Piero Montana TESSITURE e SCRITTURE ASEMICHE

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Tessiture e scritture asemiche Il predominio nel nostro tempo della logica del senso su cui è stato fondato il pensiero occidentale a partire dalla sua nascita in Grecia è quel che più sconcerta gli artisti contemporanei che da esso tendono a rifuggire, avvertendo il pericolo di quel totalitarismo che comporterebbe la repressione di vere forme creative. Ma bisogna essere a riguardo più puntuali. Quello che di autentico in campo artistico oggi viene espresso non ha a che fare con l’irrazionale, ma con una realtà che della sua pienezza la ragione, la logica del senso purtroppo non tengono conto. Si dimentica spesso che noi viviamo metà della nostra vita non nella fase diurna dominata da una vigile coscienza che padroneggiamo lucidamente, bensì in una fase notturna in cui la nostra coscienza si spegne. Gli artisti surrealisti che per primi si resero conto di questo attribuirono ai sogni quell’importanza a cui diedero libera espressione nelle loro opere. Ma già da prima si intuì che il nostro essere presente a noi stessi manifestava delle ombre di cui si resero subito conto i chiaroveggenti, i mistici, i sognatori, gli spirituali e i poeti tutti aspiranti a quell’Assoluto, la cui reintegrazione in noi solo poteva rimuovere la frattura tra l’io e il Sé. L’arte nel nostro tempo dunque a partire dalle avanguardie storiche divenne un campo sterile per la produzione di quei frutti della ragione che sono i significati e su questo campo non coltivato della sragione ed atavicamente maledetto per la sua infecondità semantica non poteva non concentrarsi l’attività degli odierni pittori asemici e di quanti ad essi possono essere assimilati per la loro arte priva di contenuti semantici. Nella mostra Tessiture e scritture asemiche, di questi nuovi artisti ne abbiamo privilegiati tre che in comune hanno alle spalle un consolidato mestiere espresso con molta bravura nelle loro opere, di cui ci accingiamo a parlare. L’arte della scrittura illeggibile, irriducibilmente indecifrabile prende sviluppo soprattutto in questi ultimi anni nell’opera di Nicolò D’Alessandro dopo un’attenta riflessione sul biblico, leggendario crollo della “Torre di Babele”, da cui avrebbe avuto origine la confusione delle lingue, che per l’artista costituisce un dono, l’essenza della vera lingua, quella che non è più propria dell’io, del soggetto individuale, che solo può disporne in senso razionale ed utilitaristico come di una sua proprietà, bensì quella del nostro inconscio collettivo, nella quale l’io non intende più se stesso, essendo essa priva di contenuti semantici. Queste opere di D’Alessandro sono anzitutto pittoriche, perché, se è vero che esse sono prive di significati, per la stessa ragione sono cariche di quelle tonalità che possiamo ad esempio avvertire nei sogni. Questo colore espresso in pittura è quello dell’anima come lo intendevano i primi astrattisti, che rifuggivano dalla rappresentazione di oggetti e cose materiali in quanto alla ricerca solo dello “Spirituale nell’arte”, uno spirituale nel loro modo di operare che traeva influssi dall’esoterismo. Si tenga presente a riguardo Kandinsky, sempre che lo si sia veramente letto nei suoi scritti oltre che ammirato nelle sue opere. Non è dunque strano che circa un secolo dopo la nascita delle prime opere astratte, in questi quadri di D’Alessandro possiamo scorgere delle tracce esoteriche, tracce queste non marginali dal momento che in essi vengono coniugati simboli profondi con una scrittura asemantica. Queste opere sono emblematiche. In esse ci colpiscono raffigurazioni di quadrati e di cerchi dentro quadrati, quasi a voler raffigurare in piccolo una sorta di alchemica quadratura del cerchio spesso ripetuta in ogni singolo dipinto. Questi cerchi, sono dei mandala, che in sé raccolgono l’essenza del Sé, simbolo di totalità. Entro questi cerchi inscritti in quadrati notiamo pure la raffigurazione schematica, arcaica di figurine di bambini. È come se questi piccoli esseri fossero contenuti in un ovulo. Questi esserini in ogni cerchio sono quattro, come quattro sono i lati del quadrato, e vengono raffigurati in corrispondenza all’altezza e alla larghezza di quest’ultimi. Due dunque in forma verticale, due in forma orizzontale, designando cosi una invisibile croce sul cui complesso simbolismo metafisico rinviamo quanti ad esso interessati a “Il simbolismo della croce”, una tra l’altro delle più note opere dell’esoterista francese René 2


