglio degli strati sociali più poveri delle campagne contro l’oligarchia latifondista, il potere dei militari e il tradizionalismo delle gerarchie ecclesiastiche. Sebbene negli anni
SULLA FOTOGRAFIA
Mi considero una fotografa niente di più Sempre, quando si usano le parole ‘arte’ o ‘artistico’ in merito al mio lavoro fotografico, ho un’impressione sgradevole, certamente determinata dal cattivo uso e dall’abuso che di questi termini si fa. Mi considero una fotografa, niente di più; e se le mie fotografie si differenziano da quello che generalmente viene prodotto in questo campo è proprio perché io cerco di produrre non arte, ma fotografie oneste, senza trucco né manipolazioni, mentre la maggioranza dei fotografi cerca ancora ‘effetti artistici’ o l’imitazione di altri mezzi di espressione e ne risulta un prodotto ibrido che non riesce a dare all’opera prodotta il carattere più importante che dovrebbe avere: la qualità fotografica. Negli ultimi anni si è discusso molto se la fotografia può o no essere opera d’arte comparabile con le altre creazioni plastiche. Naturalmente le opinioni variano fra coloro che accettano la fotografia come un mezzo espressivo pari a qualsiasi altro e coloro, i miopi, che continuano a guardare questo secolo ventesimo con gli occhi del secolo diciottesimo e che pertanto sono incapaci di accettare le manifestazioni della nostra civiltà meccanica. Ma a noi, che usiamo la camera come uno strumento, come il pittore usa il suo pennello, non interessano le opinioni contrarie; abbiamo l’approvazione di quelle persone che riconoscono il merito della fotografia nelle sue molteplici funzioni e la accettano come il
mezzo più eloquente e diretto per fissare o registrare l’epoca attuale. Poco importa sapere se la fotografia è arte oppure no: l’importante è distinguere fra buona e cattiva fotografia. E per buona fotografia si deve intendere quella che accetta tutte le limitazioni proprie della tecnica fotografica e approfitta di tutte le possibilità e di tutte le caratteristiche che il mezzo offre; mentre per cattiva fotografia si deve intendere quella che viene fatta, si potrebbe dire, con una specie di complesso di inferiorità, senza apprezzare quello che la fotografia ha di specifico, di proprio, e ricorrendo perciò a ogni sorta di imitazioni, per cui queste opere danno l’impressione che colui che le ha fatte quasi si vergogna di fare fotografia e cerca di nascondere tutto quanto c’è di fotografico nella sua opera, sovrapponendovi trucchi e falsificazioni che possono piacere soltanto a coloro che hanno un gusto perverso. La fotografia, per il fatto stesso che può essere prodotta soltanto nel presente e sulla base di ciò che oggettivamente esiste di fronte alla camera, si impone come il mezzo più soddisfacente per registrare la vita oggettiva in tutte le sue manifestazioni; da ciò il suo valore documentario, e se a questo si aggiunge la sensibilità e la comprensione del problema, e soprattutto un chiaro orientamento sull’importanza che deve assumere nel campo dello sviluppo storico, credo che il risultato meriti di occupare un posto nella rivoluzione sociale, alla quale tutti dobbiamo contribuire. «Mexican Folkways», 5, 4 (ottobre-dicembre 1929)
’20 le forze di governo avessero impresso un corso più moderato alla vita politica, tuttavia in Messico era in pieno sviluppo un Partito comunista che cercava di collegare la tradizione della Rivoluzione messicana con il messaggio della Rivoluzione d’Ottobre, e che contribuì a dare voce e dignità al movimento delle classi lavoratrici, attraverso lo sviluppo delle organizzazioni sindacali nelle miniere, nell’industria e nei servizi e soprattutto l’emancipazione dei braccianti e dei contadini poveri delle campagne attraverso la riforma agraria, l’alfabetizzazione e la diffusione della cultura tra le classi rurali. Per questi motivi il partito costituì anche il punto di riferimento per l’intero gruppo dei pittori di avanguardia e dei muralisti protagonisti del ‘Rinascimento’ artistico messicano, da Diego Rivera a José Clemente Orozco, ad Alfaro Siqueiros. E fu proprio per questa via che la giovane Tina Modotti, che si era trasferita in Messico con Weston nel 1923, trovò un concreto punto di riferimento per il suo vivissimo senso di giustizia e di condivisione verso gli oppressi e conobbe il suo primo apprendistato politico. (...) (Oltre il Soccorso Operaio internazionale) L’altra organizzazione che ebbe un ruolo centrale nella vita di Tina fu il Soccorso Rosso Internazionale (SRI), in cui ella avrebbe militato a tempo pieno per l’intero arco degli anni ’30. Per la verità il Soccorso Rosso si caratterizzò sin dall’inizio per una minore autonomia dal Partito sovietico e per un raggio d’azione più limitato. Sorto alla fine del 1922 come organizzazione di aiuto alle vittime della ‘lotta rivoluzionaria’, il Soccorso Rosso andò tuttavia estendendo la propria azione alla tutela degli emigrati politici, all’organizzazione di campagne internazionali per la liberazione dei militanti incarcerati, per il diritto di asilo e più in generale contro il ‘terrore bianco’ e il fascismo. Claudio Natoli, da «Tra arte fotografica e nuova umanità»
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GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri Ma ora la Modotti doveva affrontare un problema. Come poteva trovare un linguaggio visuale accessibile che non tradisse i suoi principi estetici? Come poteva effettivamente convogliare un messaggio politico che non fosse un ricorso all’agitprop? Ella mise alla prova una serie di strumenti e sperimentò diverse strategie. Una di queste includeva fotografie simboliche in posa fatte per, ma anche di e con gli operai messicani. Operare in una maniera direzionale voleva dire che la Modotti poteva scegliere il setting ottimale per la sua immagine, trovare il giorno e l’ora in cui la luce fosse più favorevole per la foto e prendere tempo per sperimentare con distanze e angoli. La Donna con bandiera (1928), per esempio, ritrae una militante con una bandiera ondeggiante che cammina lungo il parapetto di un tetto. Il lato del parapetto serve a completare un triangolo fortemente evidenziato creato dalla bandiera, dal palo di bambù e dalla fascia della donna. Della portatrice della bandiera, che sembra un’indigena, vediamo soprattutto il profilo della testa, lo sguardo distante e i piedi che avanzano risolutamente. Soltanto la bandiera è perfettamente a fuoco. È scura, quasi troppo
Un complesso universo di attività impossibile da sintetizzare. Eppure la mostra prova a farlo anche con un catalogo ricco di approfondimenti
grande, e fatta artigianalmente con nessuna falce e martello in vista. Donna con bandiera non è una foto sulle idee comuniste in sé, ma sulla volontà e sui fini politici. (...) Per Tina Modotti stessa, gli eventi presero il sopravvento. Nel 1928 il precedente presidente Álvaro Obregón fu rieletto nella sua carica, ma, prima che potesse assumerla, fu assassinato da un pistolero cattolico che contrapponeva le politiche di Obregón alla religione. Sei mesi più tardi, il compagno della Modotti, il leader comunista cubano, Julio Antonio Mella, fu assassinato. A seguito di un presunto sospetto riguardo al delitto, Tina fu messa agli arresti domiciliari e diffamata sui giornali di Città del Messico, ma in seguito fu rilasciata. Nello stesso anno, il 1929, ci fu una spaccatura devastante nel Partito Comunista, determinato dallo scisma tra Josef Stalin e Lev Trockij. Inoltre, quando le nuove politiche del Comintern fecero propria la ‘linea classe contro classe’, il governo messicano scatenò un’offensiva contro il partito, sopprimendo le pubblicazioni, incarcerando i militanti o costringendoli alla clandestinità. Nei primi mesi del 1930 Tina Modotti fu incarcerata per un breve periodo per un suo preteso ruolo nel tentato assassinio del presidente Pascual Ortiz Rubio, da poco eletto. In seguito, dopo sei anni e mezzo intensamente passati in Messico, fu esiliata. Il 25 febbraio Tina partì dal porto di Veracruz sulla nave da carico olandese Edam diretta a Rotterdam. Sia lei che il Messico stavano voltando pagina. Patricia Albers da «Tina Modotti e il Rinascimento messicano» La biografia di Tina ha sempre suscitato dunque interesse ma forti avversioni: figura antitetica al modello tradizionale di donna, artista, comunista, attivista nel Soccorso Rosso, donna intenzionata a trovare una propria autonoma strada e sessualmente libera, non poteva suscitare la simpatia degli ambienti conservatori, che non hanno neppure mostrato interesse per la sua attività artistica, mentre molte sue scelte personali erano, lo si è detto, antitetiche ai modelli proposti dalla cultura cattolica così come da quelli di una parte della cultura della sinistra, comunista in particolare. Da qui un lungo oblio, ancor più significativo in una regione che ha espresso una costante attenzione alla valorizzazione delle iniziative locali, anche in campo artistico, e nonostante l’esistenza di enti impegnati a studiare, diffondere e valorizzare ciò che può essere catalogato secondo il polisemico concetto di friulanità. Quanto detto permette di evidenziare l’originalità e difficoltà del lavoro svolto a partire dagli anni ’70 da Riccardo Toffoletti, che si è mosso nelle due direzioni correlate della valorizzazione della prospettiva artistica e della raccolta, ampiamente testimoniata anche dal suo archivio, di notizie e documentazione, con uno sforzo infine costante di diffusione dei risultati e di sollecitazione del dibattito nella sua terra natale, che voleva affrancare dai pericoli del provincialismo. Paolo Ferrari da «Riccardo Toffoletti e la riscoperta di Tina Modotti»
a cura di Silvana Silvestri (ultravista) Francesco Adinolfi (ultrasuoni) in redazione Roberto Peciola redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: ULTRAVISTA e ULTRASUONI fax 0668719573 tel. 0668719557 e 0668719339 redazione@ilmanifesto.it http://www.ilmanifesto.info impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso 2 20131 Milano tel. 02 4953339.2.3.4 fax 02 49533395 tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina 30.450,00 (320 x 455) Mezza pagina 16.800,00 (319 x 198) Colonna 11.085,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina 46.437,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro 4 20060 Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130
In copertina: Tina Modotti: «Donna con bandiera», 1928
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L’AUTORE
Una retrospettiva al Moma di New York celebra il regista di Ritorno al futuro, Forrest Gump, Roger Rabbit e dell’omaggio all’America delle Twin Towers
Il cinema sperimentale per tutti creato da un esploratore tecnologico di GIULIA D’AGNOLO VALLAN NEW YORK
Un autore all’avanguardia della rivoluzione digitale hollywowodiana ma il cui cinema ha la fibra dell’era classica dello studio system, uno sperimentatore irriducibile che fa blockbuster per il pubblico di massa, un umanista convinto che ricrea interamente al computer il mondo reale e persino gli attori, un artista dall’esuberanza pop ma allo stesso tempo malinconico…Robert Zemeckis è uno dei maggiori registi americani viventi. Ce lo ha ricordato, insieme all’uscita in sala (in Italia il 22 ottobre) del suo ultimo, bellissimo, lavoro, The Walk una retrospettiva, curata da Dave Kehr per il Museum of Modern Art, che si conclude questo week end. Come dice lo stesso regista di Chicago nell’intervento qui accanto, The Walk, è una summa del cinema di Zemeckis e il suo manifesto poetico più esplicito. Ma, da 1964 Allarme a New York (1978), il suo primo film e, come l’ultimo, una lettera d’amore a New York, e Used Cars (1980) l’affilata satira del capitalismo americano, passando per classici come Il mistero delle pietra verde (1980), la trilogia dei Back to the Future (1985, 1989, 1990), Forrest Gump (Oscar 1994 per il miglior film e per la migior regia) e Cast Away (2000), l’opera di Zemeckis ci ha racontato l’America degli ultimi quarant’anni con grandissima intelligenza. Non a caso, nel suo testo introduttivo alla retrospettiva, Kehr lo ha paragonato a Mark Twain. Da Who Framed Roger Rabbit?, in cui ipotizzava una permeabilità quasi totale tra il mondo reale e quello dei cartoon, Zemeckis si è mosso all’avanguardia dell’esplorazione tecnologica del cinema, settando gli standard, con Polar Express (primo film realizzato completamente in motion capture), del digitale in 3D. La sua affascinante esplorazione tra realismo fotografico e stilizzazione quasi la ricerca di una «terza via» di una razza meno umana ma non completamente artificiale. Forse la stessa per cui Jodie Foster frugava così lo spazio in Contact (1997). Naufraghi sperduti in mezzo al mare, viaggiatori nel tempo, piloti e astronauti che fanno fatica ad affrontare la vita giù a terra, il conduttore di un treno che sfreccia verso il Polo Nord, un ragazzo francese che passeggia tra le nuvole nel cielo di Manhattan ….scollamento, distanza, solitudine sono i modi della condizione esistenziale zemeckisiana, e le cifre della sua arte. Fortunatamente per noi, il suo cinema ricco di meraviglia, appassionato e generoso è di/per tutti.
Zemeckis tra le nuvole di G.D.V.
L’intervento che segue è frutto di un incontro pubblico con Robert Zemeckis, tenutosi in occasione della sua retrospettiva, al Museum of Modern Art di New York, e di un’intervista che gli ho fatto in coincidenza con l’uscita americana di The Walk. Il protagonista di «The Walk» è un altro degli eroi solitari che popolano la sua filmografia a partire da «Forrest Gump». Anche l’idea del volo è un’immagine ricorrente nel suo cinema… Ho iniziato a lavorare su The Walk dieci anni fa, ma ho deciso di fare Flight solo dopo aver finito Contact… Questo per dire che sono sicuro di come The Walk si inserisca nella psicologia dei miei film. Certo, come in Flight c’è un disastro aereo. Ma nulla di tutto ciò è fatto consciamente. Scelgo un film quando leggo una sceneggiatura che mi piace o trovo un’idea per scriverne una – due modi di lavorare che alterno, perché penso che girare copioni altrui aiuti anche la mia scrittura. Ma, in entrambi i casi, il personaggio, è il punto fondamentale del mio interesse. Non succede mai che io dica «adesso voglio fare un musical» o «adesso faccio un film di guerra». Per me si tratta sempre di trovare il personaggio e di come la storia si evolve partendo da lui. Nel caso di The Walk, la cosa che mi ha conquistato subito era la passione di Philippe. Quando ho scoperto la storia mi sembrava così incredibile... Non mi ricordavo che fosse successa - in quegli anni ero alla scuola di cinema, alla USC, quindi un po’ tagliato fuori dal mondo. Mi sono messo a studiarla, su vecchi ritagli di giornale e poi ho invitato Philippe a venire a Los Angeles. Abbiamo trascorso una lunga cena a parlare. Il gesto che aveva compiuto era sorprendente, ma ciò con cui io potevo veramente identificarmi era la passione che lo aveva portato al quel gesto. Conosco benissimo la sensazione di quando devi dare sfogo a qualunque costo a un particolare moto di espressione creativa. Il film è una combinazione di
due sensazioni opposte, meraviglia e pericolo… Era un insieme di emozioni che ho trovato insolito anch’io. E, a mio parere, una cosa che si poteva catturare solo al cinema. Non credo ci sarebbe stato altro modo di fare trovare lo spettatore esattamente dove era stato Philippe, e di ricostruire il più possibile il suo punto di vista, che è in linea di massima quello che ho cercato di fare nella sequenza dalla camminata sul filo. Si trattava di emozioni conflittuali difficilmente traducibili altrimenti. È un progetto cui ha lavorato dieci anni. Ci è voluto così tanto perché ha dovuto aspettare l’evoluzione di una tecnologia particolare? No, anche se da punto di vista tecnico il ritardo ha giocato a nostro vantaggio. Questo è stato un film difficile da fare perché è stato difficile convincere Hollywood a finanziarlo. Non è facile realizzare film inconsueti, che hanno un tono e uno stile diversi. È per quello che c’è voluto tanto. Nell’arco di questi anni, però, la tecnologia stava facendo progressi sempre più grossi. Così, ho assunto un atteggiamento filosofico: il film si sarebbe fatto
quando sarebbe arrivato il momento. In definitiva, dal punto di vista tecnico, ogni film che ho fatto prima di questo mi ha preparato a The Walk. L’unico effetto visivo che non abbiamo usato è il cartone animato, perché non ho trovato un posto dove metterlo. Tutto quello che vedete sullo schermo, delle torri e della città, è animazione 3D virtuale. Oltre a quello abbiamo usato anche un po’ di performance capture (anni fa, quando la image works di Zemeckis faceva base alla Disney, Philippe Petit aveva ricreato la sua performence perché fosse ripresa in motion capture, ndr). Per tutta la parte che precede e riguarda la camminata sul filo, l’unico set realmente costruito è, infatti, un angolo di circa 10x15 metri del tetto delle torri, che abbiamo usato prima per girare quello che succedeva sulla cima delle torri sud e poi, capovolgendo il punto di vista e modificando un po’ la scenografia, quello che succedeva in cima alla torre nord. Oltre a quello, di «reale» avevamo solo il filo e Joseph Gordon Lewitt, nei panni di Philippe. Il risultato è cosi magnificamente riuscito che devo veramente ringraziare la squadra effetti, di chi ha
disegnato le matte e del mio direttore della fotografia, Darius Wolszki. Crede che il digitale sia il maggior cambiamento nel cinema americano avvenuto da quando ha iniziato a lavorare nell’industria? Senz’altro. Ha cambiato tutto e sta continuando a farlo, in modo sempre più rapido. Ed è una cosa che mi rende molto felice perché realizzare degli effetti speciali complessi, sta diventando facile e poco costoso. I computer sono così potenti e veloci che oggi, alla USC, ci sono ragazzi della scuola di cinema che creano su desktop mondi virtuali di una qualità paragonabile a quelli realizzati dalle migliori case di effetti speciali di Hollywood. E, quando gli effetti speciali saranno accessibili a tutti i registi e a tutti i film, spero che torneremo a concentrarci sulla storia, dato che l’elemento spettacolare non sarà più una discriminante.
