Periodico bimestrale, Registro Tribunale di Pisa n° 612/2012, 7/12 “Network in Progress” #13 Marzo/Aprile2013
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Network in Progress Iscritta al Registro della stampa al Tribunale di Pisa n° 612/2012, periodico bimestrale, 7/12 “Network in Progress” ISSN 2281-1176
Editing and graphics: Valerio Massaro
Editoriale D
ue mesi sono passati,il tempo è volato, dall’uscita dell’ultimo numero della nostra rivista.
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n questo tempo però molte cose sono cambiate nel nostro Magazine, un vento di novità e freschezza ci ha accolto: un nuovo sito, nuovi articoli, nuove collaborazioni ed un sacco di amici con cui condividere le nostre passioni e le nostre idee, per questo vi ringraziamo e continuiamo a ricordarvi di partecipare e invitare altri amici ad unirsi a noi.
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uesta fresca boccata d’aria per il nostro
mondo virtuale purtroppo però non è rispecchiata nella situazione del nostro paese, che non smette mai di inciampare in pozzanghere incontrate lungo la strada che lo inzaccherano, lo rallentano e lo appesantiscono. Ma non è questa l’unica visione possibile, noi della redazione ci vogliamo far trascinare dal vento fresco provocato dallo scorrere delle nostre pagine, cercando di guardare oltre e, nel nostro piccolo, di schivare le pozzanghere! Le pagine del nostro editoriale non sono certo quelle di un magazine politico, ma nella nostra società e
cultura tutto è connesso, profondamente legato. Ecco perché nel nostro blog vi stiamo suggerendo, con sempre maggiore frequenza, eventi e suggestioni che invitano al cambiamento, ad un nuovo modo di pensare il futuro.
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l numero appena uscito è ricco di spunti positivi, a partire dalla rubrica Architettura che ci piace. Anche se siamo soliti alternare l’Architettura che ci piace a quella che non ci piace, questa volta la nostra scelta editoriale è ricaduta su un esempio a nostro giudizio positivo, come idea di apertura,
presentando un progetto che ci offre una fresca, intelligente e colorata visione multifunzionale per rigenerare la città.
Paolinelli, giovane paesaggista e ricercatore presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze.
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er lo stesso motivo, nelle nostre pagine ospitiamo sia idee creative come quelle dei giovani di Collectif etc che hanno voglia di sperimentare e di mettersi in gioco, sia interessanti spunti di riflessioni da parte di chi possiede forti competenze, spaziando da un luminare recentemente andato in pensione come il prof. Luigi Zangheri, ad un professionista di chiara fama come Gianni Pettena, a Gabriele
nsomma spunti, idee, proposte e provocazioni… Di nuovo non ci resta che augurarvi una buona lettura!
Contents
#13 RUBRICHE
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Architettura che ci piace p SuperKilen #Multi[Città] di Claudia Pinelli
Frames
Il vuoto e la sostanza: Breve visione sul paesaggio della Cappadocia
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di Giorgio Verdiani
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FOCUS ON
Consumo di suolo e paesaggio qualità che dipende da quantità di Gabriele Paolinelli INTERVISTA
Un incontro con Luigi Zangheri
dal giardino al paesaggio, tra passato e futuro Intervista di Francesca Calamita IL PROGETTO
Others 39 The Esperienze di partecipazione
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a cura di Collectif_Etc
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CREATIVITÀ URBANA
Non-Profit ART Spaces a Firenze di Gianni Pettena LE RECENSIONI
_il libro_ Apocalypse Town Cronache dalla fine della civiltà urbana di Vanessa Lastrucci
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new NIP website by:
http://www.youngteamdesign.info
supporta
acquistando questo spazio pubblicitario! per info: redazione@nipmagazine.it 6
Architettura che ci piace/ non ci piace
Superkilen #MULTI[città] di Claudia Pinelli foto di SuperFlex, Iwan Baan http://www.topotek1.de/ http://www.big.dk/ http://www.superflex.net
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uperkilen, spazio urbano pubblico nato della collaborazione creativa tra Superflex, Topotek 1 e Big, si estende all’interno di uno dei quartieri più etnicamente diversi e socialmente sfidati di Copenaghen, Nørrebro. È un luogo che supporta le diversità culturali attraverso l’esposizione di oggetti di uso quotidiano e design innovativi provenienti da tutto il mondo, tra cui panchine, lampioni, piante, elementi per il gioco e lo sport. Distinto in tre zone con tre colori ed atmosfere diverse (“Rosso”, in cui il colore e i materiali sono integrati completamente con il contesto creando
un’esperienza tridimensionale percettiva e visiva; “Nero”, che rappresenta la piazza, il punto di incontro, il salotto “urbano”; “Verde”, che offre uno spazio e un parco giochi arricchito con piante, erba e colline) delinea un esempio creativo di unione tra architettura, architettura del paesaggio e arte. Con innovazione e creatività mette in scena un continuum multiculturale e multifunzionale per rigenerare la città attraverso una variopinta ed intelligente coesione di oggetti, spazi, colori e funzioni per il libero uso collettivo.
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Giorgio Verdiani, nato a Carrara nel 1968, arriva a Firenze nel 1987 per gli studi universitari presso la Facoltà di Architettura, consegue la Laurea nel 1998, il dottorato di ricerca in “Rilievo e rappresentazione dell’Architettura e dell’Ambiente” nel 2003, entra in servizio come Ricercatore al Dipartimento di Progettazione dell’Architettura nel 2006. È stato ed è professore di numerosi corsi dell’Università degli Studi di Firenze e di varie altre istituzioni. Dal 2006 è stato molto attivo presso numerosi convegni internazionali dedicati alle tematiche Cultural Heritage e nuove tecnologie. Da gennaio 2011 è Direttore del Laboratorio Informatica Architettura. Da sempre attivo fotografo per passione e per supporto al proprio lavoro e alle proprie ricerche. Utilizza strumentazioni sia digitali che analogiche.
Il vuoto e la sostanza:
breve visione sul paesaggio della Cappadocia foto e testi di Giorgio Verdiani
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uando si è in Cappadocia ci si trova nel centro della Turchia, un centro geografico, distante dai mari, su un territorio di origine vulcanica che con il tempo è stato scavato ed eroso fino a diventare un paesaggio impossibile e stupefacente all’occhio del visitatore. Il configurarsi di un ambiente naturale dalla parvenza “costruita” ha sicuramente stimolato i primi abitanti di queste zone e la lunga stirpe di loro successori, nell’intervenire sulle masse rocciose scavandovi rifugi, depositi, abitazioni, chiese ed intere città. La roccia si è così sbriciolata ed indebolita e l’insieme degli scavi, pur definendo riccamente il territorio ha accentuato il degrado e il consumarsi naturale del materiale, crollando e trasformando interni in facciate, mostrando bellissimi dettagli in procinto di dissolversi: un ricco campionario di fugaci meraviglie. Il patrimonio della Cappadocia appare oggi destinato ad una vasta perdita, incapace di sostenere l’ammirante carico turistico, preservabile solo in parte e per questo ancora più eccezionale nella sua ultima fase. Il lungo tempo dell’architettura rupestre è passato, ne resta la fase monumentale, l’eccezionale risonanza e visione, l’intersecarsi di una natura incredibile e di scelte incredibili, che nel proprio tempo sono sicuramente apparse logiche e risolutive. In un luogo che non permette il timore degli spazi chiusi e non permette il timore degli spazi aperti, offrendoli entrambi continuamente e selvaggiamente.