Guenon. Tornando alla nostra descrizione delle opere di D’Alessandro notiamo ancora che questi cerchi con figurine dentro quadrati occupano ora la parte bassa dei dipinti ora la loro parte in alto giacché essi non hanno un punto fisso. La loro collocazione dipendendo dall’emersione più o meno profonda del mandala, senza però che essa raggiunga mai l’area della coscienza. A queste immagini di mandala più o meno grandi, più o meno colorati l’artista quasi a mo’ di commento pone loro tracce scolorite di scrittura asemica, di una scrittura che sembra rimuovere non solo i significati, ma pure cancellare se stessa. In una delle opere più interessanti dell’artista, “Torre di Babele”, osserviamo una alternanza di righe colorate ora di celeste ora di nero, che sono i colori opposti dell’Opera, quelli del caos, della nigredo e quelli del cielo, che vanno assottigliandosi e nei quali viene iscritto un testo illeggibile, espressione di quel linguaggio affrancato dai significati che vuole elevarsi spiritualmente dal basso verso l’alto per raggiungere, assimilarsi alla mitica e spirituale lingua degli uccelli. Enzo Patti un pittore che è nostro amico, da tanti anni ormai è immerso in quel mondo dell’arte asemica, di cui è diventato un maestro davvero ineguagliabile. Nei suoi dipinti l’artista non illustra delle immagini con scrittura priva di significati quasi in rapporto a dei significanti, come se volesse, in una lingua a noi sconosciuta, commentarle. Immagini e scrittura sono interdipendenti e mai in un rapporto semantico bandito dal suo operare. Certamente noi nel commentare le sue opere non possiamo fare a meno di attribuire ad esse dei contenuti, un non univoco senso ma non per l’esigenza di riempire un vuoto, quanto semmai per metterlo a nudo. Questo vuoto per l’appunto semantico da cui siamo attratti come da un vortice è quello su cui gira il mondo. Patti in una sua opera ovale l’ha ben rappresentato, come se si trattasse del nostro globo terreste, sia pure non visto nella sua interezza, dentro uno spazio bluastro in cui è sospeso. In questo spazio ovale dell’opera è come se noi scorgessimo geograficamente la nostra terra non accerchiata da paralleli bensì da cerchi concentrici di scrittura asemica, che lo verrebbero interamente a raffigurare. Che cos’è questo mondo se non quello che ci trasmettono fili apofatici di corrente di un non Λόγος che lo illuminano nella sua indecifrabilità? Il mondo altro di cui captiamo l’energia, i segnali che ci dicono di una sua esistenza non lontana ed aliena ma vicina, dentro di noi, fatta però di una sostanza magnetica non intellegibile? Di fronte a tale sostanza la coscienza vacilla, come una piccola imbarcazione che si trovasse in un mare ondoso. Le onde non essendo altro forse che il flusso continuo, inarrestabile del tracciato di un cardiogramma, che ne trasmettesse la ritmicità, la periodicità di quel movimento ondeggiante, che è proprio di quell’andar giù e in su della nostra vita barcollante. Queste opere sono lievi. Esse raffigurano un mondo che volteggia in uno spazio vuoto o che ondeggia in quel mare dell’esistenza come una barchetta costruita da un ragazzino che si abbandona al gioco della fantasia. Queste opere non lasciano tracce ad eccezione di un loro indecifrabile tracciato, che sempre si rintraccia, ritorna su di sé in un flusso continuo di parole senza voce, afone, senza nomi, a cui l’artista non può non dare espressione che con segni di una sorta di linguaggio cripto-stenografico senza alcun codice di decifrazione. Questo linguaggio è quello di libri di scrittura paleografica propria di un sapere vetusto? Certo ad un tale sapere Patti fa allusione incorniciando spesso la sua scrittura asemica nel volume di un libro aperto in cui però non si spiega niente, come se tale libro fosse in effetti chiuso. L’artista certo gioca, se pur inconsciamente, con tale apertura e chiusura. É infatti come se le pagine aperte di un libro, che l’artista raffigura in diverse sue opere, fossero invece chiuse, inspiegabili. Patti in queste sue opere ha presente il motto che dice: si spiega come un libro chiuso? L’ermetismo non è al centro di queste sue opere, non ne costituisce l’oggetto, l’interesse. Queste opere non si vogliono ermetiche, contenenti un sapere arcano, occulto che potrebbe dal suo mistero affiorare alla coscienza. Patti non è un archeologo del sapere, perché questo suo sapere è altro dalla codificazione in una lingua sconosciuta del passato. Questo sapere certo è contenuto in un libro, almeno così l’artista ce lo mostra, ma cos’è questo libro in 3


cui sembra inscritto il nostro passaggio terreno? É il libro della natura su cui sono posizionate delle figurine piccole, insignificanti rappresentanti noi stessi in cima o in fondo alle pagine diverse della nostra inspiegabile vita. Questo libro non è né nero né bianco, non è dunque quel libro maledetto in cui per volere divino è stata inscritta la vita dei reprobi. Esso è parte di una sapienza eterna seppure imperscrutabile. Questo libro si presta al nostro sguardo che si interroga sulla sua disseminazione di segni propri di una scrittura che si è sgravata dai significati. Per questo tale scrittura sembra ondeggiare, priva di peso semantico, in una delle opere più belle in mostra, in aeree pieghe animate solo da un soffio di creatività. Veniamo ora ad occuparci dell’arte molto essenziale e raffinata di Agostino Tulumello, un’arte pittorica che ha a che fare con i pigmenti del colore. Le sue opere quasi tutte su tela sono “giocate” per il gusto del solo colore che tuttavia sempre, quando viene privilegiato in maniera singolare in un dipinto, non è mai nella sua compattezza assolutamente monocromatico. Questo colore non viene mai spalmato uniformemente sulla tela, ma per così dire intrecciato nei suoi filamenti in una intricatissima rete, che costituisce le maglie, la tessitura, il vestito dell’opera, che però fa vedere da sotto le sue smagliature, i punti di non completa sutura, quei punti luce, bianchi della tela che vengono allo scoperto. Queste opere del nostro artista sembrano pertanto fabbricate col ricamo del filo di colore che si è lasciato guidare non da un ago ma da bastoncini di metallo come quelli che si usano nella lavorazione dell’uncinetto, ma chiaramente per esse non vengono usati come strumenti bastoncini metallici bensì dei pennelli sottili che dipingono in tutta l’estensione del quadro quei fili colorati, che così elaborati assumono l’aspetto in superficie di maglie fittissime e intricate con le quali la tela bianca viene rivestita. Qui però bisogna essere chiari, perché queste maglie, questo vestito che coprono la tela non è l’opera, che diviene tale solo in rapporto a quel vuoto, a quella nudità del suo spazio bianco, immacolato che l’artista lascia pure intravedere, dal fondo della sua pittura smagliata, in una costellazione di molteplici punti luce. La pittura di Tulumello non è un quell’inganno perpetratosi in essa per tanti, troppi secoli nonché perfezionatosi a partire dalla scoperta in età umanistica della prospettiva. Ad una pittura figurativa ingannevole, il nostro artista oppone una pittura della vita non più raffigurata bensì espressa in una tela dove la sua “vis”, la sua forza prepotente si manifesta nell’abile tessitura di una veste pittorica che pure viene a ingabbiarne la potenza, come fosse una camicia di forza, atta al suo dominio. La verità intrinseca ad ogni vera pittura è questo dominio, questo padroneggiare il caos, l’inconscio dentro di noi, dominio che l’artista nel suo autocontrollo può proiettare ad esempio in una tela. L’arte a riguardo si è sempre schierata per la dittatura mai per l’anarchia, perché l’edificazione di essa si basa sul rigore, attraverso il quale giunge alla perfezione. E questa viene raggiunta solo se il mestiere non dà adito ad improvvisazioni bensì al contrario ad un suo esercizio tale da conferire all’opera una qualità superiore, una qualità pittorica che assume nel cromatismo dei quadri di Tulumello anche un suo spessore materico. Certo può sembrare d’acchito che esse hanno a che fare pure col dripping, ma nulla di più ingannevole, perché i fili di colore di queste pitture risultano intrecciati non dal gioco dello sgocciolamento ma da una paziente e laboriosa esecuzione eseguita, come abbiamo già accennato, ad imitazione della tecnica dell’uncinetto. Questo lavoro all’uncinetto esprime l’anima dell’artista ma solo nel senso in cui Jung intendeva l’anima come un archetipo, una componente femminile nell’inconscio dell’uomo e non della donna, atta a bilanciare il suo conscio orientamento maschile. Quest’anima è la parte più profonda dell’essere umano, il Sé che nell’arte ha espressione in un processo creativo, che è sempre quello di un nuovo mondo. Per questo il Sé può essere identificato con Dio creatore che evangelicamente è dentro e fuor di noi. Nella pittura di Tulumello noi scorgiamo essenzialmente questa esigenza interiore di scoperta del Sé dentro e al di là della tessitura, delle maglie, della veste di colore e della copertura semantica che ne caratterizzano le opere. 4