Ma gli effetti speciali non servono molto senza la visione di un regista. Un esempio bellissimo del suo sguardo nel film è il momento in cui Philippe inizia a camminare sul filo: la città prima è nascosta dalle nuvole e poi si apre improvvisamente sotto di lui. E’ un momento magico che lei ha realizzato con movimenti di macchina molto lungi. Una scelta controtendenza oggi. Il momento delle nuvole è stato ispirato direttamente da Philippe. Mi ha detto, infatti, che, nell’istante prima di mettere il piede sul filo, ha avuto la sensazione che, ad eccezione di quel filo, il mondo intorno a lui fosse improvvisamente scomparso. Mi è sembrata un’emozione bellissima e molto realistica. Non volevo quindi tradurla in uno schermo bianco, cosa che è probabilmente successa nell’occhio della sua mente. Così Dariusz ha suggerito di introdurre le nuvole. Per quanto riguarda lo stile della regia, qui, ci sono due principali ragioni per avere delle inquadrature lunghe. Mi sono avvicinato al film, e a quella scena in particolare, come a un balletto, un numero di danza coreografato. Pensavo che fosse importante che la macchina fosse una specie di partner di Philippe, sul filo. Quindi la sua velocità, il suo ritmo, è prima di ogni altra cosa un’estensione della performance. E c’è un altro beneficio: il montaggio veloce con il 3D non funziona. Perché l’occhio non ha tempo di afferrarlo. Infatti, in genere, un regista astuto, quando c’è una scena veloce, elimina il 3D, evitando così la distrazione del cervello che sta cercando di ricostruire lo spazio tra le due immagini stereoscopiche. Una certa lentezza è cruciale per l’uso efficace del 3D. Ha visto il documentario «Man on the Wire?» L’ho visto una volta. Mi sembra molto buono. Ma tenga conto che
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SOPRA IL NUDO CUORE Film e fotografie di Antonia Pozzi, a Milano Spazio Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2 angolo piazza Oberdan) dal 23 ottobre al 6 gennaio: una grande mostra a cura di Giovanna Calvenzi e Ludovica Pellegatta dedicata alla passione e al talento per la fotografia della grande poeta. La mostra comprende circa 450 immagini scattate dalla Pozzi stessa a Pasturo, sulle Dolomiti, e anche nei suoi viaggi e a Milano. Si presentano anche 6 film inediti in Super8 girati dalla Pozzi e una rassegna di sessanta film e documentari sugli anni ’30 e biografie di poeti e fotografi del ’900. Verrà rieditata nella collana «I Tesori del MIC», a cura della Cineteca, il bel documentario «Poesia che mi guardi» di Marina Spada, distribuito anche in libreria. Il 7 novembre, un recital di Elisabetta Vergani dedicato ad Antonia Pozzi, il 27 novembre, il concerto «Canzoni italiane fra le due guerre», dedicato alle canzoni popolari degli anni ’30.
In alto ritratto di zemeckis, al centro una scena di «The Walk», in baso da «Forrest Gamp» e «Castaway» A pag 5: da Jonas Mekas
girare in 3D. Ma oggi la conversione dà possibilità infinite, perché puoi settare i livelli della tridimensionalità, a seconda della velocità della macchina o del montaggio. Quindi hai un controllo enorme. Se giri in pellicola e in negativo quello che giri è quello che hai. Mentre, grazie alla potenza dei computer oggi puoi decidere, inquadratura per inquadrature, se l’effetto deve essere più o meno ovvio.
Toni D’Angelo compie un viaggio nel tempo alla ricerca del fervore di un’epoca e di un luogo. E ci riesce cogliendo nelle parole dei protagonisti e nel ritmo del racconto, un incanto perduto
Vi siete serviti di consulenti di psicologia? No, non abbiamo chiesto aiuto a nessuno psicologo, anche se abbiamo passato molto tempo a capire come indurre il senso di vertigine nel pubblico. Quello, si può dire, è un effetto psicologico su cui io abbiamo lavorato molto. Cosa provoca il senso di vertigine? La velocità della macchina, la scelta dell’obiettivo…Abbiamo analizzato tutte le variabili… A un certo punto c’è un’inquadratura in cui si ha veramente l’impressione di cadere. Forse è il risultato di una scelta subconscia. La mia intenzione era solo di avere almeno un’inquadratura che legasse Phlippe alle persone giù in strada. E quello era l’unico modo di farlo senza ricorrere al montaggio.
avevo cominciato questo progetto dieci anni fa, prima ancora che il documentario fosse entrato in lavorazione. E, senza togliere nulla ai suoi meriti, la cosa che il documentario non poteva rendere è la camminata, che è il culmine di tutto il film, e del processo artistico di Philippe. Non ci sono immagini filmate della camminata sul filo. In The Walk, a un certo punto, si vede uno dei ragazzi sul tetto della Torre nord che sta caricando una cinepresa sedici millimetri. È successo proprio così: stavano per cominciare a girare quando sono arrivati i poliziotti e hanno dovuto scappare. Quindi non c’è girato della performance. Ci racconta il processo con cui sviluppa un personaggio? I personaggi sono fondamentali. Il cuore del processo. Io credo che la prima cosa da fare sia definire cosa vuoi da un film. Una volta trovata quella premessa, hai un personaggio
centrale che la porta avanti, gli altri personaggi sono al suo servizio. A sua volta, il tuo personaggio, si trova davanti ad una serie di scelte – andare a destra, sinistra, sotto…- e queste sue scelte dipenderanno dalla premessa del film. Almeno, questo è il modo in cui lavoro io. È una tecnica del racconto, vecchia maniera, tradizionale, ma che secondo rimane la più efficace, almeno per quanto riguarda la narrativa occidentale. «The Walk» è un film pensato interamente per il 3D per, è stato girato piatto e poi gonfiato. Perché? Oggi girare in 3D è molto vecchia scuola. Abbiamo girato tutte le inquadrature con lo stesso obiettivo e poi lo abbiamo convertito in 3D. È più facile e più efficace. L’unica cosa che forse va ancora ripresa in 3D è l’acqua, perché è ancora molto difficile da convertire e molto costosa. Per quello, forse vale a pena di tirare fuori quelle cineprese enormi e
Il film è anche un viaggio indietro nel tempo, in un periodo della storia americana politicamente complicato. In quel senso, Petit sembra una specie di De Tocqueville moderno, che ricorda agli americani di cosa sono capaci… Una delle grandi cose di cui è capace il cinema è di guardare al passato attraverso l’obbiettivo della storia e, quindi distillandolo. È difficile, quando si fa un film sulla contemporaneità cogliere il senso di quello che sta succedendo. È la storia che ti permette di esercitare quel giudizio. E, nelle migliori circostanze, un filmmaker riesce a rendere quel passato rilevante per il presente. Cosa importante in questo film, perché molto è cambiato da allora, a partire dal fatto più ovvio che le torri sono state distrutte. Ma, in generale, a me piace pormi delle domande sul presente guardando indietro.Mi sembra interessante, per esempio, il fatto che oggi non ci siano artisti che fanno gesti come quello Philippe. Non abbiamo artisti, anarchici, sovversivi, che lavorano in quella sfera ……ad eccezione di Banksy. E quello è di per sé un dato interessante sulla psiche del momento.
FESTA DEL CINEMA DI CROMA FILMSTUDIO, MON AMOUR
Un sontuoso omaggio al mitico cineclub di SILVANA SILVESTRI
Dall’università a via degli Orti d’Alibert sette minuti con la Ford Anglia, ma forse ricordiamo male. Nel giro di pochi anni anche noi compagni di liceo eravamo entrati nel giro dell’underground e la maggior parte ne è uscita in un modo o nell’altro. Quando Annabella Miscuglio è morta sono tornati tutti al Filmstudio per la cerimonia laica e ognuno si è seduto in sala esattamente dove era abituato a farlo, i cinéphile a sinistra i contestatori a destra, gli incerti o i cineasti in fondo, ma la maggior parte strabordava in strada tanto pubblico era arrivato, proprio come quando si programmava la rassegna «Erotica underground» oppure Io sono un autarchico di Nanni Moretti. Filmstudio, mon amour Toni D’Angelo (si presenta alla Festa del Cinema Roma il 21 ottobre al Greenwich) è riuscito a cogliere, a dispetto del cambiamento dei tempi, esattamente lo spirito che ancora deve aleggiare in quelle sale più volte rimaneggiate. Lo spettatore potrà aggiungere i suoi personali ricordi, ma la fluidità del racconto, l’armonia degli intrecci raccordati con la musica di Alvin Curran ci mostra la stupefacente adesione del regista a un’epoca che era finita quando lui non era ancora nato. Il Filmstudio era nato il 2 ottobre 1967 in quella via dal nome misterioso che terminava in un ancora più misterioso giardino. Si sarebbe potuto vedere passare Dominique Sanda spingendo un passeggino indossando un visone biondo lungo fino ai piedi, Herzog al tavolo della trattoria a parlare della vita delle rane, i Taviani avevano il loro studio poche case più avanti, sopra abitava un guru del Super8. Ma ecco ancora i ricordi personali. Così procede il film, tra lo sganciamento di questa «bomba atomica su Roma» che indicò la strada ad altre esperienze simili, le cantine di teatro e di musica e le testimonianze dei tanti spettatori, ognuno con i suoi ricordi, non solo testimoni ma anche artefici de quella rivoluzione culturale (e mai ci furono persone più pacate di Annabella Miscuglio e Americo Sbardella che la misero in atto). Parlano Alfredo Leonardi, Giovanni Lussu il grafico della geniale tessera e delle locandine, Vittorio Taviani, Verdone, Bertolucci che al Filmstudio, ricorda, arrivava a piedi, Moretti e il suo
straordinario esordio, Jonas Mekas seduto in fondo con la sua valigia, Tonino De Bernardi che se fosse vissuto a Roma e non in Piemonte avrebbe certo inserito molti di quei personaggi che gravitavano al Filmstudio tra i suoi dei. Warhol e Godard. E poi naturalmente Alberto Grifi, di cui campeggiava all’ingresso (ma questo non si può vedere) come un totem il suo vidigrafo. Toni D’Angelo riesce a raccontare in questo intreccio di personaggi e opere la complessa vicenda sperimentale di Grifi e delle istituzioni che sperimentarono la repressione su di lui, e lo stesso fecero con Braibanti. E lo stesso fecero con Annabella Miscuglio che dopo aver realizzato insieme al collettivo di donne il Processo per Stupro che cambiò per sempre il senso della televisione, una svolta decisa nella storia del documentario, e del cinema femminista e con AAA offresi proseguiva sulla stessa strada, fu pesantemente censurata, una censura che dura ancora oggi (la Rai ad esempio non concede il Processo per stupro alla pubblica visione, figurarsi il vietato AAA offresi. Motivi di diritti? di processi ormai conclusi?). Armando Leone che ha raccolto il testimone di quell’epoca con pragmatica efficienza conduce il regista nell’accogliente dimora e vediamo intervenire parecchi ragazzi del Politecnico cinema di una volta perché a un certo punto, in un momento di crisi più forte degli altri il Filmstudio decise di unire le forze con quel cineclub spuntato al Flaminio (dopo lunga ricerca di sale) tutti compagni di liceo stanchi di girare nelle sale parrocchiali di Roma alla ricerca di film e desiderosi di lanciare una programmazione mai vista: Bruno Restuccia che stupì Scorsese e Coppola, Guastini il re dell’organizazione, Roberto Silvestri dotato di ultravista. Manca nel film solo Giovanni Spagnoletti che aprì la strada alla più grande novità di quegli anni, il nuovo cinema tedesco e fece arrivare il giovane Wim Wenders, Herzog, Syberberg e gli altri. Adriano Aprà che alla chiusura della rivista Cinema &Film diresse il Filmstudio e ne curò la programmazione, può ben dire che il cineclub non aveva nulla da invidiare a qualunque altro cineclub estero. Filmstudio, mon amour è cinema nel cinema, per non dimenticare. E veniva sempre anche Paolo Zappelloni, seduto davanti anche se era alto.
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TEATRO LIBRI TONI SERVILLO, OLTRE L’ATTORE
Il rischio dell’attore, non essere più in sé e non essere altro riverbero vocale, per l'ombra del gesto, che si consuma in una frazione di secondo, si spezza, si cancella appena accennato, e tuttavia resta. Marivaux, Goldoni, Molière. False confessioni, smanie per la villeggiatura, piccole e grandi ipocrisie. La regia di Opere liriche. Le esperienze di Servillo, interprete e regista, sono molteplici, ma lui ci tiene a definirsi sopratutto attore, anzi «capocomico», ancora nel senso di Eduardo. Che succede ai testi di Eduardo, messi un scena da Toni? La scena diventa nuda, essenziale. Un tavolo, qualche sedia, una porta-finestra sopraelevata di qualche gradino, che dà su un
di ALESSANDRO CAPPABIANCA
Sempre abitato non solo dal fantasma del personaggio, ma anche da molti altri fantasmi, che hanno a che fare col versante pubblico e quello privato della sua vita, con la sua formazione, le sue ossessioni, esperienze, conoscenze, letture, visioni, idee, il Corpo dell'attore non è mai «naturale» (seppure esiste qualcosa di simile «in natura»), anche nel caso in cui non indossi maschere e si presenti, in scena o sullo schermo, col suo volto supposto nudo. Ma qual è,allora, la sua verità? È quanto si chiede Roberto De Gaetano, che ha curato con Bruno Roberti il volume collettaneo Toni Servillo. Oltre l’attore (Donzelli editore - Roma, 2015). E prima di tutto: è giusto, per l'attore, porsi un'esigenza di verità? Indubbiamente si, specie per un attore come Toni Servillo, che sente profondamente la responsabilità di fare da tramite necessario tra l'autore (il testo) e il pubblico, al quale si tratta di trasmettere la sensazione che se l'attore è un grande attore, il personaggio creato dal poeta-drammaturgo è sempre, in ogni caso, più grande di lui, e occorre accostarvisi senza timidezze, ma con la necessaria umiltà. La verità del lavoro attoriale, allora, starà nel trovare il giusto equilibrio tra immedesimazione e distanza: «La dinamica attualità/virtualità – di cui ci ha parlato anche Gilles Deleuze– costituisce il centro del lavoro dell’attore, che in scena dà espressione, e dunque attualizzazione, a quell’«altro» (ombra, fantasma, sentimento, idea) che altrimenti resterebbe virtuale, rendendo «altro» se stesso. Questa virtualizzazione del sé attraverso l’attualizzazione di un «altro» immaginario definisce il rischio dell’attore, che sta tra il non essere più sé e il non essere definitivamente «altro»...» Non è un caso che Servillo si richiami tanto spesso alla lezione di Luois Jouvet, il grande attore francese, che distingueva tra le facoltà mimetiche del comédien, capace di interpretare tutti i ruoli, e le capacità selettive dell'acteur, che ne interpreta solo alcuni, senza mai abdicare del tutto a se stesso. Un attore che respinga l'abbandono al narcisismo tipico della categoria, che voglia evitare ogni intellettualismo, come pure di precipitare (si ricordi il caso Artaud) nelle spire della follia, un attore che abbia di mira un concetto non triviale di popolarità, in ogni caso deve far sentire al pubblico che si sta parlando della vita di tutti, di cose che accadono o possono accadere nell'esperienza quotidiana, in famiglia, tra parenti e amici, e al tempo stesso non fargli mai dimenticare che si è su un palcoscenico, che si sta fingendo. È la grande lezione di Eduardo, del quale Servillo non pretende di porsi come erede, ma come continuatore nella differenza. È il
Il volume collettaneo a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti (Donzelli editore) indaga l'arte dell'attore, il lavoro della regia
problema del rapporto con la tradizione per un attore/regista che proviene dalle esperienze del teatro sperimentale nel crogiolo napoletano degli anni '70 (ben rievocati da Lorenzo Mango), amico e sodale di Enzo Moscato e Mario Martone, per fare due soli nomi tra i tanti. Si rappresenta Viviani (di Zingari, in questo volume, parla Antonella Ottai), ma l'incontro col teatro di Eduardo, avvenuto addirittura, dapprima, attraverso il mezzo televisivo, è fondamentale, per una quantità di ragioni. Di lì, come scrive Bruno Roberti, viene l'attenzione per il
INTERVISTA ANNA PESCHKE
Rileggere Faust secondo l’Opera di Pechino di FABIO FRANCIONE Sessanta anni fa guardando uno spettacolo dell’Opera di Pechino, il principe dei mimi Marcel Marceau così descrisse ciò che gli si parava davanti agli occhi: «Quando nel 1955 vedemmo a Parigi per la prima volta l’Opera di Pechino fu un avvenimento sovrannaturale. Artisti giunti come da un altro pianeta e che sfidavano le leggi di gravità offrivano uno spettacolo d’incredibile magia. Il teatro del meraviglioso poneva sotto i nostri occhi fasto di costumi iridescenti, di maschere insolenti per la loro bellezza, svolgersi di arabeschi con salti e balzi eseguiti da uomini
o, meglio semidei, demoni, camaleonti. Eravamo inchiodati per la sorpresa e lo stupore». Dunque, è un teatro da iniziati, dai ruoli e dalle regole ferree e da occhi allenati ad una profonda conoscenza dell’arte cinese quello che ci si è posto innanzi? Non proprio: visto che gli attraversamenti della storia, in questo primo quindicennio del XXI secolo, stanno attuando uno svecchiamento anche nei processi artistici e produttivi della Cina e se si può dire di apertura, se non proprio di contaminazione, con la drammaturgia e la musica occidentale, soprattutto europea, in un andirivieni che non è più solo a senso unico. Come poteva essere sul finire degli anni cinquanta e per tutti gli anni sessanta del XX secolo. E quanti artisti, intellettuali, scrittori, musicisti sono stati avvistati e hanno raccontato il loro «sciacquar i panni», desiderosi di sedicenti purificazioni, in Oriente? Non in Cina, da sempre considerata un continente a sé, apparentemente immobile nella sua «fortezza intoccabile e universale». E l’Opera di Pechino in certo qual modo può essere il simbolo metaforico di una delle tante incrinature che la contemporaneità sta procurando nella gigantesca società cinese. Un piccolo pertugio l’ha aperto da qualche anno Anna Peschke, allieva del compositore Heiner Goebbels. La regista teatrale di Heidelberg («ci sono nata, ma poi ho vissuto in un piccolo villaggio di poche centinaia di persone nel Nord della Germania. Ora quando non sono
balcone, in Sabato, Domenica e Lunedì - ma la finestra dà sul vuoto, sul nulla, ne viene una luce astratta e livida, nessun paesaggio, nessuna cartolina. A questa finestra Rosa Priore, la moglie di Peppino, si affaccerà troppo tardi: il marito ha già voltato l'angolo, è già scomparso: nonostante tutto, seguiterà a coltivare i suoi rancori, la sua gelosia. I coniugi si sono chiariti, ma forse non s'è chiarito niente. Oppure, nelle Voci di dentro, nel primo atto, c'è un armadio, appoggiato alla parete nuda, e un tavolo con delle sedie: ma al tavolo, assieme ai fratelli Saporito, accanto ai componenti della famiglia Cimmaruta, siedono invisibili i morti, evocati dal monologo di Alberto - i morti, non necessariamente assassinati, o assassinati in sogno. Poi, un'architettura di sedie sospese in aria, sullo sfondo di pareti sempre nude, ma vivificate nelle trasparenze di giochi di luce. Le Voci di cui parla Bruno Roberti, le voci della tradizione partenopea, si spengono all'improvviso, nello sconsolato silenzio finale. Su alcune delle esperienze cinematografiche di Servillo, che sono poi quelle che gli hanno dato popolarità internazionale, personalmente invece ho qualche riserva. Su alcune, non su tutte. Mi sembra che certe volte,
lontana, abito a Berlino») si è trovata incinta di sette mesi a festeggiare il suo trentasettesimo compleanno – è nata il 9 ottobre lo stesso giorno di John Lennon – in mezzo alle prove e al debutto, all’Arena del Sole di Bologna e poi dal 20 al 24 ottobre al Festival Vie di Modena, della sua versione all’Opera di Pechino per la prima volta in Italia di un classico della letteratura universale come il Faust di Wolfgang Goethe
(l’adattamento di Li Meini è basato sulla prima parte, la traduzione è di Fabrizio Massini). Un’impresa da far tremare chiunque e che la regista tedesca affronta, invece, sicura di un apprendistato triennale, provato con anni di studi e con la messa in scena del Woyzeck di Georg Buchner nel 2012. Il sottotitolo «Una ricerca sul linguaggio dell’Opera di Pechino» è più di un ombrello critico: «Ho lavorato al Woyzeck con gli stessi attori protagonisti di Faust. Era uno spettacolo nato a due, poi uno degli attori si è infortunato ed è diventato un one-man-show, con l’attore Wang Lu che nel Faust è Mefistofele a ricoprire ben quattro ruoli». «Ho utilizzato poco dialogo, forse 3 minuti in più di un’ora, tutto movimento e canzoni tradizionali». Questo, insomma, è stato il primo approccio, già sperimentale, con gli attori dell’Opera di Pechino. Dal Woyzeck al Faust il passo è stato più lungo? «Avevo in mente di occuparmi di una storia universale e di farla ancora con gli attori dell’Opera di Pechino. Ci ho messo un po’ di tempo, incontrando ad Avignone Pietro Valenti, il direttore dell’Ert, tutto questo è diventato realtà. Ci sono più motivi che mi hanno indotto a pensare al Faust. Avevo scartato una nuova regia scespiriana, troppo Shakespeare si fa in Cina come anche la tragedia greca. Al contrario Faust mi è sembrato subito «senza tempo» e adatto a rispondere alle tante
nell'utilizzo delle sue capacità d'attore da parte di altri registi, prevalga troppo la fissità della maschera (vedi Il Divo, o anche La grande bellezza). Non viene tanto da rimpiangere, allora, il Servillo attore teatrale e regista di se stesso, quanto si è indotti a riflettere sul teatro come luogo privilegiato della verità del Corpo. Verità nella finzione, certo, ma verità. Non è strano che lo stesso Servillo, nell'intervento che apre questo volume, lo ribadisca. Può stupire, semmai, che dopo Louis Jouvet, dopo Eduardo, quasi suoi numi tutelari, chiuda facendo riferimento a un maestro del cinema, il giapponese Ozu, sulla cui tomba è inciso l'ideogramma Mu, il vuoto, il nulla - ma non c'è da stupirsi troppo: il nulla in fondo è ciò che, finito lo spettacolo, resta della vita, e il teatro, anche e forse sopratutto il teatro cosiddetto comico, serve a rifletterci sopra.