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Giorgio Verdiani Š
Gabriele Paolinelli Architetto, è ricercatore in Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Ha insegnato alla Facoltà di Agraria di Bologna ed alle Facoltà di Architettura e di Economia di Firenze. È revisore per le riviste scientifiche Land use policy, European planning studies, Agricultural engineering international, Territorio, Archivio di studi urbani e regionali e per il Ministero Italiano dell’Università e della Ricerca. Si occupa di alcuni temi, in relazione ai problemi di analisi e diagnosi ed alle opzioni di pianificazione e progettazione: sviluppo di scenari paesaggistici per la definizione di master plan e la valutazione di piani territoriali o urbani, semiotica del paesaggio, consumo di suolo, frammentazione dei paesaggi. gabriele.paolinelli@unifi.it
Consumo di suolo e paesaggio: qualitĂ che dipendono da quantitĂ
di Gabriele Paolinelli
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’architettura e l’urbanistica degli ultimi decenni hanno assecondato o generato posizioni demagogiche sui temi della qualità della vita, prive di indirizzi coerenti e trasparenti, ed espresse in termini autoreferenziali e talvolta pleonastici.
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iò ha assunto concretezza nelle odierne conformazioni degli habitat urbani e rurali, seppure si debba risalire con talune dinamiche alla metà del secolo scorso, quando ancora le suddette posizioni non erano emerse ed agivano.
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er comprendere la nostra realtà rispetto ad una parte rilevante dei temi della qualità della vita è utile il riferimento ad entità che più di altre fanno emergere elementi che è arduo
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ignorare, se non in chiave omissiva o strumentale. Più che l’edificio per l’architettura, intesa come sua tradizionale disciplina tecnico-scientifica, e la città, allo stesso modo per l’urbanistica, i paesaggi, che edifici e città comprendono come loro componenti essenziali, forniscono indicazioni di evidenza immediata.
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iù posizioni contrarie ad alcune di quelle che si ritengono demagogiche e si sono incontrate nel corso degli anni sono pertinenti il ragionamento che si propone. Non è vero che “basta la qualità” dei singoli interventi, poiché i loro esiti paesaggistici e le relative qualità dipendono da più quantità. Non esiste una “qualità del paesaggio” identificabile in termini diretti ed unitari, bensì sono identificabili qualità distinte, attraverso criteri e processi de-
“Non è vero che “basta la qualità” dei singoli interventi, poiché i loro esiti paesaggistici e le relative qualità dipendono da più quantità...”
Nella pagina precedente: Il paesaggio urbano di margine di Potenza ripreso dal nucleo storico della città (G. Paolinelli, 2007) In basso: Casa unifamiliare nella pianura centrale veneta (G. Paolinelli, 2007)
dicati. La mutuazione da altri contesti dell’espressione “qualità totale”, peraltro con una traduzione discutibile e fuorviante, è pleonastica ed autoreferenziale. Nelle interpretazioni architettoniche della realtà, così come in quelle paesaggistiche, non è infatti ipotizzabile una diversa indicazione di sintesi, che dovrebbe in tal caso essere relativa ad una supposta “qualità parziale” e potrebbe comportare gravi difetti o totali omissioni di conoscenza e proposta rispetto ad essenziali qualità particolari.
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er anni, sul consumo di suolo si sono fatte per lo più chiacchiere, inutili, quando non dannose. Caratterizzano così il passato prossimo le carenze di misure delle condizioni e delle dinamiche di tali fenomeni e le strumentalizzazioni delle loro letture.
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ono state elaborate misure su basi di dati con caratteristiche di sistematicità, per copertura geografica e coordinamento tipologico delle modalità di rilevamento ed elaborazione,
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“Per anni, sul consumo di suolo si sono fatte per lo più chiacchiere, inutili, quando non dannose.” ma con scala di acquisizione impropria rispetto alle dimensioni reali dei fenomeni, che spesso risultano anche minute in termini unitari; è accaduto con l’utilizzo dei dati Corine Land Cover, impropri per scala, ma anche con il rilevamento e l’elaborazione di dati relativi a singoli istanti o ancora con la descrizione di dinamiche rilevate su periodi recenti e brevi, quando della citata copertura europea è stata disponibile la seconda soglia del 2000, oltre la prima del 1990. Si hanno poi misure sviluppate in modo contingente su ambiti geografici contenuti che, anche laddove abbiano sviluppato buone qualità informative per scala di rilevamento ed eventuale dimensione diacronica, comportano deficit informativi importanti per la frammentarietà spaziale e l’assenza di sistematicità tipologica delle classificazioni, non concepite per il dialogo con ambiti limitrofi. Infine, la traduzione tecnica e politica dei dati disponibili è andata per lo più in due direzioni di lettura strumentale. In alcuni casi si è scelto di riporre le analisi nel cassetto, provando che esse hanno capacità indicative piuttosto esplicite, ma al tempo stesso evitando di farsi ca-
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rico di tali esplicitazioni. In altri casi, si è approfittato delle falle informative di dati con scale di acquisizioni improprie o dei differenziali rilevati rispetto ad intervalli temporali circoscritti per produrre falsificazioni mirate della realtà.
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ggi si è sempre più vicini ad un sostanziale affrancamento dai primi due difetti informativi a cui si è fatto cenno ed una progressiva seppure lenta penetrazione culturale pare interessare in alcune realtà gli attori politici, amministrativi ed economici, più facilmente inclini finora alle citate strumentalizzazioni.
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uardando avanti, con la fiducia necessaria nella possibilità di accesso a scenari migliori di quelli che abbiamo praticato, queste condizioni, seppure in divenire, sollecitano a non rimandare la riflessione e la sperimentazione intorno ai problemi scientifici e tecnici della interpretazione qualitativa dei dati che descrivono i fenomeni di consumo di suolo. I tradizionali rapporti e parametri sono infatti strumenti di analisi e descrizione sintetica dell’efficienza insediativa dei ter-
Nella pagina seguente: La pianura della Valdinievole in Toscana in un dettaglio ripreso da Monsummano Alto, sul Montalbano (G. Paolinelli, 2013)
ritori e della intensità dei fenomeni di occupazione di spazio e perdita di suolo per la produzione agricola e per l’efficiente conservazione ed evoluzione degli ecosistemi agrari e seminaturali. È evidente che già una considerazione coerente e concreta di tali informazioni non sarebbe trascurabile rispetto alla sostanziale latitanza mostrata dalle politiche e dagli strumenti di governo del territorio e di tutela paesaggistica. Ma è possibile anche contestualmente guardare oltre, alla ricerca di strumenti di indirizzo progettuale con più esplicite e diversificate capacità di indicazione qualitativa, che nei dati analitici di cui si parla possano trovare utili basi informative. Tutto ciò è per certi versi in corso mentre per altri programmabile ed esige risorse umane ed economiche appropriate. Sono in fase di sviluppo importanti basi informative sul consumo di suolo su scala regionale. In tale ambito di studio, le attività coordinate da Bernardino Romano presso l’Università dell’Aquila sono programmate per la copertura di settori subnazionali e la tendenza alla copertura nazionale
con una peculiarità informativa di rilevante interesse, data dalla compresenza delle dimensioni spaziali e temporali dei fenomeni, che sono letti per comparazione delle due soglie storiche della metà del secolo scorso e della contemporaneità. Una proposta di co-finanziamento del Ministero dell’Università di una ricerca di interesse nazionale coordinata da Daniela Colafranceschi dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, in corso di valutazione preliminare di ateneo, affronta il profilo di ricerca delle indicazioni di qualità paesaggistica sopra ipotizzate con le attività programmate dalle unità operative di Firenze, della quale è responsabile Enrico Falqui, e di L’Aquila, della quale è responsabile Bernardino Romano.