La Torre di Babele e la scrittura asemica Nicolò D’Alessandro è un grafico d’eccezione il cui segno guidato dall’estro della fantasia si è sviluppato in uno stile barocco il cui essenziale movimento l’ha condotto ad inseguire il filo dell’immaginario fin dentro il suo cuore, al centro della matassa dell’insolito, dell’inaudito. Indimenticabili sono pertanto le grafiche che l’artista ha dedicato a una rilettura delle lamine dei Tarocchi, ad una raffigurazione fantastica dei mostri di Villa Palagonia, al Giardino delle delizie di Bosch e a tutta la serie delle chine su carta dei “Don Chisciotte”, ispirate, tratte liberamente dal Doré. In questa rielaborazione di un consistente materiale fantastico, in cui l’artista ha avuto modo di mettere a nudo la sua vena poetica, D’Alessandro non ha trascurato il mito e la leggenda. È in particolare all’illustrazione di una di essa, quella biblica della “Torre di Babele”, che dobbiamo porre qui, sia pur molto brevemente, la nostra attenzione, perché da essa ha origine il suo interesse per la scrittura asemica. A partire dalla distruzione della torre di Babele, si sa, avviene quel fenomeno della confusione delle lingue. Questa leggenda tuttavia non può non essere reinterpretata, perché essa è fantasmatica, ossia contiene un’aura di mistero, che in parte si chiarisce, se partiamo proprio da quella elevazione con la quale gli uomini, costruendo la torre, intendevano condurre una scalata al cielo. Scalando il cielo, per approssimarsi all’Altissimo, a Dio, gli uomini non potevano perdere la loro lingua senza assumerne un’altra in cui tutte le lingue si confondessero, giacché per innalzarsi sempre più in alto essi dovevano necessariamente perdere la loro zavorra, quel peso specifico dei significati del loro linguaggio terreno che di sé fa più un uso insomma prettamente pratico, strumentalmente finalizzato alla sola comunicazione intersoggettiva. Questa nuova lingua non è stata mai pienamente capita perché più di una sciagura voluta dall’ira di Dio rappresentò un’aspirazione altamente spirituale dell’uomo che voleva assimilarla alle voci angeliche, alla misteriosa lingua degli uccelli. Dal crollo della torre certo ne conseguì la caduta degli uomini ribelli che precipitarono a terra, come tutta una tradizione medievale e rinascimentale documenta, illustra in particolar modo nella XVI lamina dei Tarocchi, la quale però non sottolinea abbastanza il fatto che dall’alto, dall’altissimo gli uomini caduti in basso ne riportarono un dono sia pure ben diverso da quello dello Spirito che doveva infiammare le teste degli apostoli. 5