AL MAXXI Il libro «Toni Servillo Oltre l’attore» sarà presentato in occasione della Festa di Roma al Maxxi di Roma il 28 ottobre (ore 20.30) alla presenza dei curatori Roberto De Gaetano e Bruno Roberti, conduce Mario Sesti
domande d’oggi». In quanto a sfruttamento di archetipi Faust racchiude in sé il peggio dell’umanità, sia nei rapporti con l’alterità sia con se stesso: «Faust vive per distruggere ogni cosa che tocca, depreda per soddisfare i propri piaceri. È totalmente soggiogato dal diabolico patto firmato con Mefistofele. Ed infatti, ammazza il fratello di Margherita, e lascia che la donna, nonostante sia la madre di suo figlio, si uccida. È mia opinione che gli uomini vivano cercando il proprio benessere personale, sfruttando a più non posso qualsiasi tipo di risorse in uno sfrenato ed insensato egoismo. Faust restando solo li rappresenta». Gli altri tre attori che si alternano sulla scena: Liu Dake (Faust vecchio e giovane), Zhang Jiacham (Margherita) e Xu Mengke (Valentino, il fratello). «Con loro ho discusso e ho lavorato molto, anche nello scardinare alcune regole dell’Opera, aiutandomi anche con i caratteri della Commedia dell’Arte. Non molti sanno ad esempio che nell’Opera di Pechino la sessualità è bandita». La scena dell’amplesso tra Faust e Margherita risolta nel gioco bianco d’ombre in dissolvenza sparato sullo schermo bianco ha molto di cinematografico. «Abbiamo visto insieme il Faust di Murnau e avevo in mente alcune regie teatrali tedesche di qualche anno fa». La Peschke sorride quando si fa notare che anche il duello tra Faust e Valentino «fa molto cinema di Hong – Kong». Il film di Sokurov, invece, non gli appartiene. Mentre, la musica electro-folk, affidata ad un ensemble italo-cinese e composta da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman, asseconda con raffinata sensibilità la gestualità acrobatica dei protagonisti e allo stesso allarga ancor più quel buco di modernità che fa più vicina l’Opera di Pechino.
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GRAPHICNOVEL Un grande amico immaginario di VIRGINIA TONFONIù
Come Hobbs, il tigrotto di Bill Watterson compagno inseparabile delle avventure di Calvin, Sandro vive solo nell’immaginazione di Pallas e ha un copricapo che lo fa assomigliare vagamente a Topolino. Anche lui è altissimo, braccia cosìlunghe che Pallas non può fare a meno di farsi abbracciare e di trovarvi conforto. Pallas ha ormai 26 anni e non riesce ad emanciparsi da una figura che è rifugio sì, ma anche alibi e limite rispetto alla sua crescita intellettuale ed emotiva. Questo il nucleo della storia di Sandro di Alice Socal, pubblicato in maggio da Eris Edizioni, le cui tavole sono state in mostra fino all’11 ottobre a Treviso (Galleria Papermedia) e verranno poi esposte a Bologna in occasione del BilBolBul (19-22 novembre) al Cappello Rosso, l’albergo di Bologna dove l’autrice decorerà, com’è abitudine, anche una stanza dell’hotel che da anni collabora con il festival internazionale di fumetto. Incontriamo Alice Socal, classe 1986, nel bel chiostro dell’ex-ISRAA, dove durante il Treviso Comic Book Festival è allestita la mostra mercato. Sei un’autrice molto giovane e «Sandro» è il tuo secondo libro dopo «Luke», pubblicato da Giuda edizioni… In verità io mi sento molto anziana… Perché? Ho quasi 30 anni, ho cominciato molto presto a disegnare e altrettanto presto mi sono focalizzata sul fumetto. Ho pubblicato i primi lavori a 19 anni ed ero molto esaltata ed entusiasta rispetto al mezzo e a quello che mi permetteva di fare. Quindi mi sembra di aver trascorso parecchio tempo in questo ambito. Fare un fumetto richiede molto tempo, almeno a me. Non ho un metodo di lavoro lineare. Sento fatica nell’esprimere idee e organizzare una storia, nel risolvere una linea narrativa. Ho impulsi e impressioni che mi piacerebbe riuscire a esprimere, e rendere leggibili per il lettore, ma trovo anche molte difficoltà. Questo succede forse anche perché i temi che tratti e ai quali
bisticciano. Come nell'adolescenza ognuno ti vuole dire la sua su come bisognerebbe vivere.
ti avvicini sono molto profondi e intimi? Non è una scelta, è la direzione che mi capita di prendere sempre. Credo si tratti della mia identità: non avviene per scelta, ma per vocazione. Non sono capace di fare altre cose. Se avessi un buon approccio con la storia, potrei documentarmi e fare un fumetto su un personaggio storico, ma non credo di averne la capacità. Come ti approcci invece all’illustrazione, ci sono differenze con la narrazione? Con l’illustrazione sono più distesa e sicura di una certa professionalità. È rilassante: mi concedo interamente al disegno, non devo pensare alla costruzione del narrato, mi affido completamente all’immagine. Mi sento molto a mio agio, anche se sul lato commerciale non sono ancora riuscita a far ingranare l'attività. Quindi perché scegli invece la modalità narrativa? Mi mette in difficoltà, ma è una sfida, un'avventura, un territorio non del tutto familiare nel quale non mi muovo ancora in modo disinvolto, anche se capisco che sta funzionando. Non riesco ancora a figurarmi la storia prima di iniziare. Anche Sandro è nato disegnando i personaggi, senza sapere chi fosse questa specie di Mickey Mouse ciccione, o cosa volesse dall'altro personaggio, Pallas, che aveva già fattezze più realistiche. La prima situazione in cui li ho immaginati è stata quella del compleanno e ho identificato questo grande Mickey Mouse come la materializzazione dell'affetto puro e incondizionato.
Come hai costruito il personaggio di Sandro? Era già presente in uno studio realizzato con Stefano Ricci ad Amburgo. L'ho creato come una persona sbagliata, una presenza equivoca. Quando questo grosso Mickey Mouse ciccione entrava nella casa di un personaggio, iniziava a fare cose sgradevoli, come dipingere le pareti, prendere della frutta etc, come un elemento di disturbo, un intruso. Poi però alla fine si rilevava un amico che compieva certi gesti proprio per aiutare quella persona.
Sandro è la figura rassicurante che vuole bene al protagonista e lo accetta comunque. Di contro Pallas non si mette in discussione, non tenta mai di superare i propri limiti, rischia di non crescere Ho lasciato che i personaggi interagissero, il compleanno era l'occasione, non so cosa ci fosse prima, né dopo. Il compleanno arriva come momento ultimo prima di un brusco ritorno alla realtà, in cui Pallas incontra Frank, un ex compagno di classe ormai adulto. Una svolta narrativa importante. Sì, anche se - come al solito realtà e sogno si mischiano sempre. Non a livello stilistico; nel sogno e nel flashback usi il seppia invece che la matita normale. Esatto. La scelta della bicromia però è stata fatta insieme agli editori. Il fumetto era perlopiù pronto, ma mi hanno suggerito l'inserimento di alcune tavole di raccordo e quest'accorgimento cromatico per aiutare il lettore. Il tuo libro precedente «Luke» era disegnato con una penna Pilot. A cosa si deve questo cambiamento di tecnica? Luke è stato un lavoro più rabbioso. Avevo molto chiara sia la personalità che la dinamica tra dei personaggi. Ho disegnato le prime 10 tavole in due giorni, c'era molta urgenza. Con Sandro invece ho voluto rallentare e prendermi altri tempi, dare importanza al disegno e curarlo, rilassarmi. Tra l'altro è nato come la mia tesi di laurea, per questo è un lavoro più posato. La matita mi distende e mi fa entrare in uno stato mentale in cui riesco meglio ad immaginare chi sono davvero questi personaggi. Il chiaroscuro
attiva una riflessione più profonda, sono più immersa nel lavoro. In entrambi i tuoi libri i protagonisti sono costretti a fare i conti con l’avvento dell’età adulta. Cosa pensi dell'adolescenza e com’è raccontarla? Penso che sia un gran casino! Mi è sempre interessato ascoltare i racconti altrui e ho sempre avuto curiosità per le narrazioni che avessero a che fare con questo momento. Durante l'adolescenza cambia tutto. A me faceva molta paura l'idea del passare del tempo, di diventare adulta. È un pensiero che mi ha ossessionato a lungo. Poi s'impara a vivere, ad affrontare le cose una alla volta, e abbandonare il mondo dell'infanzia fa meno paura. In Sandro ho scelto un personaggio maschile proprio per mettere un filtro, perché non fosse troppo autobiografico, così da sentirmi più libera e meno condizionata. Spero di essere stata abbastanza delicata rispetto all'adolescenza maschile. Il dato autobiografico rimane però nelle date: la storia inizia con una tavola datata 1986, quando Pallas ha 10 anni, e si svolge intorno al suo 26 compleanno. Sì, anch'io sono nata nel 1986, quindi il protagonista ha la mia età. Non solo: ho finito il fumetto giusto prima del mio 26esimo compleanno, quasi una mania stupida, finire il fumetto in concomitanza con i miei studi e prima di compiere gli anni.
Mi sembra invece un pensiero molto adulto: a questo proposito, nei due libri l'adultità sembra una tappa obbligata, invece Sandro è in un certo senso un freno nel percorso di Pallas. Sandro è quella figura che protegge il protagonista dal dover essere nella società, dal dover avere una vita professionale, sentimentale, tutti obblighi molto impegnativi. Che poi appunto, accadono pian piano, ma quando te li immagini nell'adolescenza, spaventano un po'. Sandro è quella figura rassicurante che solleva il protagonista da questi obblighi, che gli vuole bene e che lo accetta comunque, anche nelle sue rinunce. È chiaro che di contro Pallas non si mette in discussione, non tenta mai di superare i propri limiti, continua a autogiustificarsi, ma così rischia di non crescere. C'è poi un altro personaggio immaginario nel libro, l’oca tricefale, come una coscienza a tre teste, una specie di aiutante Cerbero per Pallas? Sì, un vero «lifecoacher», una figura professionale che sostiene di poter aiutare le persone a migliorarsi, a vivere meglio le relazioni sociali, un personaggio pensato come un'oca a tre teste. Inizialmente pensavo di inserirle come un coro, un elemento ispirato alla tragedia greca, che fosse lì a commentare e a opinare sulle azioni e in questo caso sullo stile di vita del protagonista, ma poi mi è sembrato divertente che potesse essere un solo personaggio, con tre teste, tre personalità e tre voci, che talvolta sono in accordo e talvolta
Quindi in un certo senso nel libro lo hai un po’ ribaltato: è un sollievo per Pallas sapere che Sandro c'è, anche se lo limita nella sua crescita. Sì, Pallas è esasperato da tutto l'amore e l'affetto che riceve da Sandro, me non sa come sganciarsene, proprio nel momento della vita in ci si sente di dover dimostrare che si è grandi e autonomi. Hai avuto un amico immaginario? No. Ho avuto però un dio immaginario, al quale rivolgevo le mie richieste la sera, a cui provavo a indirizzarmi. Avendo ricevuto un'educazione laica, ci sono stati momenti in cui avevo bisogno di credere e di rivolgermi a qualcuno, a qualche entità superiori. Che materiali hai usato per questo fumetto? Micromina Medio morbida 0.3 0.5, non sono pittrice, e me rallegro...la bellezza del fumetto è che basta una matita e un foglio. Una semplicità che lascia il debito spazio alla complessità del contenuto: al suo secondo libro Alice Socal indaga le pieghe delle insicurezze adolescenziali attraverso il topos dell’amico immaginario, non senza problematizzare la tensione tra Sandro e il protagonista: Le pagine di Sandro sono assediate dalla tensione tra il dover diventar grandi e non sapere come fare, un'incertezza che si insinua nel disegno attraverso interessanti sovrapposizioni e sdoppiamenti, quasi cancellature di quell' ossessione immaginaria e ingombrante. Nella sua storia delicata e intima, dove voglia di libertà e paura di crescere convivono nell'uso sapiente di una semplice micromina, Socal abolisce lo spazio bianco delle griglie. «Una questione di comodità», spiega l’autrice. Una pigrizia giustificata dall'urgenza di raccontare con immediatezza e profondità la tappa ardua e talvolta dolorosa del divenire adulti.-
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ALIAS 17 OTTOBRE 2015
Fatto bene... conviene di ANNA LAGORIO
Fattobene è un archivio del design anonimo italiano. Il progetto, a cura di Anna Lagorio (giornalista) e Alex Carnevali (fotografo), nasce dal desiderio di raccontare il paese attraverso i suoi oggetti quotidiani: qui, anche una colla, un mazzo di carte o un tessuto contadino, possiedono una storia meravigliosa, che val la pena scoprire. Molti di loro, sono sopravvissuti a due guerre mondiali, ma oggi rischiano di scomparire. Per questo, Fattobene si propone di dare vita a un atlante di cultura materiale in continuo aggiornamento. A novembre, inoltre, il sito aprirà il suo shop online, un'occasione per delineare l'architettura di un tessuto industriale sommerso e rendere disponibili piccoli manufatti preziosi, capaci di incarnare un frammento di storia. www.fatto-bene.com 1. Tamarindo Erba Carlo Erba, Milano, dal 1898 Nel 1837 Carlo Erba, farmacista dalla personalità vulcanica, rileva la farmacia Brera, nel cuore di Milano, e inizia a preparare alcuni composti ottenuti con nuovi procedimenti. Fra questi, compare fin da subito il tamarindo, seguito dalla magnesia e dall'estratto di canapa. Nel '48, infatti, Carlo, insieme al medico Giovanni Polli, è il primo a sperimentare in Italia gli effetti dell'hashish, somministrando ad amici e parenti un preparato in compresse a base di «canapa, burro, zucchero, cannella, vaniglia e noce moscata». L'hashish è proposto per la terapia di cefalee, artrite e colera. Le pastiglie funzionano e Carlo decide di passare dalla produzione artigianale a quella industriale. Ben presto, si trasferisce in Piazza Duomo e lancia numerosi prodotti. Fra questi, il tamarindo riscuote particolare successo, entrando ben presto nel bar di famiglia della borghesia milanese per poi diffondersi in tutta Italia, grazie anche alla campagna pubblicitaria firmata dall'illustratore Marcello Dudovich. Negli anni '70, il marchio è stato acquisito da Cedral Tassoni che produce e imbottiglia nello stabilimento di Salò, mantenendo inalterati sia la ricetta che la confezione originale. 2. Crystal Ball Burago di Molgora
(Monza-Brianza), dal 1947 Deve essere stato l'amore per le bolle di sapone a trasformare il chimico Claudio Pasini in un inventore di prim'ordine. Nel 1947, appena due anni dopo la fine della guerra, Pasini lancia sul mercato Le bolle fatate, una pasta speciale con cui realizzare palloncini colorati che non scoppiano mai. Per Pasini, il fascino di questo gioco è enorme. Del resto, la storia delle bolle di sapone è ricca di appassionati illustri: da Isaac Newton, che le celebra nei suoi studi sull'ottica, al fisico ottocentesco Antoine Ferdinand Plateau, che crea una macchina a manovella per studiarle da vicino. Nonostante i precedenti gloriosi, però, l'idea arriva nel momento sbagliato: nel dopoguerra, infatti, la maggior parte delle famiglie italiane non può permettersi di
spendere denaro per acquistare giocattoli. Così, Pasini è costretto a mettere da parte il progetto fino al '68, quando la pasta esce sul mercato con il nome Crystal Ball. Il successo è immediato e cresce fino a raggiungere il suo apice negli anni '80. Oggi, l'azienda – gestita dal figlio Giovanni - continua a produrre negli stabilimenti di Burago di Molgora, in Brianza, creando tubetti di meraviglia capaci di cristallizzare una bolla in un eterno presente.
genovesi a scoprire questi «cilindri color oro» e a importarli in Italia per le loro virtù terapeutiche. Anche se non ci sono riscontri scientifici che ne dimostrino l'efficacia, i cannelli di zolfo continuano ad essere una cura molto popolare e si acquistano sciolti in farmacia (di solito in numero dispari, da tre a cinque per volta). L'uso è semplice: basta passare il cilindro sulla zona dolorante fino a quando si sente uno scoppiettio. Il rumore segnala che lo zolfo è entrato in azione, assorbendo l'aria in eccesso all'interno del corpo. In alcune situazioni, il cannello può rompersi bruscamente: in questo caso, si sciacquano i pezzi in acqua corrente per scaricare la tensione accumulata e si prosegue il trattamento fino a sfiammare l'intera zona. Un altro modo per utilizzare le parti frantumate è quello di pestarle e scioglierle in acqua calda per fare pediluvi e impacchi sulle zone doloranti. Curiosamente, il rimedio è praticamente sconosciuto al di fuori della Liguria.