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on queste prospettive è intanto possibile ipotizzare una distinzione tematica di letture paesaggistiche qualitative dei dati di consumo di suolo, seppure essa risenta del carattere preliminare del ragionamento e del relativo deficit di riscontro empirico.
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“…andrebbe considerata l’integrità delle relazioni paesaggistiche dei complessi archeologici, per la salvaguardia di qualità paesaggistiche essenziali per una effettiva tutela di questi beni culturali…”
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ul piano della deduzione dei condizionamenti dei caratteri culturali dei paesaggi un primo gruppo tematico di elementi emerge in relazione alla permanenza ed integrità storica delle strutture. La considerazione spaziale su base diacronica delle conformazioni insediative ed infrastrutturali in relazione a quelle agrarie alla metà del secolo scorso rispetto alla attualità consente di pensare e sperimentare strumenti e criteri di diagnosi riferibili alla identificazione di relazioni con accertate capacità strutturanti e dei loro odierni stati di permanenza ed integrità. In termini diversi, andrebbe considerata l’integrità delle relazioni paesaggistiche dei complessi archeologici, per la salvaguardia di qualità paesaggistiche essenziali per una effettiva tutela di questi beni culturali, non limitata ai manufatti in quanto oggetti materiali e concepita come condizione essenziale per una loro efficace e soddisfacente valorizzazione. Ancora su un piano antropico, i fenomeni di cui si sta
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trattando sono responsabili di diffusi e notevoli disturbi visivi, acustici, talvolta atmosferici, e assai spesso funzionali. Per quanto concerne i disturbi visivi ed in certa misura quelli acustici, oltre il tema del disturbo diretto sull’individuo, potrebbe rivestire interesse quello indotto sugli habitat sensibili. Rispetto a questo ultimo tema è oramai evidente e si può dire conclamata dalla realtà la morte diffusa del belvedere storico, che presenta in genere oggi relazioni visive di interesse invertite rispetto alle originarie: dalle pianure o dai fondovalle congestionati verso i borghi o i complessi collinari.
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n tutti questi casi, si tratta di profili tematici e problematici per i quali potrebbe essere interessante avviare sperimentazioni, con idoneo supporto di colleghi antropologi, sociologi e psicologi, per teorizzare e verificare mutuazioni a livello umano delle teorie e tecniche delle reti ecologiche animali ed identificare specifiche qualità degli
habitat dal nostro punto di vista speciespecifico. Questa ipotesi presenta ovvie connessioni con gli ambiti di studio sviluppati e consolidati che trattano i condizionamenti dei caratteri naturalistici ed ecologici dei paesaggi di cui sono corresponsabili i fenomeni di consumo di suolo. Negli anni passati è stato guadagnato qualche risultato in termini di predisposizione di dati sintetici con proprietà di indirizzo per le politiche ed i piani e progetti per la loro attuazione, ma molto occorre fare ancora in termini di sviluppo sistematico ed utilizzo pratico degli studi, in parallelo all’avanzamento dei metodi.
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e immagini di questo articolo, seppure in numero contenuto, mostrano la rilevanza di quanto tratteggiato in termini teorici. Le aree periurbane di Potenza sono eloquenti nel rappresentare le proprietà di incongruenza con il paesaggio e di frammentazione delle sue strutture, comuni a molti sistemi insediativi ed infrastrutturali italiani degli ultimi cinque decenni, seppure in forme e misure differenziate. L’edificio abitativo, quello produttivo e la strada sono le componenti paesaggistiche che nel loro diffuso e denso ricorrere più connotano in modo caotico e disfunzionale i paesaggi con dispersione insediativa, che in talune realtà vanno colonizzando le colline, ma ovunque hanno per lo più occupato pianure, coste e fondoval-
le. Il Veneto, ed in particolare la pianura centrale della regione, hanno costituito un noto caso di studio di questi fenomeni, in ragione del policentrismo storico che connota il sistema insediativo e del recente e repentino processo di passaggio di dominante socio-economica da quella agricola rurale a quella industriale-artigianale e direzionalecommerciale. A testimonianza della critica normalizzazione insediativa ed infrastrutturale dei paesaggi italiani è significativo il caso della Toscana. Questa regione, dalle note qualità paesaggistiche naturali e culturali diffuse, presenta un esteso settore settentrionale, tra Firenze e Pisa nell’entroterra, e tra la Versilia e Livorno, sulla costa tirrenica, che comprende una serie di bacini planiziali fortemente e caoticamete urbanizzati in una realtà pseudometropolitana di scala regionale caratterizzata da evidenti deficit di controllo quantitativo e qualitativo delle dinamiche insediative e di quelle infrastrutturali conseguenti. La Valdinievole ne costituisce un campione esemplare, come si vede anche dalla elaborazione grafica delle relazioni tra spazi urbanizzati, in bianco, e residui della matrice rurale, in nero, progressivamente frammentata ed in parte sostituita dalla diffusione caotica e congestionante dei sistemi insediativi ed infrastrutturali. Poiché questo tipo di elaborazione grafica non è idonea a letture quantitative numeriche, è stato possibile spingere il con-
“L’edificio abitativo, quello produttivo e la strada sono le componenti paesaggistiche che nel loro diffuso e denso ricorrere più connotano in modo caotico e disfunzionale i paesaggi con dispersione insediativa…” 19
trasto della fotografia panoramica di base fino a produrre una rappresentazione per difetto della distribuzione e della consistenza degli spazi edificati o urbanizzati. Malgrado l’immagine intenzionalmente riduttiva ottenuta con tale forzatura, la matrice rurale risulta diffusamente ed intensamente frammentata, al punto da riconoscerne più appropriato lo stadio di eliminazione per avvenuta progressiva riduzione.
il paesaggio non è un giardino, ma una complessa risultante di relazioni fra fattori e processi che, oltre che ambientali e sociali, sono anche economici, e che il progetto paesaggistico, anche nei pochi casi in cui abbia un committente unico, ha in genere la necessità di intercettare più attori presenti sul territorio.