In questo scritto noi ci occuperemo di questo dono, così come l’arte di un vero artista solo poteva recepire. Ambientato in un contesto sacro ed in un passato leggendario, quale quello biblico, il crollo della torre di Babele è patrimonio del nostro inconscio collettivo, che in sé conserva traccia di una aspirazione umana alla totalità simbolica del Sé, ossia di quell’area della nostra mente che comprende sia il conscio che l’inconscio, ma anche il superamento dell’io in una sua intrinseca e nient’affatto esteriore realtà divina. La “Torre di Babele” ci parla dunque della nostra vera lingua, quella che non è più propria dell’io, del soggetto individuale, che solo può disporne in senso razionale ed utilitaristico come di una sua riserva privata bensì di quella propria del nostro inconscio collettivo, nella quale l’io non intende più se stesso, recependo di essa lievi tracce insignificanti, come di onde non sonore, di segnali muti, afoni, senza voce, privi di contenuti semantici, che solo la mano in trance dell’artista, come fosse un sismografo, può registrare nelle sue opere. Queste opere pertanto asemiche di D’Alessandro non possono non essere pittoriche, perché se è vero che esse sono asemantiche, per la stessa ragione sono cariche di quelle tonalità caratteristiche pure dei sogni che ci procurano a volte emozioni tanto forti da farci svegliare. Questo colore espresso in pittura è quello dell’anima come lo intendevano i primi astrattisi, che rifuggivano dalla rappresentazione di oggetti e cose materiali in quanto alla ricerca solo dello “Spirituale nell’arte”, uno spirituale nel loro modo di operare che traeva influssi dall’esoterismo. Si tenga presente a riguardo Kandinsky, sempre che lo si sia letto nei suoi scritti oltre che ammirato nelle sue opere. Non è dunque strano che circa un secolo dopo i primi quadri astratti, nei dipinti asemici di Nicolò D’Alessandro possiamo scorgere delle tracce esoteriche, tracce queste non marginali dal momento che in essi vengono coniugate con una scrittura asemica. Certo nel tempo in cui viviamo impregnati fino al midollo di materialismo, non possiamo non reagire a questa cancrena dell’anima, che è il male occulto che quotidianamente ci abbrutisce nel presente, con l’ottundere i nostri sensi, che in questo stato di torpore, del mistero fanno tabula rasa. Oggi infatti ci viene spiegato scientificamente tutto e questa spiegazione viene rivendicata come una conquista del progresso scientifico e tecnologico, a cui si deve dire grazie, non riconoscendo che l’ampliamento esorbitante in noi della coscienza e della razionalità, ossia di un pensiero prettamente calcolante, come direbbe Heidegger, ci sta conducendo verso disastri e catastrofi mai immaginati nel passato. Non vogliamo addentrarci su questo problema che interessa l’intera umanità abitante in un pianeta sempre più disastrato, perché ci porterebbe lontano dai nostri interessi per l’arte di D’Alessandro. Un’arte alla continua ricerca del Sé, che nelle sue opere costituisce il vero leitmotiv. Infatti a partire dalla sua opera grafica baroccamente impregnata del meraviglioso, del fantastico, dell’immaginario, per giungere poi a queste sue ultime opere asemiche, si può riscontrare una certa continuità, la cui soluzione è data da questa ricerca, in entrami i campi, di una dilatazione della coscienza dell’io non fuori ma dentro di sé, fino a raggiungere il cuore di quella profondità abissale del nostro continente sommerso, del nostro mare che è l’inconscio 6


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agitato dai suoi fantasmi. Certo questa agitazione non è data da vedere nelle opere di D’Alessandro, perché l’arte è sempre apollinea e la mano dell’artista non può non controllarla nel riportarla in superficie su un supporto che sia tela o carta. La mano dell’artista esprime sempre uno stile, una peculiarità, una caratteristica personale che però va intesa come qualcosa di più di individuale, qualcosa che per l’appunto ha a che fare con la Persona nel senso filosofico con cui anticamente si intendeva il termine greco πρόσωπο, la personalità contenente in sè il Λóγος ossia qualcosa di divino. E di fatti l’artista quando è tale manifesta la peculiarità di questo divino che è in lui, ma dovremmo dire meglio che è nel suo sé, con la creazione delle sue molteplici opere, con le quali imita l’atto creativo di Dio perché ogni suo quadro, ogni sua tela dipinta è una creazione del mondo. Questo Courbet l’aveva capito quando nel 1886 aveva dipinto “L’origine del mondo”. Queste opere dunque sono emblematiche. In esse ci colpiscono le raffigurazioni di quadrati e di cerchi dentro quadrati, quasi a voler raffigurare in piccolo una sorta di alchemica quadratura del cerchio spesso ripetuta in ogni singolo dipinto. Questi cerchi, sono dei mandala, che in sé racchiudono l’essenza del Sé, simbolo di totalità. Entro questi cerchi inscritti in quadrati notiamo pure la raffigurazione schematica, arcaica di figurine di bambini. È come se questi piccoli esseri fossero contenuti in un ovulo. Questi esserini in ogni cerchio sono quattro, come quattro sono i lati del quadrato, e difatti sono raffigurati in corrispondenza a quest’ultimi, due in forma verticale, due in forma orizzontale, designando cosi una invisibile croce sul cui complesso simbolismo metafisico rinviamo quanti ad esso interessati a “Il simbolismo della croce”, una delle più note opere dell’esoterista fran8


cese René Guenon. Da essa infatti apprendiamo che «La realizzazione dell'Uomo Universale viene simboleggiata, dalla maggior parte delle dottrine tradizionali, con un segno che è dappertutto il medesimo. Si tratta del segno della croce che rappresenta perfettamente il modo in cui viene raggiunta tale realizzazione, mediante la comunione perfetta della totalità degli stati dell’essere, ordinati gerarchicamente in armonia e conformità, nell’espansione integrale secondo i due sensi dell’“ampiezza” e dell’“esaltazione”». La verticalità della croce per Guenon esprimerebbe infatti l’esaltazione dell’uomo verso il sublime. Ma per tornare alla nostra descrizione delle opere di D’Alessandro notiamo ancora che questi ovuli con figurine, inscritti in quadrati occupano ora la parte bassa dei dipinti ora la loro parte in alto. Questi ovuli non hanno dunque un punto fisso. La loro collocazione sembra dipendere dall’emersione più o meno profonda del mandala, senza però che essa raggiunga mai l’area della coscienza, giacchè l’opera si fa da sé originandosi dal Sé ossia dal suo linguaggio inconscio emblematicamente asemico. Infatti anche le immagini di cerchi e quadrati, più o meno grandi, più o meno colorati, senza un’attenta applicazione ad esse, possono sembrare insignificanti dal momento che lo stesso artista quasi a mo’ di commento pone loro tracce scolorite di una scrittura inventata dalla psiche, di una scrittura che in D’Alessandro sembra rimuovere non solo i significati, ma pure cancellare se stessa. Per concludere spendiamo ancora qualche parola su una delle opere più interessanti dell’artista esposta in mostra. L’opera in questione ha per titolo “Torre di Babele”. In essa osserviamo una alternanza di righe colorate ora di celeste ora di nero, che sono i colori contrapposti della Grande Opera e che vanno assottigliandosi verso l’alto. In queste righe viene iscritto un testo asemico, espressione di quella lingua affrancata dai significati che vuole elevarsi spiritualmente.