3. Cannelli di zolfo Rimedio popolare contro torcicollo e dolori articolari, Genova, XIX secolo I cannelli di zolfo arrivano in Italia nel XIX secolo, grazie ai traffici commerciali fra Genova e il Sud America. Secondo alcune fonti, sarebbero stati i marinai
4. Carte da gioco Modiano Trieste, dal 1884 Le carte arrivano in Italia nel Medioevo: dalla Sicilia, si diffondono fino all'Europa del Nord: la passione è talmente forte che un editto di Parigi del 1377 vieta il gioco nei giorni feriali per evitare distrazioni. L'iconografia
Un archivio che racconta la storia di tanti oggetti che abbiamo avuto spesso sotto gli occhi e insieme la storia del nostro paese attraverso la creatività di ingegnosi fabbricanti
rispecchia la società del tempo: il mazzo si popola di re, regine e cavalieri, spesso usati con intento ironico. Così, la regina vale più del re per sottolinearne la debolezza. Con la rivoluzione francese, il popolo prende il sopravvento e le carte dai valori più bassi (asso e tre), diventano le più potenti del mazzo, «tagliando la testa» ai nobili. Da allora, il numero dei giochi cresce a dismisura e così l'esigenza di nuovi mazzi: fra i centri autorizzati a stampare, fa la sua comparsa Trieste. Nell'800, la città diventa una piccola Las Vegas sul mare: incantati dall'atmosfera tollerante, imprenditori e mercanti decidono di avviare nuove industrie. Sorgono così fabbriche di carte e cartine di sigarette: due generi voluttuari che crescono di pari passo. Nel 1868, anche Saul David Modiano, inizia a confezionare cartine per il tabacco: il prodotto è elegante e riscuote grande successo. Nel 1884, Saul mette queste competenze a servizio della stampa di mazzi da gioco: la grafica è strepitosa e diventa ben presto un oggetto del desiderio per i giocatori internazionali. Gli illustratori Modiano celebrano il mito del gioco, del fumo, della città di frontiera, dando vita a uno stile di vita unico. Oggi, l'azienda continua a produrre negli stabilimenti triestini, aggiudicandosi commesse importanti, come quella per la fornitura del torneo mondiale di poker: 50.000 mazzi speciali, a prova di lenti o micro-camere con cui i bari contemporanei tentano la fortuna.
5. Sapone Reseda Genova, dal 1903 Alla fine dell'800, la Riviera fra Portofino e Marsiglia è considerata la zona migliore del mondo per la produzione di saponi. I maestri saponieri si stabiliscono qui, richiamati dalla qualità delle materie prime: olio di oliva e soda naturale ottenuta dalle ceneri delle piante marine. Fra questi, il genovese Virgilio Valobra adotta il metodo in caldaia a cielo aperto di origine marsigliese: dopo la cottura, il sapone grezzo in forma di fiocchi è messo a stagionare per sei mesi. Una volta essiccati, i fiocchi sono lavorati con ingredienti preziosi, come essenze, vitamine e profumo. A questo punto, il sapone è pronto per essere tagliato manualmente in panetti e timbrato con una stampatrice che imprime il sigillo dell'azienda. Se non si utilizzano subito, le saponette devono essere conservate in un luogo asciutto. Il prolungamento della stagionatura, anziché deteriorarle, ne migliora la qualità e la durata. 6. Carta aromatica d'Eritrea Piacenza, dal 1927 La storia dei profumatori d'ambiente inizia nell'800, quando
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in Europa scoppia la moda della «terapia olfattiva»: i medici sono convinti che esista un legame fra il naso e i vari organi interni e prescrivono ai pazienti sacchetti aromatici da indossare per guarire malattie nervose, come la malinconia o l'isteria. Anche il metodo della fumigazione è all'ordine del giorno per combattere le malattie da contagio. Così, sulle navi, i marinai bruciano una miscela di aceto e polvere da sparo, mentre gli ospedali disinfettano gli ambienti con ginepro e rosmarino. Per Vittoriano Casanova, farmacista piacentino, l'occasione di creare il proprio «mix terapeutico» si presenta dopo un viaggio in Eritrea e Somalia: in Africa, studia i sistemi di purificazione di palazzi e ospedali e, al rientro, porta con sé estratti, muschi e resine sconosciuti in Italia. Il farmacista sperimenta con oltre trenta essenze, polverizzandole nel mortaio e lasciandole in infusione in alcol per alcune settimane. Quando la miscela è pronta, la versa su risme di carta assorbente, che, dopo l'asciugatura, vengono tagliate e fustellate per creare dei libretti. Ancora oggi, la Carta d'Eritrea è prodotta con lo stesso procedimento per dare vita a un «quadernetto olfattivo» dalle note legnose e fragranti. 7. Coccoina Voghera (Pavia), dal 1927 Agli inizi del '900, la colla in barattolo di vetro è molto popolare in Francia. Così, per sbaragliare la concorrenza, Aldo Balma fa di più: inventa una confezione infrangibile in alluminio, la dota di un portapennello centrale e le conferisce un aroma squisito. Per produrla, fa cuocere a bagnomaria destrina di fecola di patate e acqua. Una volta ottenuta una consistenza morbida, aggiunge glicerina ed essenza di mandorla. Dopo la cottura, versa la pasta nei barattoli e la lascia decantare per un mese. Dopo questo periodo di stagionatura, la colla è pronta per essere usata. Ma il vero colpo da maestro di Balma è quello di aver creato un profumo speciale, a base di marzapane, capace di imprimersi stabilmente nella memoria collettiva. 8. Taccuino Tassotti Bassano del Grappa (Vicenza), dal 1957 Nel 1657, Giovanni Antonio Remondini apre un negozio di tessuti a Bassano del Grappa e dedica un piccolo spazio alla vendita di immagini sacre per la protezione di case e di stalle. Le icone portafortuna sono un successo e i clienti arrivano anche da luoghi lontani pur di accaparrarsene una. Così, Remondini abbandona la tessitura per dedicarsi interamente a questa attività. In men che non si dica, apre due rotte commerciali, una verso il nord Europa, l'altra a est, fino all'Oceano Pacifico. Nel '700, il
l'impasto diventa flessibile e si presta alla creazione di nuove forme e texture: la rigatura, ad esempio, è un processo di scanalatura che permette di accogliere meglio i sughi a base di pomodoro, altro ingrediente esotico, destinato a un futuro di successo.
commercio è talmente forte che i Remondini sono conosciuti in tutto il mondo e danno lavoro a più di mille operai: oltre alle immagini sacre, producono giochi popolari, atlanti, libri illustrati, carte da parati. Oggi, l'eredità dei Remondini è stata riscoperta da Giorgio Tassotti che, dal 1957, ha iniziato a riprodurre questo incredibile patrimonio iconografico imprimendolo su taccuini, quaderni, matite. 9. Tagliere per la rigatura dello gnocco Attrezzo tradizionale, data sconosciuta Il «paese del Bengodi» è un luogo immaginario, dedicato all'abbondanza: il centro del villaggio è dominato da una grande montagna di formaggio, che gli abitanti usano per cuocere gli gnocchi. Quando sono pronti, gli gnocchi rotolano giù e i passanti sono pronti a raccoglierli, come racconta Boccaccio nel Decameron. Nel medioevo, gli gnocchi rappresentano un simbolo di opulenza: morbidi, fragranti e ben conditi, fanno parte del repertorio gastronomico delle feste. Nei ricettari, appaiono le prime indicazioni per prepararli: qui, si legge di mescolare farina o pane secco con formaggio o rosso d'uovo, fino ad ottenere un impasto da cuocere in acqua bollente (o meglio ancora in brodo di cappone, come accade nel Bengodi). A poco a poco, l'impasto accoglie ingredienti sempre nuovi
(barbabietola, zucca, zafferano) per stupire i commensali con colori straordinari. Del resto, nel Rinascimento, la tavolozza gastronomica non è meno importante di quella pittorica. Con la scoperta dell'America, gli gnocchi incontrano le patate e danno vita ad un sodalizio duraturo. Grazie alle patate, infatti,
10. Fermagli Leone Annone Brianza (Lecco), dal 1850 La storia della graffetta è costellata da personaggi bizzarri. A metà dell'800, sono molti gli inventori che lottano per accaparrarsi il brevetto del «fermaglio perfetto». L'obiettivo è riuscire a trovare il modo migliore per piegare l'acciaio e renderlo abbastanza elastico per stringere i fogli senza rovinarli. L'impresa coinvolge menti brillanti da una parte all'altra del pianeta: c'è chi costruisce nuovi macchinari, chi disegna prototipi fantasiosi, chi scrive trattati (come il filosofo inglese Herbert Spencer). Nel 1899, il norvegese Johan Vaaler (comunemente indicato come il padre della graffetta), lancia un esemplare di clip molto simile a quello in uso ancora oggi. In realtà, il disegno definitivo si deve all'inglese Gem Manufacturing che, alla fine dello stesso anno, realizza la versione di maggiore successo commerciale. Le «Gem Clip» sostituiscono ben presto gli spilli e sono accolte con entusiasmo da parte degli impiegati: gli spilli, infatti, bucavano i fogli ed essendo prodotti in ferro, tendevano ad arrugginirsi, rovinando la carta. In Italia, le nuove esigenze dei colletti bianchi sono raccolte dalla ditta Giuseppe Dell'Era: i fermagli Leone diventano simbolo dell'Italia industriale e produttiva, dando vita a un'icona di design che, dai
Nell'800, Trieste diventa una piccola Las Vegas sul mare: imprenditori e mercanti avviano nuove fabbriche di carte e cartine di sigarette grandi centri del Nord, ben presto si diffonde in tutta Europa. Ancora oggi, sulle scatole color verde oliva, campeggia il marchio originale, un leone che regge uno scudo istoriato, realizzato appositamente dal fondatore dell'azienda, Giuseppe Dell'Era. 11. Amarena Fabbri Bologna, dal 1915 Gennaro Fabbri possiede una dote rara: quella di saper leggere i suoi tempi e prevederne le esigenze. Per questo, quando nel 1905 apre una distilleria, non si limita a produrre alcolici, ma fa molto di più: li dota di un potere evocativo, capace di entrare subito nell'immaginario collettivo. Nascono così liquori come il Primo maggio, su cui campeggiano due lavoratori con falce e martello, o l'Amaro Carducci, un omaggio al poeta «fresco» di Nobel. Con il trasferimento a Bologna, l'azienda si lancia sul mercato degli sciroppi: qui, nel 1915, Rachele, la moglie di Gennaro, mette a punto una ricetta destinata ad incantare il pubblico, la Marena con frutto.
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All'inizio, lo sciroppo è venduto in damigiane, ma Gennaro decide di far produrre un contenitore speciale, affinché le sue amarene si facciano notare nei bar più eleganti del paese. Il primo modello assomiglia a un vaso da farmacia. A Gennaro non piace e così chiede al ceramista faentino Riccardo Gatti di realizzare qualcosa di unico. Gatti crea un vaso a fiori bianco e blu, rievocando le cineserie tanto di moda all'epoca. Le amarene piacciono anche ai Futuristi, che decidono di riempirle di grani di pepe e usarle come ingrediente «esplosivo» in una loro ricetta. Oggi, l'azienda, alla quarta generazione, esporta in 110 paesi, offrendo un'icona senza tempo e un pezzo di storia a portata di tutti. 12. Coperta Lanificio Leo Soveria Mannelli (Catanzaro), dal 1873 Il lanificio Leo è il più antico della Calabria. La sua storia inizia nel 1873, quando i fratelli Antonio e Giuseppe decidono di portare a Carlopoli un filatoio a 60 fusi: la reazione del paese è enorme, tanto che la macchina viene ribattezzata un «diavolo a 60 mani». Fino a quel momento, infatti, la tessitura è un affare domestico: ogni abitazione possiede un telaio e le donne filano panni come l'arbaso o la frandina, per pastori e borghesi. I Leo lavorano una lana pregiata, la gentile di Puglia, un incrocio fra una pecora autoctona e la merinos spagnola, arrivata in Calabria nel '400, con Alfonso V d'Aragona. Ma l'impianto, azionato dalla forza animale, non riesce a soddisfare le richieste crescenti: così, la famiglia si sposta alla ricerca di nuove fonti energetiche: prima a Corazzo e poi a Bianchi. Qui, usano l'acqua del fiume, ma la siccità estiva impone un arresto forzato del lavoro. Così, quando negli anni '30 sentono la notizia dell'arrivo dell'energia elettrica a Soveria Mannelli, sanno che quella è la loro destinazione. La diffusione dell'elettricità fa nascere un intero distretto della lana: in breve tempo, sorgono oltre quaranta opifici. Ma, l'ottimismo dura poco: nel dopoguerra, con la massiccia emigrazione verso nord, le aziende si svuotano e, una dopo l'altra, chiudono. Anche i Leo se la vedono brutta, ma resistono. A metà degli anni '90, con l'arrivo di Emilio Salvatore Leo, il lanificio cambia strada: Emilio decide di dar vita a un luogo aperto, collaborando con artisti, designer, musicisti internazionali. Le macchine ottocentesche diventano il cuore pulsante dell'azienda: l'usura del tempo, anziché un difetto, entra a far parte del processo produttivo. In questo modo, la «piccola anarchia meccanica» trasforma ogni tessuto in un oggetto unico, dando vita a tessuti preziosi, attraversati dai segni del tempo.
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SPORT
LIBRI
«I Cantaglorie» di Gian Paolo Ormezzano, i campioni del giornalismo sportivo
Vicende dal mondo del pugilato raccontato al contrario. Nessuna storia edificante o di riscatto sociale, solo pugni miseria e sangue degli sconfitti
di LUCA MANES
DI PASQUALE COCCIA
Il pugilato è stato per eccellenza lo sport dei proletari, di coloro che vendevano forza lavoro ai migliori offerenti. In quello sport fatto di pugni vinceva chi scaricava con più forza i pugni sulla faccia dell’avversario. Pugni e sangue hanno sempre eccitato folle di poveri e sul ring hanno rappresentato i diseredati che sognavano il riscatto sociale. Se alla violenza come spettacolo aggiungiamo la descrizione dei meccanismi di una società dove la lotta per la vita e per il successo individuale sono condizione obbligata e morale collettiva, la scelta del mondo del pugilato rappresenta un campo (il ring) centrale per ogni metafora, al positivo o al negativo, delle specificità della vita americana. Città Amara, un libro scritto da Leonard Gardner nel 1969, che l’editore Fazi ristampa meritatamente con l’ottima traduzione di Stefano Tommolini e una postfazione di Stefano Franchini, ispirò nel 1972 John Huston che da giovane aveva praticato il pugilato non professionistico, produsse Fat City con Stacy Keach, un film forte anche se in ritardo rispetto alla letteratura americana degli anni Trenta. Il romanzo scritto da Gardner, l’unico della sua vita, descrive il ring rovesciato, non più come hanno fatto in tanti luogo del riscatto e delle fortune dei grandi boxer, ma il palcoscenico che rappresenta la sconfitta dei falliti, dei perdenti, dei mediocri, che conducono una vita agra tra lavoro duro nei campi, infinite sbronze e vita nei bordelli. Stockton, grande centro agricolo a nord della California, dove Gardner è nato, sorge su un delta che rende il terreno fertile tra i più grandi d’America per produzione di frutta e verdura, noto per la manodopera impiegata e per i salari bassi, che tanto ricorda i luoghi del sud Italia da Foggia a Villa Literno, nonché centro agricolo contornato da taverne e case di tolleranza. Negli anni ’50 gli incontri di pugilato che
LIBRI «CITTÁ AMARA» DI LEONARD GARDNER, RISTAMPATO DA FAZI
I diseredati del ring, vite spericolate nell’America anni ’50 si svolgevano all’auditorium di Stockton richiamavano un folto pubblico di braccianti, le palestre descritte da Gardner, sono frequentate da personaggi mediocri che nel pugilato avevano visto l’occasione per una vita migliore ma non riescono a sfondare. Dagli allenatori ai boxer aspirano tutti al grande circuito, ma non ce la fanno
e si accontentano di vivere di illusioni, salvo svegliarsi ai primi pugni in faccia dell’ultimo sconosciuto. Gardner descrive con scrittura asciutta e chiara il mondo della boxe, che ha frequentato fin dall’adolescenza prima come spettatore con il padre ex pugile dilettante, e poi come novello pugile, fermandosi ai primi guantoni. Come pochi sa rendere quel mondo alla portata di tutti, senza eccedere nella descrizione dei personaggi, gli stessi che lavorano nei campi e frequentano il ring: « Una volta salito sul pullman il negro che aveva lavorato accanto a Tully, tutto fiero dei suoi sacchi in più, sfilò in mezzo ai colleghi gridando: fare sessanta sacchi di cipolle è un gioco da ragazzi». Billy Tully, un pugile duramente provato dalle delusioni della vita e del ring, che sembra avviato verso una fulgida carriera, a detta dei suoi allenatori, ma poi abbandona tutto per riprendere senza grandi risultati, è costretto a lavorare nei campi per guadagnarsi da vivere, ma cede alla fatica: «Tully li seguì e si ritrovò in fondo al campo con i negri. Trascinandosi di sbieco, una gamba dopo l’altra con la zappetta che si alzava e si abbassava, riprese a lavorare con il medesimo sconforto di un condannato che
avesse in mano lo strumento della sua stessa tortura. Di tutti i lavori odiosi che aveva fatto, quello era un tormento senza pari, peggio di quanto si potesse credere, e cominciò a convincersi che fosse il suo futuro, il suo lavoro definitivo, quello che aveva sempre cercato di eludere e a cui invece non sarebbe più sfuggito, ora che sua moglie l’aveva abbandonato e la sua carriera era finita per sempre». L’altro protagonista è Ernie Munger, giovane pugile di poche
speranze, legato a Billy da amicizia e solidarietà, vincerà qualche incontro, poche decine di dollari come pietosa borsa, tornerà a casa in autostop per risparmiare i soldi del viaggio, il suo lavoro non cambia non c’è la svolta sperata, continuerà a fare il mestiere di sempre l’aiutante benzinaio fino alle due di notte e l’immancabile pullman che lo porta al lavoro ogni giorno: «Ernie si alzò e quando il pullman ruggì nel deposito, lui era già il primo in fondo al corridoio. Scese veloce gli scalini di metallo e uscì nell’aria balsamica tra i fiumi di nafta, spalancò la porta dell’anticamera, dove in molti ammucchiati e sfatti, sonnecchiavano seduti sulle panche». Gardner descrive con chiarezza e spietatezza anche il mondo che circonda i pugili falliti, quello rappresentato da manager e allenatori: «Tully non aveva realizzato che la fama di essere un talento all’interno del quartiere, che aveva all’epoca, era il massimo cui poteva aspirare e non l’aveva capito neanche il suo manager, che lo mandò a combattere contro avversari di livello nazionale. Quella consapevolezza si abbattè spietatamente su di lui nel giro di cinque o sei incontri, mentre ciondolava, mancava i colpi e barcollava sul ring, con gli occhi ridotti a due fessure». Joyce Carol Oates nel libro Sulla Boxe pubblicato in Italia nel 1987 dalla casa editrice e/o definisce il lavoro di Gardner un manuale del fallimento in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini incapaci di comprendere la vita.