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fronte dei fenomeni descritti, occorrerebbe assumere in modo sempre più normale e diffuso i paesaggi come riferimenti di nuovi scenari, in luogo degli episodi che finiscono per connotarli in modo caotico. In altre parole, occorrebbe che piani e progetti si facessero carico per le proprie competenze della generazione di una diversa matrice contemporanea sostenibile, non dimenticando che
La pianura della Valdinievole in Toscana: elaborazione fotografica delle relazioni spaziali e delle morfologie delle componenti paesaggistiche principali (G. Paolinelli, 2013)
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Giorgio Verdiani Š
Luigi Zangheri Architetto, già docente di “Storia del giardino e del paesaggio” e del “Laboratorio di restauro dei parchi e giardini storici” alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Membro onorario del Comitato Scientifico Internazionale per i Paesaggi Culturali ICOMOS-IFLA, di cui è stato presidente dal 2005 al 2008, è attualmente presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno. Si è occupato dello studio e del restauro di numerosi parchi storici tra cui quello di Villa Torrigiani a Scandicci insieme a Pietro Porcinai, il Parco di Villa Demidoff a Pratolino e il giardino del Chiostro di Santa Chiara a Napoli. È autore di oltre 200 pubblicazioni di storia dell’architettura, storia del giardino e del paesaggio e restauro degli edifici monumentali. Francesca Calamita Architetto e paesaggista, responsabile della promozione eventi ed attività culturali di NIP, svolge la libera professione nell’ambito dell’Architettura del Paesaggio, disciplina per la quale è cultrice della materia presso l’Università degli Studi di Firenze. francescacalamita@nipmagazine.it facebook: francesca.calamita
INTERVISTA UN INCONTRO CON LUIGI ZANGHERI: DAL GIARDINO AL PAESAGGIO, TRA PASSATO E FUTURO di Francesca Calamita
Un incontro, un dialogo libero e coinvolgente nello studio del prof. Luigi Zangheri, presso la sede di quello che fino a pochi mesi fa era il Dipartimento di Restauro, oggi confluito nel DIDA (Dipartimento di Architettura) di Firenze, per comprendere, con uno dei protagonisti, l’evoluzione del pensiero che ha portato ad allargare lo sguardo dal giardino storico al paesaggio culturale.
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Il prof. Zangheri nel suo studio all’Università
Prof. Zangheri, una vita dedicata alla ricerca, allo studio e al restauro dei giardini storici, ci vuole raccontare come si è avvicinato a questo affascinante tema, quando lo stesso era poco conosciuto e considerato?
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Fino da quando ero studente ho avuto attenzione e interesse alla storia dell’architettura e in particolare per il settore definito come “effimero architettonico”, intendendo il giardino e gli apparati delle feste. Delle circostanze mi hanno particolarmente favorito: ancora studente, dopo l’alluvione del 1966, Firenze era un grande cantiere con la Soprintendenza ai Monumenti impegnata nel restauro dei maggiori complessi architettonici. Tra questi le chiese più importanti come Ognissanti, Santo Spirito, San Remigio, ecc., che avevano ampie schede descrittive e storiche pubblicate in tedesco dai coniugi Elisabeth e Walter Paatz in Die Kirchen von Florenz. Per i restauri avviati da poco, la Soprintendenza ritenne opportuno di disporre dei testi dei Paatz in italiano, ed io studioso della lingua tedesca fino dai tempi del liceo venni coinvolto nella loro traduzione. Attraverso questa esperienza imparai moltissimo, ad esempio su come descrivere un edificio storico, apporre le note, compilare una bibliografia, ecc., tutte cose che in Facoltà nessuno mi aveva mai insegnato. Successivamente, sostenni l’esame di Restauro dei Monumenti con il prof. Marco Dezzi Bardeschi a cui presentai elaborati compilati correttamente secondo il modello dei Paatz con le note e la bibliografia, una cosa assolutamente insolita tra gli studenti di quel periodo. Dezzi Bardeschi apprezzò talmente quella relazione che mi “catturò” facendomi, seduta stante, collaboratore al suo studio. Poi, debbo ricordare un altro episodio importante: dopo
due o tre mesi dalla laurea, il preside di allora, che era Sanpaolesi, mi ha offerto la possibilità di lavorare per conto dell’assistenza tecnica italiana in un’equipe di tecnici operativi in Congo. Sono stato quindi un anno nella Repubblica Democratica del Congo, l’attuale Repubblica dello Zaire, impegnato nel cantiere del nuovo edificio del Ministero degli Affari Esteri come capo-disegnatore responsabile di una squadra di otto elementi. Anche in questo caso ho imparato tantissimo sotto il profilo professionale, così come ho appreso bene il francese, o meglio il belga. Dopo cos’è successo? La Facoltà di Architettura bandì una borsa di studio per la Storia dell’Architettura, ed io l’ho vinta... In quel momento, avviarsi alla carriera universitaria non era nell’ordine delle idee dei neolaureati, e al concorso mi trovai l’unico iscritto! Ricordo come il presidente della commissione, Giovanni Koenig, mi abbia ringraziato per non avergli fatto perdere il finanziamento della borsa. Da quel momento ho cominciato la mia carriera accademica come borsista, poi sono passato ricercatore e infine professore associato. Qualche anno prima era nato il mio interesse per il giardino, legato alla storia e testimoniato dal mio primo articolo: ero stato a Praga, avevo consultato i documenti dell’Archivio Lorena e trovato un repertorio con le planimetrie degli acquedotti dei giardini medicei databile attorno alla metà del ‘700. Allora collaboravo con Dezzi Bardeschi e con Gurrieri e scrissi un articolo sui condotti delle ville di Castello e della Petraia, fondandolo su questi documenti inediti. Eravamo nel ’71, e fu considerato insolito illustra-
Il Gigante dell’Appennino del Giambologna nel Parco di Villa Demidoff a Pratolino
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Villa Medicea La Petraia sulle colline di Firenze in basso: Il Giardino della Villa Medicea di Castello sopra Firenze nella pagina successiva: Veduta della Rometta nel Giardino di Villa D’Este a Tivoli
re il giardino sotto aspetti tecnici che, allora, erano trascurati e non oggetti di studio. Immediatamente dopo, il caso ha voluto che io sia stato chiamato da Pierluigi Spadolini a studiare il Parco di Pratolino acquistato dalla Società Generale Immobiliare per realizzare nuovi insediamenti edilizi. Di questi progetti la Società aveva incaricato Spadolini che, sorpreso di non vedere approvate le sue lottizzazioni, se ne domandò la ragione e ritenne opportuno uno studio sul parco per comprenderne il valore monumentale. In seguito la Società Generale Immobiliare autorizzò la pubblicazione del dossier che avevo raccolto su Pratolino, e fui ancora una volta fortunato a trovare la Libreria Antiquaria
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Gonnelli che, gratuitamente, stampò i miei studi corredati da una ricca documentazione iconografica. Avere la possibilità di pubblicare un volume senza oneri fu un fatto del tutto insolito perché io ero giovane e sconosciuto. La Libreria fu comunque compensata perché, in pochi anni, il volume su Pratolino ebbe due edizioni, ed io grazie alla pubblicazione e alla diffusione di questo testo, sono stato riconosciuto storico del giardino. Lei è stato però anche un interprete di un approccio nuovo, che attraverso una visione olistica, ha saputo trasformare l’arte dei giardini nell’architettura del paesaggio. La stessa Carta di Firenze pone in evidenza che “il giardino storico non può essere separato dal suo intorno ambientale urbano o rurale, artificiale o naturale”. Quali sono stati, a suo parere, i passaggi principali che hanno portato a questo cambiamento culturale? Il mio primo contatto con il Comitato Internazionale ICOMOS-IFLA, allora dei “giardini storici”, risale al 1981, quando i maggiori paesaggisti del tempo si riunirono a Firenze per la formulazione della Carta di Firenze, ovvero una Carta sul restauro dei giardini storici. Collaborai all’organizzazione della manifestazione ma, avvertite le tensioni tra gli italiani su un testo proposto dai francofoni, favorii una tavola rotonda all’Accademia delle Arti del Disegno che portò alla redazione di una Carta “italiana” sul restauro dei giardini storici. Fu una bella esperienza che mi permise di conoscere Pierfausto Bagatti Valsecchi, Piero Porcinai, Carmen Anon Feliu e tanti altri illustri operatori con cui,
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Il cosiddetto “Ripiano delle Cariatidi” nella parte superiore del Giardino di Palazzo Farnese a Caprarola
poi, ho avuto rapporti di amicizia. Qualche anno più tardi, ricevetti una telefonata da Carmen Anon Feliu che mi chiese di accompagnarla a Pratolino in una sua imminente gita in Toscana. Ovviamente mi misi a disposizione di Carmen, che apprezzò i miei studi su quel parco e mi propose membro corrispondente del Comitato ICOMOS-IFLA nel 1991. Da quel momento, ho partecipato a quasi tutti gli incontri annuali del Comitato dove veniva affrontato il tema dei paesaggi storici e culturali, rurali e urbani, fino a quando a Coimbra in Portogallo nel 2006, durante la mia presidenza del Comitato, il nome dello stesso Comitato assunse la denominazione dei “paesaggi culturali”. Il passaggio dalla qualificazione di “giardini storici” a “paesaggi culturali” è stato lento ma costante, ha trovato molte difficoltà ma le ha sempre superate perché nella logica e nella necessità delle cose. Analogamente è accaduto nella legislazione italiana per il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, che è stato integrato due anni più tardi la sua prima edizione con i dispositivi delle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro parlamento, e in particolare da quelli afferenti alla Convenzione del Patrimonio Mondiale dell’Unesco. Un altro fondamentale contributo culturale è stato poi quello della Convenzione Europea del Paesaggio, soprattutto in relazione al rapporto tra uomo e paesaggio. Quali sono le sue considerazioni al riguardo?