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La scrittura asemica nell’opera di Enzo Patti La logica del senso alla quale siamo tutti asserviti ed ormai assuefatti a un punto tale che da essa siamo imbavagliati, stuprati e ridotti in camicia di forza in quel manicomio dell’ordinario, che costituisce il mondo moderno, paradossalmente dà origine ai quei rari esseri che possono sfidarla attentando a tutte le sue regole grammaticali, sintattiche e al contempo semantiche per restituire al linguaggio una messa in pratica non servile, non funzionale all’imperialismo e globalismo dell’utile È l’eccesso di logica che si rivolta contro se stessa? Quell’eccesso che si concede sì una eccedenza, un surplus che però vengono riconvertiti alla praticità del senso ad essa funzionale? Heidegger ha già parlato abbastanza dell’entificazione del mondo e dell’uomo buono solo per ricavarne quell’utile, quel profitto sottratto, rubato dalla sua forza lavoro, a cui lo si vorrebbe ridurre nella sua interezza per uno sfruttamento totale, più intensivo. A tale sfruttamento però si ribella il poeta, l’operaio dentro di noi che prende coscienza dell’alienazione dei contenuti. L’uomo come serbatoio di contenuti semantici è privo del suo essere più proprio, della proprietà di sé e del Sé, assai più vasta della sua area riflessiva, incosciente di altri territori, altri spazi fuori di essa, difficilmente delimitabili, costituendo tale “proprietà” dell’uomo una vera e propria terra di nessuno di cui l’io, il soggetto cosciente non rivendica, installandovisi, che una sua piccola parte, quella esterna e pertanto più percepibile, visibile. La logica del senso e dei suoi contenuti semantici fa parte del logos occidentale che metafisicamente ha pensato l’Essere e il suo pensiero come enti in modo da poterli ridurre ad oggetti manipolabili nell’estensione del loro sviluppo tecnico. Di questo pensiero e della sua logica pensati come inerenti ad una res cogitans non possiamo non nutrire un sospetto e cioè che essi, sia pur fondati su una verità chiara e semplice, accattivante e comprensibile, mostrano pure, direbbe Heidegger, il nascondimento, l’occultamento, in una sorta di rimozione, di tutte le potenze dell’inconscio e del non senso dell’inconscio ben rappresentati dal demone socratico facente parte fin dall’origine dei tessitori del nostro Logos occidentale, del nostro discorso scritto e/o parlato. La scrittura non riguarda solo la decifrazione, la lettura, la disseminazione dei suoi semi e la produzione dei significati che nella loro raccolta possiamo ricavare. La scrittura non è l’estensione di un campo coltivato per i bisogni, il nutrimento dei nostri corpi. È un giardino lussureggiante coltivato invece per la nostra fame di bellezza, fame di qualcosa di spirituale che ha a che fare con i nostri sentimenti più alti piuttosto che con i nostri appetiti materiali. Una tale scrittura dunque senza fini pratici, sottratta all’industria del senso, nella sua verginità noi la chiamiamo asemica. Ad essa si rivolgono poeti, artisti visionari e pazzi, assetati, affamati di Assoluto, in rivolta contro il mondo contemporaneo, che nella sua modernità è ridotto ad un meccanismo, ad un ingranaggio tecnologico che mette tutto in ordine, al suo posto, conferendogli significato, secondo una logica di un’economia globale, dove pure per i trafficanti dello spirito non esiste 10


che il solo guadagno del mercato. A questi artisti e alle loro opere rivolgiamo in particolare l’attenzione giacché non abbiamo mai avuto la natura di un economista o di un semplice mercante. A noi interessa osservare quel che liberamente aleggia sulle loro opere, quel soffio davvero creativo che solo le rende “significative” per quanti ricercano una via di fuga dalla mercificazione dello spirito messa in atto in così tante opere sia esse letterarie sia artistiche facenti parte tutte dell’odierna industria culturale. Uno degli artisti, che consideriamo anche un amico, delle cui opere qui, sia pur brevemente, ci occupiamo è Enzo Patti, che da tanti anni ormai è immerso in quel mondo dell’arte asemica, col diventarne un maestro davvero ineguagliabile. Patti nei suoi dipinti non illustra delle immagini con scrittura asemica, come se volesse in una lingua a noi indecifrabile, commentarle. Immagini e scrittura sono interdipendenti e mai in un rapporto di significanti e significati, quest’ultimi banditi dal suo operare. Certamente nel commentare le sue opere non possiamo fare a meno di attribuirne alcuni, ma non per l’esigenza di riempire un vuoto, quanto semmai per metterlo a nudo. Quel vuoto per l’appunto semanico che quasi in un vortice ci afferra. Questo vuoto è quello su cui gira un mondo. Patti in una sua opera ovale l’ha ben rappresentato, come se si trattasse di un globo terreste, sia pure visto non nella sua interezza, dentro uno spazio bluastro in cui è sospeso. In questo spazio ovale dell’opera è come se noi scorgessimo geograficamente il nostro pianeta 11