Al centro un quadro di George Bellows «The art of di Boxing», in basso la copertina del libro di Gardner
Nel suo ultimo libro Gian Paolo Ormezzano ci propone una galleria dei campioni del giornalismo sportivo italiano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. In realtà I Cantaglorie, storia calda e ribalda della stampa sportiva, edito dalla 66tha2nd, è anche l'occasione per una serie di spesso amare riflessioni sulla professione, assediata dal mostro internet, con il suo proliferare di blog e l'onnipresenza dei social network. Ma se il giornalismo di oggi è spesso «gaglioffo e sguaiato», nemmeno lo sport gode di buona salute. In primis il football, troppo inquinato dal virus del denaro e troppo segnato da un'omologazione diffusa per suscitare ancora gli entusiasmi di una volta. Dall'alto dei suoi oltre 60 anni di lavoro sul campo – è proprio il caso di dirlo – plasmato da Olimpiadi, Tour e Giri e infiniti altri eventi seguiti dal vivo forse nessun altro se non Ormezzano si poteva permettere di scrivere un libro così prezioso. Con il suo stile ammaliatore e un lessico così piacevolmente lontano da alcune derive del giornalismo odierno, il cronista e scrittore fieramente torinese (e torinista, ça va sans dire) suddivide la professione in tre epoche. Si parte dai cantori, Carlin, Carosio e Mura, si passa dall'erotismo di Brera, Zavoli e Palumbo per finire nella pornografia sportiva di Mosca o di Biscardi, «il Funari del calcio». La categorizzazione non è sempre così netta, tutt'altro, come ci spiega lo stesso Ormezzano, che per tratteggiarne il profilo ci regala schegge di vita vissuta con ognuno di cotanti personaggi. Non mancano gli aneddoti, come quando Gianni Minà lo invitò a una cena con Robert De Niro, Cassius Clay e Farah Fawcett e il nostro pensò fosse uno scherzo, sottovalutando le conoscenze del giornalista dall'agendina più infarcita di nomi illustri che eserciti la professione in Italia. O come quando a Candido Cannavò, dopo una delle mirabili imprese della coppia Dibiasi & Cagnotto, fu chiesto quanti tuffatori ci fossero in Italia e il giornalista statunitense che aveva posto la domanda in un primo momento credette che «due» fosse riferito a due milioni e non a due persone, «dettaglio» che il compianto ex direttore della Gazzetta dello Sport si affrettò a spiegare. Gli spunti intriganti e gustosi sono comunque molteplici. Magari ad aver oggi le differenti visioni, che a volte sfociavano in aperto contrasto, tra Ghirelli e Brera, l'uno convinto che lo sport fosse soprattutto un fenomeno sociale, l'altro che era studioso del gesto atletico elaborato da un campionario di razze. In quegli anni ruggenti i grandi scrittori come Buzzati e Arpino venivano prestati alla narrazione sportiva ed era proprio un bel leggere. Poi si è affermata in maniera definitiva la televisione, che all'alba degli anni Sessanta ha contribuito a certificare il passaggio di consegne tra ciclismo e calcio come sport più nazional popolare. Che ora nella sua bulimia non sembra avere più limiti, come ci ricorda nella Ormezzano ne I Cantaglorie.
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SINTONIE LA BUGIA BIANCA DI GIOVANNI VIRGILIO, CON FRANCESCA DI MAGGIO, FEDERICA DE BENEDITTIS. ITALIA BOSNIA 2015
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La vita di Veronika a Sarajevo è scandita da ritmi regolari e rassicuranti, università ed esercitazioni al violoncello, unico divertimento uscire con un’amica nel piccolo borgo della Serbia dove vive. Non ha vissuto le atrocità della guerra e la famiglia l’ha sempre fatta vivere in una realtà distorta, dove era bandito ogni racconto di atrocità. Ma è difficile occultare la realtà dei fatti per molto tempo. CRIMSON PEAK DI GUILLERMO DEL TORO, CON MIA WASIKOWSKA, JESSICA CHASTAIN. USA 2015
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Nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo, in una casa vittoriana nelle campagne del nord Edith (Wasikowska) è impegnata nell’obiettivo di diventare una scrittrice, combattuta tra l’amore di due persone diverse. L’esistenza della ragazza si trasforma in un incibo che ha come protagonisti un marito (Tom Hiddleston, di Avengers) e la sua stessa abitazione. DHEEPAN - UNA NUOVA VITA DI JACQUES AUDIARD, CON ANTONYTHASAN JESUTHASAN, KALIEASWARI SRINIVASAN. FRANCIA 2015
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Dheepan è un combattente per l'indipendenza dei Tamil. La guerra civile arriva fino allo Sri Lanka, Dheepan decide di fuggire con una donna e una bambina che non conosce, sperando di ottenere asilo politico in Europa. A Parigi trova un lavoro di guardiano, ma la giungla cittadina riporterà in luce il guerriero che è in lui. GAME THERAPY DI RYAN TRAVIS, CON FEDERICO CLAPIS, LORENZO OSTUNI (FAVIJ) - JONNY ORTIZ. ITALIA 2015
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Francesco (FaviJ) e Giovanni (Federico Clapis) se la cavano meglio nei video giochi che a scuola o con le ragazze. E attraverso i game stanno per raggiungere i loro sogni, un’isola davvero speciale. IO CHE AMO SOLO TE DI MARCO PONTI, CON RICCARDO SCAMARCIO, LAURA CHIATTI. ITALIA 2015
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Chiara si fidanza con Damiano, figlio di don Mimì (Michele Placido) che è stato il grande amore di sua madre. Il matrimonio ha luogo a Polignano a mare con 287 invitati. La futura suocera di Chiara è comunque all’erta. IO SONO INGRID DI STIG BJÖRKMAN. DOCUMENTARIO. SVEZIA 2015
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Il documentario nasce da un incontro tra il regista Stig Björkman e Isabella Rossellini e procede con i racconti della figlia della grande diva, con i suoi ricordi d’infanzia, filmati inediti, lettere, diari e interviste ad amici e colleghi. Si compone così anche un ritratto di donna e madre oltre che di star internazionale. MUSTANG DI DENIZ GAMZE ERGÜVEN, CON GÜNES SENSOY, DOGA ZEYNEP DOGUSLU. FRANCIA GERMANIA TURCHIA QATAR 2015
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Esordio presentato alle Giornate degli autori a Venezia: in un remoto villaggio del nord della Turchia, all'inizio della stagione estiva, Lale e le sue quattro sorelle mentre tornano a casa da scuola scherzano e giocano innocentemente con un gruppo di ragazzi. L'immoralità del loro agire scatena uno scandalo dalle
conseguenze inaspettate. La casa si trasforma gradualmente in una prigione, le pratiche domestiche subentrano agli studi e la famiglia inizia a organizzare matrimoni combinati. Le cinque sorelle, animate dallo stesso desiderio di libertà, troveranno un modo per contrastare queste dure imposizioni. SEI TUTTO QUELLO CHE VOGLIO DI DADO MARTINO, CON DADO MARTINO, PATRIZIA PUGLIESE. ITALIA 2015
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Massimo e Sheila sono fidanzati da oltre tre anni, una bella storia d'amore fatta di piccoli momenti romantici fiché Massimo che soffre di attacchi di panico e ansia, un giorno muore attraversando la strada. Un angelo viene a prelevare la sua anima, ma Massimo tergiversa per poter portare a termine una sorpresa che aveva in serbo per la fidanzata. THE WALK (3D) DI ROBERT ZEMECKIS, CON JOSEPH GORDON-LEVITT, CHARLOTTE LE BON. USA 2015
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Film biografico sul funambolo francese che il 7 agosto 1974 compie la sua più grande impresa: la traversata delle Torri Gemelle del World Trade Center su un cavo d'acciaio senza protezione. La pellicola è l'adattamento della biografia «Toccare le nuvole fra le Twin Towers. I miei ricordi di funambolo», scritto da Petit nel 2002. Terzo film su Philippe Petit, dopo il cortometraggio «High Wire» di Sandi Sissel del 1984 e il documentario «Man on Wire - Un uomo tra le Torri» di James Marsh, Oscar per il Miglior documentario nel 2009. THE WOLFPACK DI CRYSTAL MOSELLE, CON GOVINDA ANGULO, NARAYANA ANGULO. USA 2015
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Gran premio della giuria per il documentario al Sundance La vita dei sei fratelli Angulo trascorre apparentemente con serenità. In realtà sono bloccati in un appartamento del Lower East Side di Manhattan: Tutti loro non conoscono il mondo esterno se non tramite i film che guardano in modo ossessivo. Quando diventano più adulti questa vita comincia ad essere troppo rigida e i primi sogni di fuga cominciano a comparire. Infine uno di loro se ne va. VIVA LA SPOSA DI ASCANIO CELESTINI, CON ASCANIO CELESTINI, ALBA ROHRWACHER. ITALIA 2015
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Nicola passa il tempo bevendo e fingendo che stia smettendo di bere. La sua storia incrocia quella di altri personaggi come Sabatino, che truffa le assicurazioni provocando incidenti, la prostituta Anna, l’Abruzzese il carrozziere. È la storia di una bambina ucraina e di un tassista. E quella dell’americana che gira l’Italia vestita da sposa. IO E LEI DI MARIA SOLE TOGNAZZI, CON MARGHEITA BUY, SABRINA FERILLI. ITALIA 2015
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Si amano da cinqu anni, non hanno problemi economici, ma tra loro qualcosa comincia a incasinarsi e succede anche al film dopo il bel «Viaggio sola», nonostante l’idea di raccontare l’omosessualità fuori dalle convenzioni «eccentriche» diffuse. Marina (Ferilli) la sua sessualità la rivendica seppure con discrezione, Federica (Buy) ancora si imbarazza. Così il gender finisce per essere il punto di partenza e la sola ragione del racconto di questa coppia «come tante». Da qui il limite del film pieno di ammiccamenti alla commedia, e al grado zero della fisicità. (c.pi.)
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A CURA DI SILVANA SILVESTRI CON ANTONELLO CATACCHIO,GIULIA D’AGNOLO VALLAN, MARCO GIUSTI, GIONA A. NAZZAR0, CRISTINA PICCINO
IL FILM
JANIS
I PUGNI IN TASCA
DI AMY BERG. DOCUMENTARIO. USA 2015
DI MARCO BELLOCCHIO, CON LOU CASTEL, MARINO MASÈ, PAOLA PITAGORA, LILIANA GERACE, PIER LUIGI TROGLIO, GIANNI SCHICCHI, JENNY MCNEIL. ITALIA 1965
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Poderoso (ci sono voluti anni di lavoro) e magnifico questo documentario della regista losangelina su Janis Joplin scomparsa quarantacinque anni fa a ventisette anni. L’emozione non viene dalla morte precoce ma dalla voce unica, fantastica e straziante. Sconvolge regole ed equilibri, è una ragazzina degli anni cinquanta che non accetta le regole del suo tempo. La sorella e il fratello hanno messo a disposizione materiali di famiglia, lettere, diari (la voce che legge è di Gianna Nannini). (a.ca.) THE LOBSTER DI YORGOS LANTHIMOS, CON COLIN FARRELL, RACHEL WEISZ. IRLANDA GB FR GRECIA 2015
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Uno dei protagonisti del cinema greco (Alps 2011) gira per la prima volta in inglese con un cast internazionale. Il protagonista quando la moglie lo caccia di casa finisce nell’Hotel, lager di rieducazione per solitari che hanno un tempo massimo per trovare un partner, altrimenti si trasformeranno in animali. Si mostra un mondo senza scampo dove non si ammettono confusioni o sfumature. Immagini sontuose, umorismo acido e un senso del grottesco spiazzante. La cifra d’autore è la sua forza anche se rischia di scivolare nel manierismo. (c.pi.) THE MARTIAN DI RIDLEY SCOTT, CON MATT DAMON, JESSICA CHASTAIN. USA 2015
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Avventura classica sotto tutti i punti di vista con una premessa da Robinson Crusoe in cui un astronauta abbandonato su Marte deve deve ingegnarsi a sopravvivere. Matt Damon è il botanico in missione su Marte, ma una tempesta costringe il comandante (Jessica Chastain) a evacuare il pianeta e lui resta disperso. Sulla terra il direttore della Nasa annuncia la sua morte. Il botanico si ingegna a molptiplicare il cibo che resta e facendo appello ai suoi studi. Un film sull’ingegnosità americana, sul sano spirito di sopravvivenza. (g.d.v.) PADRI E FIGLIE DI GABRIELE MUCCINO, CON RUSSEL CROWE, AMANDA SEYFRED. USA ITALIA 2015
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Gabriele Muccino conferma una dimensione di confezionatore di storie generaliste sulle quali si abbatte regolarmente l'ironia dei recensori di turno. Qui tenta un racconto sentimentale autunnale che è anche romanzo di formazione ed esorcismo familiare. La sceneggiatura e i colpi di scena telefonati sono il punto debole di questo ambizioso melodramma sentimentale, ma la sicurezza con cui dirige il film è il segno di voglia di cinema. (g.a.n.) THE PROGRAM
DI STEPHEN FREARS, CON BEN FOSTER, CHRIS O'DOWD. GB 2015
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Film biografico in buona parte, intrecciato con il genere inchiesta, a partire dal libro di David Walsh, il giornalista sportivo del Sunday Times che a un certo punto si stanza di inseguire le farmacie più che le corse a tappe e segue la pista del doping per Lance Armstrong e la sua squadra, la Us Postal. Il film è basato sulla fame assoluta di vincere dell’atleta, non particolarmente tagliato per le corse a tappe, ma poiché il Tour è la corsa più famosa, lui cercherà il medico migliore per accompagnarlo verso i sette palmares. Che poi gli asaranno tolti. Del ciclismo, che è uno sport collettivo, non si vede molto, il ciclismo non è doping. (s.s.)
CATTIVISSIMA GIRL SONG FOR SOMEONE (Prima versione) Usa, 2015, 8’50”, musica: U2, regia: Vincent Haycock, fonte: MTV
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Un uomo, dopo un numero imprecisato di anni, esce di prigione e ad accoglierlo c’è la figlia adolescente, che praticamente non ha mai davvero conosciuto e con la quale c’è tutto un rapporto ancora da costruire. Sobrio e toccante videoclip, interpretato egregiamente da Woody Harrelson e da sua figlia Zoe (il rapporto familiare tra i due rende la performance ancora più autentica e intensa), giocato sulla durata: Haycock ci descrive tutte le fasi di carcerazione, con prologo ed epilogo dialogato e scandito dai suoni naturali, facendo quasi coincidere il tempo reale dell’azione con il tempo narrativo del video. L’utilizzo di piani-sequenza e travelling consentono allo spettatore di identificarsi meglio con le emozioni che prova il protagonista, rese più potenti dal brano degli U2. Del video esiste anche un’altra versione più sperimentalediretta da Matt Mahurin. SHE’S BAD Francia, 2014, 3’35”, musica: DyE feat Egyptian Lovers, regia: Dent de Cuir, fonte: Vimeo
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Lei (Aude Auffret) seduce lui (Matthieu Berthod) ma, proprio mentre stanno facendo l’amore, gli addenta con violenza l’organo genitale. Si, perché lei oltre ad essere «cattiva» come suggerisce il titolo della canzone del dj francese, è in realtà ghepardo, aquila reale, leonessa e molto altro. Detta così potrebbe sembrare che She’s Bad sia un videoclip splatter e vietato ai minori, ma la genialità di questo lavoro, firmato da Dent de Cuir, è che i corpi dell’uomo e della donna sono in realtà due sagome intarsiate con immagini alla National Geographic, ovvero composte da animali nel loro habitat naturale. L’eros (incluso il fallo di lui che entra nella bocca di lei) viene neutralizzato e trasfigurato in un mosaico visuale – dall’evidente sapore magrittiano – in cui le dinamiche della seduzione si mostrano per quello che sono realmente: puro istinto animalesco. LA DOMENICA Italia, 2013, 5’30”, musica: Giovanni Truppi, regia: Francesco Lettieri,fonte: Youtube
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È sempre difficile filmare Roma in modo originale, ma ci riesce perfettamente Francesco Lettieri che, come sfondo al singolare e volutamente «grezzo» (anche stonato) cantato-parlato di Truppi, sceglie una serie di azioni quotidiane «rubate» in interni ed esterni perlopiù a Centocelle (quartiere dove effettivamente abita il cantautore napoletano). Camera a mano e approccio documentaristico, con qualche sprazzo quasi narrativo, una assoluta naturalezza sia nel filmare che nel riproporre queste brevi sequenze, che raccontano di una domenica qualsiasi in una zona periferica della capitale e dei suoi abitanti. Un lavoro di grande poesia autenticità.
MAGICO
Sono passati cinquant’anni dalla prima uscita del celebre film, uno dei pochissimi a riflettere sulla trasformazione generazionale, sullo stato delle cose. Alla luce dei film che Bellocchio ha realizzato in seguito contiene già riflessioni storiche che superano la contingenza della trama. Bellocchio sa come far emergere alla perfezione le stratificazioni, svelarle. E già da I pugni in tasca era evidente la messa in scena del microcosmo che rifletto l’intero stato della società con le incrostazioni del passato da scardinare. Ma all’epoca il film fu come un compagno folgorante e insieme irritante, ci si rifletteva come divinità e nullità allo stesso tempo. Icone del film sono Lou Castel e Silvano Agosti (montatore con lo pseudonimo di Aurelio Mangiarotti). Oggi il film sarà nuovamente in sala da lunedì e in dvd in versione restaurata (Edizioni Cineteca di Bologna). Il restauro è stato realizzato dalla Cineteca di Bologna al laboratorio L’Immagine Ritrovata, in collaborazione con Kavac Film, con il sostegno di Giorgio Armani e curato da Marco Bellocchio. Dopo l’anteprima al Festival di Locarno, per festeggiare l’anniversario con il Pardo d’Onore a Marco Bellocchio, I pugni in tasca torna nell’ambito del progetto della Cineteca di Bologna Il Cinema Ritrovato. Al cinema, per la distribuzione dei classici restaurati in sala. (s.s.)
IL DOCUMENTARIO MEMORIE, IN VIAGGIO VERSO AUSCHWITZ DI DANILO MONTE, CON DANILO MONTE ROBERTO MONTE. ITALIA 2015
Sarà programmato anche al festival di Torino, era nella selezione del Salina doc fest ed ora esce anche in alcune sale questo strepitoso e veramente inaspettato documentario, se così lo vogliamo chiamare, terapeutico uso della telecamera, abbraccio fraterno, e serrato dialogo anche con lo spettatore incauto viaggiatore in una carrozza che straripa di sentimento e forza emotiva. Danilo Monte regala al fratello Roberto per i suoi trent’anni un viaggio ad Auschwitz. Roberto Monte non è solo appassionato di storia, ha sulle spalle una storia di droga, carcere e comunità. Il bisogno di parlare come una volta, di compiere un bel duello verbale che scarichi tutte le incomprensioni si mette in moto mediante la ripresa costante del dialogo, più spesso monologo, durante il viaggio. I ricordi del passato in famiglia appaiono con i filmini familiari, dal sorriso aperto alla disfatta, alla ripresa non ancora compiuta. Un pericoloso oggetto che ha bisogno per essere visto di altrettanto fervore e coraggio che è occorso per realizzarlo. (s.s.)