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Nella Lista del Patrimonio Mondiale l’Italia ha visto comprese le ville palladiane del Veneto, le residenze sabaude, le ville di Tivoli, la reggia di Caserta, ecc. che possiamo con-
siderare veri e propri paesaggi culturali e non più come beni culturali o giardini storici. Ma che cos’è un paesaggio culturale? La definizione data dall’UNESCO prevede tre categorie di paesaggio culturale, ovvero, i giardini storici, il paesaggio evolutivo, e il paesaggio fossile1 , con delle indicazioni precise. Il primo articolo della CEP è ripreso quasi pari pari da quello delineato dal Centro del Patrimonio Mondiale, in quanto il «“Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Una definizione che non sarebbe stata possibile senza il Documento di Nara del 1994, con cui si chiariva cosa si doveva intendere per “autenticità” e per “integrità”. Un documento originato dal fatto che dagli occidentali i giapponesi erano spesso considerati dei “falsari” per abbattere e ricostruire periodicamente i loro templi in legno, in particolare quelli della città di Nara. Una circostanza dovuta ad una diversa cultura e a un diverso sentire perché per gli abitanti di Nara i templi rinnovati erano “autentici” e non venivano concepiti come dei falsi o delle copie. Prima ci ha accennato alla sua lunga esperienza maturata nel Parco storico di Pratolino, che è senz’altro un esempio mirabile di integrazione tra arte e paesaggio, e che lei più volte, nei suoi scritti, ha definito un vero e proprio laboratorio di sperimentazione scientifica e tecnica. Crede che ancora oggi il giardino possa essere considerato un’occasione di ricerca e innovazione, assumendo la funzione di “paesaggio pedagogico” per ricostruire con gli abitanti delle varie comunità un linguaggio comune sul significato dei luoghi, sulle identità dimenticate e su una nuova estetica della bellezza? Ricordo che nel Giardino di Boboli, durante il principato di Pietro Leopoldo, una porzione delle aiuole sottostanti il Forte di Belvedere era curata dai suoi 16 figli, i quali avevano un orticino personale da coltivare. Lo stesso Pietro Leopoldo aveva ricevuto da bambino un’esperienza analoga a Schönbrunn in una sorta di laboratorio sperimentale. Un approccio con la natura che portò i suoi frutti perché sia Pietro Leopoldo che tutti i suoi figli sono passati alla storia come ideatori e costruttori di parchi e giardini di notevole importanza. Oggi, tutto questo è solo una curiosità storica e, piuttosto che confidare in principi illuminati, occorre credere negli attuali e futuri architetti del paesaggio capaci di conservare gli esempi del passato e di corrispondere con nuove soluzioni progettuali e gestionali alle esigenze della nostra società, che è soggetta ad un’evoluzione costante.
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La grande scultura del Drago nel Sacro Bosco di Bomarzo
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Quali crede che possano essere quindi gli strumenti e le strategie per cercare di tutelare e valorizzare il nostro paesaggio e che ruolo pensa possa avere in questo caso l’Università? In Italia l’Architettura del Paesaggio è materia recente, al contrario dei paesi del Mitteleuropa dove l’insegnamento del paesaggismo è stato un vanto secolare. Nel 1994, col sostegno della Regione Toscana io ho potuto organizzare il Primo corso di formazione professionale per architetti restauratori di giardini e parchi storici. A questo hanno fatto seguito, nel 2001, l’avvio dei corsi di laurea in Architettura del Paesaggio a Roma e a Genova e, poi, anche a Firenze, accompagnati da master e dottorati. La nostra esperienza è troppo recente, e dovremmo batterci per avere un riconoscimento specifico a livello di ordine professionale, tale da assicurare il restauro di un giardino storico o la progettazione di un paesaggio affidata solo a chi ha competenze specifiche. Purtroppo l’Università con tutte le sue attuali riforme sembra operare in maniera incerta e non adeguata. La bontà dei corsi dovrebbe essere garantita da docenti di provata esperienza e la continuità degli insegnamenti dovrebbe essere assicurata da assistenti, borsisti e ricercatori in modo da valorizzare un patrimonio e un’esperienza che altrimenti non avrà futuro.
1 La Convenzione UNESCO sui Paesaggi Culturali del 1992 individua tre categorie: “clearly defined landscape” nei quali considera anche parchi e giardini, “organically evolved landscape” e “associative cultural landscape” (n.d.r.).
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Giorgio Verdiani Š
Giorgio Verdiani Š
The aim of the group Collectif Etc is a group of young architects and graphic designers that work on the issue of civil society’s autonomy in the transformation of their living environment. We tend to think that everyone is able to be active in the making of the city. However, building and occupying space is a political matter and deals with power that some groups in society don’t have or don’t know they have. Thus, physical space transformation is a tool we use and share to experiment and accompagny self-managed urban situations.
The Others Esperienze di partecipazione
di Collectif_Etc traduzione a cura di Stella Verin, Paola Pavoni
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n order to enhance social grouping and strengthen links between local communities and public space, we include in our projects people that are direct users of the space. We try to build an involved and mutual relationship with them. This essay focuses on three main points that describe this relationship that stands for one of the main element of our actions. It’s about how we consider ourselves and the others.