non accerchiato da paralleli bensì da cerchi concentrici di scrittura asemica, che lo verrebbero interamente a raffigurare. Che cos’è questo mondo se non quello che ci trasmettono fili apofatici di corrente che lo illuminano nella sua indecifrabilità? Il mondo altro di cui captiamo l’energia, i segnali che ci dicono di una sua esistenza non lontana ed aliena ma vicina, dentro di noi fatta però di una sostanza magnetica non intellegibile? Di fronte a tale sostanza la coscienza vacilla, come una piccola imbarcazione che si trovasse in un mare ondoso. Le onde non essendo altro forse che il flusso continuo, inarrestabile del tracciato di un cardiogramma, che ne trasmettesse la ritmicità, la periodicità di quel movimento ondeggiante, che è proprio di quell’andar giù e in su della nostra vita barcollante, del cui cuore Patti sembra auscultare non senza emozione la frequenza delle pulsazioni. Queste opere sono lievi. Esse raffigurano un mondo che volteggia in uno spazio vuoto o che ondeggia in quel mare dell’esistenza come una barchetta costruita da un ragazzino che si abbandona al giuoco della fantasia. Queste opere non lasciano tracce ad eccezione di un loro indecifrabile tracciato, che sempre si ritraccia, ritorna su di sé in un flusso continuo che pare un monologo joyciano o beckettiano o quello mormorante di un subconscio, che l’io vagamente avverte come realtà senza voce, afona e pertanto senza nome, innominabile per l’appunto, a cui l’artista non può dare espressione che con segni di un sorta di linguaggio cripto-stenografico di cui però non è stato finora rinvenuto alcun codice di decifrazione. Questo linguaggio può avere a che fare con una sorta di paleografia da intendersi però nel suo senso propriamente etimologico derivante dal greco παλαιός (palaiós), “antico” e γραφή (grafé), “scrittura” contenuta in libri di un sapere vetusto? Certo ad un tale sapere Patti fa allusione incorniciando spesso la sua scrittura asemica nel volume di un libro aperto in cui però non si spiega niente, come se tale libro fosse in effetti chiuso. L’artista certo gioca, se pur inconsciamente, con tale apertura e chiusura. 12


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È infatti come se le pagine aperte di un libro, che l’artista raffigura in diverse sue opere, fossero invece chiuse, inspiegabili. Patti in queste sue opere ha presente il motto che dice: si spiega come un libro chiuso? L’ermetismo non è al centro delle opere asemiche di Patti, non ne costituisce l’oggetto, l’interesse. Queste opere non si vogliono ermetiche, contenenti un sapere arcano, occulto che potrebbe dal suo mistero affiorare alla coscienza. Patti non è un archeologo del sapere, perché questo suo sapere è altro dalla codificazione in una lingua sconosciuta del passato. Questo sapere certo è contenuto in un libro, almeno così l’artista ce lo mostra. Ma cos’è questo libro? Certo è un libro in cui sembra inscritto il nostro passaggio terreno in diverse sue angolazioni o diversi momenti di attraversamento in cima o in fondo alla pagina o/e alle pagine diverse della nostra inspiegabile vita. Questo libro non è né nero né bianco, non è dunque quel libro maledetto in cui per volere divino è stata inscritta la vita dei reprobi, esso è parte di una sapienza eterna tuttavia imperscrutabile. Esso è il Libro, 14


non un’invenzione e una creazione dell’uomo o di Dio, bensì una realtà qualitativa di Questi, una realtà alla quale per esempio i Musulmani hanno assimilato il loro Corano. Tuttavia dobbiamo pur dire che i libri di Patti non hanno contenuti di Rivelazione sacra. Essi sarebbero libri ordinari se si prestassero a una loro buona lettura, ma la lettura non fa per loro. Essi invece si prestano al nostro sguardo contemplativo ed interrogativo che si sofferma in loro su una disseminazione di segni propri di una scrittura non intellettiva dell’anima. Questi sono infatti i segni di una scrittura contrassegnata da una leggerezza che si è sgravata dai loro significati. Per questo essi sembrano ondeggiare, privi del loro peso semantico, nelle loro aree pieghe animate da un soffio di creatività.

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Agostino Tulumello e le maglie dell’opera Se seguiamo il lungo cammino della metafisica occidentale, possiamo dire che oggi da Platone a Nietzsche siamo pervenuti a un punto di non ritorno. Dal mondo delle idee platoniche alla volontà di potenza nietzschiana Heidegger ha seguito quel filo conduttore contraddistinto da un pensiero che non ha rinunciato mai a entificare l’Essere con conseguenze sempre più nefaste, i cui catastrofici guasti oggi sono sotto gli occhi di tutti. Quello che il filosofo di Friburgo denuncia è stato un pensiero della presenza, costruito sulla presenza a noi stessi di un ente manipolabile a fini strumentalmente, tecnicamente utilitaristici. Ma non solo gli oggetti, quel che è più inquietante anche gli uomini sono stati entificati, ossia ridotti a cose, a quella merce, a quella forza lavoro, di cui Marx scandalizzato giustamente ha parlato a riguardo di alienazione. Marx però in tutta la sua lungimiranza non poteva prevedere che il neocapitalismo sarebbe uscito fuori dai cancelli della fabbrica per invadere anche quella nostra vita di casa, più intima e personale, con l’imposizione subliminale di un’alienazione totale attraverso la reificazione dei nostri desideri, delle nostre passioni anche quelle più segrete. Di questa alienazione ci parlano le opere di Agostino Tulumello, un artista assai appartato, lontano dal mondo, che però da una vita dipinge laboriosamente sempre la stessa opera, giacché non ha mai intravisto per essa un’alternativa possibile nello status quo venutosi a determinare in epoca moderna e contemporanea. L’alienazione di cui ci parla Tulumello è quella dell’esserci che si rapporta solo all’ente, con il rimuovere, con l’obliare l’Essere frapponendo tra Questi e sé una sorta di muro, di barriera simile però a quella tela, a quel sipario del nostro teatro dove non si recitano più testi classici bensì drammi del teatro della crudeltà (della vita), di un teatro non esclusivo del testo e della dittatura delle parole e dei loro significati semantici, bensì di un teatro dei gesti, delle voci , dei sussurri, delle grida, delle articolazioni dei corpi dagli stessi attori inscenati in una sorta di happening però mai improvvisato. Ci si può domandare che cosa ha a che fare il teatro della crudeltà di Artaud con la pittura di Tulumello. La nostra risposta è molto, e qui cercheremo di spiegare questo molto, dicendo an16