L’AFRICA OTTOBRE AFRICANO ROMA, MILANO, TORINO, REGGIO EMILIA
La manifestazione nazionale promossa da Le Reseau per promuovere la cultura africana si tiene nei prossimi giorni in diverse città: a Roma giovedì 22 Tavola Rotonda (ore 18.30) : «Essere africano, pensare in francese, scrivere in Italiano» con Cheikh Tidiane Gaye (Senegal), Mohamed Malih (Marocco), Diakhaté Mariama (Senegal), Karim Metref (Algeria), Felix Adado (Togo) all’Institut Français Centre Saint-Louis, Largo Giuseppe Toniolo, 22. Sempre all’istituto francese alle ore 21 concerto «Ensemble Couleurs du monde» (Cameroun/R.D.Congo). A Milano Il 23 all’università cattolica Sacro Cuore si tiene (ore 10) «ModAfricana e globalizzazione: saperi ricomposti» tavola rotonda sulla nuova moda italo-africana in collaborazione con il Centro per lo Studio della Moda e della Produzione Culturale (ModaCult). A Torino stasera alle ore 21in piazza Crispi concerto Artisti Stella Nera & Baba Commandant (Burkina Faso). Oggi a Reggio Emilia dalle 17 alle 20: « Chi va, chi resta e chi torna…» storie di vite, progetti, cooperazione, studio, impegno per lo sviluppo, filmati e testimonianze con intermezzi musicali in Sala Cisl via Turri, 69
RADIO BEAT CONNECTION RADIO UNO, ORE 14.30 Si intitola Beat Connection, il nuovo programma di Francesco Adinolfi in onda su Rai Radio Uno dal lunedì al venerdì dalle 14.30. Esordio: lunedì 19 ottobre. L'intento è di raccontare eventi artistici e musicali che hanno inciso in ambito culturale e sociale, intrecciando fatti noti e meno noti, mescolando l'inatteso con il prevedibile, evidenziando dettagli e retroscena che aiutano a rendere lo spirito di un personaggio e di un'epoca. Ingrediente fondamentale di questo percorso, in pieno stile docuradio, è la musica. Dagli anni Sessanta ai rapper odierni, i suoni fiancheggiano lo spirito di un tempo, lo informano e spesso lo indirizzano. Si scoprirà allora che Andy Warhol non fu solo il mentore di Lou Reed e dei Velvet Underground ma anche un grande appassionato di surf (e dei Beach Boys) a cui dedicherà San Diego Surf (1968), film rimasto inedito fino al 2012. Proprio il surf informerà le pennellate e la visione di alcune sue opere, quel senso di fluidità che le caratterizzava. Allo stesso tempo Dalì impazziva per un cantante come Alice Cooper di cui riprodusse «il cervello» sotto vetro. Concentrandosi dunque su spigolature e dettagli apparentemente minori si riesce ad andare al cuore di un soggetto e del suo mondo. Il tutto caratterizzato da una conduzione scandita dal ritmo incalzante delle canzoni selezionate, spesso inedite, rare o addirittura realizzate appositamente per il programma. https://www.facebook.com/Beat-Connection-Rai-Radio1-526325317534652/
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Interpreti di eccezionali qualità, sempre capaci di adattarsi a qualsiasi genere, hanno dato un’impronta personale alla musica che erano chiamati ad eseguire. La strana vicenda del «sesto Stone»
STORIE SONO CONSIDERATI «L’ÉLITE INVISIBILE DEL ROCK». ECCO NOVE GRANDI TURNISTI
La lunga ombra del session man di GUIDO MARIANI
C'è chi li definì «l'élite invisibile del rock». Sono i musicisti da studio, i session men. Artisti scritturati per suonare in dischi altrui e destinati a comparire non in copertina, ma tra le note stampate a corpo otto. A volte sono chiamati ad accompagnare in tour artisti solisti. Sul palco, ma non sotto i riflettori. Sono stati marchiati come «turnisti», ritenuti a torto dei gregari. Ma questi militi, non di rado ignoti al grande pubblico, in realtà hanno saputo offrire assai di più che prestazioni a pagamento. Interpreti di enorme talento, capaci di adattarsi a mille copioni musicali diversi, sono riusciti a dare una propria impronta alla musica che erano chiamati a interpretare. Alcuni di loro hanno dato forma al suono di un’epoca e hanno saputo emergere come artisti solisti o con loro progetti musicali. Rimanendo orgogliosamente turnisti. Non per soldi, ma per passione. Hal Blaine Potete non conoscere Hal Blaine, ma è impossibile non averlo mai ascoltato. Ha suonato le percussioni in Mrs. Robinson di Simon & Garfunkel. Ha dato energia alle vocalità dei Beach Boys in Good Vibrations, ha accompagnato i
Byrds nella loro versione della dylaniana Mr. Tambourine Man, ha scandito uno dei ritmi più contagiosi degli anni Sessanta con Nancy Sinatra in These Boots Are Made for Walking, è diventato pietra angolare del «muro del suono» di Phil Spector grazie al classico Be My Baby. Ha suonato la batteria in 40 singoli finiti al numero uno nelle classifiche Usa. Tutti i brani che hanno vinto il Grammy Awards come disco dell’anno dal 1966 al 1971 (tra cui Mrs Robinson e Strangers in the Night di Frank Sinatra) avevano lui come percussionista. Hal, oggi ottuagenario, è universalmente considerato una leggenda nel mondo dei session men. Fu l’ideatore di un sodalizio di musicisti turnisti chiamato The Wrecking Crew che nella Los Angeles degli anni Sessanta divenne una macchina da successi. Suonavano con le band e non di rado, visto il loro talento, al posto delle band. «Basterebbe il suo lavoro in Be My Baby per consegnarlo alla storia» ha detto di lui il batterista di Springsteen, Max Weinberg. Era solito andare in giro con un timbro con la dicitura «Hal Blaine colpisce ancora!» con cui marchiava ogni luogo in cui si esibiva e ogni spartito che suonava. Negli anni Settanta quello stampo
era dappertutto nel mondo del pop e del rock: partiture, strumenti, pareti dei locali, camerini. Nella sua carriera ha suonato in 8mila canzoni. Il suo talento era così riconosciuto che nessuno osava più spiegargli nulla, perché nessuno ne sapeva più di lui. «In studio mi dicevano - ha ricordato in un’intervista - “Hal fai quello che sai fare, quello che ti senti”». Una gloria per lungo tempo mal retribuita. Per suonare nei dischi dei Beach Boys veniva pagato 35 dollari al giorno. In studio suonava al posto di Dennis Wilson che era accreditato come batterista ufficiale della band e che come membro del gruppo veniva pagato 35mila dollari a serata. Steve Lukather Per molti aspetti Steve Lukather è stato il vendicatore dei session men. Chitarrista di studio tra i più richiesti, diventò una rockstar in prima persona con i suoi Toto, fondati nel 1976 e di cui hanno fatto parte altri grandi turnisti (David Paich e i tre fratelli Porcaro Jeff, Mike e Steve). I Toto, ancora in attività, nella loro carriera hanno pubblicato quasi 30 album e venduto 40 milioni di dischi. Ma la discografia della band che ha prodotto successi come Africa, Rosanna e Still Loving You è una goccia nell’oceano rispetto al numero di brani e album in cui Lukather ha lavorato. È sempre stato un artista innamorato della musica, non solo della sua. «È stato un grande onore essere parte di migliaia di dischi - ha detto -. Essere in una stanza e guardare mentre accadono cose grandiose. Lavorare con i migliori produttori, arrangiatori, musicisti, artisti. Non lo cambierei per nulla al mondo. Ho avuto la vita più “cool” del mondo». Iniziò a suonare a 7 anni dopo aver visto i Beatles all’Ed Sullivan Show. Prima ancora di essere un divo in proprio, portò l’attitudine della rockstar tra i session player iniziando a suonare giovanissimo negli studi di Los Angeles. Steve e l’amico fraterno Jeff
Porcaro, morto nel ’92, divennero i ragazzi terribili nel giro dei turnisti: «Ci consideravano dei giovani teppisti». La paga iniziale era di 25 dollari al giorno, ma ben presto arrivarono i grandi nomi Diana Ross, Earth Wind & Fire, Aretha Franklyn, Elthon John, Michael Jackson. Quando i Toto sfondarono Steve non ridusse l’impegno con altri artisti e la sua chitarra definì il suono rock degli anni Ottanta. Fu uno dei fautori (sempre con Jeff Porcaro) del sound di Thriller, spaziò da artisti come Eric Clapton a Gorge Benson. A oggi il conto delle sue collaborazioni supera i 1.500 album. «Sono un rocker che ha orecchio per il jazz e il blues. Sono il prodotto di tutto quello che ho ascoltato». Larry Carlton Il suo soprannome è Mr. 335, perché la sua arma è sempre stata l’infallibile Gibson 335. Il californiano Larry Carlton scoprì la chitarra a 6 anni. Da adolescente si infatuò del jazz e alla fine degli anni Sessanta divenne il re dei jingle, registrando sigle televisive e creando musiche per spot pubblicitari. Militò nel gruppo jazz dei Crusaders, ma si trasformò negli anni Settanta in uno dei chitarristi da studio più richiesti, capace di destreggiarsi con il jazz, il blues, il pop e il country. Eclettico e musicalmente inarrestabile arrivò a incidere fino a 500 parti musicali all’anno per artisti di tutti i generi. Sammy Davis Jr., Herb Alpert, Quincy Jones, Paul Anka, Jerry Garcia, Dolly Parton, George Benson sono solo alcuni dei grandi nomi che si affidarono alla sua Gibson. «Per il periodo in cui sono nato - ha raccontato - ho dovuto assimilare ogni genere rock'n'roll, surf music, jazz... Qualsiasi cosa avessero bisogno io ero pronto». Il suo assolo nel brano degli Steely Dan Kid Charlemagne è stato giudicato uno dei più belli della storia del rock. Come molti turnisti ha anche suonato in canzoni celebri senza conoscere le star, ma avendo davanti solo uno spartito e un produttore. Così accadde con Michael Jackson. Mentre la sua collaborazione più difficile fu quella con un John Lennon in un momento molto difficile della sua vita. Nel ’74 l’ex- Beatle si separò per più di un anno da Yoko Ono e decise di incidere un disco di standard rock’n’roll sotto la guida in studio di Phil Spector. Carlton fu chiamato a suonare la chitarra, Lennon si presentò in studio con tre ore di ritardo, completamente ubriaco e totalmente confuso su cosa e come si dovesse suonare. Dopo alcune snervanti ore di
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In pagina 12, in basso, Pino Palladino; al centro in alto Ian Stewart con i Rolling Stones (Stewart è il primo a sinistra), accanto Steve Lukather;qui sotto Larry Carlton e Booker T. Jones, più in basso a sinistra Hal Blaine, Kenny Aronoff, Tony Currenti e Ellade Bandini
infruttuoso lavoro, Carlton decise di abbandonare le session. Pino Palladino «Noi musicisti siamo così, pensiamo che quello che suoniamo sia spazzatura». Così il bassista Pino Palladino ha descritto il profondo imbarazzo quando sentì per la prima volta alla radio un suo (ormai storico) intro un una grande hit degli anni Ottanta Wherever I Lay My Hat di Paul Young. «Sono finito, pensai, nessuno mi chiamerà più per suonare». Per il musicista italo-gallese, in realtà quella performance fu solo il primo passo di una carriera stellare, ma vissuta con rara umiltà. Il primo a farsi vivo per chiedere di lui fu nientemeno che David Gilmour che lo volle per il suo disco solista, arrivò poi Elton John e a seguire il gotha del rock britannico. Nel giro di pochi anni il figlio di un immigrato di Campobasso era il bassista più richiesto al mondo. Le sue collaborazioni oggi non si contano più: Eric Clapton, Simon & Garfunkel, Phil Collins e i Genesis, Melissa Etheridge, Erykah Badu, Adele, D’Angelo. È stato molto attivo anche con artisti italiani come Pino Daniele, Zucchero, Claudio Baglioni. Dopo la morte di una leggenda come John Entwistle, avvenuta nel 2002, Pete Townshend e Roger Daltrey scelsero lui per un tour come membro degli Who e per il nuovo album Endless Wire. Ma Pino ha suonato anche accanto a John Mayer nel suo trio e in diverse live band come quelle di Clapton, Paul Simon, Jeff Beck e perfino nei Nine Inch Nails di Trent Reznor che lo ha definito «il miglior bassista del pianeta». E a pensarlo sono in molti. Ellade Bandini A quasi settant’anni il batterista Ellade Bandini può essere ormai ritenuto i re dei session men italiani. Originario di Ferrara, iniziò da bambino ad appassionarsi alla melodia italiana e a interpreti influenzati dallo swing come Natalino Otto e il Quartetto Cetra.
Ben presto arrivarono i juke box e il rock e ne fu conquistato. Svogliato alle lezioni di batteria, ma con un senso del ritmo innato si è sempre definito un musicista «autodidatta». In realtà è il maestro di tutti i batteristi italiani e ha suonato per l’intero panorama musicale nostrano da Celentano alla Carrà, da Mina a Zucchero. Il lavoro che l’ha reso però più orgoglioso è quello con cantautori come Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini e Paolo Conte. «Per me sono un po’ la santissima trinità della canzone d’autore» ha detto. Ha collaborato anche con grandi nomi del jazz internazionale come Larry Nocella, Lee Konitz e Phil Woods e ha sempre avuto un grande rispetto per i grandi con cui collaborava: «Ho mitizzato gli artisti anche quando ho cominciato a collaborare con loro». Per qualche anno ha suonato anche con Vince Tempera e Ares Tavolazzi in un supertrio di session player italiani, i Pleasure Machine. Ma la vita del turnista in Italia è stata spesso fatta di anonimato e fatica. «Ho visto musicisti stranieri - ha ricordato in un’intervista - fare i capricci perché magari non c'era una poltrona in studio per poter dormire o perché in albergo non c'era, nella loro camera da 300mila lire a notte, il letto matrimoniale. Mentre noi italiani, chiamati a rifare il brano inciso dal musicista suddetto, pagati la quinta parte di quest'ultimo, finito il lavoro alle due di notte, dovevamo fare 200 chilometri per tornare a casa perché non ci veniva pagata nemmeno una stanza in una pensioncina». Ian Stewart Il suo è stato un «dirty work», un lavoro sporco. Anche se è improprio definirlo un session man, è giusto ricordare Ian Stewart come un musicista che ha contribuito alla grandezza del rock senza diventare mai una star e venendo anzi nascosto dai riflettori. Stewart è stato tra i fondatori e per 23 anni un membro dei Rolling Stones, il loro
rimpiazzato da Donald «Duck» Dunn) e il batterista Al Jackson Jr. Fu una delle prime formazioni interrazziali nell’era del rock, firmò un successo in proprio (il classico Green Onion), ma accompagnò tutti i più grandi successi di una generazione di artisti straordinari come Wilson Pickett, Otis Redding, Eddie Floyd, Bill Withers, Sam & Dave, Johnnie Taylor e Albert King. Il loro approccio alla musica era unico e straordinario tanto da diventare ispirazione anche per i Beatles. Negli anni Settanta, Booker T. lasciò la Stax poiché l’etichetta considerava lui e la sua band impiegati e non artisti. Gli Mgs si sciolsero (Dunn e Cropper diventeranno l’asse portante dei Blues Brothers). Jones si trasferì in California dove divenne produttore e continuò a collaborare con musicisti di tutti i generi quali Dylan, Willie Nelson, Rodney Crowell, Carlos Santana, Neil Young e John Lee Hooker.
tastierista. Fu però un fantasma, poiché il manager della band Andrew Loog Oldham capì subito che il timido e ordinario Ian era troppo inquadrato per una band che nasceva per scardinare le convenzioni. Stewart fu messo nell’ombra e nell’ombra rimase volentieri, affiancando la band per anni, incidendo in studio e scomparendo però agli occhi dei fan. Da musicista ha collaborato anche con i Led Zeppelin (ha suonato nel classico Rock and Roll) con Howlin’ Wolf e George Thorogood, ma alla storia è passato come il «Sesto Stone». Non condivise la vita spericolata dei suoi compagni, ma morì a soli 47 anni quando stava lavorando all’album Dirty Work che gli Stones dedicarono alla sua memoria. «Era lui che cercavamo di accontentare disse Mick Jagger dopo la sua morte -. Volevamo la sua approvazione quando scrivevamo o suonavamo una canzone». Ha scritto Keith Richards nella sua autobiografia: «Sto ancora lavorando per lui. Per me i Rolling Stones sono la band di Ian Stewart». Tony Currenti Nel 1974 il batterista Tony Currenti, un siciliano emigrato in Australia a 16 anni, fu contattato da un gruppo di giovani fratelli che avevano
intenzione di fondare un gruppo rock. Accettò di suonare per loro come turnista. I fratelli si chiamavano Malcolm, George e Angus Young, la band si chiamerà AC/DC. Quaranta anni e 200 milioni di dischi venduti dopo, Tony è stato ripescato (via Facebook) dallo scrittore australiano Jesse Fink nel corso del lavoro di ricerca per una biografia sulla band australiana. È titolare di una pizzeria a Penshurst nella parte meridionale di Sydney. Ha smesso di suonare professionalmente la batteria nel 1977 e fino all’arrivo di Fink si era sempre rifiutato di raccontare la sua storia. Currenti, che aveva iniziato a suonare da bambino la fisarmonica per le strade siciliane, arrivato in Australia era diventato un batterista e si esibiva con una band chiamata Jackie Christian & Flight, racimolando soldi anche come session player. Suonò in quasi tutti i brani di High Voltage, l’esordio degli AC/DC, e su altri pezzi che finiranno in dischi successivi. Alla richiesta del gruppo di diventare membro effettivo della band, Tony rifiutò, soprattutto perché con il passaporto italiano avrebbe avuto problemi a fare un programmato tour europeo, visto che non avendo fatto la leva rischiava l’arresto allo scalo aereo di Roma. Suonò con gli
AC/DC sul palco nel 1975, ma poi il suo destino lo portò altrove. La band lo salutò con rammarico. Currenti ricevette 35 dollari all’ora per il lavoro svolto. Oggi lo potete trovare nel suo locale Da Tonino dove vi fa assaggiare la Australian Pizza con pomodoro, mozzarella, uova e bacon. Booker T. Jones Nel 1960, a soli 16 anni fu scritturato per la prima volta per suonare il sax baritono nel successo soul Cause I Love You di Rufus e Carla Thomas. Nel 2011 a 67 anni ha suonato l’Hammond b-3 in un brano della punk band Rancid. Booker T. non ha mai conosciuto confini e ha saputo essere al servizio di tutti gli stili. Talento innato già da ragazzino era un polistrumentista in grado di cimentarsi con l’oboe, il sax, il basso, il piano e l’organo, ma finì per prediligere l’Hammond. Originario di Memphis, non ci mise molto ad approdare a una casa discografica emergente che si chiamava Satellite e che cambiò il proprio nome in Stax, diventando uno dei marchi più celebri del soul e di tutta la black music. Per l’etichetta mise insieme la studio band Booker T. & the Mgs con il chitarrista Steve Cropper, il bassista Lewie Steinberg (poi
Kenny Aronoff I grandi session player sono l’anello di congiunzione tra artisti spesso di mondi molto distanti. Che cosa hanno in comune B.B. King, Avril Lavigne, gli Smashing Pumpkins e Vasco Rossi? La risposta è Kenny Aronoff uno dei batteristi più versatili e talentuosi del panorama musicale di oggi. Musicalmente onnivoro ha iniziato a suonare folgorato dai Beatles quando era bambino. Ha studiato musica classica esibendosi da studente con la Boston Symphony Orchestra. Diplomatosi nel 1976, decise di specializzarsi in jazz, ma nel 1980 approdò al rock nella band di John Mellencamp. Il suo lavoro per il rocker dell’Indiana (con cui ha registrato più di 10 album) lo rese una celebrità e iniziò a suonare dalla metà degli anni Ottanta con decine di artisti senza mai curarsi dei generi o delle appartenenze. Dagli studi di registrazione ai tour Aronoff ha lavorato con Joe Cocker, Bob Seeger, Melissa Etheridge, Alanis Morrisette. Suonò per Vasco nel tour del 2001. Solo negli ultimi due anni ha accompagnato in tour John Fogerty, i Bodeans, gli Styx, i Goo Goo Dolls oltre a tenere clinics in giro per il mondo. Un viaggiatore con le bacchette in mano. Nel 2014 alla fine si è anche trovato sul palco con Ringo Starr e Paul McCartney in una serata musicale in ricordo del leggendario debutto dei Beatles all’Ed Sullivan Show. Prima di suonare con i suoi idoli si è rivolto a Ringo e gli ha detto: «Lo so che è un cliché, ma è vero. Tu sei la ragione per cui suono la batteria. Se sono un musicista è merito tuo».