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on lo scopo di aumentare l’unione sociale e rafforzare i legami tra le comunità locali e i realtivi spazi pubblici, noi di Collectif etc includiamo nei nostri progetti le persone che utilizzano direttamente lo spazio in questione. Cerchiamo di costruire con loro un raporto coinvolgente e reciproco. Questo scritto si concentra prevalentemente su tre punti principali che descrivono questa relazione che rappresenta uno degli elementi più importanti del nostro lavoro, racconta come consideriamo noi stessi e gli altri. 39
Shared experience We consider the people we meet or work with on projects as sharers of a life experience. That means that we are transforming the space as we would think it’s comfortable to experience it right now because we are part of it. Our projects diminish the importance of working for the well-being of the others for the next 20 years, and give priority to work for our own well-being with the others for the next 20 days. The whole question is how to make this experience opened and shared with the people. We want to focus on the experience rather than the building in itself. By sharing a living moment with him, the relation we have with the user is totally different than if we were doing something for him. It deals both with experience designing and urban planning.
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For example in HĂŠnin-Baumont, we participated in the project of a local association (www.les-saprophytes.org), who where conducting an urban stu-
dy in order to rethink public spaces of the city. In the middle of the town, we worked on a heap, a hill of black tailings which now offers a 1000 square meter wasteland at 15 meters above the ground. Our aim was to make the heap accessible to people from the neighborhood and show an otherway of using it. We organised a traditional folk festival up on the hill in a moonlike atmosphere. Faithful to this topic stimulating people’s imagination, a stair case and tobbogan both shaped as a spaceship launching ramp, were built from the street to the top of the hill. It helped old people climbing or children sliding but it also served as a scenography for the short movie we produced, in which the actors were the locals. Moreover, we made this place live day and night since we were camping there. This total immersion on the field involved us in the neighborhood life and in the uses of the urban artefacts we builded. This project was a matching point between the timescale of a cultural event and the one of urban planning.
che adesso non è altro che 1000 metri quadrati di terra abbandonata a 15 metri dal suolo! Il nostro scopo era fare sì che la collina divenisse accessibile alle persone del quartiere e mostrare loro un possibile uso alternativo.
Una esperienza condivisa Consideriamo le persone che incontriamo o con cui lavoriamo attraverso i nostri progetti, come partecipi di una esperienza di vita. Questo significa che ogni qual volta trasformiamo uno spazio, lo facciamo in modo che sia più comodo, migliore da vivere nel momento stesso in cui ci agiamo, proprio perché siamo parte di esso. I nostri progetti diminuiscono l’importanza del lavorare per il bene degli altri nell’ottica ventennale, e danno priorità all’importanza di lavorare per il nostro stesso stare bene con gli altri per i successivi venti giorni. Il punto nodale sta nel come fare in modo che questa esperienza risulti aperta e condivisa con le altre persone. Noi vogliamo concentrarci principalmente sull’esperienza stessa piuttosto che sulla realizzazione finale di per se stessa. Attraverso la condivisione di un momento di vita, la relazione che abbiamo con le persone che la useranno è completamente diversa rispetto a quella che sarebbe se noi facessimo qualche cosa per loro. Questo ha a che fare sia con l’esperienza della progettazione che con la pianificazione. Per esempio a Hénin-Baumont, abbiamo partecipato ad un progetto di una associazione locale (www.les-saprophytes.org), che stava facendo una analisi urbana con lo scopo si ripensare uno spazio pubblico della città. Nel centro della città abbiamo lavorato su un mucchio, una collina di detriti neri
Abbiamo organizzato una festa popolare tradizionale in cima alla collina ambientandola in una atmosfera lunare. Fiduciosi di questo tema che stimolava l’immaginazione delle persone, abbiamo costruito una scala ed un toboga, entrambi con forme che richiamassero una rampa di lancio per navicelle spaziali, che connettessero la strada con la cima della montagna. Le scale e il toboga hanno aiutato le persone anziane a salire o i bambini a scendere giù, ma sono servite anche come scenografia per un breve cortometraggio che abbiamo prodotto, in cui gli attori erano le persone locali. Il luogo è stato reso vivo sia di giorno che di notte, poiché noi stessi siamo rimasti a dormire in cima alla collina in tende da campeggio. Questa totale immersione sul campo ci ha coinvolti nella vita del quartiere e nell’uso degli artefatti urbani che avevamo costruito noi stessi. Questo progetto era un punto d’incontro tra le tempistiche di realizzazione di un evento culturale e quelle di una pianificazione urbana.
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Co-production In addition to implementing an atmosphere and sharing an experience of convivality, we also like to consider people we meet as producers and not just as users. That means we try to count on capabilities already there and include them in the design and the construction phase. As we told formerly how we try to get ourselves involved in designing an experience,we are now talking about getting the other people involved in the production of something. For example, we worked for a local cultural association in an old district of Brest, called Vivre La Rue (www.vivrelarue.net). They are used to organise music festivals and art exhibitions in old houses in rubble made of stones.
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We intervened in one of those houses and turned it into an open air theatre. It was a response to a specific need of these people. We strengthened the space where this local community was growing. The idea was to organise carpentry and painting workshops opened to public, in order to build a footbridge going through the first floor windows, some chairs, a new gravel ground and a stage. The association gathered some motivated workers but we were also helped by passersby. First, we designed in advance a general concept, the basic materials and the main technical points, in agrement with the association. Then we left space for improvisation depending on people and opportunities on the field.
Co-produzione Inoltre con lo scopo di implementare un’atmosfera e condividere un’esperienza di convivialità, ci piace anche considerare le persone che conosciamo come produttori e non solo come utilizzatori delle realizzazioni stesse. Questo significa che noi proviamo a dare importanza a capacità che già esistono e cerchiamo di includerle nella fase di progettazione e in quella costruttiva. Avendo raccontato fino ad ora come cerchiamo di farci coinvolgere nella progettazione di un’esperienza, adesso parliamo di come coinvolgere le altre persone nella realizzazione di qualcosa. Per esempio, abbiamo lavorato per un’associazione culturale locale nell’antico distretto di Brest, chiamata Vivre La Rue (www.vivrelarue.net). Quest’associazione è solita organiz-
zare festival musicali e mostre d’arte in ruderi di vecchie case in pietra. Noi siamo intervenuti trasformando una di queste case in un teatro a cielo aperto, rispondendo a una specifica esigenza delle persone. Abbiamo rafforzato lo spazio in cui è cresciuta questa comunità locale. L’idea era di organizzare workshop di carpenteria e pittura per costruire una passerella pedonale, che passasse attraverso le finestre del primo piano, qualche sedia, un nuovo pavimento in ghiaia e un palco. L’associazione ha riunito alcuni lavoratori motivati, ma siamo stati aiutati anche dai passanti. Come prima cosa abbiamo disegnato in anticipo un concept generale e i particolari tecnologici più significativi in accordo con l’associazione. Poi abbiamo lasciato spazio libero per l’improvvisazione proveniente dalle persone e dalle occasioni che si presentavano sul campo.