zitutto che le opere dell’artista soprattutto quando vigeva la moda dello strutturalismo sono state falsate dalla comprensione critica, che di esse faceva dei pattern col ridurle spesso a sorta di griglie, dove l’artista avrebbe solo impiegato un mestiere di minuziosa precisione, che però, dobbiamo ammettere, è il mestiere congeniale a Tulumello, quello dell’orafo che di fatti egli esercita nella sua vita reale, quotidiana per necessità di guadagno. L’arte, quando è vera, servendosi del mestiere, è qualcosa che solo il suo impiego conferisce ad essa un quid che non è solo perfezione, un quid che qui chiamiamo aura, un quid che impregna di vita e mistero le opere in se stesse. L’arte di Tulumello molto essenziale e raffinata è un’arte pittorica, un’arte che ha a che fare con i pigmenti del colore. I suoi dipinti tutti su tela sono “giocati” da un gusto per il solo colore che tuttavia sempre, quando viene privilegiato in maniera singolare in un dipinto, non è mai nella sua compattezza assolutamente monocromatico. Anzitutto perché questo colore non viene mai spalmato uniformemente sulla tela, ma per così dire intrecciato nei suoi filamenti in una intricatissima rete, che costituisce le maglie, la tessitura, il vestito dell’opera, facendo vedere sotto le sue smagliature dei punti di non completa sutura che sono quelli che nell’intreccio dei filamenti rimangono, sia pur sottilmente, scoperti. Sono questi dei punti luce? I punti vuoti, bianchi, non colorati della tela? Riprendiamo qui il nostro iniziale discorso sull’Essere cosificato soprattutto nel pensiero moderno. Questo Essere è stato infatti rivestito di una stoffa che non gli è propria, di un vestito che è quello di un altro. Cosìcchè coperto nella sua nudità, questo essere viene camuffato, celato, obliato nella sua verità nascosta che fa sì che possa essere spacciato per un altro, fabbricato col ricamo del filo che si è lasciato guidare non da un ago ma da bastoncini di metallo come quelli che si usano nella lavorazione dell’uncinetto. Un vestito dunque con cui l’Essere viene coperto, nascosto, celato, e presto dimenticato. Questo vestito che su una tela Tulumello realizza è proprio quello ricavato, come abbiamo accennato, da un laborioso intreccio all’uncinetto. Ma nel realizzarlo pittoricamente l’artista non può non usare come strumenti al posto dei bastoncini metallici dei pennelli sottili, estendendo, intrecciando con essi quei fili di colore, che così elaborati, assumono l’aspetto in superficie di maglie intricate con le quali la tela bianca viene rivestita. Qui però bisogna essere chiari, perché questo vestito che copre la 17


tela non è l’opera, che diviene tale solo nel suo rapporto a quel vuoto, a quella nudità del suo spazio bianco, immacolato che l’artista lascia pure trasparire dal fondo della sua pittura in una costellazione di molteplici punti luce. Questi punti di luce bianca hanno per così dire in noi un effetto di estraniante. Tulumello infatti non vuole illuderci con questa sua pittura, egli ci rende manifesto che questo intrico pittorico è solo un vestito e che sotto di esso ci sta una tela bianca, anche se non la si percepisce chiaramente dal momento che è ricoperta e che pertanto in questa sua veste viene mostrata soltanto l’originalità, tutta la bravura, l’abilità tecnica del pittore che l'ha intessuta. La pittura di Tulumello non è infatti quell’inganno perpetratosi in essa per tanti, troppi secoli nonché perfezionatosi a partire dalla scoperta in età umanistica della prospettiva. Ad una pittura figurativa ingannevole, il nostro artista oppone una pittura della vita non più raffigurata bensì espressa in una tela dove la sua “vis”, la sua forza prepotente si manifesta in un’abile tessitura che però viene a ingabbiarne la potenza, come fosse una camicia di forza, atta al suo dominio. La verità intrinseca ad ogni vera pittura è questo dominio, questo padroneggiare il caos dentro di noi, dominio che l’artista nel suo autocontrollo può proiettare ad esempio su un quadro. Per questo a proposito dell’arte di Tulumello noi abbiamo fatto un riferimento ad Artaud e al suo teatro della crudeltà, perché questa sua pittura nel suo esplicarsi, realizzarsi ha bisogno di un paziente esercizio che non può essere praticato senza atti di crudeltà sull’anarchia di istinti incontrollati che potrebbero manifestarsi, così come non può costituire un “testo” illustrato in cui dominante sia la figurazione con i suoi espliciti significati ed allo stesso tempo con il suo implicito spessore semantico. Rispetto agli impulsi psichici, all’instintualità l’arte a riguardo si è sempre schierata per la dittatura mai per l’anarchia, perché l’edificazione di essa si basa sul rigore, attraverso il quale può giungere alla perfezione. L’arte non può essere che apollinea, mai dionisiaca e certamente Nietzsche ne “La nascita della tragedia” si sbagliava anche se attribuiva solo alla musica l’esaltazione del fremito palpitante del dio dell’ebbrezza. Per coerenza rispetto a quanto veniamo ad asserire dobbiamo riconsiderare allora quella importanza che ancora oggi viene riconosciuta all’action painting o alla tecnica pollockiana del dripping. La gestualità istintiva che ad esempio l’action painting voleva esprimere in pittura ha dato dei risultati assai lontani da quelli teorizzati nella idea di una forza motrice, di una energia, di uno slancio vitale che gli artisti cantori non della repressione bensì al contrario della liberazione avrebbero potuto esprimere nelle loro opere. Questa forza infatti è stata solo scaricata su tele e carte finendo per farla in esse scemare, esaurire. La tecnica del dripping del colore semplicemente sgocciolato dall’alto su un quadro in una 18