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RITMI Il cantautore Usa è in tour nel nostro paese dal 22 ottobre. «Da mia madre e da mio padre Anthony ho imparato il senso dell’arte. Erano due bohémien» di ROBERTO PECIOLA
Personaggio strano Elvis Perkins. Uno che sembra vivere in un mondo tutto suo, che non si lascia sopraffare dalle mode, che non cerca la fama a tutti i costi. Uno capace di scomparire senza quasi lasciar traccia di sé per anni. Sei, per la precisione. Ossia il tempo intercorso tra il suo secondo album, Elvis Perkins in Dearland, e il nuovo, terzo lavoro della sua carriera, I Aubade, uscito da poco anche in Italia e che è in procinto di far conoscere al pubblico nostrano nell'imminente tour che, tra fine ottobre e metà novembre (con un pausa di una quindicina di giorni), toccherà molte città della penisola. Alla vigilia di questi concerti lo abbiamo raggiunto per farci raccontare qualcosa di più, del disco e di sé. E si presenta così: «Salve al pubblico italiano. Il mio nome, fin dalla nascita è Elvis e forse, in parte come risultato del condizionamento socioculturale pop, ho finito per fare musica.
Sono arrivato nella Grande Mela, dopo aver vissuto per la maggior parte del tempo a Los Angeles, passando per Santa Fe, Cape Cod e Providence e ora vivo nella Hudson River Valley, nello stato di New York. Come musicista ho realizzato tre album e mezzo (il primo è Ash Wednesday del 2007) e ad agosto ho finito di registrare la mia prima colonna sonora per l'esordio come regista di mio fratello Oz. Film e disco vedranno la luce a febbraio 2016». Insomma, sebbene l’ascolto del nuovo lavoro palesi una tipologia umana e artistica un po' torva, dal mood melanconico e cupo, da questa risposta si scopre invece un lato divertente e divertito. Il discorso vira quindi, inevitabilmente, sull'album, I Aubade. Un termine che in alcuni dizionari di lingua inglese viene tradotto come «alba», «mattina», ma quel pronome personale «I» messo lì davanti e il suono della pronuncia fa piuttosto pensare a «obeyed», voce del verbo «ubbidire». Ma qual è il vero significato? «Aubade - racconta - in realtà è una parola francese, è il contrario di una serenata, una canzone da eseguire all'alba. Nonostante recentemente venga tradotto come 'cantare' per qualcuno, o anche semplicemente come 'canzone', il significato originario denotava un brano musicale da proporre di sera. Ho imparato questa parola solo una volta finito il disco, e mi è sembrato che inquadrasse benissimo quelle che erano le mie intenzioni all'interno delle canzoni, e tra l'altro mi piaceva come suonava... sì, come obeyed. E così ho intitolato l'album in questo modo, che per me è, come il disco stesso, una forma d'espressione semplice ma estremamente complessa». Come
LA BORSA DI PATTI di FRANCESCO ADINOLFI Patti Smith è in giro per il mondo per promuovere M Train (Bloomsbury publising), il suo ultimo libro di memorie. Di recente era presente a un reading in Illinois alla Dominican University dove ha letto frammenti dal testo, raccontato storie ecc.
All’improvviso si alza una signora presente tra il pubblico e dice di possedere un borsone con vestiti e oggetti personali che 40 anni fa appartenevano alla stessa Patti Smith, la signora vorrebbe restituirli. L’artista è confusa ma chiede alla donna di avvicinarsi al palco e di mostrarle il contenuto. Smith resta di sasso. Si viene a sapere che il furgone della Patti Smith Band era stato rubato a
Chicago 40 anni fa e dentro c’erano strumenti, effetti personali, vestiti ecc. Patti a quel punto comincia a tirare fuori i vari oggetti e a raccontare una vertigine di aneddoti. Tra le magliette nella borsa quella indossata sulla copertina di Rolling Stone o quella con sopra Keith Richards vista in tantissimi immagini. Comincia a frugare ed ecco che appare anche una bandana che in origine era In questa pagina due immagini di Elvis Perkins (foto di Danielle Aykroyd, in alto, e Matthew Pandolfe, in basso)
INTERVISTA HA APPENA PUBBLICATO IL DISCO «I AUBADE»
Elvis Perkins, il fascino indiscreto del rocker invisibile detto questo lavoro arriva a sei anni di distanza dal precedente, anni in cui si erano perse le sue tracce, nessun profilo Facebook o Twitter, e molti hanno anche pensato il peggio. Riparte: «Avevo suonato molto dal vivo, e c'era ancora molto rumore dentro la mia testa, per cui ho sentito il bisogno di rimettere in sesto i miei sensi con un periodo di silenzio, di tranquillità. Questo ha fatto sì che il desiderio di musica crescesse pian piano, naturalmente, portandomi a lavorare su un nuovo progetto. Rispetto ai precedenti dischi qui
ho fatto quasi tutto da solo, ho suonato, prodotto e curato ogni dettaglio, e ci è voluto del tempo per mettere a fuoco tutti gli aspetti. Comunque in questo periodo non sono stato completamente a digiuno di musica, ho fatto parte di una band, i Machines, il cui leader, Kristopher Perry, è anche un artista, uno scultore, e noi accompagnavamo le sue creazioni». Sarà proprio per il tipo di gestazione «solitaria», ma I Aubade appare alquanto diverso dagli altri due album di Perkins, si percepisce una maggior intimità, quasi un mettere in mostra la sua vera anima, quasi fosse il suo vero esordio. «Mi piace questa cosa che dici prosegue -. E mi aspetto che anche il prossimo album suoni come fosse il mio debutto. Mentre la maggior parte dei brani vanno oltre il personale per raccontare cose che hanno a che fare con la realtà e con la fantasia, il suono riflette me stesso molto più che in precedenza, ed è pieno di cose e sensazioni particolari». Nel disco colpisce molto il testo di un brano, My 2$. «In questa canzone - dice -ho voluto mettere in luce il potere del denaro quando viene speso e utilizzato saggiamente. Mi è capitato che quando consapevolmente scegli
di non dare i soldi ad imprese che operano non preoccupandosi di concetti come moralità, salute ambientale, diritti umani e animali allora il simbolo essenzialmente senza senso di una moneta o di una banconota acquista un doppio valore e significato. Il denaro sottratto ad aziende come McDonalds e Coca Cola, disastrose dal punto di vita ambientale e nutrizionale, serve a mitigare la loro influenza corrosiva sulla nostra vita e può essere investito in piccole realtà responsabili e sostenibili e in fattorie biologiche». Un aspetto, quello sociale, molto presente in Perkins e quindi il discorso va sulla politica Usa interna e internazionale. Continua: «Come molti americani quando fu eletto Obama sono rimasto molto toccato ed ero pieno di speranze. Durante questi anni una sfiducia costante e generale nelle istituzioni, nel processo politico e nei nostri politici, ha più o meno spazzato via quel sentimento. Io penso che lui sia sincero nel voler cambiare alcune cose, ma probabilmente e evidentemente, è stato ostacolato da forze e interessi sotterranei, alcuni noti, altri sconosciuti al 'popolo'. Credo che la sua concezione su cosa avrebbe dovuto essere un presidente e di quali fossero esattamente i suoi
poteri sia stata ribaltata già dal primo giorno di insediamento alla Casa Bianca. Personalmente non penso che mi venga offerto un quadro chiaro e completo di quello che succede con il mio governo al punto di poterci investire più del necessario in energia e emotività. In questo periodo più che pensare a quello che succederà preferisco concentrarmi su quello che vedo e guardare oltre. Ad ogni modo Obama ha il mio appoggio sulla questione dell'oleodotto Keystone XL sulla quale ha posto il veto e per la quale mi sono fatto arrestare volontariamente durante una protesta proprio davanti alla Casa Bianca (Obama ha posto il veto sulla legge che autorizza la costruzione del megaoleodotto per portare il greggio derivato dalle sabbie bituminose dal Canada una delle peggiori fonti di energia per il pianeta e per l'ambiente alle raffinerie texane, ndr), e di sicuro non supporto una politica estera che prevede omicidi di massa di popolazioni civili attraverso l'utilizzo di droni militari». Non si può concludere un'intervista con Elvis Perkins senza toccare un argomento particolarmente sensibile: i genitori. Perkins è figlio di Anthony, il celebre attore protagonista, tra i vari, del film Psycho di Hitchcock e scomparso nel settembre 1992 per le conseguenze dell'Aids, e di Berry Berenson, nota fotografa morta nell'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre. «Figlio d'arte? dice -. Alla fine i miei genitori sembravano molto più dei bohémien e la loro notorietà non ha mai avuto spazio in casa. Per me non erano altro che la mia famiglia, semplicemente, nulla di straordinario. Stare accanto a loro, avere davanti a me il loro esempio e il loro sostegno, osservare e partecipare alla creazione di qualcosa, ecco, in questo senso il loro essere artisti ha influito in maniera incredibile sulla mia crescita come autore e performer».
ALIAS 17 OTTOBRE 2015
ULTRASUONATI DA
appartenuta al fratello scomparso. Patti la guarda e comincia a piangere, di lì a poco anche il pubblico è in un lago di lacrime. Ovviamente le persone in sala cominciano a porsi delle domande, vogliono sapere, capire. Patti tranquillizza tutti e dice che non le importa approfondire, conta che quegli oggetti siano tornati a casa. Poi con il figlio alla chitarra acustica attacca Because of the Night.
REGGAE
Se lo swing è in levare Jazz, swing, ska, rocksteady, reggae, r’n’b si amalgamano e si fondono nello stile dei pordenonesi North East Ska Jazz Orchestra che in occasione del loro esordio, Stompin’ & Rollin’(Brixton Records/Goodfellas) si avventurano in una rilettura di 10 standard jazz/swing che vanno da Thelonious Monk a Edgar Sampson. In barba ai rigidi arrangiamenti e alle scelte melodiche delle big band, rivelano un approccio dissacrante e una libertà esecutiva che ricorda gruppi come Skatalites e Jazz Jamaica All Stars. I Maci’s Mobile provengono da Belluno, sono in nove e con una lunga gavetta. Il loro quinto lavoro, L’hobby del parlare di niente (Reddarmy/Rizoma Studio), grida il disincanto verso questi tempi moderni. Testi arguti e un lessico che supera i luoghi comuni su accordi che hanno il loro fulcro in levare. Unire la passione per i grandi autori del folk rock Usa e la seduzione per la filosofia di Bob Marley, è ciò che fa Nahko &The Medicine for the People, un collettivo che si è già fatto un nome negli States, e che sbarca ora in Europa grazie al doppio boxset che riunisce On the Verge e Dark as Night (Soulbeats Records) pubblicati nel 2013. Incantevoli. (Grazia Rita Di Florio)
STEFANO CRIPPA GIANLUCA DIANA GUIDO FESTINESE MARIO GAMBA GUIDO MICHELONE ROBERTO PECIOLA MARCO RANALDI
AA. VV. BELLA CIAO (Visage Music) È la riproposta dello spettacolo Bella ciao che nel 1964 al Festival di Spoleto scandalizza i benpensanti per i forti contenuti politici e antimilitaristi. Allora il Nuovo Canzoniere Italiano, oggi le voci di Lucia Galeazzi, Elena Ledda, Ginevra Di Marco, Alessio Lega, le chitarre di Andrea Salvadori, le percussioni di Gigi Biolcati, l'organetto di Riccardo Tesi. Il confronto fra ieri e oggi resta impossibile: il nuovo disco ci guadagna in ricchezza sonora e acustica, esaltando il valore di un repertorio espresso da un popolo talvolta bastonato o ucciso, ma a testa alta, fiero e combattivo. (g.mic.) FELDMAN/SATIE/CAGE ROTHKO CHAPEL (Ecm/Ducale) Romanticissima versione del capolavoro di Feldman per viola, celesta, percussioni e coro, dedicato alla «cappella di Rothko». Kim Kashkashian è la solista di viola, è splendida e come sempre accorata. Qualcuno può pensare: troppo. Ma tutto il cd è soffuso di lirismo dispiegato e di atmosfere commosse, oltre le consuetudini esecutive, senza dubbio. Inutile negare che l’ascolto (malandrino) è piacevole e partecipato. Con l’immenso ultimo Cage per coro che non si ascolta quasi mai e il Satie di Ogive e Gnossienne. (m.ga.) DAVID GILMOOUR RATTLE THAT LOCK (Sony Music) La sostenibile leggerezza del già sentito. Quello che non era riuscito con la balena di Endless River, capitolo finale e inutile della storia dei Pink Floyd, riesce al chitarrista della mitica band inglese. Rieccoci dalle parti di ballate impetuose, rock che più Seventies non si può, dai suoni levigati e perfetti con testi dai toni crepuscolari. Ma l'anima stavolta va oltre il mestiere e pezzi come Faces of Stone, valgono l'acquisto. Co-produce con Gilmour un'altra vecchia conoscenza, Phil Manzanera. (s.cr.) GWILYM GOLD A PARADISE (Brille) Alla lunga schiera di cantanti e autori che miscelano sapori soul, elettronica sperimentale e una punta di intimismo, e che condiscono il tutto, solitamente, con una voce in falsetto, si può annoverare anche l'ex frontman dei Golden Silvers. A Paradise richiama alla mente i soliti noti, da Thom Yorke a Bon Iver fino a Perfume Genius, ma qui la vena sperimentale è molto meno evidente, e il disco non va oltre un livello di gradevolezza. (r.pe.)
ON THE ROAD Low
I paladini dello slowcore tornano con il bellissimo Ones and Sixes. Bologna MARTEDI' 20 OTTOBRE (TEATRO ANTONIANO)
Elvis Perkins
Soak
La giovanissima cantante e autrice di Belfast. Torino SABATO 17 OTTOBRE (SPAZIO 211)
Oh Land
Il cantautore Usa in tour. Torino GIOVEDI’ 22 OTTOBRE (HIROSHIMA MON AMOUR)
(LOCOMOTIV)
(RAINDOGS)
Calvin Johnson
Stereophonics
Una data per la rock band inglese. Milano MARTEDI' 20 OTTOBRE (ALCATRAZ)
Fu Manchu
Lo stoner rock della formazione Usa. Mezzago (Mb) SABATO 17 OTTOBRE (BLOOM)
Uncle Acid & The Deadbeats
Il quartetto di Cambridge, un mix tra punk e hard rock. Mezzago (Mb) MERCOLEDI' 21 OTTOBRE (BLOOM)
Selah Sue
Un set acustico per il fondatore della K Records. Milano MARTEDI' 20 OTTOBRE (SPAZIO SENZA TEMPO)
Vigevano (Pv) MERCOLEDI' 21 OTTOBRE (LAROOM) Varese GIOVEDI' 22 OTTOBRE (LA SAUNA) Bologna VENERDI' 23 OTTOBRE (GALLERIA PORTANOVA 12)
Pianos Become the Teeth
Screamo/post hardcore dagli States. Seregno (Mb) SABATO 17 OTTOBRE (HONKY TONKY)
Hardcore Superstar + Michael Monroe
Ciampino (Rm) VENERDI'
Il metal estremo della formazione svedese con il glam punk del poliedrico Matti Fagerholm, in arte Michael Monroe. Pisa VENERDI' 23 OTTOBRE (BORDERLINE) Pinarella di Cervia (Ra) SABATO
23 OTTOBRE (ORION)
24 OTTOBRE (ROCK PLANET)
Torna nel nostro paese la vocalist belga. Milano GIOVEDI' 22 OTTOBRE (MAGAZZINI GENERALI)
ROCK
INDIE POP
BLUES
Una spolverata Slowcore di Warren Haynes a tutta birra
Misticismo da ballo
Ci sono figure, nel rock americano contemporaneo, che sfuggono a ogni trappola e casella, non sono etichettabili. Prendete uno come Warren Haynes, chitarrista e compositore dei Gov't Mule, la più grande band del Sud contemporanea: non pago di aver fatto uscire decine di titoli e cofanetti, propone ora anche tutt'altre piste. Ashes & Dust (Provogue) è il suo personale viaggio d'autore nel country rock semiacustico più ispirato. Si fa accompagnare dai magnifici Railroad Earth, specialisti di newgrass, e tutto torna. Haynes a lungo è stato negli Allman Brothers: ora Gregg Allman, sessantasettenne un po' acciaccato ma sempre attivo fa uscire Live: Back to Macon, cd e dvd con intervista e pezzi aggiunti. Un viaggio da lucciconi nella storia del southern rock, band in grande spolvero, fiati aggiunti come faceva la grande Band che accompagnava Dylan. S'è messo in proprio anche Jason Isbell, già mente dei Drive-By Truckers. In Something More than Free (Southeastern Records) il rocker mostra di avere idee e stoffa per trovare un suo personale approccio al country rock, in bilico tra spinte elettriche e pennellate acustiche. (Guido Festinese)
Come si fa dopo vent'anni e dieci album all'attivo a realizzare un album che se non è il migliore dell'intero catalogo poco ci manca, rimanendo fedeli al proprio credo musicale. Bisognerebbe chiederlo ai Low che con Ones and Sixes (Sub Pop/ Audioglobe) sorprendono e superano ogni più rosea aspettativa. I maestri dello slowcore ci regalano un lavoro di rara intensità in cui le due voci sono al massimo delle loro capacità. Top in The Innocents. Al quinto disco approda il duo di Baltimora Beach House. Depression Cherry (Bella Union/ Coop/Self) prosegue sugli standard sonori a cui attingono da sempre, ossia melodie delicate e atmosfere sognanti, con i Cocteau Twins nel cuore e nell'anima, non a caso in Europa incidono per l'etichetta di Simon Raymonde (negli States per la Sub Pop). Peccato che il tutto risulti troppo melenso e ripetitivo. Dalla Scozia (patria di Liz Fraser & C.) arrivano invece i Midas Fall. Il loro ultimo album, The Menagerie Inside (Monotreme) tocca corde variabili, che vanno dal post rock allo shoegaze, dal gothic al prog metal in stile Lacuna Coil (e la voce di Elizabeth Heaton la ricorda da vicino). Un buon prodotto, ma niente più di questo. (Roberto Peciola)
Grazie ai 150 cd di Soul Classic Record, si riesce a conoscere il sound anni Cinquanta, dove il poliedrico blues è forse l'elemento portante, a preludio della rivoluzione rock'n'roll. In parallelo al primo rock bianco, tre artisti neri - al contempo cantanti/chitarristi/ compositori - tra il 1947 e il 1961 offrono un saggio di lungimiranza creativa. In tre recenti uscite, B.B. King in Sings Spirituals + Twist si ascolta in due album tra loro diversi, ma complementari, che segnano rispettivamente il punto più mistico del protagonista e quello commerciale e danzereccio: ma spiritual e twist non sono che nomi per una sostanza fortemente bluesistica. Più legato al blues arcaico è Lightnin' Hopkins che in Mojo Hand + Blues in My Bottle omaggia nel secondo ellepì la tradizione vocale con strumento acustico, mentre nel primo il ritmo di contrabbasso e batteria rende tutto più swingato. Per Clarence «Gatemouth» Brown in Gate Walks to Board il cd raccoglie ben 29 brani da 78 e 45 giri Aladdin e Peacock in esplosiva miscela di r'n'b, boogie, country, jazz, cajun, jump. (Guido Michelone)
ANDY POXON MUST BE CRAZY! (EllerSoul Records) Terzo disco per il giovanissimo Poxon, cantante e chitarrista di talento e figlio d’arte. Il suono che predilige è quello del blues à la B.B. King. Fiati, coriste e tastiere sono l’alter ego sonoro della voce e della chitarra del leader che firma i tredici brani. I Want to Know è brio e freschezza, Don’t Tell Me what to Do è uno slow di rara intensità e Cold Weather Blues è tributo ottimo alle sue influenze. Bravo. (g.di.)