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Transmission We want our projects to be the continuity or the birth of self-managed urban situations. That is to say spaces that can be handled by local communities whose actions can go beyond their own interests and bring pertinent solutions for social, cultural and urban issues. Transmitting the management or continuing transformation enhance the link between those different communities. This philosophy of transmission is about confidence, pedagogy and research of self-reliance. In Grenoble, we were invited by an association (www.arpenteurs.fr) who are developping participation processes and organising debates with the precarious to find collective solutions. They wanted to transform a former swimmingpool commercial hangar into a place of experimentation and DIY working, aiming at finding solutions for habitat. In collaboration with other local groups (www.les4jeudis.com, www.atelier-esca.blogspot.fr, www.craterre.org, www.glaneursdepossible.over-blog.fr,
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www.zoomarchitecture.fr) , we did the first transformation of the empty building during one week. The idea was to make the place quickly functionnal, good looking, and easy to re-arrange afterwards. In addition to the organisation of debates with different concerned people, we tried to set the tools that made easier later to build new ideas and pieces of furnitures. For example, we settled a recycling depot, gathering different second hand construction materials. We also hanged small labels on pieces of furnitures we made, indicating useful tips to reproduce them. In the same idea, another group drew on the ground and on the walls, basic measurements and some sections of tables and chairs at a one to one scale. At the beginning, Les Arpenteurs carried out the project then we made it ours for one week. Now one of the group we invited is handling the place with Les Arpenteurs ; they are still working on making it helpful and opened to people interested in habitat and selfbuilding.
Trasmissione Vorremmo che i nostri progetti fossero in continuità o l’inizio di situazioni urbane autogestite. Intendiamo degli spazi che possono essere gestiti dalle comunità locali, le cui azioni possano andare oltre il loro proprio interesse e fornire soluzioni adatte a risolvere problemi di tipo sociale, culturale e urbano. Trasmettere la gestione o creare continuità con le trasformazioni rende più forte il legame tra queste diverse comunità. Questa filosofia della trasmissione riguarda la confidenza, la pedagogia e la ricerca di fiducia in se stessi. A Grenoble, siamo stati invitati da un’associazione (www.arpenteurs.fr) che stava sviluppando processi di partecipazione e organizzando dibattiti con i precari per trovare soluzioni collettive. Volevano trasformare un hangar di un’ex piscina commerciale in un luogo di sperimentazione e lavoro fai da te, con l’obiettivo di trovare soluzioni per l’ambiente. In collaborazione con altri gruppi locali, (www.les4jeudis.com, www.atelier-esca.blogspot.fr, www.craterre.org, www.glaneursdepossible.over-blog.fr, www.zoomarchitec-
ture.fr), abbiamo trasformato l’edificio vuoto in una sola settimana. L’idea era di rendere il luogo in breve tempo funzionale, piacevole e facile più flessibile in seguito. Oltre all’organizzazione dei dibattiti con differenti persone interessate, abbiamo provato a creare gli strumenti che rendessero più facile realizzare nuove idee e parti di arredo nei momenti successivi. Per esempio abbiamo creato un deposito per il riciclo, raccogliendo differenti materiali da costruzione di seconda mano. Abbiamo anche appeso piccole etichette a parti di mobili da noi realizzati, indicandovi consigli utili per riprodurli. Sulla scorta della stessa idea un altro gruppo ha disegnato sul pavimento e sulle pareti le misure standard e alcune sezioni di tavoli e sedie in scala uno a uno. All’inizio il progetto è stato realizzato da Les Arpenteurs, poi noi lo abbiamo fatto nostro per una settimana. Adesso uno del gruppo che abbiamo invitato sta gestendo il posto insieme a Les Arpenteurs, che stanno ancora lavorando per renderlo disponibile e aperto per persone interessate all’ambiente e all’autocostruzione.
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In general, when we talk about getting closest to what people want or do, we are not aiming at exhaustivity, we are looking for some people with whom we get along. We think that as long as our actions are opened to everyone, we don’t mind having privileged relationships with a group of people and therefore enhance his personality and opinion in the public sphere. We don’t believe in anonymous public spaces made for everyone, we want communities with specific interests to seize them as long as they are opened and linked to others. The idea is to imagine a network of a multiplicity of those communities that stands as a counterweight facing state and market.
In generale quando parliamo di rimanere vicini a ciò che le persone vogliono e fanno, non miriamo alla completezza, cerchiamo persone con cui andare d’accordo. Pensiamo che quanto più le nostre azioni siano rivolte a tutti, non dovremmo preoccuparci di aver favorito relazioni con un gruppo di persone e di conseguenza di incrementare la sua personalità e opinione nella sfera pubblica. Non crediamo nello spazio pubblico anonimo fatto per tutti, vogliamo comunità con interessi specifici, per comprenderle, tanto quanto loro sono aperte e connesse con le altre. L’idea è di vedere una molteplicità di comunità che si pongono, come un contrappeso, nell’affrontare lo stato e il mercato.
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Gianni Pettena Insieme a Archizoom, Superstudio e Ufo, Gianni Pettena appartiene al nucleo originario dell’architettura radicale italiana. Ha studiato architettura all’Università di Firenze costruendo, negli anni ‘60 con altri il clima che produsse quel movimento, origine di buona parte della contemporanea sperimentazione nel campo dell’architettura e del design italiano. Nel 1973 è tra i fondatori della Global Tools, scuola e sistema di laboratori che rappresentò il momento di massima intensità dell’Architettura Radicale. Nel corso degli anni ’70, Pettena partecipa comunque attivamente al dibattito tra i “radicali” e i “razionali” ed è presente con opere, scritti e attività didattica nel panorama della critica internazionale. Pettena continua a insegnare, all’Università di Firenze, alla Domus Academy di Milano, alla California State University, tiene seminari, allestisce mostre pubblica articoli e saggi su riviste d’arte e d’architettura contribuendo a mantenere vivo il dibattito sul rapporto tra le due discipline e sul ruolo del ‘radicale’; partecipa come critico, al dibattito internazionale e riflette queste esperienze nella sua attività didattica.