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sorta di gioco, che è stato definito una danza rituale come quella degli indiani americani, non era poi che un divertissement che di alchemico, nell’ignoranza totale di questa scienza sacra del passato, non aveva proprio nulla. Ritornando alle opere di Tulumello quanta differenza notiamo rispetto a quelle dell’azione pittorica e a quelle ottenute col dripping! In esse non c’è traccia di improvvisazione, di spontaneità, di veloce gestualità pittorica, ma al contrario di tanto esercizio, rigore, mestiere che conferiscono a queste sue opere una qualità secondo noi superiore, una qualità pittorica che ha nel suo cromatismo, se guardiamo bene, anche un suo spessore materico. Certo può d’acchito sembrare che esse hanno a che fare pure col dripping, ma nulla di più ingannevole, perché i fili di colore di queste opere risultano intrecciati non dal gioco dello sgocciolamento ma da un paziente lavoro pittorico eseguito ad imitazione della tecnica dell’uncinetto. Questo lavoro all’uncinetto esprime l’anima dell’artista ma solo nel senso in cui Jung intendeva l’anima: una componente femminile nell’inconscio dell’uomo, atta a bilanciarne il conscio orientamento maschile. Quest’anima è la parte più profonda dell’essere umano e dal suo abisso può risalire in superficie tendendo ad esprimere il Sé, l’individuo non scisso. Nell’arte l’uomo realizza attraverso le sue opere il Sé in un processo creativo, che è sempre quello di un nuovo mondo. Per questo il Sé può essere identificato con Dio creatore che evangelicamente è dentro e fuor di noi. Questo Sé ancora è quell’Essere obliato, dimenticato a causa del vestito che gli abbiamo metafisicamente confezionato, limitandolo all’esistenza di un ente particolare. Di quest’ente soprattutto gli artisti hanno il potere di rimuoverne l’esistenza alienata ampliandone la realtà, che non può essere circoscritta da limiti reificanti. Nella pittura di Tulumello noi scorgiamo questa esigenza interiore che porta alla scoperta del Sé al di là della tessitura, della maglia, della veste di colore, dalla copertura semantica dei significati. I punti bianchi o di luce che ci appaiono dal di sotto di esse costituiscono quella costellazione a primo acchito invisibile che del Sé sono segni rivelatori.

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NOTIZIE BIOGRAFICHE Nicolò D’Alessandro nasce a Tripoli (Libia) da genitori siciliani nel 1944. Vive a Palermo. Partecipa alla vita artistica italiana dal 1961 esponendo per invito a numerose collettive nazionali ed internazionali in Italia e all’estero. Svolge un’intensa attività grafica curando oltre cento libri con copertine e disegni, più di ottanta impaginazioni e numerosi manifesti. Si é sempre interessato parallelamente di ricerca estetica, contribuendo con scritti critici. Molte le pubblicazioni. Numerosi disegni sono stati pubblicati in riviste, giornali e libri in Italia e in molti altri paesi. Dal 1963 ha tenuto centodieci mostre personali e oltre duecento collettive su inviti di gallerie, enti ed istituzioni culturali, in Italia e all’estero. Enzo Patti, nato a Favignana nel Dicembre 1947, docente di Scenografia presso l'Accademia BB.AA. di Palermo, vive e lavora a Palermo dal 1964. Espone in mostre personali e collettive dal 1966. Dipinge legni rifiutati, trasformandoli in “cose”, rappresentazioni multiple attraversate spesso da una scrittura asemantica-indecifrabile di sua invenzione (leggii, dittici, banchi di scuola) e mano(n)scrive srotoli e libri sfogliabili occupandosi al tempo stesso di decorazione e scenografia. Ha realizzato vaste decorazioni parietali in spazi sia pubblici che privati; scene sia per teatri di prosa che per teatri all’aperto e greco-romani. Presente nella mostra itinerante “Novecento Siciliano” (Minsk, Mosca, Barcellona, Palermo, 2003-2004). Agostino Tulumello, nato a Montedoro nel 1959, ha vissuto a Liege, attualmente vive e lavora a Montedoro. Ha frequentato l’Istituto Statale d’Arte “F. Juvara” di San Cataldo e l’Accademia Reale delle Belle Arti di Liege in Belgio. Dal 1985, anno delle sue prime esposizioni in Belgio, può vantare oltre 200 mostre sia personali sia collettive in Italia e all’estero, in gallerie e in sedi museali. 21


TESSITURE E SCRITTURE ASEMICHE di Nicolò D’Alessandro, Enzo Patti e Agostino Tulumello CENTRO D’ARTE E CULTURA “PIERO MONTANA” 24 ottobre - 28 novembre 2020. via Bernardo Mattarella n.64 - 4 piano - Bagheria (PA).


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