TEHO TEARDO BALLYTURK (Specula) Teardo continua la sua ricerca nei mondi sonori di altro o di questo mondo. Con Ballyturk , in coppia con Enda Walsh, ci si ritrova seduti intorno a un caminetto virtuale per assaggiare il proseguo del percorso. Ed è così che nelle sospese sonorità, nei tratti rarefatti, Teardo è curioso e sa incuriosire. È un cd da stipula di contratto, non con un notaio ma con il futuro della musica, dove ciò che si chiude oggi sarà solo futuro. (m.ra.)
RYLEY WALKER PRIMROSE GREEN (Dead Oceans) Mettete su il cd, e dite al vostro amico freak che si tratta di nastri ritrovati di Tim Buckley. Rischia di scendere una lacrimuccia. La Retromania più nobile ha colpito ancora. Se Jonathan Wilson pensa di vivere nell'American Dream di David Crosby, Walker è ungeniale incrocio tra Tim Buckley, appunto, sulla sponda Usa e John Martyn e Nick Drake su quella inglese. Ascoltare per credere, dimenticando il calendario. (g.fe.)
A CURA DI ROBERTO PECIOLA SEGNALAZIONI: rpeciola@ilmanifesto.it EVENTUALI VARIAZIONI DI DATI E LUOGHI SONO INDIPENDENTI DALLA NOSTRA VOLONTÀ
Due date per la popstar danese. Milano MERCOLEDI' 21 OTTOBRE (BIKO) Bologna GIOVEDI' 22 OTTOBRE
Varazze (Sv) SABATO 24 OTTOBRE
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John Mayall
Torna nel nostro paese il «vecchio» bluesman inglese. Bologna SABATO 17 OTTOBRE (AUDITORIUM MANZONI) La Spezia DOMENICA 18 OTTOBRE (TEATRO CIVICO) Milano LUNEDI' 19 OTTOBRE (ALCATRAZ)
Baba Commandant & The Mandingo Band Dal Burkina Faso, la tradizione mandinga riattualizzata. Torino SABATO 17 OTTOBRE (MERCATO RIONALE PIAZZA CRISPI)
San Ginesio (Mc) DOMENICA 18 OTTOBRE (TEATRO COMUNALE G. LEOPARDI)
Mbongwana Star
Una band di senzatetto in arrivo dal Congo. Torino MARTEDI' 20 OTTOBRE (SALA ESPACE)
Verdena
La rock band bergamasca ha da poco pubblicato il secondo volume di Endkadenz. Firenze GIOVEDI' 22 OTTOBRE (FLOG) Mosciano Sant'Angelo (Te) SABATO 24 OTTOBRE (PIN UP)
Il Teatro degli Orrori
La band torna dal vivo con un lavoro, omonimo, nuovo di zecca. Padova GIOVEDI' 22 OTTOBRE (CS PEDRO) Torino VENERDI' 23 OTTOBRE (HIROSHIMA
MON AMOUR)
Pordenone SABATO 24 OTTOBRE (IL DEPOSITO)
Scisma
Torna insieme la band guidata da Paolo Benvegnù. Brescia SABATO 17 OTTOBRE (LATTERIA MOLLOY)
Roma SABATO 24 OTTOBRE (MONK)
Romaeuropa Festival
L'edizione 2015 della rassegna capitolina ha in programma Miles/Demdike Stare + Shaped Noise + altri e Vox Nova Italia/Karlheinz Stockhausen. Roma SABATO 17 E VENERDI' 23 OTTOBRE (LA PELANDA)
Time Zones
La trentesima edizione del festival propone Shelpa Ray (oggi) e il Nicola Conte Time Zones Project, l'incontro del combo di Conte con i BBRT New Language di Joe Bowie, Jamaladeen Tacuma e Jean Paul Bourelly. Bari SABATO 17 E SABATO 24 OTTOBRE (PELLICANO; SHOWVILLE)
Ferrara in Jazz
Jazz & Wine of Peace
Torna la rassegna che unisce la musica afroamericana e il buon bere. Questi gli appuntamenti: Vincent Peirani (domani, Villa Manin di Codroipo. Ore 17); Mia Znidaric (il 19, Kulturni Dom di Gorizia); Laura Furci (il 21, Tenuta Villanova di Farra d'Isonzo); Paolo Fresu Devil Quartet (il 22, Cantina Jermann di Dolegna sul Collio); Riccardo Tesi & Banditaliana (il 23, Castello di Spessa, Capriva del Friuli. Ore 11); Netnakisum ft Matthias Schriefl (il 23, Abbazia di Rosazzo. Ore 16); Neighbours Cercle (il 23, Tenuta di Angoris, Cormòns. Ore 18.30); Charles Lloyd New Quartet (il 23, Teatro Comunale di Cormòns. Ore 21.30); Trio Generations ft Oliver Lake (il 24, Kulturi Dom di Gorizia. Ore 11); Disorder at the Border plays Ornette (il 24, Cantina Borgo San Daniele, Cormòns. Ore 13); Jeff Ballard Trio (il 24, Villa Vipolze di Vipolze, Solvenia. Ore 17); Stanley Clarke Band (il 24, T. Comunale di Cormòns. Ore 21.30). Cormòns e altri comuni del Friuli Venezia Giulia DA DOMENICA 18 A SABATO 17 OTTOBRE
Il festival ha in programma il Walter Smith III-Laurent Coq Quartet e poi Uri Caine Trio e Miramari (G. Mirabassi e A. Mehmari). Ferrara SABATO 17, VENERDI' 23 E SABATO
Bologna Jazz Festival
24 OTTOBRE (JAZZ CLUB FERRARA)
ARENA DEL SOLE; TAKE FIVE)
Al via la decima edizione della rassegnacon Ron Carter Foursight in Dear Miles e Barend Middelhof Trio. Bologna SABATO 24 OTTOBRE (TEATRO
EREDITÀ GALATTICA Tra i tanti musicisti contemporanei che si ispirano all’eredità del pianista, band-leader e compositore Sun Ra c’è il cornettista Rob Mazurek. Nato nel 1965, opera tra Chicago e il Brasile: tra le tante sue formazioni spicca la Exploding Star Orchestra, un nome che è già un indizio. L’ultimo doppio cd della formazione, Galactic Parables: Volume I (Cuneiform) contiene una suite in sei movimenti dal chiaro riferimento all’immaginario sunraniano. L’album contiene due esecuzioni dal vivo nel 2013, una al festival di Sant’Anna Arresi in Sardegna e l’altra a Chicago, con leggere differenze di organico. Più numeroso il primo, con i brasiliani Guilherme Granado e Mauricio Takara e il batterista Chad Taylor a conferire una maggiore potenza percussiva e tessitura elettronica all’insieme; nel live americano spicca, invece, la presenza della fenomenale flautista Nicole Mitchell. Rispetto alle precedenti prove dell’orchestra, l’inserimento del vocalist Damon Locks segna un preciso spostamento del clima verso una prospettiva narrativa, rafforzata peraltro dal multitematismo, dal ritornare di frasi melodiche, dalla stratificazione dei piani sonori grazie all’uso di un’elettronica intelligente e creativa. Un lavoro di superba fattura. Un ascolto appagante di una musica che è ricca di sfumature, di climi emotivi, di invenzioni: isole di lirismo del piano cristallino e sgocciolante di Angelica Sanchez e slanci abbaglianti della cornetta di Mazurek. Astrattezze free, exotica del terzo millennio e ritmica post rock.
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Il suono del theremin è perfetto per evocare profondità cosmiche. Uno dei migliori specialisti dello strumento in Italia è il romagnolo Vincenzo Vasi. Con la collega di strumento Valeria Sturba ha pubblicato OOOPOPOiOOO (Tremoloa), un folle viaggio nel mondo delle opportunità del theremin che stupirà anche i più scettici. I due si alternano e sovraincidono anche alle voci e altri strumenti, ospitano alcuni amici ma il protagonista resta sempre lui: quello strumento a metà tra il giocattolo e il modernariato tecnologico. Dalla pura genialità cartoon di Mister Theremin, dove si possono apprezzare le doti vocali straordinarie di Vasi, alla dance moroderiana di How Do You Feel to Be in Love with a Ghost? alle languidezze di Medusa è tutto un sobbalzare e schizzare in ogni direzione stilistica. Rigenerante. Alle magmatiche, ultrapercussive e ribollenti improvvisazioni collettive dell’Arkestra di Sun Ra guarda il collettivo turco Konstrukt. Vengono da Ankara e il loro è un free jazz energico e possente, ascoltabile nel bel Live at Tarcento Jazz (Holiday). Il lavoro è edito in lp a tiratura limitata, come altri lavori del gruppo, con ospiti William Parker, Marshall Allen e Akira Sakata. D’altronde cosa somiglia di più ad un disco volante di un bel vinile?
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ALIAS 17 OTTOBRE 2015
GESTI D’ARTE Al museo Cobra di Amstelveen una grande mostra stringe un sorprendente patto creativo tra Mirò e il gruppo di Jorn, Appel e Constant, alfieri della spontaneità di ARIANNA DI GENOVA AMSTERDAM
Suo nonno era un uomo metodico, lavorava in studio mattina e sera, non alzava mai la voce e, soprattutto, amava il silenzio. Permetteva ai suoi nipoti di entrare nell’atelier, di toccare tavolozza e colori, pasticciare su fogli per gioco, ma poi i bambini dovevano sedersi in un angolo, in religioso silenzio e non disturbare quando suonava il campanello del «momento magico». Joan Mirò procedeva per balzi creativi: magari andava al Son Abrines di Palma di Maiorca solo per leggere i giornali e raccogliere un po’ di disegni del giorno prima. O anche solo per camminarci sopra, a quei disegni. O ancora, per guardare dalla finestra il suo bel giardino. Il nipote di Mirò, Joan Punyet, racconta con parsimonia le storie di famiglia, ma questa volta acconsente: d’altronde si trova «fuori casa» in Olanda, a Amstelveen, nel museo-tempio del gruppo Cobra, i predicatori della forma libera, di quel gesto astratto sobillatore di mondi alternativi, che guardano ai pazzi, ai più piccoli, a preistorici compagni di visione. Suo nonno non aveva mai esposto insieme a loro; adesso il confronto è stringente e le consonanze estetiche ed emotive impressionanti. E poi, sono passati circa sessant’anni dall’ultima apparizione dei cieli surrealisti di Mirò in Olanda: era il 1956 quando lo Stedelijk Museum di Amsterdam gli rese omaggio in grande stile. Qui, nel museo dei Cobra (acronimo che indicava le città di provenienza dei «leader» Jorn, Constant, Appel e poi Alechinsky - Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam) vengono presentate circa ottanta opere dell’artista catalano e una sessantina dei colleghi nordici, in un allestimento scenografico che ripropone anche la minuziosa ricostruzione dello studio di Palma di Maiorca (dove alla morte di Mirò, avvenuta nel 1983, è rimasto tutto religiosamente come era stato lasciato da lui stesso): nell’atelier ci sono anche nove quadri non finiti, mai espoti prima d’ora. In più, questa retrospettiva particolare fa sbarcare nei Paesi Bassi una quarantina di oggetti personali, collezionati da Mirò con quel gusto versatile che lo caratterizzava (pescando nel bisogno di bricolage dell’infanzia), insieme a ceramiche, sculture, disegni su carta. La mostra, visitabile fino al 31 gennaio prossimo, è a cura di Katja Weltering (che dirige il museo Cobra) ed è stata resa possibile dalla
In alto, il nipote Joan Punyet Mirò nell’atelier del nonno; Karel Appel «Hussars Child», 1950 e lo studio di Palma di Maiorca riprodotto in mostra; Joan Mirò «Squared Head», 1955 e alcuni oggetti dell’artista; Mirò «Sobretexim», 1972; uno scorcio del museo Cobra
CONFRONTI 80 OPERE DELL’ARTISTA CATALANO E 60 DEI COLLEGHI «NORDICI»
Affinità elettive a colori Gli outsider della libertà si scambiano i pennelli
collaborazione con la Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca. Così l’espressionismo vitale e astratto dei Cobra - un movimento che nacque nel 1948 per reagire ai canoni» tradizionali della pittura e della scrittura, molti furono infatti gli esperimenti di intrecci fra poesia e segno visivo - trova un suo controcanto nelle stelle e nei paesaggi celesti (e terrestri) che popolano le tele dell’artista spagnolo. L’universo che va in scena sala dopo sala affonda le sue radici nel mondo arcaico, nella ricchezza del repertorio iconografico delle culture africane, nelle leggende scandinave, negli spettacoli circensi e anche nella calligrafia giapponese. Così, alla costellazione poetica di Mirò, ai suoi simboli cosmici smarriti nell’aria, a quei corpi di fanciulle galleggianti nel vuoto come uccelli in volo rispondono serpenti, bambini, pupazzi, deformazioni della realtà scaturite da una cultura folk o dall’osservazione - in totale soggettiva - della natura stessa, sogni compresi. Joan Mirò si recò nei Paesi Bassi per la prima volta nel 1927 e quando tornò nella sua Spagna dipinse diversi Interni olandesi, basandosi su riproduzioni - anche in cartolina - di alcune opere fiamminghe. Visitando i vari musei, l’artista confessò di essere stato rapito dalla sindrome di Stendhal: quei dettagli che sbocciavano dal buio delle stanze raffigurate nei quadri avevano rappresentato per lui un vero «shock», toccando le corde più profonde proprio a causa di quel perenne bilico
tra realtà e illusione di cui erano intrise. Ma sarà il rifiuto delle convenzioni della pittura ad avvicinarlo al gruppo Cobra che, nel dopoguerra, andava riscoprendo fonti d’ispirazione nella cultura popolare, per sperimentare materiali e metodi nuovi in tutta libertà. Loro numi tutelari, infatti, erano Picasso e i cubi-
sti, Klee e, naturalmente, Mirò. Anche per i Cobra, l’inconscio divenne la chiave per aprire (e lo scrigno per conservare) mondi paralleli. Con l’artista spagnolo condividevano l’allergia per gli «intellettualismi» surrealisti alla Magritte e Breton e andavano ricercando processi di creazione più spontanei. Il danese Asger Jorn seguiva da vi-
cino il lavoro di Mirò: nella galleria di Loeb a Parigi, dove era giunto appositamente per vedere i suoi lavori nel 1946 incontrò per caso Constant. Un incontro che, due anni più tardi, farà germinare, a un tavolo di un caffè parigino, quel manifesto che sancì la nascita di Cobra, il «serpente» che cambiava pelle, rovesciando l’arte europea.
VILLA MANIN DI PASSARIANO (UDINE)
«Soli di notte», l’intimità vive in atelier di A. DI GE.
Per Joan Mirò, l’immaginario non doveva essere impalpabile, ma provocare sensazioni fisiche. Anche guardando il cielo e infilandosi fra le stelle, la terra rimaneva un riferimento che non andava mai perso di vista. Per questo era un sognatore eccentrico, molto «concreto»: ha popolato le sue tele con omini marziani, fiori volanti, nuvole e prati messi sullo stesso piano, mescolando aria e zolle. Una volta sola rimase funambolicamente sospeso tra le sue creature, dimenticando la forza di gravità «fami-
gliare» che lo attraeva verso altro: fu quando disse no a una carriera di contabile, scegliendo l’arte e le sue eterne «distrazioni». Nessuna tentazione naïf, comunque: Mirò - nonostante la scelta di campo che lo conduceva fra gli scarabocchi dell’infanzia, in mezzo ai graffiti delle caverne o ancora nei meandri di menti un po’ svanite (Art Brut) era un artista consapevole, uno studioso puro di se stesso e del linguaggio che scaturiva dalle avanguardie. Joan Miró a Villa Manin. Soli di notte è la mostra in programma a Villa Manin di Passariano (Udine) che si aprirà a partire da oggi (visitabile fino al
L’imaginerie di Mirò aveva sparso i suoi semi nel vento e quei semi trovarono terreno fertile nelle lande nordiche. Alechinsky fu l’unico del gruppo ad avere un contatto diretto con lui. Gli chiese anche di contribuire alla pubblicazione di Roue Libre, nel 1971. Mirò rispose entusiasta e spedì un magnifico disegno.
3 aprile 2016, catalogo Skira), dando forma a un progetto curatoriale originale di Elvira Cámara López e Marco Minuz. La lente d’ingrandimento è qui tutta focalizzata sull’ultimo periodo dell’artista catalano: 250 le opere presentate, tra dipinti, sculture, disegni, schizzi, per la maggior parte provenienti dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca e dalle collezioni degli eredi - con alcune anteprime -, una serie di documenti e una gran messe di oggetti personali. C’è anche una carrellata di ritrattistica d’eccezione: cinquanta scatti fotografici su Mirò usciti dalle macchine di «reporter» come Bresson, Mulas, Brassaï, List, Man Ray. Trent’anni trascorse Mirò in quell’atelier luminoso di Palma di Maiorca (amatissimo luogo di affetti e prima ancora rifugio anti-nazista), dal 1956 al 1983, anno della sua morte. E proprio lì ringiovanì la sua arte, mutandone la tecnica, le forme e gli obiettivi. Se nello studio Son Boter si dedicava alla scultura e segnava sul muro appunti e progetti (in mostra c’è una ricostruzione della «stanza rossa» in cui l’artista sostava in raccoglimento), Son Abrines era una fucina del pensiero dove rimanere in una solitudine ascetica. Era lo spazio dello zampillare allucinatorio, l’orto («lavoro come un giardiniere o un vignaiolo») con le idee da potare e da arare con il gesto, un angolino terrestre dove via via il colore scelse di sparire nel nero.