Franz West- Viennoiserie 1998
NON-PROFIT
ART SPACES A FIRENZE
di Gianni Pettena
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ià dai primi anni ’70 Firenze ha in molte occasioni rivestito un ruolo attivo, se non centrale, nell’attività di produzione ed esposizione nelle arti visive, nel dibattito e nella comunicazione tra i tanti aspetti della ricerca che si traducevano in linguaggio visivo, dall’architettura di ricerca al cinema e teatro sperimentale, alle installazioni in dialogo con la città esistente, interni o esterni di questa complessa aggregazione. sistevano gallerie private come Schema e Area e Art Tapes 22 e Zona, uno spazio gestito da artisti, tra cui i Nannucci, Masi, Mariotti e io stesso, tutti già con ampi contatti nazionali e internazionali, che in questo non-profit art space di via S. Niccolò facevano convergere i più interessanti aspetti della ricerca del tempo: eventi che avevano un ruolo di scambio e informazione con i migliori artisti e le più innovative proposte non solo sul piano nazionale. A Maurizio Nannucci, artista visivo anche oggi di notorietà internazionale, si deve fin da allora la regia di questa sequenza di mostre e interventi che hanno connotato Zona come il canale di informazione che più attivamente ha mantenuto Firenze in contatto con il resto del mondo nel campo dei linguaggi artistici più vitali ed innovativi del contemporaneo. Tra gli artisti invi-
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tati a Zona ci fu Bill Viola (1975), che in quel periodo lavorava come tecnico per Art Tapes 22 (fondato a Firenze da Maria Gloria Bicocchi), che avrà in seguito grande notorietà con i suoi video, James Lee Byars (1975); il gruppo Ecart (1976) di Ginevra, un gruppo di artisti simili a quelli di Zona; i General Idea con la loro rivista File (1978), Joseph Kosuth (1978), Sten Hanson (1979), Robert Lax (1979), Ulises Carrion (1979), Michael Erlhoff e Uta Brandes (1978, 1980, 1982, 1984), Bernard Hedesieck (1980), Henry Chopin (1980), Logos Gent (Godfried Willem Raes e Moniek Darge, 1981), John Giorno (1983), Eldon Garnet (1983) James Coleman (1984) e le Guerrilla Girls (1985).Ogni artista di Zona influiva sull’attività facendola dipendere dalle proprie competenze e dalle proprie specializzazioni. Il contributo di Nannucci si notò dalle sue iniziative, come la piccola stampa(1975-6; 1984), il film d’artista (1976; 1980;
in alto: Massimo Bartolini “Basement” 2011 nella pagina precedente: Copertina di “Architettura corretta” a cura di Gianni Pettena 1981
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1984), la poesia sonora (1978-80), l’uso dei materiali non tradizionali in arte come il timbro o la lettera (1977); e all’approfondimento delle ricerche legate a territori geografici periferici rispetto al dibattito internazionale, come l’Islanda (1979-80), L’Australia (1983), il Brasile (1984); infine dall’affrontare tematiche specifiche come le mostre sui documenti dell’Internazionale Situazionista (1977),del gruppo fluxus (1976), della Patafisica (1981). Il gruppo produsse una rassegna chiamata Per Conoscenza, che voleva fotografare la situazione artistica sperimentale toscana. Durò tre mesi, durante i quali più di trenta artisti, fotografi, architetti, musicisti esposero il loro lavoro e i collegamenti di questo con le altre discipline della comunicazione visiva. saurita negli anni questa impostazione di collegamento tra le arti, sarà Base, sempre nel quartiere di S. Niccolò, a sostituire Zona, questa volta con connotazioni più specialistiche all’interno delle vaste fenomenologie relative al campo delle arti visive. Fondato nel ’98, con Maurizio Nannucci quale motore e regista, cui si accompagnano artisti come Mario Airò, Remo Salvadori, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Paolo Masi, e molti altri, Base diviene fondamentale luogo di incontro per
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Lawrence Weiner “A bit beyond” 2008 nella pagina precedente: Maurizio Nannucci “Something happened” 2009
giovani artisti e giovani critici che si raccolgono attorno a questo spazio dove per ogni mostra l’artista è invitato a confrontarsi con il contesto anche esterno, sempre sulla strada, come avveniva per Zona. Un art space dunque che intenzionalmente informa e coinvolge il passante, anche distratto, che periodicamente si trova ad essere partecipe di questa sequenza di eventi. Zona si inseriva anch’essa in un contesto di dibattito artistico molto fecondo, come quello fiorentino, che negli anni Sessanta aveva dato origine a movimenti come la Poesia Visiva e l’Architettura Radicale, “in un clima sociale caratterizzato da uno scontro politico aspro e generalizzato come quello dell’Italia della seconda metà degli anni Settanta”. cadenze regolari Base ha già ospitato maestri del contemporaneo come Sol Lewitt, Lawrence Weiner, Robert Barry, Franz West, così come artisti italiani come Luca Pancrazzi, Marco Bagnoli, Luca Vitone, Liliana Moro, Massimo Bartolini, Grazia Toderi, Stefano Arienti, Maurizio Mochetti. Base così continua anche oggi, anche in continuità ideale con Zona un’attività insostituibile d’informazione sulle arti contemporanee.
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Vanessa Lastrucci Architetto, responsabile social network e comunicazione di Network in Progress.
il libro
vanessalastrucci@nipmagazine.it
di Alessandro Coppola Laterza, 2012
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Le recensioni di Apocalypse Town di Vanessa Lastrucci
“Ma di fronte all’insuccesso decennale di politiche che promettevano di fare nuovamente grandi queste città, il modo di guardare ai problemi sembra essere definitivamente mutato. Nelle menti di molti amministratori sembra imporsi la dolorosa ma indispensabile coscienza di un cambiamento epocale dal quale non si tornerà indietro. Il declino continuerà e si allargherà. Con mezzi nuovi, seppure con fini non raramente ancora equivoci, l’obiettivo è ora quello di cercare ancora fra le pieghe del declino le strade per una vita migliore.”
il libro
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o shirinkage è un fenomeno che non ha colpito il territorio italiano negli anni ‘70 e ‘80, ma vediamo adesso affiorarne gli aspetti, basta pensare a casi come la controversa ILVA o le acciaierie di Piombino. Un problema che anche l’Italia dovrà affrontare a breve tempo. Questo ha spinto Alessandro Coppola a studiare con accuratezza il “restringimento della città” proprio dove il fenomeno ha sconvolto l’ambiente urbano così come lo conosciamo. In Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana l’autore descrive appassionatamente come nelle città del Nord Est degli Stati Uniti (New York, Detroit, Buffalo tra le altre) alla deindustrializzazione, l’abbandono dell’industria pesante in favore dello sviluppo del terziario in altre aree geografiche degli USA, ha corrisposto una deurbanizzazione, un progressivo abbandono della città, in favore del suburbio prima e al seguito delle nuove opportunità di lavoro poi, che hanno portato le città ad avere una popolazione dimezzata (to shrinke: restringersi) nel giro di un paio di decine di anni. Il panorama che si contempla oggi a Yongstone o a Baltimora è il rovinarsi di edifici e case, il desolante abbandono della inner city e di interi quartieri, dove solo pochi residenti resistono sparsi tra le macerie di edifici crollati o bruciati dagli incendi. Pochi cittadini sparsi comportano costi
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il libro 64
di gestione sproporzionati per le amministrazioni che devono garantire almeno i servizi minimi (asfaltatura delle strade, approvigionamento di acque ed elettricità) a chi rimane. Anche il restringimento va pianificato, tra i modi che ci sono per affrontarlo Coppola presenta tre casi studio: Youngstone che dispone un piano per spostare i residenti e ricompattarli nel vecchio centro, lasciando che la campagna si riappropri della fu città; Buffalo che ri-avvia l’economia sull’impresa della decostruzione, lo smontaggio e il riciclo delle parti degli edifici vuoti; Baltimora che ha puntato su una sorpassata riqualificazione del waterfront senza ottenere i risultati sperati, a differenza di New York. Le prospettive di rivitalizzare le città sono possibili solo abbandonando la logica della crescita economica e dell’espansione, e così molte amministrazioni hanno requisito i lotti abbandonati e fornito incentivi alle forme di agricoltura urbana, da sempre presenti negli USA, diventate vere e proprie imprese che sfamano gli abitanti dei ghetti (Chicago, Cleveland). Nuclei urbani più piccoli, più concentrati, commisti a porzioni di campagna che provvedono al sostentamento; l’autore, supportato da anni di ricerca sul campo, propone come il possibile obiettivo della città in contrazione il paradigma della città arcipelago: a contare non è tanto la realizzabilità di un tale scenario, ma il fatto che una porzione crescente dell’opinione pubblica inizi a crederci, e che qualche città in crisi irreversibile ci creda abbastanza da farne una ricetta plausibile per il proprio avvenire.
Giorgio Verdiani Š
www.nipmagazine.it redazione@nipmagazine.it
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